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Anno 2013, Numero 3 ISSN 2281 –3136
la rivistadell’Arte
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la rivista dell’Arte
Organigramma
Commissione Scientifica:
Armando Gnisci (Coordinatore)
Vincenzo Bellia
Alessandro Tamino
Direttore Amministrativo:
Maria Pompa
Direttore Responsabile:
Marino Midena
Coordinatrici di redazione:
Flavia Caporuscio
Alessandra Tuozzi
Art Director:
Rita Campolo
Pubbliche Relazioni:
Paolo Travagnin
Redattori:
Manuela Derosas
Rosa Di Violante
Zaira Donarelli
Assunta Izzo
Maria Teresa Mattioli
Veronica Orfalian
Martino Pini
Simona Romagnoli
Le illustrazioni di questo numero sono di:
Rita Campolo
Alessandro Tamino
Rivista semestrale
N.3 anno 2013
Iscrizione al Tribunale di Roma
Registro per la stampa N.
0266/2012
Sede:
Elma soc.coop.soc.
Via Livorno, 45
00162 Roma
Tel. e fax: 06. 64220566
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Indice
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Vincenzo Bellia, DMT & (COMPLIC)AZIONI TRANSCULTURALI
Vincenzo Bellia, Jenna Colombo, DANZAMOVIMENTOTERAPIA E PSICOLOGIA CLINICA:
UN’INTERVISTA
Maria Teresa Mattioli, Barbara Dragoni, Vincenzo Bellia, LA DANZA COME TERAPIA DI COMUNITÀ:
IL LARGE GROUP DI DANZAMOVIMENTOTERAPIA
Armando Gnisci, Opera al nero. E luce
Lourdes Vázquez, Claudia y Yo
Armando Gnisci, Mutualità
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Vincenzo Bellia [1]
DMT & (COMPLIC)AZIONI TRANSCULTURALI
La danza è fatta di corpi in movimento, ma quale movimento, visto che l’intera nostra esistenza è
fatta di corpi in movimento? Nella danza il movimento non è afinalistico: è convogliato in azioni,
ma quali azioni, visto che il lavoro, lo sport e un’infinità di altre attività si nutrono di azioni? Nella
danza, sembra, l’azione non si esaurisce nella sua dimensione funzionale, ma diventa azione coreografica, azione scenica, talora azione cerimoniale… in ogni caso azione rappresentativa.
Cecilia Pennacini e Eugenia Casini Ropa, alla relativa voce dell’enciclopedia Treccani
(www.treccani.it), definiscono la danza
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“insieme ritmico di movimenti del corpo eseguiti secondo uno schema individuale o un’azione
6concertata (...) segna i principali passaggi di status nella vita del singolo, svolgendo un ruolo importante nella costruzione e trasmissione dei valori condivisi dal gruppo». Se la danza è intessuta
di azioni ritmiche con valenza rappresentativa, nel momento in cui ci domandiamo qualcosa in più
sul rapporto tra schemi individuali e concertazione collettiva, le cose si complicano, spostandosi
sul terreno della trasmissione di valori condivisi, sul terreno cioè dell’elaborazione culturale.
La danza trova certo una sua ragion d’essere nella funzione sociale: nell’esperienza ritmica l’azione soggettiva si armonizza con l’ordine comunitario, nella tessitura coreografica si incarnano ruoli,
gerarchie e status. Altro movente fondamentale possiamo individuarlo nella pura e semplice ricerca del piacere. Sappiamo però che la danza incarna sempre ed esprime in mille linguaggi anche le
contraddizioni culturali e i conflitti intertribali, si tratti di confrontarsi con il clan estraneo della
promessa sposa o persino con la violenza dello straniero colonizzatore.
Sollecitato da Armando Gnisci, a distanza di quasi dieci anni ripropongo le riflessioni che seguono
(dopo averle sottoposte a un aggiornamento doveroso, ma non certo rivoluzionario). Il primitivo
contesto ospitante era il settimo congresso nazionale dell’APID, l’associazione professionale di
Danzamovimentoterapia (Dmt) che ho co-fondato, ma con la quale culturalmente non mi identifico certo, al punto da aver avvertito la necessità di fondarne un’altra, che fosse più sensibile alla
prospettiva illustrata in queste pagine.
In effetti, le dita di entrambe le mani non mi bastano neppure lontanamente per enumerare le associazioni (professionali, culturali, politiche) e i sodalizi formalmente organizzati che ho contribuito
a far nascere, di cui faccio o ho fatto parte, nei quali ho ricoperto ruoli più o meno attivi. Non è
normale, credo! Se la cosa ha un senso, lo rintraccio nel mio bisogno di socializzare e operazionalizzare brandelli di appartenenza, nuclei di sensibilità culturale, idealità. Il termine idealità lo uso
con “timore e tremore”; d’istinto avrei scritto ideali o persino ideologie, ma me l’hanno impedito i
freni censori prodotti dalla mia cultura psicoanalitica (che stigmatizza l’idealizzazione) e dalla mia
matrice democratico-paciosa (che aborrisce l’ideologia).
Il nucleo di queste riflessioni è proprio questo: quel meticciato culturale che è l’identità, quel mélange contraddittorio di appartenenze che in-forma i corpi, le loro espressioni, il loro psichismo.
Risale almeno a Gehlen (1940) l’evidenza che «la natura dell’uomo è la sua cultura»; a tal riguardo, la prospettiva della transculturazione svela anche la componente ideologica delle matrici pro-
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fessionali (comprese le nostre), caduto il velo degli asettici tecnicismi. La prospettiva della trans7
culturazione, per esempio, come osserva Gnisci (2012), mostra il logorio di parole-concetti quali
multiculturalismo e interculturalità, che hanno tradito l’istanza imperativa della de-colonizzazione
nella duplice beffa dell’integrazione e dell’assimilazione.
Le arti terapie, e tra esse la Dmt, pur saldamente ancorate a riferimenti teorici di matrice psicologico-clinica, sono sempre più diffusamente utilizzate al di fuori dei tradizionali contesti clinici. Se
fino alla prima metà degli anni novanta avevamo in mente il centro diurno o l’istituto per portatori
di handicap, oggi pensiamo soprattutto ad aule scolastiche, ai più improbabili spazi di istituzioni
carcerarie, centri sociali, istituzioni varie ed eventuali. La tradizionale domanda proveniente
dall’area clinica e riabilitativa è oggi definitivamente sopravanzata da una domanda sociale in senso lato. Per la verità, numerose discipline di origine e tradizione clinica (innanzitutto la psicoterapia, specie nelle sue forme più attente alla dimensione relazionale) si trovano sempre più sollecitate da richieste provenienti da contesti non esattamente prossimi alla cura – o almeno alle problematiche e agli spazi tradizionali della cura. Psicologi di formazione clinica operano nelle scuole,
nelle comunità giovanili, nel mondo dell’impresa sociale, con gli immigrati, gli homeless…
Si registra un complessivo graduale spostamento del baricentro dell’asse psicologico-clinico dal
polo della ”terapia pura” a quello dell’intervento comunitario.
Già molti anni fa (Bellia 1995), in riferimento alle pratiche psico-sociali di Dmt, utilizzavamo l’espressione «dalla clinica alla comunità»: espressione, tuttavia, contrassegnata da un intrinseco
dualismo che, alla luce delle riflessioni maturate negli ultimi anni, richiede di essere superato. E
non solo per ragioni filosofiche! Non a caso la medesima area di cultura professionale ha elaborato in questi anni un vero e proprio modello teorico e metodologico di “psicoterapia di comunità” (vedi Barone, Bellia e Bruschetta, 2010).
A mio parere, occorre superare il dualismo clinico/sociale innanzitutto riguardo alla dimensione
culturale. Proprio per abitudine “culturale”, pensiamo alla cultura come a qualcosa che appartiene
al dominio socio-antropologico, e alla clinica come a qualcosa di più “asettico”, qualcosa che può
più o meno prescindere da variabili culturali. Anche la Dmt, pur chiamando in causa concezioni
culture bound della malattia e della cura, ha avuto uno sviluppo “moderno”, all’interno di un dominio culturale di matrice psicoanalitica.
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La psicoanalisi, in effetti, nata all’ombra della mitologia biologistica post-positivista, ha prodotto
8un’ideologia meta-psicologica che assegna alla cultura un ruolo confinato al sociale, considerato
esterno all’individuo e introiettato solo successivamente, nel corso di uno sviluppo che procederebbe sostanzialmente sulla base di un determinismo pulsionale (v. Dalal 1998).
Le concezioni psicoanalitiche della personalità e della cura sono state accolte per molto tempo con
relativo favore, ritengo, perché nate da- e rivolte a- gruppi sociali culturalmente omogenei. Tuttavia, le stesse fondamenta dell’edificio psicoanalitico hanno subito sommovimenti tellurici, allorquando la società è rapidamente divenuta multiculturale, a seguito soprattutto degli imponenti movimenti migratori degli ultimi anni e della rivoluzione mediatica. Così, nel momento in cui la clinica di matrice psicoanalitica si è dovuta confrontare con soggetti di diversa etnia e con problematiche inedite, è immediatamente emersa la necessità di chiamare in causa concezioni etiologiche e
dispositivi terapeutici di culture altre: nasceva l’etnopsicoanalisi (Nathan 1993; Sironi 1999).
L’esigenza di una pratica clinica sensibile all’intreccio delle influenze culturali che circolano nella
comunità locale è oggi fortemente sostenuta dalla recente produzione scientifica di matrice etnopsichiatrica. Fare etnopsichiatria non è affatto trastullarsi con una curiosità post-colonialista per
talune sindromi esotiche, bensì un radicale ri-concepire tutta la pratica psichiatrica come etnopsichiatria: pensiero e azioni per la salute mentale delle persone di una comunità, nella comunità e
con i soggetti della comunità. Come vedremo, una prospettiva psicologico-clinica intrinsecamente
etnopsichiatrica contiene tutte le pre-messe per la liberazione:

da una psichiatria acritica nei confronti di una dominante cultura organicistico-custodialistica

da una psicoterapia acritica nei confronti di una dominante cultura individualistica

da una Dmt acritica nei confronti di una dominante cultura del corpo narcisisticouniversalistica.
In altri termini, ri-collocare la clinica in una processualità interculturale la relativizza, liberandola
dal dogma scientista dell’oggettività e dai poteri che su di esso prosperano: il potere della psichiatria istituzionale e delle sue redditizie residenze nosocomiali, il potere dell’industria psicofarmacologica e dei vitalizi di cui gode su ogni paziente psichiatrico, il potere delle società analitiche e dei
loro libri sacri… Infine, i piccoli poteri delle nuove discipline – anche la nostra – che riescono a
trovare una nicchia nell’edificio di una medicina basata su supposte evidenze.
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Quali modelli per la cura dei contesti?
Restituire la clinica alla comunità, dunque, quale funzione al servizio della salute della popolazione. Ecco per i terapeuti espressivi un nuovo campo di riflessione e una doppia sfida, epistemologica e metodologica: svolgere la propria funzione di servizio recuperando e valorizzando le proprie
matrici formative cliniche, ma all’interno di processi orientati non solo alla terapia, bensì all’educazione, alla formazione, all’intermediazione sociale…
Perché in una scuola media, per un’attività psicomotoria extracurriculare, chiamare una danzamovimentoterapeuta, invece che una psicomotricista o una coreografa? Perché in un progetto interculturale sulla devianza coinvolgere un danzamovimentoterapeuta, invece che un animatore? Perché
inserire danzamovimentoterapeuti in un centro per anziani, anziché insegnanti di educazione fisica
o istruttori di ballo?
O rispondiamo in modo convincente a questi interrogativi, o dobbiamo ammettere che tali interventi siano inappropriati e abusivi, determinati in maniera pressoché esclusiva da mode effimere,
piccoli poteri, interessi locali, opportunità personalistiche. È preferibile assumere artiterapeuti, invece che semplici artisti, solo laddove c’è da intervenire su uno specifico disagio che riguardi la
convivenza, le interazioni culturali e la regolazione dei connessi processi emozionali.
Per dirla in modo più forte, l’intervento del danzamovimentoterapeuta (o, più in generale, dell’operatore di formazione clinico-sociale) è pertinente allorché – e solo allorché – in un gruppo umano,
impegnato in un’opera educativa, sociale, formativa eccetera, sia presente e determinante un nucleo di patologia: una patologia, in questo caso, non tradizionalmente organizzata in modo focale
su uno o più individui, bensì un più diffuso malessere comunicativo, una “patologia della convivenza” (Di Maria 2000), una patologia che, in luogo di condensarsi nella persona, circola strisciante negli spazi interstiziali del processo interpersonale – una patologia dei contesti.
Ciò che in Dmt da anni denominiamo – non senza una inconfessata, imbarazzata perplessità –
“intervento socio-pedagogico”, andrebbe a mio parere ridefinito, con una proposta che so essere
piuttosto forte, come intervento di “cura dei contesti”, in quel provvisorio orizzonte operativo che è
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appartenenza
estraneo
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regole del gioco
stato talora denominato “clinico-sociale” (Lo Verso, Federico, Lo Coco 2000). Altre piste di lavoro bisogna avere l’onestà e il coraggio di lasciarle a operatori di altra fisionomia professionale.
Per non riproporre però in una nuova veste il già diffuso e ingrato fenomeno della medicalizzazione/psicologizzazione degli spazi sociali, si impone la ricerca di nuove “tecnologie”. Più radicalmente, va elaborata una nuova modellistica, sensibile alle imponenti trasformazioni culturali contemporanee, che mutano incessantemente il volto delle identità personali e collettive del nostro
mondo. Non è davvero più sostenibile l’inferenza acritica e la superficiale generalizzazione di nuclei teorici della psicopatologia fenomenologica, della psicoanalisi delle relazioni oggettuali, o della psicologia umanistica, o ancora della psicoterapia cognitiva, quali vertici di lettura e di intervento su problematiche squisitamente socio-relazionali o interculturali.
Nel corso della nostra continua ricerca nel campo della teoria della prassi, ho elaborato e richiamo
sinteticamente due strumenti, non strettamente specifici della Dmt, ma con i quali si intende collocarla in una progettualità clinico-sociale di più ampio respiro. Mi riferisco a:

il modello del «triangolo della convivenza» (Bellia 2002), messo a punto in riferimento a
esperienze di mediazione interculturale, a partire dall’ispirazione del saggio di Renzo Carli
che introduce un prezioso volume di Franco Di Maria (2000);

il modello del «funzionigramma della matrici culturali» (Bellia 2006; Bellia 2010, in Barone, Bellia, Bruschetta), finalizzato a orientare l’intervento clinico-sociale alle peculiarità dinamiche transculturali: un modello focalizzato sulla triade senso di appartenenza / livello di
partecipazione / senso di separazione e, conseguentemente, sulle valenze di identificazione,
di potere e di soggettivazione degli individui in rapporto ai loro gruppi sociali.
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Il «triangolo della convivenza» e la complessità dell’incontro sociale
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Di fronte alla multiformità della patologia sociale odierna, il modello del «triangolo della convivenza» è una utility diagnostica per orientare la teoria della prassi. Il modello originariamente formulato da R. Carli situa la convivenza al crocevia di tre componenti:

i sistemi di appartenenza

l’estraneo

le regole del gioco
e correla alla negazione di una delle diverse componenti i diversi fenomeni di patologia della convivenza sociale.
L’assenza di regole di interazione. Ci sono situazioni nelle quali la convivenza sociale è resa gravemente problematica dall’assenza o dalla negazione di regole di relazione condivise. Sono situazioni in cui il rapporto con l’altro (e con le culture altre) avviene in modo diretto, senza che siano
negoziati e comunemente accettati vincoli regolatori dello scambio (Carli, in Di Maria 2000). La
negazione delle regole del gioco fa necessariamente dell’estraneo un nemico, generando violenza,
mafie, leghismi, conflitti razziali.
Occorre negoziare e condividere regole di relazione, che agiscano come vincoli allo scambio. Senza i dispositivi opportuni, la possibilità di uno scambio produttivo rimane velleitaria, lasciando il
posto a faide tribali, ovvero allo sterile arroccamento sospettoso, ciascuno nei propri territori.
Le arti terapie possono facilitare la negoziazione di regole di relazione, creando uno spazio di gioco simbolico. Giocare, nella dimensione del “come se”, permette di sperimentarsi in modo protetto. Allorché si tratti di negoziare codici di scambio tra gruppi dall’identità forte e irrigidita, in assenza di linguaggi comuni, la Dmt propone i codici più arcaici e condivisi (ritmo, spazio ritualizzato…) e quelli che strutturano una situazione interattiva in cui giocare i conflitti.
Non a caso, forse, spazi istituzionali (discoteche, centri sociali) e non (piazze, giardini pubblici)
vedono aggregazione spontanea intorno agli strumenti a percussione. Il Djembé è certamente il più
potente e assimilato operatore di mediazione sociale che le culture africane abbiano mai innestato
in Europa, realizzando sul piano culturale una sorta di “rivincita coloniale”. Il ritmo percussivo a
scansione binaria, sempre più presente in molte pratiche di Dmt, non solo aggancia potentemente
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la fisiologia corporea, ma evoca anche irresistibilmente tracce coreografiche di culture tra loro di12
verse, costituendo il terreno sul quale queste danze possono co-esistere e talora contaminarsi.
Lo spazio della danza: il cerchio sacro, la ruota, la spirale, il fronte d’onda, il serpente… forme dinamiche di uno spazio ritualizzato, per la molteplicità di corpi del corpo sociale. Laddove gruppi
umani non sanno parlarsi, ma possono danzare, la danza crea lo spazio e il rito di una piazza.
La stigmatizzazione dell’estraneo. Si osservava che straniero non è solo chi è diverso da noi: è soprattutto colui la cui appartenenza ci sembra “infedele” e opposta rispetto alla nostra (Di Maria,
Lavanco e Novara 1999). Se l’estraneo è la diversità che va esplorata e conosciuta, nella dinamica
della conoscenza, rigettare l’estraneo è un movimento autodifensivo rispetto a un senso di identità
che si sente messo a repentaglio dal confronto con l’altro.
La negazione dell’estraneo esaspera il senso di appartenenza a scapito della conoscenza. Si enfatizza la dimensione del potere, generando istituzioni totali, violenze private, sopraffazioni, fondamentalismi. Il rapporto con chi è culturalmente “altro” può essere affrontato solo in termini di assimilazione dell’estraneo e le regole del gioco, le norme della convivenza, sono strumentalmente indirizzate a sollecitare tale assimilazione, ovvero a delimitare “riserve”. È il paradigma culturale del colonialismo.
L’altra faccia del colonialismo è la trappola beffarda di quando il colonialismo non è “quello degli
altri”, dei razzisti e degli “intolleranti ufficiali”, ma il nostro: il colonialismo delle buone intenzioni, dell’interventismo illuminato e oblativo di chi “sa come si fa”.
Le arti terapie, in effetti, parlano lingue per tutti un po’ “altre”. Pongono praticamente tutti in una
situazione di frontiera, creando le condizioni che promuovono efficacemente l’incontro con l’altro:
con chi, fuori di noi, è portatore di altro, e con le correnti simbolico-espressive che, dentro di noi,
veicolano l’altro.
È il momento dell’ascolto e dell’incontro: quando la Dmt è chiamata in gioco in situazioni in cui la
convivenza è malata di solipsismo e di rifiuto dell’alterità, deve ri-correre ad altri codici di comunicazione corporea. Piuttosto che lo “spazio della piazza” disegnerà una sorta di “scenario di frontiera”, una “soglia” sul mondo degli altri. Il setting costituisce in queste situazioni l’area protetta di
intermediazione all’interno della quale sperimentare l’oltre sé, senza che ciò costituisca una minaccia all’integrità del senso di identità personale e di gruppo. Viene a essere privilegiato lo scambio
interpersonale e si dà ampio spazio all’azione di piccoli gruppi eterogenei autogestiti, centrati su
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compiti espressivi. Trovano non facile, ma suggestiva applicazione le diverse tecniche di dialogo
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motorio e di invenzione coreografica, in uno spazio scenico utilizzato in modo assai vario e con un
moderato ricorso ai codici ritmici.
Obiettivo è favorire la ricerca, l’immedesimazione, il rispecchiamento, la differenziazione, la curiosità e l’interscambio. L’intervento punta soprattutto sulla dimensione esplorativa, in vista di una
valenza ultimamente integrativa (Bellia 2001a). Quando sullo scenario domina la negazione dell’estraneo, e le regole del gioco sono «al servizio dell’appartenenza e non della conoscenza» (Carli in
Di Maria 2000), la Dmt promuove la curiosità e stabilisce un’area di libero scambio simbolico,
consapevole di quanto la chiusura autoreferenziale sia nei gruppi sintomo di grande insicurezza e
fonte, alla lunga, di malessere e di improduttività.
L’oblio delle origini. C’è un’altra forma di patologia della convivenza, sempre più diffusa nell’occidente contemporaneo e nelle culture metropolitane: la perdita di contatto con i propri sistemi di
appartenenza, l’arresto della fluida e vitale circolazione di quegli elementi del transpersonale etnico-antropologico (Lo Verso 1994) che sono alla base dei processi di identificazione, la dissipazione di quel patrimonio di valori, credenze, senso della “noità” e della partecipazione collettiva, senza il quale l’identità personale va incontro a crisi laceranti.
Alienarsi dai sistemi di appartenenza produce isolamento e disadattamento, condizioni che connota
-no un numero sempre maggiore di uomini e donne del nostro tempo. C’è stata una fase storica in
cui il bisogno di appartenenza è stato vicariato dallo sviluppo delle ideologie. Oggi, però, nell’era
tecnocratica della globalizzazione, sembra prevalere l’individualismo di identità formate a un diverso livello del transpersonale, quello socio-comunicativo. Sono però assai rarefatte le dirette reti
di relazione interpersonale, si diffonde la patologia narcisistica e del confine (vedi Cianconi 2011).
Lo sviluppo mediatico incoraggia l’identificazione superficiale con elementi estrapolati da culture
altre… è il trionfo della new age, di fascinazioni orientalistiche senza tempo, senza storia, senza
cultura, senza villaggi, consumate nel fraintendimento commerciale on line.
«Danzare le origini» rimane, a mio parere (Bellia 2000), la fondamentale vocazione della Dmt nella nostra civiltà. Di tornare a danzare le proprie origini c’è un gran bisogno, nelle società occidentali contemporanee, dimentiche delle radici e delle appartenenze, pronte a riproporle solo nelle for-
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me aberranti di localismi esasperati e razzisti, incapaci però di trarne le vitali e produttive risorse di
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crescita e di benessere.
Le arti terapie rimettono in contatto con il patrimonio di rappresentazioni della propria cultura, ormai a disagio. È possibile con la Dmt «danzare le origini» puntando soprattutto sulle danze transpersonali, veri e propri crogioli ritmici, nel cui inarrestabile dinamismo pulsatorio torna a prendere
corpo l’identità collettiva, in tutte le sue sfumature etniche e gruppali.
Sul telaio della transculturazione…
Le culture nascono, prendono forma, si trasformano e si tramandano all’interno di gruppi umani –
o, per meglio dire, lungo le reti che collegano gruppi umani. Franco Fasolo (2002) utilizza, in luogo del consueto termine di rete, l’espressione – culturalmente determinata – di macramè.
Carenze culturali mi obbligano a ricorrere al dizionario [4] e a Ivano Fossati [5]. Scopro così che il
macramè (termine genovese derivato dall’arabo màhramatun – fazzoletto – e migramah – frangia,
e dal turco makrama – tessuto di pregio decorato a frangia) è un merletto pesante, di origine moresca, eseguito tuttora perlomeno in Catalogna, in Liguria e in Sicilia, che intreccia e annoda fili e
cordoncini in trame ornamentali raffinate e preziose, formando contemporaneamente disegni e
sfondo.
Il macramè rimanda a culture (saperi e poteri) femminili, laddove le reti evocano invece soprattutto
universi maschili: reti che catturano o reti che proteggono, reti che intrappolano i pesci… reti le cui
maglie e i cui nodi rimandano a un’indifferenziata ripetizione seriale, e tra loro lo spazio è vuoto…
Il macramè invece è un ricamo: non ce n’è uno uguale a un altro, immagino. Non è una geometria
indeterminata, ma dà origine a un disegno… è arte, prima che strumento; rimanda all’estetica, prima che alla tecnica: sarà anche utile, ma innanzitutto è bello.
Il macramè non è solo trama né solo ordito: è un intreccio il cui spessore dà forma sia allo sfondo
che alla figura. Non credo di aver mai incontrato metafora più suggestiva delle fondamentali intuizioni antropologiche gruppoanalitiche, in particolare relativamente al rapporto tra la soggettività e
la dimensione collettiva, o alle valenze antropologiche della cultura.
In quest’ottica, le culture fanno riferimento a rappresentazioni psichiche sovraindividuali; in quanto trame di significati di matrice collettiva, sono anche elementi fondanti l’identità degli individui.
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Le culture non si identificano con aggregati etnici, sociali, istituzionali etc; pur tuttavia, esse ricono-scono e mantengono precise relazioni con gruppalità di riferimento a carattere:
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
etnico (culture popolari, nazionali, locali, linguistiche…)

geografico (culture mediterranee, nordiche, orientali…)

generazionale (culture giovanili, culture ataviche…)

religioso (culture islamiche, cristiane, new age…)

politico (culture conservatrici, progressiste…)

socio-antropologico (culture mafiose, leghiste, rionali…)

urbanistico (culture rurali, metropolitane, stanziali, migratorie…)

istituzionale (culture professionali, culture di servizio…)

tecnologico (media, televisioni, siti web, facebook…)
Ciascuno di noi, nel corso della propria storia e ai diversi livelli della propria esperienza personale,
è attraversato da una pluralità di impregnazioni culturali, così come è più o meno immanente o
contiguo a una pluralità di gruppi umani, a loro volta diversamente attraversati dalla pluralità delle
culture… L’identità delle singole persone, oltre che quella delle collettività umane, è tessuta nel
macramè delle stratificazioni culturali: non potremmo essere più lontani di così dalla teoria delle
relazioni oggettuali!
Chi opera nel campo clinico-sociale – vale a dire chi è chiamato a intervenire sul malessere che si
condensa negli individui, ovvero che circola nelle maglie delle cosiddette reti sociali – si trova così
inevitabilmente a confrontarsi con un compito complesso, intrinsecamente transculturale, che in
nessun modo può limitarsi al lavoro con individui di diversa etnia. Se l’identità stessa prende forma e si trasforma in un intreccio relazionale di scambio simbolico-linguistico, il lavoro con qualunque gruppo umano, anche se autoctono e in apparenza culturalmente omogeneo, è un lavoro
fondamentalmente transculturale – di più: il lavoro con ogni individuo non può non prendere in
considerazione le stratificazioni e le talora drammatiche trasformazioni culturali che sostanziano la
sua storia in rapporto ai suoi gruppi di appartenenza e di riferimento.
Nel lavoro della Dmt, ad esempio, è particolarmente evidente (che si tratti con un singolo paziente,
ovvero che si operi con gruppi socialmente determinati) il gioco di elaborazione delle diverse cul-
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ture del corpo: culture di corpi anoressici dei media della società occidentali, culture del corpo di
assistenti sanitari di pazienti geriatrici terminali, culture del corpo degli attori…
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Riconcepire il lavoro clinico come operazione interculturale richiede però, come dicevamo, una
coraggiosa sperimentazione modellistica in tema di teoria della prassi, in grado di configurare efficaci strumenti che orientino l’operatività nella giungla della complessità. Il «triangolo della convivenza» ci è sembrato un utile passo in questa direzione; osserviamo però che esso non ci aiuta ancora a esplorare la relazione che i soggetti intrattengono con i propri gruppi di riferimento e con gli
addensamenti culturali vissuti come sé o come altro… approfondire queste sfumature assume importanza decisiva, per chi opera con lo sviluppo delle persone nelle comunità umane.
Le considerazioni e le proposte modellistiche che seguono non si riferiscono in modo esclusivo
alla Dmt, ma alle pratiche clinico-sociali in senso lato, in particolare a quelle fasi del lavoro che
riguardano l’analisi del bisogno e della domanda, l’analisi del contesto e la formulazione del progetto di intervento; quelle fasi, cioè, a livello delle quali la valutazione delle variabili culturali del
contesto si può tradurre in scelte metodologiche accorte e innovative.
Appartenere, partecipare, distinguersi: il «Funzionigramma delle matrici culturali»
Due opposti mitologemi mi sembrano oggi esercitare un grande fascino.
Da una parte c’è la “mitologia tribale”: il primato del gruppo di appartenenza, il senso (o la nostalgia) di un noi forte e omnicomprensivo, che dà identità e satura di significato l’esistenza. Gruppi
idealizzati fino al fondamentalismo esercitano una seduzione forse senza precedenti in questo secolo, in un’assolutizzazione dell’incorporazione etnica.
Dall’altra parte campeggia una sorta di rivisitazione antiromantica del “mito del superuomo”. Il
primato dell’individuo si veste del narcisismo contemporaneo, che assolutizza lo svincolo del soggetto dal gruppo sociale e la dissoluzione dei legami e del senso di appartenenza.
Al di là di queste radicalizzazioni, tutti noi sperimentiamo in realtà, ciascuno a modo proprio, una
grande solitudine, attraversata da una pluralità di legami e di appartenenze culturali; ognuno di noi
è un po’ cittadino di molti villaggi e membro di molte tribù. Ciascuno di noi è un po’ il palinsesto
di una molteplicità di infraetnie.
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Chiamo infraetnie le diverse componenti culturali che nelle nostre comunità sociali, nell’epoca
della globalizzazione, si intrecciano e si sovrappongono, attraversando gruppi e individui. Sono
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riferimenti a carattere collettivo, che denotano sì appaesamenti e appartenenze (“etnie”, in un certo
senso), ma che tuttavia non identificano gruppi sociali precisi e determinati, pur essendo particolarmente visibili in taluni gruppi specifici – sono “infra”: contaminano trasversalmente individui e
gruppi.
L’incontro transculturale delle infraetnie, all’interno della dinamica personale o della matrice di
ogni gruppo sociale, può produrre crescita, ma anche conflitto, psicopatologia, devianza… Quale
integrazione, o quale conflitto di appartenenze, si produrrà laddove si incontrano (nella stessa persona, e/o in un gruppo) elementi culturali eterogenei?
Il rapporto che ciascun individuo intrattiene con i gruppi nei quali si trova a essere inserito, o con i
quali entra in contatto, ha complesse e caratteristiche sfumature dinamiche. In particolare, abbiamo messo in evidenza tre variabili, che abbiamo trovato particolarmente significative in ordine
allo sviluppo dell’identità personale e sociale e ai suoi arresti:

il senso di appartenenza

il senso di partecipazione

il senso di separazione
Queste tre variabili, in particolare, si declinano in rapporto alle culture dei gruppi, vale a dire alle
rappresentazioni di sé, degli altri, del mondo, ai complessi valoriali, ai codici simbolici etc. che di
gruppi e individui costituiscono il linguaggio, le ideologie, gli elementi di motivazione e di scelta.
Rispetto a un dato gruppo o a una data cultura, quanto mi sento appartenente? La misura del senso
di appartenenza è data con evidenza dall’uso del pronome noi; il senso di appartenenza esprime
basilarmente la funzione identificatoria esplicata dal gruppo e dagli elementi culturali ad esso connessi.
Ma in che misura avverto il mio livello di partecipazione alla vita del gruppo e all’elaborazione
del suo divenire culturale? Una più o meno sensibile e determinante partecipazione alla processualità che è la vita del gruppo dà la misura del potere e della maggiore o minore interattività esercitati dal soggetto nel suo contesto relazionale e rispetto all’elaborazione degli elementi culturali in
gioco. Cantava Giorgio Gaber «libertà è partecipazione»…
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Infine, in che misura esisto al di là di quel gruppo e oltre quegli elementi culturali? Il senso della
propria separazione dal gruppo non si riduce alla non-appartenenza (che esprime piuttosto l’esclu18
sione), bensì rappresenta quell’”egoità” che è il fondamento stesso della possibilità di stabilire e
modificare la molteplicità delle appartenenze e una partecipazione diversificata alla vita sociale.
Appartenere, partecipare, distinguersi: il gioco dinamico di queste tre funzioni dà vita a infinite
possibilità. Per analizzare il rapporto tra soggetti e comunità, o tra gruppi determinati e contesto
locale allargato, il modello può essere applicato a situazioni diverse: dai gruppi sociali “reali”, alle
comunità, ai gruppi familiari, ai gruppi di lavoro… come diceva Foulkes, però, ogni gruppo (non
meno che l’individuo) in realtà è un’astrazione (Dalal 1998), un paradigma concettuale arbitrario,
utile per semplificare la complessità vertiginosa di un sistema interattivo totale, attraversato dalle
culture (aggiungerei) sperimentate come “infraetnie”.
Ciascun individuo fa riferimento a una pluralità di gruppi sociali, manifestando in modo diversificato in ciascuno di essi senso di appartenenza e grado di implicazione e di partecipazione, sentendoli nel contempo più o meno altri rispetto a sé. Gruppi sociali determinati entrano tra loro in rapporto, all’interno di spazi sociali allargati, istituzioni etc., sperimentando un diverso grado di reciproca compatibilità culturale quanto alle reciproche appartenenze, esercitando in grado diverso il
potere partecipativo, ciascuno con un proprio senso di separazione rispetto alla cultura dominante
nel contesto…
Una semplificazione del modello, che lo rende operativamente fruibile per la progettazione clinicosociale, considera – dal vertice gruppale e/o individuale – l’azione di ciascuna variabile
(appartenenza, partecipazione, separazione) rispetto alle culture:

dei gruppi di appartenenza (ad esempio gruppi familiari, gruppi di pari, aggregazioni etniche…)

dei gruppi di lavoro con i quali si entra in relazione (ad esempio gruppi clinici, formativi…)

del contesto allargato ospitante (la comunità locale, le istituzioni…).
Nella griglia che segue indichiamo le funzioni svolte da ciascuna delle tre variabili individuate
(appartenenza, partecipazione, separazione) in rapporto alle diverse matrici culturali (gruppi di appartenenza, gruppi di lavoro, contesto sociale allargato), nonché le disfunzioni imputabili dalla dominanza esclusiva dell’una o dell’altra variabile ai diversi livelli.
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È intuitivo che l’andamento e l’esito di un intervento clinico-sociale complesso dipenderanno dal
senso di appartenenza, di partecipazione e di separazione che i destinatari dell’intervento sperimentano non solo nei confronti dei rispettivi gruppi di provenienza, ma anche in rapporto al gruppo
operativo e al contesto. Inoltre saranno di importanza cruciale i vissuti di appartenenza, partecipazione, separazione degli operatori rispetto alle diverse gruppalità culturali in gioco (innanzitutto le
proprie), nonché dagli atteggiamenti della comunità locale che fa da contesto all’esperienza.
Il modello è un contributo “cartografico” per l’esplorazione di una terra incognita, coperta di una
vegetazione intricata e soggetta a continui mutamenti: il territorio della transculturazione, che desideriamo rimanga sempre, almeno parzialmente, terra incognita, se la storia ci ha mostrato a quale
selvaggia colonizzazione (non solo culturale) si sia accompagnata una troppo precisa cartografia.
Vorremmo utilizzare questi modelli per orientare l’azione e muoverci nella foresta, non per disboscarla; non per ridurre gli utenti alle nostre categorie, bensì per de-centrare noi stessi dalla nostra
cultura dell’intervento, per riguadagnare la consapevolezza di essere all’interno di una delle culture
in gioco, e rientrare così nel gioco coreografico della transculturazione.
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[1] Sono di cultura mediterranea, non solo perché siciliano, ma anche per aver trascorso più di un migliaio di ore qualche decina di
metri al di sotto della superficie del mar Mediterraneo. Sono di cultura psichiatrica, psicodinamica e psicoqualcosaltro, anche medica, certamente! L’istituzione sanitaria pubblica mi ha lasciato un marchio culturale indelebile, anche se l’ho mollata parecchi anni
fa. Come danzaterapeuta ho un imprinting antropologico-primitivista. Sono di cultura cattolica, partigiana, borghese, pianistica,
rythm&blues, un tempo calcistica, oggi filoiberica ma con nostalgie veterogalliche. Sono di cultura maschile e orientattivamente
femminista; di tradizione microsoftica ma con recenti fascinazioni neojobsiche. Sono di cultura alpinistica e metropolitana, moderatamente alcoolica, migratoria, fumettistica, kafkiana, gauchista rivoluzionaria diquellichehannofattoil68maavevano8anni…
[2] ARTE (Associazione per la Ricerca nelle Terapie Espressive), www.assoarte.it.
[3] Unanimemente si riconosce come fondamentale ispirazione della Dmt lo stratificato complesso di tradizionali dispo-si-tivi rituali di guarigione, nei quali la pratica di danze collettive svolgeva (e svolge) un ruolo fondamentale.
[4] dal dizionario della Lingua italiana di Devoto e Oli. Ed 1990, Le Monnier, Firenze.
[5] I. Fossati (1996) Macramè. Edizioni musicali “Il volatore”
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Vincenzo Bellia, Jenna Colombo
DANZAMOVIMENTOTERAPIA E PSICOLOGIA CLINICA:
UN’INTERVISTA
Il testo di quest’intervista a Vincenzo Bellia, effettuata per iniziativa e a cura di Jenna Colombo
(nel contesto della ricerca confluita nella sua tesi di laurea magistrale in psicologia clinica), ci
sembra in questo momento di particolare attualità. A sei mesi di distanza dall’approvazione parlamentare della legge 4 del 2013, che disciplina le professioni non regolamentate in ordini o collegi,
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il dibattito che fa da cornice ai processi di normazione di alcune professioni in particolare è quanto
mai acceso e partecipato, e talora inevitabilmente assai meno lucido e spassionato.
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Negli ultimi vent’anni è stato pressoché sterminato il numero di tesi di laurea aventi per oggetto la
Danzamovimentoterapia (Dmt) e le arti terapie: in Psicologia, Scienza dell’Educazione, Tecnica
della Riabilitazione Psichiatrica, Scienze sociali, ma anche Medicina, Scienze Motorie, DAMS e
altre facoltà ancora. Un siffatto interesse, trasversale a campi disciplinari così eterogenei (per intenderci anche di area sanitaria, oltre che educativa, artistica, socio-antropologica), la dice lunga su
quanto le arti terapie si collochino in un’area epistemica e operativa di confine.
L’area della salute, come più volte sottolineato negli ultimi decenni dai documenti ufficiali della
WHO (World Health Organization), è più ampia dell’ambito sanitario. La salute, che non si riduce
ad assenza di malattia, è una condizione dinamica di benessere che riguarda la pluralità delle dimensioni dell’esistenza personale e sociale; una condizione prodotta e mantenuta con il concorso
di una pluralità di attori e di competenze, afferenti a campi disciplinari eterogenei: sanitario, sociale, economico, ambientale, culturale, antropologico, educativo, artistico…
Su alcune condizioni di disagio psicopatologico e/o della convivenza sociale, poi, è possibile intervenire con successo solo mediante programmi multimodali dei quali è d’obbligo che facciano parte
attori e competenze anche di ambito extra-sanitario. Nuocerebbe assai alla salute della comunità (e
in particolare di alcuni suoi componenti) se la miopia di una logica corporativa e lobbistica risolvesse il rapporto tra le professioni all’insegna della separatezza e dell’esclusione, invece che nella
prospettiva della sinergia e dell’interconnessione.
La comunità professionale e intellettuale psicologica, non certo tenera sulle invasioni di campo, ha
sempre mostrato nei confronti delle arti terapie un interesse autentico, equilibrato e… ricambiato,
visto che molti elementi del sapere psicologico stanno alla base della formazione nelle arti terapie
e che gli arti terapeuti non si sognano nemmeno lontanamente di fare psicoterapie “di sponda”. Su
una base di chiarezza teoretica e professionale, la ricerca di ponti e sinergie non minaccia nessuno.
Ci auguriamo che questa breve intervista possa contribuire a chiarire il nostro cammino in tal senso.
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Secondo la sua esperienza qual è l'utilità di integrare il lavoro della danzamovimentoterapia
(Dmt) con la terapia psicologica tradizionale?
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La Dmt incontra le persone al livello sensomotorio di organizzazione dell’esperienza psichica e
relazionale. È un livello accessibile anche con persone con caratteristiche e problematiche assai
diverse: dalla disorganizzazione psicotica, al ritardo mentale, al fundus alexitimico di tanta patologia psicosomatica, ai disturbi della condotta… sono tutte condizioni nelle quali le capacità simboliche e l’interazione verbale vengono in diversa misura compromesse. La Dmt, e più in generale un
approccio che vede protagonista il corpo in azione, permette di raggiungere la persona e i suoi processi (psichici) di organizzazione dell’esperienza a un livello pre-simbolico. L’integrazione con la
psicoterapia consente poi di mettere in opera un programma di cura in cui la Dmt svolge una funzione di facilitazione, di sinergia, di amplificazione e di velocizzazione degli effetti terapeutici. Ritengo però che sia necessario operare in setting distinti e articolati, evitando di “pasticciare” nello
stesso setting elementi di Dmt e di psicoterapia.
Come rispondono le persone quando gli viene proposta una forma di terapia di questo tipo,
così differente da come siamo abituati a pensare il sostegno psicologico?
Quali persone? Adulti, bambini o adolescenti? Psicotici, isterici o ossessivi? Intellettuali o soggetti
con bassi livelli di istruzione? Occidentali “DOC” o persone di diversa etnia e cultura? Artisti o
ragionieri? Donne o uomini? Credo che la cultura del corpo e della cura dei destinatari sia un elemento discriminante, e che stia al danzaterapeuta formulare un dispositivo operativo idoneo a facilitare l’accesso all’esperienza, in rapporto alle caratteristiche culturali, psicopatologiche, di genere
etc. dei partecipanti.
Quanto è importante la valorizzazione del corpo per consentire il cambiamento e l'uscita dal
sintomo?
Noi non abbiamo un corpo, noi siamo il nostro corpo! Nel corpo alberga il malessere, la nostra vita
è la vita del corpo che siamo, il corpo è il terreno della nostra esperienza emotiva e relazionale. A
volte l’approccio psicologico indulge a una concezione disincarnata dell’esistenza; la Dmt (e l’approccio arti terapeutico più in generale) può aiutarci a ricondurre l’esperienza e il processo terapeutico nel corpo. In realtà, in molte gravi condizioni psicopatologiche una clinica disincarnata risulta
debole o inefficace.
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È possibile sfruttare il sintomo per stabilire il tipo di danzamovimentoterapia più adatto alle
specificità del singolo individuo?
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In Dmt mi convince poco una teoria della tecnica clinica costruita in funzione della nosografia tradizionale, che è strutturata in rapporto a una fenomenologia psicopatologica sviluppata in buona
parte sul terreno del linguaggio verbale. Ritengo che la scelta del tipo di Dmt da proporre (cioè, del
setting da strutturare) sia solo in parte in funzione dei sintomi; per il resto contano molto le autonomie di base dei partecipanti, l’organizzazione psicomotoria, l’affinità soggettiva per il linguaggio
del corpo e della danza…. Può sembrare aspecifico, ma credo che il primo criterio per costruire un
gruppo non debba essere fatto su una base sindromica, bensì sul “vederli bene a danzare insieme”.
Poi ci sono altri elementi: la libera motivazione di ciascun soggetto innanzitutto, la richiesta istituzionale, che spesso porta a strutturare gruppi monosintomatici…
Se per “tipo di Dmt” intendiamo invece uno dei cinque o sei modelli a cui fanno riferimento le undici scuole italiane, a mio parere è vero che, ad esempio, la Dmt-ER® (DanzaMovimentoTerapia
Espressivo-Relazionale) è molto adatta al lavoro con problematiche psichiatriche o alla promozione delle competenze socio-relazionali, o che il Metodo Fux abbia molte frecce al suo arco per operare con i disabili sensoriali… Va da sé che ogni approccio sia particolarmente mirato ai contesti
applicativi in cui si è sviluppato. Penso però che ogni metodologia debba disporre di una convincente teoria della tecnica, in grado di strutturare di volta in volta il dispositivo adatto alle caratteristiche degli utenti e agli obiettivi del lavoro.
Qual è il rapporto diretto tra il suono del tamburo magico e le pulsazioni del cuore dell'individuo?
Premetto doverosamente per l’ignaro lettore che tamburo magico è la denominazione di una specifica tecnica di Dmt-ERÒ, basata sull’attivazione ritmica, sull’interruzione degli schemi abituali e
spesso rigidi di organizzazione dinamico-posturale e sulla stimolazione immaginativa, a metà strada tra immaginazione guidata e immaginazione attiva. Il «Tamburo magico», che prende spunto
dalla tecnica delle positions fantastiques di Herns Duplan, è un richiamo all’immaginario che ha la
potenza del cuore stesso dell’individuo.
La domanda mi sollecita però a spendere due parole sul ritmo, che è il fondamentale organizzatore
dell’esperienza fisica, psichica e relazionale. La fisiologia del nostro corpo è una polifonia di ritmi,
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la vita relazionale è scandita ritmicamente, a partire dal rapporto intrauterino con il cuore materno
e dal dialogo tonico. Anche la psicopatologia, per certi versi, si manifesta con disritmie nel conti26
nuum ideo-affettivo. La Dmt, operando attivamente con la dimensione ritmica, incontra l’essere
umano al livello più profondo dell’organizzazione psicomotoria. In questo senso, la disciplina
dell’Expression Primitive e alcuni indirizzi di Dmt (in particolare la Dmt-ER®, EspressivoRelazionale, e la Dmt Espressiva e Psicodinamica) sono risorse preziose per il trattamento di soggetti assai regrediti o gravemente disorganizzati.
Quanto è importante l'integrazione dei tre livelli interpersonale, individuale e transpersonale?
La Dmt-ER® è una metodologia di Dmt che fa esplicito riferimento all’elaborazione gruppoanalitica (Foulkes 1948, Napolitani 1987). In questo senso non parlerei certo di integrazione tra livelli
interpersonale, individuale e transpersonale, perché tutta l’esperienza del soggetto (Dalal 1998) è
da considerare intrinsecamente relazionale; tanto che, nell’ultima versione del mio «Diagramma di
campo» (Bellia 2007), parlo soltanto di livello transpersonale e interpersonale, distinzione utile
per lavorare, allorché ci si focalizza sulle interazioni attuali (livello interpersonale) ovvero sulla
trama relazionale che emerge in ciascuno o nel gruppo (livello transpersonale).
Sono più efficaci i gruppi misti o quelli omogenei? E quali sono le diversità intrinseche?
Gruppi misti o omogenei in rapporto a che cosa? Alla diagnosi? All’identità di genere? All’età?
Tutti i gruppi hanno un diverso grado di omogeneità e di eterogeneità, in rapporto a diversi parametri, e ciascuna delle due caratteristiche presenta vantaggi e svantaggi. In generale, l’omogeneità
ha il vantaggio di semplificare la costruzione del setting e di focalizzare il lavoro, ma rischia che i
partecipanti si rinforzino tra loro nelle modalità espressive (anche patologiche) che condividono.
L’eterogeneità, per converso, mette in scena la frammentarietà di diversità che rischiano a limite
di non comunicare, ma offre la preziosa risorsa di cambiamento costituita da modelli espressivi
differenziati a cui attingere.
Il livello più importante di omogeneità è, a mio parere, la compatibilità delle modalità di azione e
di espressione, che è la base della possibilità di immedesimazione tra i partecipanti (cioè, sono sufficientemente simili per danzare insieme). Per il resto, ritengo che l’eterogeneità sia una insostituibile potenzialità evolutiva: la Dmt-ER® si offre all’Io come «danza dell’altro».
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È possibile integrare la danzamovimentoterapia con altre forme di arti terapie per favorire
l'interdisciplinarità?
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Si, è anzi una pratica piuttosto abituale: con arte terapia, musicoterapia, psicodramma... Il vantaggio e il senso di questa interdisciplinarità risiede nel fatto che ciascun canale espressivo e ciascuna
pratica artistica permettono di raggiungere modalità diverse dell’organizzazione percettiva, espressiva e rappresentativa.
Le forme dell’integrazione dipendono dai programmi istituzionali, dalle inclinazioni di ciascun
individuo, dagli obiettivi etc. Insisto però sull’opzione metodologica di setting distinti, paralleli e
articolati: cacciare all’interno di un’ora e mezza di laboratorio un miscuglio sincretico di attività di
disegno, movimento, parole e chi più ne ha più ne metta non è integrazione, bensì l’improvvisazione di chi di solito non ha una formazione autenticamente professionale; l’esperienza che ne fanno i
partecipanti è spesso superficiale, confusa, saturante e frammentaria, tutt’altro che terapeutica, a
dispetto della pseudo-creatività di quei conduttori che considero dilettanti.
Quali sono le istituzioni che l'hanno maggiormente appoggiata nel suo lavoro?
Da ex dipendente pubblico, non posso non ricordare con gratitudine quei direttori di dipartimento
di salute mentale del catanese che, con lungimiranza, hanno incoraggiato la pratica della Dmt in
psichiatria, nelle tossicodipendenze, nella formazione relazionale degli operatori socio-sanitari, già
nei primissimi anni novanta, quando in Italia non esisteva ancora neanche un’associazione di professionisti della disciplina. Allo stesso modo apprezzo l’Università della Valle d’Aosta, presso la
quale da alcuni anni intervengo con la Dmt nella formazione degli psicologi. Con l’università di
Catania ho collaborato per alcune tesi e all’interno di esperienze pilota con i pazienti della Clinica
Psichiatrica, con l’Università di Roma Tor Vergata la nostra Scuola di Arti Terapie è stata convenzionata per molti anni.
Tantissime altre ASP, scuole di ogni ordine e grado, carceri, enti locali etc. hanno aperto le porte
in questi anni al lavoro mio, di miei allievi e di tanti colleghi e colleghe. Istituzioni strategiche per
il nostro lavoro sono inoltre le associazioni professionali: per la Dmt ARTE, di cui sono presidente, e APID, di cui sono uno dei tre soci fondatori.
Ma è l’arcipelago sterminato del privato sociale (associazioni di utenti, familiari, volontari, coope-
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razione…) che si è da sempre dimostrato il più sensibile alle nostre pratiche, forse perché, pur gio28
vani e accademicamente poco paludate, risultano piuttosto convincenti nell’incontrare direttamente
i bisogni della gente.
Quali sono secondo la sua esperienza individuale i tipi di disturbi psicologici che reagiscono
in modo più costruttivo alla danzamovimentoterapia e quelli che invece faticano maggiormente ad avere dei riscontri positivi?
La Dmt non a caso è nata in psichiatria, con gruppi di cosiddetti schizofrenici, e nei laboratori con
ragazzi che mostravano quelli che oggi definiremmo disturbi della condotta o da iperattività e deficit dell’attenzione. Aggiungerei la mia positiva esperienza nel campo dei disturbi del comportamento alimentare (per quanto ci sia da operare una fondamentale distinzione tra condizioni in cui
prevale la distorsione dell’immagine corporea e altre in cui è in primo piano il disturbo del controllo degli impulsi). In generale, la Dmt è efficacemente impiegata nelle più diverse forme di disabilità.
Fatta eccezione per l’acuzie depressiva endogena o per lo stato (ipo)maniacale del disturbo bipolare, condizioni nelle quali ritengo poco opportuno l’avvio di un lavoro con la Dmt, non ho in mente
particolari controindicazioni. La Dmt risulta invece inefficace (o addirittura cagiona disagio) quando è “imposta” a soggetti che non hanno voglia di provare o non hanno inclinazione alla danza come modalità espressiva; oppure quando (sembrerebbe ovvio, ma non lo è affatto) la Dmt è proposta secondo schemi rigidi, senza un consapevole e teoricamente fondato adattamento ai casi in questione.
Quanto è importante per promuovere nell'individuo il cambiamento la riscoperta delle proprie origini attraverso le danze etniche?
Per cambiare bisogna prima sapere ed essere ciò che si è. L’identità è innanzitutto il corpo vissuto,
e, come titolavamo un convegno alcuni anni fa, «il corpo naturale non esiste»: il corpo è un palinsesto culturale, e di una cultura la danza traduce e manifesta le movenze e le sfumature. Ecco che
le cosiddette “danze etniche” possono utilmente entrare nello strumentario della Dmt, per vivificare le matrici culturali che sono il terreno delle identità individuali e collettive. Più profondamente
però, trasversalmente a tanta danza etnica, sono le strutture ritmiche della danza a rivitalizzare il
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nucleo costitutivo dell’identità e a costituire il motore dell’evoluzione e del cambiamento. È questa
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in particolare la potenzialità dell’Expression Primitive.
Se le sono state mosse delle critiche durante questi anni da parte della comunità psicologica e
psichiatrica, quali sono?
È una comunità di cui faccio parte: infatti sono psichiatra e psicoterapeuta, lo ero già da prima di
occuparmi di Dmt. In effetti, però, la comunità che riconosco come tale è la comunità sociale, che
vive nelle micro-comunità locali. La distinzione non è pretestuosa: le professioni di aiuto, a rigore,
non sono in sé comunità, bensì funzioni al servizio della comunità sociale, che cura sé stessa e chi
ne fa parte. Non amo il corporativismo autoreferenziale, che mi sembra al servizio del potere e soffoca le potenzialità di servizio. Non a caso sono co-autore di un libro che si chiama “Psicoterapia
di comunità” (Franco Angeli 2010).
Tanti anni fa nel “giro” capitava che la Dmt fosse considerata alla stregua di attività di mero intrattenimento: «far fare quattro salti ai pazienti». Ogni tanto era vero, specie quando operatori non
adeguatamente formati chiamavano la loro attività danzaterapia. Sempre tanti anni fa, alcuni psichiatri americani sostenevano che la Dmt fosse dannosa perché “scatenava i pazienti”. Ogni tanto
era vero, specie quando personaggi non adeguatamente formati operavano senza la necessaria attenzione al contenimento; va detto però che, per taluni psichiatri, che ricordano con nostalgia i
“dementi tranquilli” dei vecchi manicomi, un paziente che recupera vigore e dice la sua “sta male”.
Due obiezioni più serie. La prima è relativa alla ricerca e alla valutazione di esito, che in Dmt è
ancora piuttosto esigua, data la giovane età della disciplina e la pressoché assoluta indisponibilità
di finanziamenti.
La seconda obiezione, recentissima, è mossa dagli psicologi (anche se non direttamente agli artiterapeuti). Con l’approvazione della legge 4 del 2013 anche le nostre professioni esistono legalmente, e per alcune discipline confinanti si adombra una potenziale “invasione di campo” nel settore
psicologico-clinico. Ho fiducia che le cose saranno presto chiarissime: le artiterapie non sono psicoterapie, operano promuovendo il processo creativo e sono utilizzate in ambito clinico solo all’interno di equipe multiprofessionali con qualificata componente medico-psicologica.
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Esistono dei dati in grado di dimostrare l'efficacia di una terapia di questo tipo?
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Le valutazioni di esito sull’efficacia della Dmt e delle altre arti terapie, come dicevo, sono piuttosto frammentarie. Accanto ad alcune ricerche effettuate impiegando test e questionari, la maggior
parte delle indagini sono improntate alla ricerca empirica, e documentano significativi effetti sulle
difficoltà relazionali e sulla sintomatologia psicopatologica. Si stanno sviluppando anche protocolli metodologicamente strutturati sul vertice intersoggettivo.
Al termine delle sedute di Dmt, durante la fase di verbalizzazione, quali sono per i partecipanti gli aspetti più importanti della seduta?
Anche qui, occorrerebbe specificare a quale target di utenza ci riferiamo. Nei gruppi con una preponderanza di cosiddetti psicotici, i partecipanti parlano spesso di generale benessere e piacere,
nonché di “mente libera dai cattivi pensieri”. In gruppi di normodotati o di “normali nevrotici”
viene più spesso rilevato un effetto di rilassamento e di scioglimento delle tensioni.
Ha solitamente la possibilità di verificare se, una volta conclusasi la terapia, le persone che vi
partecipano riescono a trasferire i cambiamenti apportati nel setting terapeutico anche al
loro contesto sociale allargato?
Si, questo è quasi scontato, direi anzi che ciò avviene praticamente da subito, già nelle prime sessioni. Ciò che si sviluppa con il procedere del trattamento è l’incremento della permanenza nel
tempo degli effetti prodotti dall’esperienza.
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Maria Teresa Mattioli Barbara Dragoni Vincenzo Bellia
LA DANZA COME TERAPIA DI COMUNITÀ:
IL LARGE GROUP DI DANZAMOVIMENTOTERAPIA
In questo contributo raccontiamo e commentiamo una recente esperienza di laboratorio di Danzamovimentoterapia (Dmt), da cui prendiamo spunto per avviare una riflessione sui dispositivi multipersonali nel lavoro clinico-sociale. L’esperienza a cui ci riferiamo si è svolta nel formato del large
group: un large group di cento persone, ben oltre la soglia minima dei 30 partecipanti. E qui c’è un
primo equivoco da fugare.
Nei “salotti buoni” della psichiatria psicodinamica, dove il piccolo gruppo terapeutico è oggetto di
benevola condiscendenza e parlare di gruppo mediano suscita già un certo imbarazzo, il gruppo
allargato è uno scenario considerato del tutto estraneo alla funzione clinica. Persino Kreeger
(1975), De Marè (1991), Ancona (1993, in Lo Verso e Federico) e altri che, in ambito gruppoanalitico, si sono occupati elettivamente e in modo approfondito della psicodinamica del large group,
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ne hanno per lo più limitato il campo di applicazione alla formazione.
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Eppure l’antropologia ci dimostra, con dovizia di esemplificazioni, che nella stragrande maggioranza delle civiltà, in tutte le epoche e a tutte le latitudini, le pratiche di cura tradizionali si svolgevano (e si svolgono) all’interno di dispositivi relazionali delle dimensioni del gruppo allargato –
dispositivi, cioè, a dimensione comunitaria.
Non abbiamo esperienza personale di grandi gruppi terapeutici a transazione verbale, ma ne abbiamo più d’una di gruppi allargati a mediazione corporea, nei quali la danza, il rituale, la funzione
catartica e la rappresentazione collettiva hanno con tutta evidenza veicolato la funzione terapeutica
che ci si proponeva di mettere in campo.
Nel sistema terapeutico occidentale contemporaneo la parola, l’insight, la relazione diadica o il
piccolo gruppo a dimensione familistica monopolizzano in modo esclusivo la funzione terapeutica;
ci domandiamo però se, in fondo, tutto ciò non sia che un portato della cultura borghese europea, e
se non sia possibile risvegliare, recuperare, o inventare, le potenzialità terapeutiche che risiedono
nell’azione corporea, nell’outsight, nella partecipazione sociale.
Danzamovimentoterapia risorsa per il territorio
Il 30 maggio 2013 si è svolta a Velletri, presso la palestra polivalente del centro sportivo, la seconda edizione della manifestazione “DanzaMovimentoTerapia risorsa per il territorio”, promossa dal
Dipartimento di Salute Mentale (DSM) della ASL RMH in collaborazione con l’Associazione per
la Ricerca nelle Terapie Espressive (ARTE) e con il patrocinio del Comune. Nella prima parte della mattinata si sono succeduti interventi di presentazione a carattere divulgativo della Danzamovimentoterapia, della sua storia e delle sue potenzialità applicative, nonché di racconto di diverse
esperienze di Dmt effettuate sul territorio nell’anno appena trascorso. La seconda parte della mattinata è stata invece dedicata all’esperienza pratica del laboratorio di Dmt in assetto di grande gruppo.
L’evento, aperto alla cittadinanza, ha avuto una notevole risonanza e ha visto la presenza di oltre
cento persone, in maggioranza studenti (fino a quel momento completamente ignari dell’esistenza
di questa disciplina), i loro amici, familiari e conoscenti. Tutti erano lì incuriositi, intenti ad ascoltare la novità, toccati dalle testimonianze di un cammino di cambiamento, di scoperta delle proprie
risorse, di accettazione di sé, di condivisione della propria esperienza con l’altro.
Il cuore della giornata è stato però il laboratorio, che ha avuto una particolarità assolutamente in-
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novativa: un grande gruppo condotto da un gruppo più piccolo, i cui componenti avevano effettuato nel corso dell’anno un percorso di danzaterapia. L’esperienza del large group, in effetti, si è
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svolta sul filo delle proposte provenienti da studenti di una classe di quarto liceo (che aveva frequentato settimanalmente i laboratori di Dmt) e dai “facilitatori” espressi dai Centri Diurni di Anzio e Velletri. Il laboratorio è stato così un grande gruppo, animato da un gruppo più piccolo, che
veicolava a sua volta la “memoria storica” di altri gruppi: risorse preziose e vitali che tornano, riaffiorano e si mescolano al nuovo.
Già durante l’organizzazione dell’evento si percepiva in modo quasi palpabile la volontà di un
“noi” che chiedeva di tornare a fare insieme «la danza delle tribù narranti» (vedi Dragoni e Mattioli 2013): una manifestazione che si auspica diventi la consuetudine di un incontro annuale di grande gruppo, per narrare l’esperienza a parole sì, ma più che mai attraverso il corpo. Un gruppo che
danza la propria storia attraversata da tante storie, in un crescendo di densità, dove l’azione è accompagnata dal canto e dal ritmo.
L’incontro di Danzamovimentoterapia
«La danza delle tribù narranti», un divenire di presenze, di accordi euritmici ricercati in movimento che, a detta dei più increduli e reticenti, “ti chiama a danzare insieme”; una danza corale che
viene da lontano e si esprime in tutta la sua essenza persuasiva.
1. Il rituale di apertura, costruito su una danza nata all’interno delle sedute settimanali con i gruppi, si è articolato su azioni dialoganti all’interno dei “villaggi”. La danza ha preso forma lungo un
percorso di più incontri, laddove il conduttore (testimone e allo stesso tempo “spazio corporeo ricettivo”) raccoglieva e trasformava le forme danzate, veicolando la “migrazione” della memoria
corporea tra le diverse “tribù” incontrate. Ogni incontro, ogni passaggio aggiunge sempre qualcosa; nella ripetizione la danza non è mai la stessa, muta e si vitalizza prendendo corpo. L’azione
evolve, un diverso accenno di energia raccoglie sfumature diverse di una presenza e la danza
echeggia, ritorna puntualmente da un gruppo all’altro trasformata… alla fine, tutto appare manifesto in poche azioni minimali, ripetute, stilizzate e condivise. Ecco nascere “la danza del mare”,
creata dai gruppi, un coro in movimento all’interno del quale fluttuare, scivolare, sentirsi per definirsi.
Il rituale offre la struttura di un contenitore coreutico: invita a incontrarsi in simboli incarnati, che
appartengono certo ai gruppi che li hanno evocati, ma al tempo stesso li oltrepassano. Il rituale è
un appello a prendere parte a una creativa ricerca di senso, nel piacere della trasformazione che
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produce il danzare. Scoperta la chiave di accesso al dialogo comune, ora il grande gruppo è dispo35
nibile all’esplorazione delle forme relazionali.
2. Lo sviluppo della sessione è imperniato su proposte di dialogo motorio. Il “gruppo conduttore” è
molto attivo, pronto a includere con il proprio movimento chi per la prima volta prende parte alla
narrazione danzata, perché possa sentirsi non straniero, bensì parte del villaggio. All’inizio di ogni
proposta si realizza un peculiare gioco di spazializzazione, laddove la preponderante densità energetica del centro (occupato dal “gruppo conduttore”) attira per mezzo delle consegne motorie il
dinamismo della “zona periferica”, che attende di essere chiamata in gioco.
Le forme in trasformazione dal centro si diffondono in periferia, come ad anelli concentrici, chiamando e attirando come un’esca coloro che sono in ascolto, pronti a rispondere come un vento
nuovo alla danza. Lo stupore nasce dal cogliere in questa festa corale la disponibilità e la fiducia di
molti a lasciarsi portare in un itinerario totalmente nuovo da coloro che con convinzione sono lì
per raccontarsi, pronti a muoversi e a sentirsi mossi dal fluire della forza significatrice delle azioni,
che vanno accordandosi spontaneamente.
L’entusiasmo non lascia spazio al caos, la rispettosa delicatezza della novità si apre subitanea, discreta, in forme corporee in trasformazione, emanando il calore spontaneo di movimenti che materializzano l’anima del villaggio in festa. Calore e colore: la policromia dei veli di tulle rende visibile il gioco dialogico dei “clan” all’interno del gruppo allargato.
3. La conclusione della sessione è anch’essa una danza, scelta tra tante dal gruppo conduttore, che
porta più di tutte la memoria storica dei gruppi, la danza che, per la sua ciclicità, si configura come
momento di riappropriazione dell’autonomia dell’io, percepito e definito, nascente dal senso di
appartenenza al gruppo/tribù, orientato all’esistenza, proteso verso l’orizzonte futuro, e allo stesso
tempo connesso con ciò che è stato. La «danza dei quattro venti», un passato che si rinnova nella
ripetizione-appropriazione della danza, ricongiungendo e contenendo il vissuto emozionale che si
manifesta nello stupore della bellezza, scoperta lungo il percorso di un cammino inedito, raccontato da movimenti conosciuti da tanto e che riappaiono al corpo fluidi, in un ordine risvegliato dal
ritmo della danza che chiama alla presenza il nuovo che arriva.
L’evoluzione del gruppo
L’evento del 30 maggio è il frutto di un progetto di gruppo per un grande gruppo, è nato dalla
messa a punto di una metodologia ben precisa, che ha coinvolto conduttori e facilitatori all’interno
di un viaggio fatto di ascolto e dialogo, nel divenire di una pluralità di danze nascenti che si evolve
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prendendo direzioni e forme inaspettate.
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Il gruppo di Dmt (sperimentato al Centro Diurno, o al Centro di Salute Mentale, o a scuola) rappresenta il punto di riferimento importante dal quale partire, crescere, svilupparsi, per proiettarsi quindi l’agire verso l’esterno. All’inizio del percorso l’attenzione dei partecipanti è fondamentalmente
rivolta all’interno: il gruppo rappresenta lo spazio protetto in cui incontrarsi per iniziare un cammino, aprendosi al confronto con l’altro, ed esprimendo le proprie emozioni attraverso la mediazione
artistica, nello scambio e nella scoperta reciproca.
Il gruppo, in quanto contesto protetto, facilita lo sviluppo psico-emotivo dell’individuo, lo rende
permeabile alla relazione, in grado di prendersi cura di sé e dell’altro. Ecco che si sperimenta il
senso della reciprocità, l’”io sento che tu senti”. Il gruppo di Dmt, attraversando la dimensione corporea, mette in opera un gioco di possibilità incarnate, forte della funzione attivante, in grado di
produrre e sostenere energia vitale nella relazione, sviluppando e consolidando così nelle persone
che ne fanno parte senso di affermazione, efficienza, funzionalità e autostima.
Individui e gruppi sono così sollecitati ad aprirsi all’esterno, ad articolarsi con la comunità sociale.
Chi, partecipando al gruppo di Dmt, è stato utente di un servizio, nel diventare “facilitatore” restituisce qualcosa alla comunità, divenendone risorsa, e ricevendone ulteriormente un rinforzo sul
piano del ruolo sociale… L’esperienza del gruppo dei facilitatori, portata sul territorio, diventa patrimonio della comunità, modifica gli argini istituzionali, in un’ottica di inclusione in cui si apprezza più il senso della comunanza che quello della distinzione.
Dalle restituzioni verbali che sono state date nel tempo dai facilitatori emerge quanto per essi sia
stato importante riportare l’esperienza arricchita al “campo base” (il gruppo dal quale sono partiti),
tornare a riflettere su di sé e a condividere le proprie emozioni e scoperte. Il gruppo di appartenenza rappresenta la «base sicura» per prendere coscienza creativamente e costruttivamente del proprio mondo interiore, elemento vitale dove attingere nuove forze ed energie per proiettarsi verso
«l’avventura amorosa con il mondo», come dice Derek Walcott, poeta caraibico anglofono che ha
ricevuto il Premio Nobel nel 1992.
Un po’ di coreo-tecnologia… il large group di Dmt
In Psicologia delle masse e analisi dell’Io Freud aveva già evidenziato come nei contesti multipersonali più allargati avesse luogo un’esperienza di esaltazione degli affetti e di inibizione del pensiero, di uscita degli individui dal reciproco isolamento e di confluenza in un legame a carattere libidi-
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co, basato secondo Freud sull’identificazione con il capo, equivalente simbolico paterno.
Leonardo Ancona (1993, op. cit.), in riferimento al large group gruppoanalitico, mette in evidenza
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l’oscillazione tra il percepirsi ora come membro individuale, ora come «individuo collettivizzato».
Il grande gruppo gruppoanalitico è uno spazio di regressione virtuosa e di emozioni arcaiche, dominato dal registro transpersonale: si è in troppi per essere reciprocamente coscienti come individui “a tu per tu”, la circolazione emotiva è intensa e poco differenziata. I processi slittano dalla
dimensione logico-simbolica a quella imitativa; nell’identità di gruppo si rischia di smarrire i confini individuali. Il mito psicoanalitico del padre domina anche il testo di Ancona, che ascrive alle
peculiarità psicodinamiche del large group l’aggressione al conduttore e la «morte del capo».
Già molti anni or sono (Bellia 1995), però, osservavamo come tutta la suddetta fenomenologia sia
ampiamente co-determinata da altre caratteristiche del dispositivo, oltre che da quella dimensionale, in primo luogo dalle dominanti modalità di interazione e dalla peculiare disposizione spaziale.
Non a caso il large group di Kreeger, di Ancona o della Von Platen è sì un gruppo verbale, ma sul
cui processo grande influenza è esercitata dalla disposizione a cerchi concentrici e dalla collocazione “mandalica” degli osservatori ai quattro angoli, all’esterno dei cerchi.
Quando però è l’azione simbolica la modalità interattiva privilegiata, e il linguaggio del gruppo è
la danza, le cose cambiano. Il gruppo allargato incarna allora la coralità della dimensione comunitaria; le tradizionali forme coreografiche delle danze folcloriche celebrano e armonizzano aspetti
diversi del vivere sociale: il rapporto soggetto-comunità (danze responsoriali), l’inclusione degli
stranieri (danze in molteplici cerchi concentrici), la regolazione della dinamica coppie-gruppo, la
ritualizzazione dei conflitti, l’aggregazione comunitaria… L’atavica tradizione coreutica di mille
culture ha trasfigurato il corpo sociale in un caleidoscopio di forme dinamiche: il labirinto, la spirale, la girandola, il serpente, il tunnel, il cerchio e la croce, il quadrato e il mandala, la ruota.
La Dmt, specie quando opera nel formato del gruppo allargato, attinge a questo patrimonio coreografico dal valore incalcolabile: il “gioco della foresta”, ad esempio, ripropone lo spazio archetipico del labirinto, le danze dei punti cardinali rimettono in scena le ciclicità, il cerchio ritmico e il
tunnel ripropongono e rendono disponibile lo spazio transizionale del rito di passaggio.
Una solida teoria della prassi del lavoro con i grandi gruppi è argomento al quale dedicare ben altri
approfondimenti. In questa sede possiamo però almeno menzionarne alcuni elementi: a) conduzione improntata a direttività del setting (rituale) e astinenza dal personalismo carismatico; b) utilità
di uno staff allargato (un gruppo catalizza e conduce un gruppo più grande); c) fondazione trans-
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personale dell’esperienza; d) dimestichezza con i codici rituali della danza; e) evidenza della trama ritmica; f) e cogliere tempestivamente e ritualizzare le risonanze emozionali più primitive (ad
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esempio, quelle riconducibili agli assunti di base di dipendenza, accoppiamento, attacco-fuga).
Tutto ciò può essere sviluppato, certo, sul terreno della teoria della prassi; soprattutto, però, va
esplorato sull’onda del piacere di danzare e della curiosità di immischiarsi con la gente, di farsi gli
affari degli altri, disobbedendo al diktat borghese dell’intimismo, che rischia di sottrarre alla funzione curante l’ampio respiro e il potenziale di nutrimento e di scambio che solo la comunità umana allargata può offrire.
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Armando Gnisci
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Opera al nero. E luce
Una lezione transculturale nella Casa-Laboratorio dell’Arteterapia, il 24 novembre del 2012
Buongiorno per tutti noi,
non vi ho proposto un argomento accademico e disciplinare, o interdisciplinare, del tipo: La letteratura mondiale oggi, o Campo umanistico transculturale & Arterapia et similia, ma un menù di diversi passaggi attuali della mia vita&poetica che tiene, o cerca di tenere, in unum – come dice l’antico maestro di precisione, Orazio – tutti i piatti che volano. Questa poetica mia attuale avviene ora,
dopo quaranta anni di regime accademico – 1970-2010 – nei quali ho portato a termine un processo
intra ed extrapsichico che solo pochi giorni fa ho visto come una costellazione disegnata da una
figura di fumo nel buio – riusando un’immagine onirica narrata da Kafka sognatore – e l’ho chiamata, come fa Orazio. Ecco l’immagine e la sua decisione linguistica: ho lavorato per quaranta anni a trasformare l’insegnamento di una disciplina universitaria nella mia poetica personale.
Potrei parlarvi di questo argomento, se volete, ma decidiamolo tra poco. Avevo pensato prima di
proporvi un’altra modalità tematica del nostro incontro di oggi: sentite come lo avevo composto,
come un pezzo jazz al pianoforte:
Voi vi muovete molto a scuola, si potrebbe pensare che un letterato operi da seduto a seduti, quando insegna o fa una conferenza. La novità del nostro tempo, che va oltre il potere della parola per i
prof, visto che anche gli umanisti oggi usano il power point. Secondo me questo dispositivo informatico toglie senso e relazione, tempo e flusso, sagacia e improvvisazione, previsione e conclusioni inconclusive al parlare discorrendo. Roland Barthes ha scritto, nel suo libro una volta famoso,
del 1977, in Francia, Frammenti di un discorso amoroso, che la parola latina discursus deriva da
un’immagine co-verbale: dis/&/cursus, correre qua e là, in avanti e indietro, a fianco e dopo invece
che prima e avanti, ma imprevedibilmente. Discorso, che può essere irruente e delicato, in unum,
ecco che cosa significa dire «discorso e basta», con qualche libro davanti per citare con precisione
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e fedeltà e qualche appunto e basta, come in una aula greca antica o medioevale o moderna.
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Ora sto leggendo a fatica da uno scritto, come se leggessi in un convegno universitario. Lo vedete.
In verità si tratta della condizione opposta alla lettura di una scrittura in forma di paper, come dicono gli anglo americani. Si tratta, cioè, di una forma di difesa corporea verso la recente mia defaglianza del dire in pubblico con pochissimi appunti scritti, spesso dimenticati e/o non rispettati,
come quando facevo lezione all’università. Ora dimentico tutto via via e intensamente e se non
leggo non so come andare avanti; al contempo, se leggo mi perdo nel dire sgangherato della lettura
senza aria e ritmo, pause e parole dette per bene, come in una poesia o in una sonata di Schubert.
In verità io mi muovo molto ogni giorno e di notte sogno: moto e sogno che avvengono nello star
fermo o in pochissimi passi, che metto. Si tratta di quella sinfonia verbale e muta che Montaigne
presenta come economia precisa dei passaggi.
Vi propongo un patto, di incontrarci ogni anno, anche più di una volta, per comunicarvi i passi
avanti e imprevedibili che ho accumulato nel tempo di alcuni mesi, come faccio ogni anno ad un
master dell’università Ca’ Foscari di Venezia, dove ho insegnato per due anni Letterature extra
europee. Chiamiamolo «Seminario transculturale in progresso» e parallelo, a Venezia vado a chiudere l’anno accademico all’inizio di dicembre.
La transculturazione è la parola chiave che apre alla confluenza dell’opera vostra e nostra, così come accade anche nella nostra «Rivista dell’Arte»: un luogo in comune, raccolti in uno scialle dove
stare insieme è sufficiente, come scrive il poeta W.S.
Per tre decenni ho lavorato a trasformare l’insegnamento di una disciplina accademica – per me, la
Letteratura Comparata nell’università italiana, in un Dipartimento di Italianistica della università
Sapienza, la romana più antica – in una poetica personale. A doppia faccia, come una moneta, o un
sasso. Per me questa impresa ha significato, da una parte, un’opera alchemica faticosa ma radiosa
e potente, nonostante tutto, e dall’altra un’opera al nero, dentro la spirale di una nevrosi instancabile e ciclica, per 40 anni, dal 1970 al 2010, in una spirale oscillante tra operosità e resistenza.
Queste due facce formano una doppia stella in unum che si può immaginare nella visione di una
porta aperta sull’orizzonte del mondo intero e sull’umano delle persone. Solo ora posso, infine,
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pensare tutto questo fardello e interpretarlo, senza che nulla sia intanto finito, a cominciare dalla
mia presenza in vita. Ho trasformato la mia disciplina accademica in una poetica della mia capacità
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di conoscenza, co-evolvendomi con la conoscenza e con la condotta umana nell’incontro tra tutte
le civiltà degli ultimi 10.000 anni, specialmente in Europa e nel Mediterraneo. Credo che questa
impresa appartenga a quel disegno storico planetario che Édouard Glissant ha chiamato ToutMonde.
Una poetica – o po-etica, come scrive il mio amico Iain Chambers – è una forma vitale e transculturale molto diversa da una disciplina accademica, naturalmente. Essa, appunto, contiene un’etica,
esplicita addirittura, se la si guardi di sguincio, una politica, e una miscela di filìa poesia e pratica
dell’insegnare, e altro ancora.
Nel 1990, dando vita con i miei allievi-studenti alla rivista «I Quaderni di Gaia», definii la disciplina comparatistica come una ricerca transdisciplinare; nel 1992 cominciai a trasformarla in una
azione transculturale. Sono arrivato a proporla esplicitamente e pienamente così a maggio del
2011, con il «manifesto transculturale» che chiamai, tra noi [1] «mantrans», o transman, sfruttando
una espressione di Salman Rushdie per definire il protagonista del suo romanzo Fury del 2001.
Gli alchimisti affermano che l’opera al nero dura 40 giorni, la quarantena. Per me è durata 40 anni, dal 1970 al 2010, la trancia di vita maggioritaria e schiacciante, visto che scrivo ora nel 2012 e
quel che resta resta nel ricordo della mia infanzia e giovinezza. Sono nato nel 1946, infatti, e quindi nel 2012 ho 66 anni; non credo che arriverò a vivere ancora per una quarantana. La fine annunciata della quarantena è il prodotto e l’inizio di una liberazione, incipiente, quindi, e inconclusa.
L’opera al nero ha colorato col nero la parte adulta della mia vita. Gli alchimisti avvertono anche
che l’opera al nero non è la via maledetta che porta nel caos ultranero della disperazione al mondo,
ma che sia la strada che bisogna percorrere fino all’ultima linea delle cose, se si vuole trasformare
la materia plumbea della Nigredo in tutta la sua estensione fino all’estinzione, e trovare l’Albedo,
ma non per la via dell’Albedo, l’opera al bianco. La palude oscura e ghiacciata della mortificazione apre il passaggio ad una forma di rinascenza. Sono certo che qualcuno di voi vorrebbe chiedermi di spiegare come si possa definire una «poetica personale» e che cosa voglia dire l’allegoria alchemica dell’opera al nero.
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Potrei rispondere dicendo: è troppo banale o insignificante definirla come «la ricerca del senso
della propria vita»? una ricerca che, come dice Platone nella Lettera VII, «una vita pensata» come
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la vita degna di essere vissuta?
Sono sempre me, e ci sto pensando. Innanzitutto l’incipit della definizione di «ricerca del senso
della propria vita» dovrebbe dimostrare come il concetto «il senso di una vita» non è né una conquista né una risposta decisiva e stabilizzata. Al contrario, questo concetto, che sembra basilare e
finale, come una filosofia perenne e stabile, è un cammino che si batte e conosce solo camminando, e quindi mentre cammini e ricerchi, come dice un poeta del Novecento spagnolo, Antonio Machado: «Viandante, il cammino si fa camminando». Inoltre, la stabilizzazione non sembra essere
una categoria psichica che io conosca, culturalmente (Platone e i filosofi,) e esistenzialmente (il
profilo esistenziale e personale di una vita) come se io fossi una persona informata sui fatti della
stabilizzazione. Chi compone una riflessione sul cammino che ha fatto, camminando, conosce solo
passaggi, dice Montaigne.
Ascoltiamo questo maestro mio della modernità, che non parla più di una verità filosofica, platonica o di altri, ma di un saggiare: «Il mondo non è che una continua altalena. Tutte le cose vacillano
senza posa. La stessa costanza non è altro che un movimento più debole. Io non posso fissare il
mio oggetto. Esso procede incerto e vacillante, per una sua naturale ebbrezza. Io lo prendo proprio
in questo punto [2], nel punto e nel momento in cui è come è, e proprio nell’istante in cui io lo
prendo in considerazione. Io non penso l’essere, io penso il passaggio: non un passaggio da una
età ad un’altra, o, come sostiene una credenza popolare, di sette in sette anni [secondo questa credenza il corpo umano si rinnoverebbe in segmenti settennali di vita, nota mia], ma di giorno in
giorno, di minuto in minuto. Devo adattare la mia attenzione al suo incedere. […] Se la mia anima
potesse prendere piede e stabilizzarsi, io non mi saggerei ma mi risolverei [corsivo mio]. Essa, la
mia anima, è continuamente in apprendistato e sotto prova. Io espongo e descrivo una vita umile e
senza splendore, che è un tutt’uno. [Orazio avrebbe scritto «in unum»] […] e ogni uomo porta con
sé la forma intera della condizione umana» (Libro III, Capitolo II, “Del Pentirsi”).
Potremmo stare insieme ancora qualche ora a commentare questo passaggio di Montaigne, che ha
rinunciato a pensare con Platone per pensare con l’umanista Petrarca: il vacillare, il movimento e
il punto, che sembra appartenere alla fisica dei quanti sentimentali, con il coinvolgimento necessario dell’osservatore. Comunque, la coevoluzione tra punto e passaggio e del passaggio attraverso
punti [3] puntuali, ha fatto del mio cammino tempestoso e stemperato una forma pratica del tem-
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perare e curare. Una via che sembra coincidere con quella maestra del «Processo di individuazione», la colonna vertebrale della psicoanalisi di C. G. Jung.
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La migliore definizione di questo concetto centrale del pensiero-azione di Jung, l’ho trovata estrapolandola dal “Glossario” di Aniela Jaffé, curatrice del volume di Ricordi, Sogni, Riflessioni di
Jung [4]: «Individuazione significa diventare un essere singolo e, intendendo noi per individualità
la nostra più intima, incomparabile e singolare peculiarità, diventare noi stessi, realizzare il proprio
Selbst (Sé)» (1938). E «Vedo continuamente che il processo di individuazione viene confuso con
la presa di coscienza dell’io, e in questo modo l’io viene identificato col Sé, ciò che naturalmente
provoca una disastrosa confusione di concetti. Poiché in tal modo l’individuazione diventa null’altro che egocentrismo e autoerotismo. Ma il Sé comprende infinitamente di più che il semplice io…
Esso è tanto l’uno o gli altri che io. L’individuazione non esclude il mondo, ma lo include» (1954).
Torniamo alla poetica.
Poetica è il calco italiano della parola del greco antico poiesis, che significa creare facendo, o anche, rovesciando il combinato, facendo&creare. La «poetica personale» descrive l’impadronirsi
della propria persona attraverso il pensare per passaggi e assaggi se stessi attenti alle cose e al loro
sciuparsi o salvarsi. Si tratta di una distruzione-costruzione che si riforma instancabilmente per
poter dare senso alla composizione della strada – dal latino stratum, fabbricazione viaria di pietra
su sentieri preesistenti di terra o di pietre su una terra senza tracce precedenti – che si fa via trovando noi stradari costantemente al lavoro e al cammino fatto fino ad ora. Ma non senza un senso,
che è quello del destino – nel significato spagnolo di questa parola, che vale i nostri «capolinea» e
«mèta terminale del mio andando per arrivare», il ticket della destinazione. E mirando non alla
metafisica o ai valori ultimi ecc., ma alla Porta sull’Orizzonte dell’avvenire che ci viene incontro
avventurandosi verso di noi incessantemente, dal futuro. Andando verso la Porta rischiamo spesso
di rimanere travolti e scarnificati, come i cadaveri esposti all’aria e alla potenza degli uccelli mortuari, e da scarnificati poi inumati, nel nostro alto neolitico. Dobbiamo costruire le strade componendo il senso del nostro personale e comune coesistere con il mondo, andando di fronte al venire
avanti del futuro, fino all’ultima linea delle cose, la morte (Mors ultima linea rerum, scrive Orazio
nell’Epistola 16) e al suo predisponibile ma ignoto oltre. L’opera al nero questo ci mostra: che
l’operazione che attraversa la Nigredo e quindi la morte, diventa Albedo nel passaggio della Porta
più lontana, luce nell’altrove. Sono sempre più convinto che la figura allegorica finale dell’Albedo
non prefiguri l’oro o la pietra filosofale degli alchimisti professionisti e di quelli solo spirituali, al
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posto dell’oro ultimo, c’è la porta, la scala e la via della trasformazione che migliora il vivere. E
proprio il «miglioramento della vita» è ciò che afferma Montaigne quando proclama e invita a vi46
vere à propos, e cioè, per bene. Ascoltiamo ancora il Maestro: «Noi siamo dei gran pazzi: Qualcuno si pente di aver vissuto nell’ozio: -Ho passato tutta la mia vita nell’ozio- e -Non ho fatto niente
oggi.- E come? Non avete vissuto, forse? È non solo la vostra occupazione fondamentale, ma la
più insigne […]». Il saggiatore prosegue, nella stessa pagina del capitolo XIII “Dell’esperienza”
del Libro III, a definire la nostra condizione umana in buona salute: «Comporre i nostri costumi è
il nostro compito, non comporre libri, e prendere riposo vale molto di più che vincere imperi o mura fortificate di città. Il più glorioso capolavoro dell’uomo è vivere bene [à propos]». E più giù, ci
ricorda che perfino «Socrate, già vecchio, trovi il tempo di farsi insegnare a ballare e a suonare, e
consideri questa scelta un miglioramento di vita, un passaggio ben speso della propria esistenza».
Il saggiatore chiude il capitolo e in unum il suo glorioso libro con due formidabili massime sue: «È
una perfezione assoluta e quasi divina sapersi giovare e gioire lealmente del nostro essere umani».
E poi: «E anche nel più altro trono del mondo non siamo seduti che sul nostro culo». Egli chiude il
libro dei Saggi citando quattro versi di Orazio, nostro comune [di Montaigne e mio] maestro antico, presi dall’Ode XXXI, dedicata al dio Apollo, del Libro I, vv. 17-20:
Concedimi dunque, Apollo, che in buona salute
possa godere di ciò che ho,
e con mente lucida, e non avere una turpe vecchiaia
e non rinunciare a toccare la cetra [5].
La faccenda della mia opera al nero che è durata 40 anni – dal 1970 al 2010 – ha un storia pregressa, naturalmente. Nel 1969 passai un anno luminoso, riscrivendo la mia tesi di laurea, discussa a
novembre del 1968, che il mio maestro di Estetica, Emilio Garroni, mi fece riscrivere e pubblicare
in un libro, che fu pubblicato nel 1970 e che fu il primo di una serie molto lunga, e quindi disobbedendo alla saggezza di Montaigne. Lo intitolai, d’accordo con lui, Scrittura e struttura. L’altra faccia del 1969 fu la più oscura e insopportabile, anche se decisiva della mia vita: il lutto della morte
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la rivistadell’Arte
di mio padre, l’inizio della emigrazione da una patria (Martina Franca, in Puglia) senza più una
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casa, e l’inizio, risalente all’autunno del 1968, del «male oscuro», la depressione bipolare.
Nella riscrittura della tesi per trasformarla in libro – anche essa una opera alchemica, ma al bianco
– conservai una sola traccia della spessa falda esoterica del lavoro finale del cursus universitario,
che Garroni aveva digerito perché graziosa, ancorché inutile e opaca. Si tratta di una formula alchemica sapienziale e operativa in unum, come sempre accade nell’opera attiva e descrittiva
dell’alchimia, che proprio Jung ha a lungo studiato. Non ricordo da dove presi quel motto che tanto mi aveva impressionato: «Obscurum per obscurius». Più tardi scoprii che esso era completato
da un’altro pezzo allegorico e rinforzativo «ignotum per ignotius». Il detto latino, solo ora l’ho
scoperto, definiva oscuramente quella che viene chiamata l’opera al nero, che è anche il titolo di
un bellissimo romanzo di Marguerite Yourcenar, che lessi dopo quegli anni antichi del mio Sé, che
devo ancora ritornare a leggere sotto la luce della mia attuale poetica del 2012. Infatti, solo ora ho
messo insieme il significato e la portata della mia opera al nero, durata 40 anni. Visto che vado
riconnettendo solo ora questa portata del mio quarantennio con il fascino e il senso della «via
oscura attraverso la selva più oscura», per poter guadagnare luce. Ho pensato che questo mio lavoro a partire dal dopo-post quarantennale può essere definito ora come una «ermeneutica del conscio» che mette insieme e connette, da parte e del paziente e del terapeuta, la fascia opaca dei pezzi di revisione e le insight, i sogni e le loro interpretazioni analitiche che sondano e invocano l’inconscio che diventa Sé attraverso la terapia. Su questo punto tornerò più in là. Misi a pagina 111
del libro il detto alchemico, come exergo all’ultimo capitolo, “Ingrandimenti”. Trattava dell’adattamento di un racconto di Julio Cortázar – uno scrittore argentino abbastanza ignoto in Italia allora, e del resto, ignoto era anche a quell’epoca l’altro scrittore argentino Jorge Luis Borges, al quale
dedicai il primo dei saggi della libro post-tesi. L’adattamento del racconto “La bava del diavolo”,
era quello praticato in maniera libera da Michelangelo Antonioni nel film Blow up del 1966. Non
sapevo perché quella frase enigmatica mi fosse così piaciuta, ho pensato spesso, nei mie ritorni-inmente, che l’operazione di ingrandimenti e apprendimenti fotografici descritta sia da Cortázar che
da Antonioni trovasse il suo cartiglio esoterico nel motto alchemico. Ma era poco per me, già allora. Se il motto appariva giustamente connesso ermeneuticamente, anche se potentemente ermetico,
nell’incontro tra i 3 testi, alchemico, narrativo e cinematografico, al fine di farli colloquiare e comprendere insieme, continuavo a interrogarmi sul senso propriamente esoterico che restò per me
duramente enigmatico, per tutta questa lunga serie di anni.
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Ora, nella vecchiaia, quando le cose della mia vita stanno finalmente mandando luci alle cose, dal
futuro verso il passato e viceversa, comincio a capire. Quella frase ora mi è un po’ più chiara. Pos48
so dire ora che fu un’autoprofezia inconscia, anche se patente nella mia scrittura e addirittura
stampata, che dichiarava che da allora in poi, che è fino ad ora, ed ora, il senso della mia vita sarebbe stato un cammino dell’opera al nero. 40 anni al nero, da impazzire e scassare il cuore. Furono anni che portarono dolore estremo, ma anche l’ottenimento di due svolte e di due risultati. Il
primo – ora so che fu così, dopo 40 anni, e non allora – fu una lunghissima coltura che produsse
un frutto potente e difficile, spinoso e contraddittorio. Quello di mettermi a trasformare la disciplina che avrei intrapreso a studiare e insegnare a partire dal 1983, la Letteratura comparata, iniettandola nelle arterie dell’organismo del senso che ricostruiva la mia esistenza. Fu la via che aprii a
me stesso, feroce e luminosa, anche se un po’ opaca, anzi, opaca a metà, e a metà lucifera. Con la
tenerezza, che ora sento per me stesso, e che netta e risana come può la rabbia oscura, stratificata e
vitale per 40 anni. Fu una forma di resistenza e di coevoluzione. Trasformai la pratica della mia
disciplina universitaria – così aperta alla civiltà europea e alla mondialità che si esprimeva per me
attraverso un interesse e una relazione per tutte le letterature e in special modo, in una seconda
svolta, per quelle migranti. Quella via è diventata, a mia insaputa, una vitale poetica transculturale.
Formula e passaggio che sembrano esotici e un po’ opachi, ma che cercherò di presentare e descrivere più in là. Aggiungo che ho trovato, in questi mesi dopo la resistenza quarantennale che si va
liberando, l’associazione di un verso di Lucrezio che amo molto e che compone, insieme ad altri,
un tesoretto ben sfruttato e tuttavia ancora aperto alla vitalità: «…ita res accendent lumina rebus» (Libro I, v. 1117 del De rerum natura). Questo metodo delle cose-luci che si associano nel
Sé si è trasformato man mano, finalmente e imprevedibilmente, in una definizione personale della
pratica della Letteratura Comparata, che da ora chiamerò solo con le lettere iniziali, LC [6]. L’immagine delle «luci e cose» di Lucrezio, mi è apparsa, per associazione e allo stesso tempo, come
una metafora della terapia analitica. Se e quando arriviamo a pensare l’immagine lucifera addirittura come un riassunto epico del mutuo lavoro analitico. Essa, infatti, che cosa fa se non mettere
in opera una pratica luminaria che si muove a partire dal futuro per schiarire il corso delle cose
del passato a contropelo? E mettendo in scena, in quel punto della presenza, la liberazione di lasciti del patrimonio rimosso dell’inconscio e la loro trasformazione nel presente che favorisce incessantemente una mutua ermeneutica del conscio, sia per il paziente sia per il terapeuta, uniti
nell’agenda della liberazione.
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Perché questa coltivazione fu al nero? Credo perché fare questa trasformazione, scandalosa, mi
salvò dalla follia della precarietà personale e sociale prima e dell’infamia dell’accademia universi49
taria italiana, che presi anche a combattere, con risultati catastrofici per me, chiuso dentro quella
che era una trappola altrettanto infame. E perché scandalosa? Perché nessun professore universitario procede in carriera attraverso la disciplinafagia, per poter diventare un saggio chirurgo, ma battendo la via canonica della «carriera» per farsi riconoscere come gregario abitante di una vita e un
pensiero chirurgico, schiacciato nella pressa dell’alienazione.
Dicono certi studiosi dell’alchimia simbolica che l’opera al nero duri 40 giorni, come la quarantena e come il tempo che Gesù passò nel deserto. Io ho messo molto più tempo, 40 anni di una vita e
non sono malato di peste e nemmeno cristiano. 40 anni, dalla data del primo libro alle dimissioni
dall’università valide dal novembre del 2010.
Questa quarantana – passaggio-fase di 40 anni – dovrebbe bastare tuttavia per arrivare al «paese
più vicino», come in un raccontino enigmatico di Joseph Kafka, che ho riletto per più di 40 anni e
che ho commentato spesso e per successivi passaggi ermeneutici. L’ho sempre messo insieme a
due altre parabole del mio maestro del Novecento, “Il messaggio dell’imperatore” e “Davanti alla
Legge”. Ma poi le ho abbandonate nell’inconscio, insieme tra loro e con una pezzo dolente di me.
Una costellazione mai morta del mio cammino. Il primo saggio del libro Scrittura e struttura fu
dedicato a Il Processo. Ma torniamo al racconto breve di Kafka; si intitola “Il prossimo villaggio” (o “Il paese più vicino”, l’originale tedesco abilita questi diversi titoli, in diverse traduzioni
italiane colte, che dicono la stessa cosa “Das nächste Dorf”): «Mio nonno soleva dire: “La vita è
straordinariamente corta. Nel mio ricordo essa si restringe a tale brevità, che io per esempio non
comprendo come un giovane possa decidersi a cavalcare fino al vicino villaggio senza temere che
– a parte qualsiasi disgraziato accidente – il tempo di una vita comune felicemente scorrente sia
infinitamente troppo breve per una simile cavalcata”».
Pensavo fino ad ora che il nodo enigmatico della irraggiungibilità del villaggio-paese [Dorf] nello
spazio di tempo di una vita intera per un giovane cavaliere, fosse un mistero durissimo da martellare ermeneuticamente ogni tanto per farlo divenire col tempo meno duro, almeno. A lungo ho pensato che il paese più vicino di ogni altro, e non «più vicino» in assoluto, fosse una metafora simbolica e abissale del cimitero fuori le mura del paese. Ma questa quasi banale spiegazione non si adeguava al dettato del breve racconto perché al giovane cavaliere non bastava nemmeno una vita intera per la sua cavalcata. Una vita intera non bastava, aveva pensato e detto il nonno.
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Sono diventato nonno nel 2011, racconterò tra qualche anno al mio nipote questa misteriosa parabola, spiegandogli anche che questo raccontino rompicapo è narrato da un nonno, che come tutti i
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nonni non ricorda le cose per bene: scambia un racconto con un altro, i giorni e gli anni, il passato
remoto e il sogno di stanotte, ha paura di morire prima che qualcuno, di molto aspettato, ritorni da
lui, se mai ritornerà ecc. I nonni sono così, a volta dicono cose apparentemente affascinanti che
sono solo memoria imbrogliata, balle e balordi.
Franz Kafka ebbe nonni, come tutti i nati, ma non diventò né padre né nonno, e il suo racconto è
rimasto per aria, nell’aria dei falsi ricordi dei nonni. Così come accade in un altro suo racconto,
che forse somiglia a questo, “Il cavaliere del secchio”. E se pensate che non ci si può fidare molto
di me e della mia memoria che somiglia a una poltrona di vimini rotti, e che voi stessi non possiate
più vedermi per mia scomparsa o vostra impossibilità, nel prossimo anno, non vi resta che leggere
o rileggere questi racconti dei quali vi ho parlato, obscurum per obscurius. Resta da dire che ora
so che il segreto del mistero di quel raccontino di Kafka discendeva forse dalla mia paura di morire prima di essermi sanato. Prima di sapere che il mio viaggio fino al paese più vicino sarebbe/è
durato 40 anni. Subito dopo la dimissione dall’università, il 1 novembre del 2010, il 27 gennaio
del 2011, a Londra, divenni nonno. Un nonno sa cosa combinano i nonni come lui con la memoria
e sa anche che un racconto dice sempre qualcosa di nuovo e qualcosa di personale a ogni lettore,
anzi, che certe volte sembra scritto proprio per colloquiare con ognuno dei lettori e portare a ognuno tra loro un messaggio tutto per te. Proprio come quel uomo che aspetta da anni alla finestra il
messaggero che porta il messaggio che l’imperatore ha mandato solo a te, o il contadino che aspetta per anni davanti al portone della Legge che il guardiano lo faccia passare ed entrare. In punto di
morte fa cenno al guardiano che si avvicini per fargli l’ultima domanda: «Come mai in tutti questi
anni nessun altro è venuto qui a chiedere di entrare nella Casa della Legge?». Il guardiano risponde che quel portone era stato pensato solo e proprio per il contadino e visto che quello ora moriva
lui sarebbe rientrato per chiuderlo. Ecco i tre racconti di Kafka messi insieme da me, ora.
La stessa cosa vale in poesia, anche se meno dichiaratamente; i racconti, come le favole, sembrano
scritti proprio per ognuno di noi, come dicevano «genericamente» gli antichi narratori: «di te narra
la favola». La poesia non racconta portando a me una favola che io possa intendere come a me diretto attraverso il potere del narrare, visto che tutti noi narriamo su di noi e sul mondo. La poesia
non narra, ma a volte sembra che parli proprio a te, senza narrare, rivolgendosi con una scossa alla
tua attenzione e facendo smetterti di leggere proprio in quel punto, lasciandoti sospeso e poi incli-
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ne a rileggere a volte e più volte quella parola, quella metafora o quel dettato, non narrato ma impresso come un passaggio marcato nel flusso del tempo, tuo e della poesia, ricongiunti à propos
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[Montaigne parla spesso del potere enorme che la poesia ha su di lui]. Provate a leggere i componimenti di Emily Dickinson o della nostra contemporanea Wisława Szymborska, o di Leopardi e di
Montale. E se vi viene voglia di altra poesia moderna, cercate i libri di Wallace Stevens, USA, uno
in particolare, Il mondo come meditazione.
Torniamo a pensare insieme e a parlare della trasformazione della LC nella poetica della mia vita.
Portai fino in fondo questa trasformazione arrivando addirittura a comporre, con i miei allievi i due
manuali standard della disciplina ancora incerta in Italia [7]. Come possiamo capire e definire meglio tale trasformazione di un destino universitario in una poetica personale? Innanzitutto, come ho
già detto, a me è successo per via inconscia e sofferente: la desolazione famigliare e affettiva del
69-70 mi portò a acquisire in modo patente una falla psichica che si manifestò con una depressione
bipolare (metà anno euforico, l’altra metà disforico, in disperazione, per capirci in maniera spiccia
ma spero calzante). Mi curai nel modo più assurdo, non curandomi. La carriera-vita universitaria
mi si mostrò all’inizio in maniera precaria, smisurata e penale: un campo pieno di veleni e di trappole, di solitudine e di idiosincrasia, di non-amicizia. Iniziai a temere per me, l’impresa era troppo
bieca e assurda, ma non cedetti alla sconfitta prima di lottare. Iniziai a lottare, e continuai per 40
anni. La lotta insieme alla sua malattia mi portarono su un cammino che non riuscivo a decifrare, e
nemmeno ad accettare. Divenni, poi, fortunosamente professore associato, nel 1980 o 1981, e vinsi
la piccola battaglia di farmi inquadrare in LC, fino ad allora quasi inesistente nel quadro disciplinare della università italiana. Non ne uscii guarito. Il «male oscuro» resistette «alla grande» e non si
fece riscattare e temprare da questa specie di «vittoria». Da quel punto, nel 1983, dovetti lottare
ancor di più per non cedere alla grossa pressione-impresa che si era aperta per me. Fu una tortuosa
negazione del risarcimento avuto: rabbioso. Se avessi fallito, però, sarei entrato nel caos, coinvolgendo la mia famiglia, mia moglie e due bambine molto piccole. Divenni invece un outsider quasi
perfetto, senza radici e senza legami di casta, perennemente nemico, ostaggio e prigioniero di un
regime catastale insopportabile. Mi isolai ancora di più e mi dedicai a cercare alleanze in Europa e
altrove, dall’Ungheria alla Cina. In Italia i miei colleghi in LC cercarono di scardinarmi vituperandomi sulle riviste accademiche e non. La lunga notte iniziò e finì nel 2010, quando mi dimisi, non
sentendomi sconfitto ma, semplicemente, per liberarmi dalla dieta velenosa di 40 anni di tormento.
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Uscii dalla gabbia quando capii che era arrivato il punto di svolta per liberarmi, da solo come sem52
pre, ma decidendo di accettare la condizione di compagno di strada di uno psicoterapeuta, entrai in
un now moment che mi ha condotto a rinascere pian piano fruttuosamente andando verso il Sé.
Tanto che ora sono arrivato a pensare che la relazione terapeuta-paziente possa somigliare ad una
partnership: l’analitica dell’inconscio & l’ermeneutica del conscio, in un nodo mutuo tra l’analista
terapeuta e l’ermeneutico paziente. E non bisogna essere un paziente-filosofo per fare interpretazione (ermeneutica).
Attraverso la cura ho scoperto ora, dopo tre anni dal 2009, inizio dell’analisi, il senso dell’opera al
nero quarantana. E, al contempo, ho scoperto dal buio dello scantinato del mio vino inconscio la
figura del mio destino. Prendo una visione di Kafka per nominare questa figura, è un sogno da lui
raccontato in una lettera a Milena Jesenská, del settembre del 1920: «Ieri ho sognato di te […] eri
diversa da prima, spettrale, disegnata col gesso nel buio…». Questa frase di 5 parole «disegnata
col gesso nel buio» non spariranno mai nel buio se riuscite a far entrare nella vostra mente questa
immagine di parole tradotte da un’altra lingua e forse vi capiterà prima o dopo di usarla per dire
meglio qualcosa che non riuscite a immaginare e nominare per bene.
L’ovazione epifanica della certificazione di una poetica, disciplinare & esistenziale, sento che è
conquistata.
La liberazione sta camminando da tre anni e non minaccia di diventare un’impresa di quaranta,
anche perché le mie ceneri non sapranno aspettare altri 37 anni.
Ora, finalmente in questo discorso, posso definire in maniera inconclusiva il senso della mia poetica riconosciuta dopo 40 anni di sofferenza e di trasformazione resistente. Adesso posso concepire
e dire qualcosa di più certo sulla mia poetica, illuminata da tutto quello che era passato e ora si
mostra come futuro che viene dal 1970 perché ora viene riscattato attraverso l’ermeneutica comune tra me e il terapeuta – Lucrezio scrive al futuro, accendent e non accendunt, il suo verso sulla
illuminazione delle cose tra loro, luci e cose in unum (Orazio).
Una poetica personale ricavata da una disciplina umanistica è stata per me una lotta di resistenza e
creatività, formata da: un’etica, un’eresia – parola di derivazione greca antica che, alla fonte, significa «scelta», oltre che devianza dal solco grosso del potere – una filìa che si accompagna con
poesia, ermeneutica e formazione continua e reciproca tra docente e studenti, una ascetica e una
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politica eutopica, una critica e una disponibilità compassionevole oltre che giustizievole per favorire l’umano giovanile – «giustizia e compassione» sono due valori messi insieme da Confucio e
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da Leopardi (vedi «E giustizia e pietade» nel pensiero e nella forma de “La ginestra”) e da tanti
altri nel mondo. La poetica, però, non è una specie di filosofia pratica, ma piuttosto un’ascetica del
gusto e della gentilezza. Questi frutti sono giustamente impuri per non impazzire –per via della
concatenazione nella poetica che incamera la disciplina con il dolore e la mutazione; ho preso l’immagine dei «frutti puri che impazziscono» dall’opera del grande antropologo nordamericano, James Clifford. Questa poetica complessa e ancora caotica, ha formato, per via della lunga trasformazione e della scelta della liberazione, una porta sull’orizzonte cosmico che la specie umana è
stata capace di concepire fino ad ora.
L’ovazione epifanica della certificazione di una poetica, disciplinare & esistenziale, sento che è
conquistata.
Possiamo passare ora al secondo compito-risultato della mia via di «espiazione» disciplinare e
umanistica, che è stata una transvalutazione della trasformazione della LC in poetica mia e un inizio dell’Albedo, dell’opera al bianco. Questa nuova via mi ha portato a mettere a frutto tutto il lavoro quarantennale dell’opera al nero. Nel 1992 pubblicai un piccolo libro che si intitolava Il rovescio del gioco, dedicato al parto di una nuova forma di letteratura in Italia, quella degli scrittori
stranieri appartenenti alla Grande Migrazione [8] presso di noi e scriventi nella lingua italiana. Dal
1992 cominciai ad interessarmi a questa specie di «fenomeno» che ho definito negli anni ed ora
nella forma di Letteratura Italiana della Migrazione Mondiale (LIMM), dove migrazione e mondializzazione, in unum, definiscono il loro potente valore transculturale, e antropologico, se fossi un
antropologico lo definirei anche così. Non ho smesso mai di interessarmi a questo argomento da
allora, 1992, diventando compagno di strada dei migranti in Italia, e scrivendo incessantemente su
e con loro [9]. L’incontro e il colloquio ventennali tra noi mi hanno portato a dare una svolta al
«pensiero di vita» della mia poetica, che ho ridefinito nel 2011 come Transculturazione e che ora
lavora come «forma vitale» (D. N. Stern) di un vero valore dell’albedo. E l’opera al bianco
dell’albedo non mi interessa tanto provare a farla, è già tanto fare luce tra le luci, nel buio-fumo
che ci circonda.
In poche parole, dirò che la transculturazione per me non è definibile in astratto, o peggio ancora,
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come un discorso «universale». Sono convinto che la transculturazione è una corrente planetaria di
incontro delle civiltà e di azione umanistica nella qualità del tempo presente. In questa cosmovisio54
ne sono in attivo accordo da tempo con scrittori e saggisti del neoumanesimo latinoamericano e
caraibico e con alcuni comparatisti cinesi. A una condizione critica, però: che ogni civiltà ha una
sua via di elaborazione e di salute transculturali, che ogni civiltà deve esercitare, cominciando da
noi europei, insieme con le altre, per sé e per l’ensemble. La via europea, che mi vede all’opera da
diverso tempo, è la più arretrata e disagiata. Penso che una via transculturale, che possa portare a
un accordo umanistico di tutte le civiltà, richiede per noi l’impegno di un’opera autocritica immane, ma forse radiosa per chi la porterà a buon fine [10]. Ho definito questa via europea come la più
difficile, perché noi europei occidentali, e poi la Russia, e il Belgio e l’Italia nel XIX secolo, abbiamo inventato la Modernità assalendo man mano tutte le altre civiltà del pianeta alienandole dalla
loro autonoma via della vita e della storia civile, depredandole e sottosviluppandole, fino alla dichiarazione patente del capolavoro di tenebra della ideologia vittoriana del «fardello dell’uomo
bianco» (Kipling, Ode a “Il fardello del’uomo bianco”, 1898) che si declina così: il fardello
dell’uomo bianco definisce il compito e il dovere degli europei (inglesi in testa) di riempire l’impero coloniale del mondo con un’opera di civilizzazione dei popoli barbari e inferiori, che sono
«Metà demoni e metà bambini» – Shakespeare aveva già posto la questione della civilizzazione
europea dei bruti, mettendola a fuoco attraverso la relazione tra il mago bianco europeo (Duca di
Milano), Prospero e il mezzo-demonio mezzo-barbaro, Calibano, ne La Tempesta. – Tuttora, nel
secolo XXI, chiusi gli imperi superficiali del mondo – eccetto uno, ma potente, invisibile e indiscutibile, quello che la Russia detiene sulla parte settentrionale dell’immensa Asia, che chiama
Russia – gli europei e i loro successori nordamericani – l’invito ad accettare tale successione agli
USA è il cuore dell’Ode di Kipling ed era, appunto, proprio quello di passare la mano e la luce imperiale sul pianeta dall’Inghilterra agli USA – continuano a sottosviluppare e a occupare terre e
genti portando guerre in paesi africani, sudamericani, asiatici e centro-est europei; il popolo australiano, i così detti «aborigeni» o «nativi» – nome caro questo agli anglofoni che chiamano così, teneramente, gli ultimi «indians», massacrati in due secoli – è stato espulso dalla storia.
Ho elaborato, dall’inizio del nuovo secolo, la via della Transculturazione europea – che per me è
una «azione» e non una parola fumosa, o sinonimica di multiculturalismo o di interculturalità, o di
tutte e due, ormai così usate impropriamente anche da grandi uomini di stato italiani, come sinonimi – si articola in tre scalini, o meglio, in una fusione di tre orizzonti: la Mondializzazione delle
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menti europee, la Decolonizzazione degli europei dal colono che è in noi, come voleva Sartre, e la
Creolizzazione che dà senso e valore ai tre scalini messi in orizzontale. Da una parte, essa significa
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accettare e mettere in agenda il fatto che noi non possiamo mondializzarci e decolonizzarci esponendoci al pensiero di filosofi e preti ben intenzionati: non ci sono filosofi attivi in questo senso in
Europa, e i preti perseguono da due millenni la politica della verità e della salvezza nel regno di
Cristo. Ma anche se ci fossero filosofi e preti transculturali, in Europa non avremmo mai potuto
decolonizzarci da soli, perché non ne siamo capaci. Abbiamo, tuttavia, da qualche anno una fortunata e imprevedibile opportunità: la presenza attiva tra noi di milioni di migranti provenienti da
tutte le nazioni e civiltà del mondo. Essi sono portatori di un progetto eutopico di convivenza e
coevoluzione insieme con noi, in Europa: uno scandalo che gli europei non riescono ad riconoscere nell’ascolto e che gli stranieri stessi stentano a riconoscere. Per noi, è forse quel bassissimo rumore amaro di fondo, impercettibile, che interpretiamo per inconscio moto come attori, in maschere rabbiose del razzismo.
Gli statistici dichiarano che alla fine del XXI secolo la popolazione italiana sarà in maggioranza
meticcia, come gli USA tra pochi anni. È questo che il futuro prepara e manda incontro a noi. Ma
noi italiani non siamo in grado di percepire questa novità smisurata, ma per noialtri sicura e non
detestabile, da preparare invece, cominciando dalla revisione sradicante dei contenuti dei programmi delle nostre scuole. Non potremo dire con zio Bertolt (Brecht):
…Oh, noi
che abbiamo voluto preparare il
terreno alla gentilezza,
noi non potemmo essere gentili.
(A coloro che verranno, 1938)
Noi non stiamo preparando nulla, e men che meno la gentilezza. Prepariamo solo irrilevanza e la
nostra decadenza, sia in Europa che in Italia. Siamo piuttosto nella tenebra e nella incipienza di
una nuova opera al nero, sperando che non sia lunga 90 anni o che lungo il suo passaggio non si
ripropongano mostri come Hitler, Mussolini, Franco, Salazar e i vecchi partiti comunisti al potere
nelle nazioni del centro e dell’est dell’Europa, fino all’orrore sovietico di Stalin: le rivoluzioni po-
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litiche avvenute in Europa XX secolo: disastri e guerre mondiali, scaricate sul mondo. L’agenda e
la speranza transculturali, però, sono aperte e praticabili fin da ora, perché i nuovi italiani sono già
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tra noi, anche se molti di oro non avranno la cittadinanza alla fine della carriera scolastica. Non
sono tra noi invano e nemmeno per metterci a disagio. A disagio siamo noi per disagio nell’essere
italiani, in una grande civiltà rovinata e irredenta, quella europea. Irredenta, è una parola strana,
antiquata e inusuale; vuol dire semplicemente «non liberata».
[1] Tra noi, chi? Tra me e Martin Solanka, il protagonista di Fury, e l’intento del suo autore di parlare per una parte
dell’umanità del secolo XXI di «traslated man», la parte del genere umano tradotto e sempre in traduzione. E insieme
con i miei conoscenti più stretti, in un gergo ludico e complice, insomma, che ora si estende anche a voi che ascoltate o
leggete.
[2] Petrarca nella prima quartina del sonetto 61 del Canzoniere, afferma scandendo il tempo e il luogo attraverso la
poesia amorosa: «Benedetto sia ‘l giorno, e il mese, e l’anno, / e la stagione e ‘l tempo, e l’ora e ‘l punto, / e ‘l bel paese, e ‘l loco ov’io fui giunto / da’ duo begli occhi che legato m’hanno; // …».
[3] Questa coevoluzione somiglia, non nella solitudine ma nel duale, al momento presente di cui parla Daniel N. Stern
nel suo libro che porta lo stesso titolo. Esso riguarda la co-creazione di un’intesa sincronica nella relazione tra psicoterapeuta e paziente in un now moment che aggrega le relazioni improvvise e condivise che li avvicinano attraverso i
risultati di un cammino a due che ha cominciato a produrre una mutua trasformazione fruttifera. Ciò accade nel cammino e nell’incontro puntuale e duale dell’analisi dell’inconscio con l’ermeneutica del conscio dei due attori.
[4] Tr. it., Milano, Rizzoli, BUR 2008, pp. 472-473. I due pezzi della voce Individuazione del glossario che ho legato
appartengono a due opere diverse di Jung, è Aniela che li ha messi insieme.
[5] «Frui parati set valido mihi, / Latoe, dones, at, precor, integra / cum mente, nec turpem senectam / degere nec
cithara carentem.» Ho messo qui la faccia latina della poesia di Orazio, perché sono convinto che un lettore italiano sia
comunque affascinato dall’incontro guidato con la lingua latina, sia che non l’abbia mai studiata, sia che l’abbia studiata e dimenticata, sia che la conosca bene. Per il primo scaglione di lettori italiani, la parola «Latoe» indica un nome
di Apollo, in quanto figlio di Latona. Nella breve Ode il nome del dio Apollo, al quale l’ode è rivolta, si trova solo
un’altra volta, nel primo verso.
[6] Mi è venuto alla mente, pochi giorni fa, mentre pensavo, nell’assolato meriggio del 13 novembre, alla poesia “San
Martino” di Carducci, che avevo messo in relazione, in un saggio degli anni 80, con una prima poesia di Montale,
“Corno inglese”. I due testi sono diventate tre ora, afferrando e portando nella loro associazione i versi-pensieri di Lucrezio e la «mia» – e anche di tanti, immagino – ridefinizione esemplare e longeva (dal I secolo avanti Cr. a oggi) disciplina della comparatistica letteraria.
[7] Il Manuale storico della letteratura comparata, con Franca Sinopoli, Roma, Meltemi 1997 e Introduzione alla letteratura comparata, da me progettato e curato, ma composto da giovani allievi, Milano, Bruno Mondadori, 1999; la
seconda edizione, del 2002, aggiornata e implementata da due nuovi capitoli, fu titolata Letteratura comparata.
[8] Così la definì il poeta e saggista tedesco Hans Magnus Enzensberger in un suo pamphlet del 1992, pubblicato in
traduzione italiana da Einaudi nel 1993.
[9] Dal 1992 ad oggi, 2012, ho scritto diversi libri e articoli, fondato riviste e una banca dati (BASILI) presso l’ex Dipartimento di Italianistica della Sapienza di Roma nel 1997, inventato diverse collane dedicate a pubblicare opere
transculturali, non solo scritte dagli scrittori migranti; la più longeva porta il titolo di «Kumacreola», fondata nel 2004
e pubblicata dall’editore Cosmo Iannone di Isernia. Potete trovare ragguagli su questa impresa in internet e nel saggio
Da LIM a LIMM nel secondo numero, 2012, della «Rivista dell’Arte», www.larivistadellarte.it.
[10] Ho messo in cantiere, insieme ai miei amici cinesi, guidati da Yue Dai Yun all’università maggiore di Pechino, la
costituzione di una rete mondiale di studi e di formazione transculturali. Partiremo agli inizi del 2013 con la diffusione
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di una proposta plurale e solidale formata da 4 testi fondatori di una Rete Mondiale di Transculturazione, provenienti
dai quattro angoli del mondo e composti in una forma unificata di Dichiarazione complessa e diversificata, ognuna con
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il proprio fardello critico da presentare al mondo: Roma(Gnisci)-Pechino(Yue Dai Yun)-L’Avana(Roberto F. Retamar)
-Il Cairo(Hussein Mahmoud). I primi centri a ricevere questa tavola transculturale per inaugurare un convivio mondiale sono a Rio de Janeiro, Nuova Delhi, Sydney, Coimbra, Mosca, Venezia, Udine, Skopje… L’elenco dei partner
dell’accordo non sarà mai né chiuso né esclusivo, ma solo ordinato sulla forma e l’azione solidale della nostra idea
multipla di Transculturazione. Chi voglia saperne di più troverà il mio «Manifesto transculturale» del 2011 in italiano
nel primo numero della «Rivista dell’Arte», on line sul sito www.larivistadellarte.it Nel 2013 sarà pubblicato a La Habana, presso l’editrice di Casa de las Américas il pamphlet cartaceo successivo al Manifesto del 2011, con il titolo Manifiesto-Ensayo de la transculturación europea, e poi a Dakar in Senegal, con lo stesso titolo in francese, dall’editrice
PANAFRIKA. Forse, nel 2013, verrà pubblicato anche in versione italiana.
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Lourdes Vázquez
Claudia y Yo*
La primera vez que vi a Claudia estaba incrustada en el diseño de un tapiz de un museo. Vestía
un traje de época y una corona de margaritas frescas rodeaba su cabeza. El tapiz, con bordes elaborados que dibujaban ostras y cangrejos en hilos de oro y seda, era su casa. En alguna oportunidad pudo escapar.
Claudia es aquel desorden que se va gestando frente a la película de la vida. Sin tener conciencia
de ello va consumiendo madelinas con café, sentada en la mesa de mi cocina, como si degustara
la última cena. Alimentarse de madelinas, me dijo, es recordar la infancia de Proust, siempre enfermo en una cama de madera con pilares altos.
El comportamiento errático y exigente de Claudia me recuerda a un laberinto. Una especie de
locura que como el veneno del escorpión la va nutriendo, una planta Mandrake que se diluye
dentro de un pozo fragmentado: le crecen varias cabezas y siente que es inconfundiblemente immortal, como el error humano.
Eres Claudia la ceniza emocional de una diosa o la niña que busca a su amante a pesar de no conocerle y de no pertenecerle. Pienso que has sido abducida y conducida por un camino falso,
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metiéndote en el submundo rosa de una pantalla de televisor en el que únicamente yo puedo tener espacio. Aquí estoy examinando la multiplicidad y confusión de tu imagen como se estudia
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un pato estrangulado por una serpiente.
Con el tiempo Claudia te has transformado en un hueco artificial e interminable de molestias,
ruidos, adicciones y aficciones. Eres el danger medieval que todos evitan. Vas y vienes dejando
una lámina luminosa de ansiedades como Adelle H en su paso por alguna habitación de hotel caribeño o como aquella Camila devorando y amando las manos de Rodin. Persigues un recorrido
que puede incluir las piedras, el fondo inherente y el iris con sus luces neón, para encontrar el
vacío universal: aquel del que la postmodernidad habla.
Pero mal-conduces un carro maltratado y tirado por bueyes como un detective inexperto maneja
una investigación criminal: esa pareja de recién casados muertos en plena luna de miel justo
cuando llevaban a cabo el acto sexual. El criminal entonces penetra la sortija matrimonial del
varón en la vagina de la occisa.
Mi obsesión por ti no me permite distinguir el lirio azul que flota en el Nilo o los herbarios de los
bestiarios. El parecido a ese yo personal de la otraedad me hace tomar el caballo y halarle las crines hasta que trote tan fuerte que puedo encontrarte metida en algún paseo bifurcado y solitario,
espléndida de desconciertos y descaminos. Te escrutino para poder explicar algo del constante
desafío por aquello que desconoces y además omites. Eres la humillación y los múltiples rechazos que una vez yo padecí y que como vestuarios rotos se multiplican, hablando sobre un diario en un código diáfano y liviano y poco asequible. Todo es poco comparado con las ansias de
tenerte distante evitando así descubrir mis cicatrices de antaño.
Tener una luna llena de frente, sin luces de ciudad o nubes que atormeten la vista, es todo lo que
he añorado y en consecuencia luchado hasta desangrarme y llegaste tú para oscurecer mi semblante. Con tu sublime rostro y tu traje roto por el tiempo no te has dado cuenta Claudia que eres
como aquella rara música antigua programada para morir.
Lourdes Vázquez [Manuela Derosas]
Io e Claudia
La prima volta che vidi Claudia era incrostata nel disegno di un arazzo di un museo. Portava un
abito d’epoca e una corona di margherite fresche le cingeva la testa. L’arazzo, dai bordi elaborati
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che disegnavano ostriche e granchi in fili d’oro e seta, era la sua dimora. In una qualche occasione riuscì a scappare.
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Claudia è quel disordine che si genera a poco a poco dinanzi al film della vita. Senza esserne cosciente, continua a consumare madeleines e caffè, seduta al tavolo della mia cucina, come se si
stesse gustando l’ultima cena. Alimentarsi di madeleines, mi ha detto, è come ricordare l’infanzia
di Proust, sempre malato in un letto di legno dalle alte colonne.
Il comportamento erratico ed esigente di Claudia mi ricorda un labirinto. Una specie di follia
che, come il veleno dello scorpione, la nutre poco a poco, come una mandragora che si diluisce
in un pozzo frammentato: le spuntano varie teste e sente di essere inconfondibilmente immortale,
come l’errore umano.
Sei, Claudia, la cenere emozionale di una dea o la ragazzina che cerca il suo amato anche se non
lo conosce o non gli appartiene. Penso che tu sia stata portata o condotta su una falsa strada, cacciandoti nel sottomondo rosa di uno schermo televisivo nel quale io sola posso trovare spazio. Ed
eccomi qui a esaminare la molteplicità e la confusione della tua immagine come si studia una
papera strangolata da un serpente.
Con il tempo, Claudia, sei diventata un vuoto artificiale e interminabile di fastidi, rumori, dipendenze e attaccamenti. Sei il danger [1] medievale che tutti evitano. Vai e vieni lasciando una coda luminosa di ansie come Adelle H di passaggio in una qualche stanza di un hotel caraibico o
come Camilla che divorava e amava le mani di Rodin. Segui una traiettoria che può essere fatta
di pietre, della profondità inerente e dell’arcobaleno con le sue luci al neon, per trovare il vuoto
universale: quello di cui parla la postmodernità.
Eppure mal-conduci un carro malconcio e trainato da buoi come un detective inesperto conduce
un’indagine criminale: quella coppia di sposini assassinati in piena luna di miele proprio quando
avevano concluso l’atto sessuale. Il criminale a quel punto inserisce la fede dell’uomo nella vagina della donna uccisa.
La mia ossessione per te non mi permette di distinguere l’iris blu che galleggia sul Nilo o gli erbari dei bestiari. La somiglianza con quell’altro io personale di un’altretà [2] mi fa montare a cavallo e tirargli la criniera fino a farlo trottare così forte da arrivare a trovare te che ti sei infilata in
un sentiero solitario che si biforca, te splendida di perplessità e di sviamenti [3]. Ti esamino per
poter spiegare almeno in parte quella tua sfida costante per ciò che non conosci e che per di più
ometti. Sei l’umiliazione e i molteplici rifiuti di cui una volta ho sofferto io e che come costumi
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rotti si moltiplicano, parlando di un giornale in un codice diafano, leggero e poco accessibile.
Tutto è poco in confronto all’ansia di tenerti distante evitando in questo modo di scoprire le mie
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cicatrici di un tempo.
Avere una luna piena di fronte, senza luci di città o nubi che tormentino la vista, è tutto ciò di cui
ho sentito la mancanza e per cui ho lottato fino a dissanguarmi e sei arrivata tu a oscurare il mio
volto. Con il tuo volto sublime e il tuo vestito rotto dal tempo non ti sei resa conto, Claudia, che
sei come quella rara musica antica programmata per morire.
Nota biografica dell’autrice
Lourdes Vázquez, nata a Santurce (Portorico), vive negli Stati Uniti. Alla domanda «Dove vivi?» lei, per
l’esattezza, risponde «Dopo aver vissuto 25 anni a New York, ora vivo felicemente a Miami», ma aggiunge «Tra New York e Portorico». Scrive in spagnolo. È autrice di racconti, saggi e raccolte di poesie, spesso pubblicate in edizione bilingue (spagnolo-inglese). È stata insignita di numerosi premi, fra i quali ricordiamo il Premio Internacional Juan Rulfo (2002) e la sua opera è stata inclusa in diverse antologie. Nel
2012 ha pubblicato in Italia con la casa editrice EDIBOM (Lonato del Garda - Brescia) un’antologia poetica dal titolo Appunti dalla Terra Frammentata [Trad. Manuela Derosas, con una Lettera all’autrice di
Armando Gnisci].
* Il racconto, che presentiamo qui in spagnolo e in traduzione italiana, ci è stato inviato dall’autrice ed è stato già
pubblicato in Letras Salvajes n. 5 (2005), http://www.geocities.ws/letrassalvajes/N7lourdes_vazquez.html
[1] NdT: Ho scelto di mantenere la parola inglese “danger” non in corsivo come fa l’autrice.
[2] NdT: non è possibile rendere in italiano il bel gioco di parole che crea la Vázquez: «El parecido a ese yo personal de la otraedad». “Otraedad” è una parola da lei inventata, composta da “otra” + “edad” (altra età), ma che in spagnolo gioca anche sulla somiglianza con la “otredad”, cioè “alterità”. Ho scelto quindi di inserire l’aggettivo “altro”
per marcare la distanza del vecchio io personale e di indicare in qualche modo il gioco linguistico componendo la
parola “altretà”.
[3] NdT: l’autrice inventa la parola “descaminos”, che ho tradotto sviamenti, perché mantiene l’idea di errore nel
cammino.
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Armando Gnisci
Mutualità*
Lessi Il Calice e la Spada di Riane Eisler nella edizione di Pratiche di Parma, nel 1996. Non ricordo come scoprii quel libro, forse fu Antonella Riem a parlarmene già allora. O trovai l’indicazione
nei testi di ecologia generale e di teoria della complessità, che allora frequentavo molto: F. Capra,
Bateson, Morin, Maturana e Varela, Prigogine e Stengers ecc. Il Calice e la Spada mi colpì molto
e nel profondo, tanto che lo rimisi subito in gioco palesemente nella didattica universitaria e nei
miei scritti. Ricordo che gli studenti che lessero quel libro strano mi ringraziarono per averglielo
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consigliato. L’avevo messo in programma nella lista dei testi a scelta per il colloquio d’esame. Ricordo che lo stesso effetto fece su di me e sui miei allievi Atena Nera di Martin Bernal del 1985,
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anche questo tradotto e pubblicato in Italia, nel 1991, da Pratiche [1]. Due libri non-canonici, e
addirittura messi al bando dalla fanfara comitragica della baroníade accademica italiana. Ricordo
anche che gli studenti di Lettere antiche sceglievano di mettere nel loro piano di studi la disciplina
da me insegnata, “Letteratura comparata”, per leggere Eisler e Bernal e per poterne sapere di più
sull’«Antica Europa» – espressione usata da Marija Gimbutas, la grande archeologa, maestramadre di Eisler – diversa da quella insegnata nei manuali universitari canonici; e, infine, di poterne parlare con me.
Il libro di Eisler, e quello di Bernal, si stabilizzarono subito dentro la mia mente e diventarono
landmarks ineludibili e benvenuti, per me e per gli studenti. Semirette costellari della mia poetica
saggistica e didattica. Che vuol dire «semirette costellari»? miliardi di semirette siamo tutti noi
umani, che sappiamo, anche se non lo sappiamo, di essere la «metà delle luci» nella costellazione
generale del cosmo «sempre incipiente», come scrive Wallace Stevens nel breve poema “July
Mountain”. Dell’altra semiretta di luci e oscurità, non conosciamo le coordinate e le luci, ancora,
sappiamo però, che ci stiamo in mezzo volando tutti insieme nel buio immenso della materia, quella Madre assoluta, pensata da Esiodo [2] e poi, come un gruppo di Madri, da Goethe. Le Madri si
incontrano nella seconda parte del Faust, II, Atto I, nella scena intitolata “Galleria Oscura”. Le
Madri sono «Dèe che altere dominano nella solitudine». Credo che il loro colore sia nightblue/
neroazzurro, ma anche /notteazzuro, perché no? Questa loro coloritura è proposta nel capitolo
XVII, stellare, di “Ithaca”, dell’Ulisse di James Joyce. Mentre scrivevo questo testo che ora stai
leggendo, mi è venuta in mente, alla luce, una immagine di Kafka, contenuta in una lettera a Milena Jesenská del settembre del 1920. Il boemo scrive alla sua amata di averla vista in sogno,
«disegnata col gesso nel buio». Il disegno in gesso siamo noi umani, il buio è la materia scura del
cosmo ancora «indeterminata» (Anassimandro). Noi umani e le nostre immaginazioni e opere siamo luci da luci, e siamo la metà di tutte le luci: Franz e Milena sono luci, il libro di Eisler, e l’opera della sua curatrice, Antonella Riem, me e voi, siamo luci da luci. Dice il poeta antico, Lucrezio
Caro: «… ita res accendent lumina rebus / così le cose illumineranno sempre le cose». E Il Calice
e la Spada questo fa, da quando è apparso, nel 1987.
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Nella “Introduzione” al suo libro ripubblicato da Forum nel 2011, Eisler dice all’inizio: «Questo
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libro apre una porta […] Ho dedicato la mia esistenza alla ricerca di questa porta». Sono stato fulminato da questo incipit, ora nell’agosto 2012, nel 1996 non ricordo. La porta che Eisler propone è
aperta sull’antico, e poi, attraverso una ricerca-azione (p. 33) nel nostro passato ultramillenario che
scende fino ad oggi, si apre per servire il futuro, in nome della gilania, una eutopia ancora pensabile per tutti noi e per le nostre discendenze avvenire. Gilania vuol dire partenariato nell’antica società umana mediterranea tra donne e uomini, operanti dentro lo shawl/scialle – come scrive Wallace Stevens in poesia – di una condizione comunitaria che è e fu femminile, nel suo contenere e
mantenere, e nel creare in ogni momento la condizione sociale serena e industriosa nel tempo della
Old Europe, quella vista e illuminata da Gimbutas. Gilania antica che generò l’inverso della condizione umana-europea attuale che perdura da 5 millenni. A partire dalle invasioni indo-europee,
kurgan, nel Mediterraneo e nella Europa antica, la coda dell’Eurasia (pp. 109 e seguenti), la gilania venne distrutta. Da tanto tempo, e fino ad oggi, quel barbarico regime guerresco e androcentrico delle popolazioni feroci, patriarcali e guerriere che distrusse il regime gilanico per instaurare
stati guerrieri squilibrati e invivibili, ci forma come «miracolo superiore» europeo e come missione
e «fardello dell’uomo bianco» (Kipling). Insieme ai monoteismi maschilisti delle successive religioni armate e tuttora potenti. Il nostro futuro non ci sarà se non ci educheremo alla gilania progressiva e mai morta, fin da ora (pp. 337 e seguenti). Molte, persone e idee, infatti, hanno resistito
al terrore indoeuropeo nella storia antica e in quella moderna occidentale e medio-orientale. Eisler
invita a pensare che ora – se non ora, quando? – è necessario ribellarsi sagacemente, come hanno
fatto le femministe, Gandhi e Mandela, e contro il mostruoso potere eccessivo della mente violenta
e storta, il «mercato totale», come lo videro già i giovani Marx ed Engels nel Manifesto del 1848.
Oggi, dopo 165 anni, il Markt è al suo culmine, sta rovinando la Terra e il Mondo, sta rovinando.
Da Markt è diventato «Percolato» e Mafia, malaffare e distruzione.
Leggere Eisler fa venir voglia di cambiare ora e subito questo mondo assurdo poeticamente, come
disse Édouard Glissant. Eisler ci mostra perché e come fare, mediante i valori antichi e rimossi
dell’epoca pacifica e gilanica, che sono ancora vivi, ed ora messi in mostra e diffusi con maestria.
Oggi viviamo nel peggiore dei mondi possibile, il più globale e ingiusto, frutto avvelenato della
storia moderna imposta a tutti i mondi a partire dal magico ventennio del 1492-1522 – anno, quest’ultimo, del primo periplo planetario del globo terracqueo compiuto da Magellano, che non tornò
dal viaggio. Si tratta del frutto più potente, deturpante e inaccettabile, perché imposto ai mondi da-
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gli europei come civilizzatori universali. Ma qualcuno, sempre di più, come abbiamo già indicato,
continua a pensare e agire oggi per un futuro migliore: non si tratta, certo, dei filosofi euro65
nordamericani, ma dei poeti e dai neo-umanisti caraibici e latino-americani, di quelli africani e australi, degli ecologisti, degli anti-colonialisti – essi lavorano per un oltre neo-umanista, nonostante
i Post-Colonial Studies anglo-americani e i loro seguaci europei – gli anti-globalizzazione, gli altermondialisti, i primaverili arabi, il popolo del Chapas e Marcos, i ragazzi di Occupy Wall Street,
i sostenitori della decrescita, i teologi della liberazione rinnegati dai recenti e viventi pontefici romani, gli amici dei popoli indigeni & i popoli indigeni, gli antirazzisti, i migranti & i compagni di
strada dei migranti, le coraggiose Pussy Riot russe, i movimenti femministi da due secoli, e altri e
tanti. Tutti insieme, donne e uomini, Gloria Anzaldúa e Giordano Bruno.
Questa non è una recensione corretta, ma non so più scriverle, semmai le abbia sapute scrivere.
Questo testo mostra come mi sia arruolato e raccolto, nello scialle ammirevole aperto da Riane
Eisler per tutti noi, insieme con i pensieri-azioni e i compagni di strada del mio cammino, che mi
sono venuti insieme in mente rileggendo Il Calice e la Spada. Eisler mi ha portato anche a ripensare un intrico di pensieri di ora, nel 2012, per ricongiungermi al me che ero nel 1996, e più indietro,
nel 1968. Ora sono certamente più capace di pensare esistenzialmente il suo dettato, nonostante
non abbia più studenti a cui parlarne.
Saluto Riane Eisler e voi, evocando due poeti, uno del Mondo Antico greco-latino e uno statunitense del secolo XX che parlano dello stare insieme in un luogo in comune. Vanno letti come stanno ora su questa pagina, come se fossero in un accordo capovolto rispetto alla cronologia universale, e si completassero a vicenda, mutualmente, per descrivere preziosamente l’immagine di una
condizione umana migliore e possibile, abbastanza simile a quella che ci propone Riane Eisler:
Wallace Stevens
Questo è dunque l’incontro più intenso,
È in tale pensiero che ci raccogliamo
Fuori da ogni indifferenza, in una cosa:
Entro una cosa sola, un solo scialle
Che ci stringiamo intorno, essendo poveri: un calore,
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Luce, potere, l’influsso prodigioso
…….
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Facciamo un’abitazione nell’aria della sera
Tale che starvi insieme è sufficiente.
Final Soliloquy of the Interior Paramour
in The Rock
ne Il mondo come meditazione, trad. e cura di Massimo Bacigalupo, Parma, Guanda 1986
Tito Lucrezio Caro
[…] così l’insieme delle cose si rinnova
sempre, e i mortali vivono mutuamente le cose tra loro in comune
[…] sic rerum summa novatur
semper, et inter se mortales mutua vivunt
De rerum natura, II, 75-76
Lucrezio – poeta-filosofo epicureo del primo secolo prima dell’avvento di Cristo – è stato dimenticato in Europa per un millennio e mezzo; Wallace Stevens è valutato come uno dei più grandi poeti anglo-americani del Novecento, ma anche come un compositore filosofico e astratto-meditativo.
A noi servono molto per pensare meglio insieme a Eisler. Credo anche che loro abbiano scritto per
tutti – non come «universali» ma da mutui – per le donne e per gli uomini e per tutti gli altri, anche
non-umani, come il cane che ti aspetta fiducioso o il gatto che si allontana e non si sa come, sorride. Come Saffo e Emily Dickinson, o Leopardi o Hölderlin. Solo quando dimoriamo in un
«conversar cittadino» o diventiamo un colloquio, poetico.
* Questo testo è stato pubblicato in Le Simplegadi, X, 10, 2012, pp. 136-142. Ringraziamo la rivista Le Simplegadi per
la gentile concessione. Le citazioni da Il Calice e la Spada sono tratte da Riane Eisler, Il Calice e la Spada. La civiltà
della Grande Dea dal Neolitico ad oggi, Udine, Forum, 2011.
[1] Vedi il trattamento giusto dello studio di Bernal da parte del latinista Francesco Stella nel capitolo “Antichità europee” nel manuale di Letteratura comparata da me curato, Milano, Bruno Mondadori, II edizione, 2002 (I edizione nel
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1999).
[2] Dice Esiodo nella Teogonia, che «… primo fu il Caos/e poi / Gaia dall’ampio petto… / e Tartaro nebbioso… / poi
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Eros, il più bello tra gli immortali…» (vv. 116-1120) e poi «da Caos nacquero Erebo e nera Notte / da Notte provennero Etere e Giorno… / Gaia per primo generò, simile a sé, /Urano stellato….». Da notare è che Gaia non va a letto con
nessuno per generare i suoi tanti figli: le grandi montagne, il mare fecondo, Oceano ecc. In seguito, Gaia giace con
Urano, suo figlio, simile a lei. Insieme generano gli dei e l’ultimo tra loro, Crono dai pensieri storti, il più tremendo dei
figli.
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