Matilde di Canossa

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Matilde di Canossa
Un bronzetto di Bernini degli anni Trenta
Bernini, Matilde di Canossa
via Bagutta, 14 – 20121 Milano
tel. +39 02 76 00 22 14
fax +39 02 76 00 40 19
[email protected]
www.galleriaorsi.com
Andrea Bacchi
CARLO ORSI
Andrea Bacchi
Milano
aprile 2013
Matilde di Canossa
CARLO ORSI
Andrea Bacchi
Matilde di Canossa
Un bronzetto di Bernini degli anni Trenta
Milano
aprile 2013
Indice
«Una statuetta cioè la Contessa Amatilde di bronzo»
p. 4
Per la realizzazione
di questo catalogo
desidero ringraziare:
Andrea Bacchi
Fernando Loffredo
Stefano Pierguidi
Susanna Zanuso
Fortuna di un’invenzione
p. 17
«Statue di metallo di sua mano»
p. 28
Il monumento alla contessa Matilde
Carlo Orsi
p. 37
Catalogo a cura di:
Bibliografia
Ferdinando Corberi
p. 44
GIAN LORENZO BERNINI
(Napoli 1598 – Roma 1680)
La contessa Matilde di Canossa
bronzo, altezza: 40,2 cm
PROVENIENZA:
collezione Barberini, Roma
BIBLIOGRAFIA:
MUÑOZ 1917, pp. 188-189; WITTKOWER 1955, cat. 33, p. 196; WITTKOWER 1966,
p. 202; LAVIN 1967, p. 103; WEIHRAUCH 1967, p. 240; WITTKOWER 1970-1971, pp.
11-14; ARONBERG LAVIN 1975, pp. 393, 423, 465-466, 636-637; SCHLEGEL 1978,
pp. 165-167; MEZZATESTA 1982, s.i.p.; VISONÀ 1995, p. 101; BACCHI 1996, p. 779;
MONTAGU 1996, p. 214, n. 219; AVERY 1997, p. 76; BEWER 1999, pp. 165-166, nota
9; MONTANARI 2000, p. 709; GUERRINI 2003, pp. 94-95.
«Una statuetta cioè la Contessa Amatilde di bronzo»
Nel corso degli anni Trenta del Seicento l’impegno professionale di
Gian Lorenzo Bernini è tutto «pubblico», rivolto cioè alle monumentali imprese commissionategli da Urbano VIII Barberini soprattutto per la basilica di San Pietro: quasi solo alcuni busti straordinari rimangono a testimoniare la sua attività nel campo delle opere da
stanza o da galleria; un’attività attestata però anche dal bronzetto raffigurante la Contessa Matilde. In quest’opera, infatti, l’artista ha voluto eternare nel bronzo per il suo maggiore committente, Urbano
VIII, l’impronta fedele di un modelletto da lui realizzato. Il modelletto preparatorio, cioè, per la figura principale di uno dei monumenti più fortemente voluti dal pontefice, quello della contessa
Matilde, «proda guerriera e duce», «alla chiesa romana scudo», come
l’aveva cantata proprio il Barberini che ne aveva trafugato le spoglie
da San Benedetto Po per portarle a Roma, dove aveva voluto per lei
la prima sepoltura di una donna entro le mura di San Pietro, realizzata tra il 1633 e il 1637.
In questi anni il collezionismo di bozzetti in terracotta era ancora di
là da venire e Bernini, insieme ad Urbano VIII, doveva avere deciso
che la fusione in bronzo avrebbe nobilitato il modelletto, gli avrebbe
garantito una maggiore durevolezza e ne avrebbe altresì consentito la
4
1
2
3
ARONBERG LAVIN 1975, p. 393, n. WW
ARONBERG LAVIN 1975, p. 197, n. 207
ARONBERG LAVIN 1975, p. 255, n. 968
Alla pagina precedente (Figure 1,2,3,4):
In senso orario partendo in alto a sin.:
Contessa Matilde, Raleigh;
Contessa Matilde, Berlino (Kunstgewerbe
Museum);
Contessa Matilde Cambridge (Mass.);
Contessa Matilde, Melbourne
8
riproduzione. Fu inoltre il frutto di una precisa scelta quella di
identificare con certezza l’esemplare in questione con quello in
volere mantenere nel bronzo il carattere non perfettamente finito
bronzo dorato oggi alla National Gallery of Victoria di
che doveva contraddistinguere la terracotta e serbare dunque,
Melbourne, in Australia, provvisto ancora di una base in pietra
anche nel materiale più nobile, la percezione di un pensiero figu-
«mischia» (ovvero pietra negra venata bianca), e dell’iscrizione
rativo còlto nel suo divenire. Si trattò peraltro di una pratica del
MATHILDI/ GRATI ANIMI/ ERGO/ VRBANVS VIII/ POSVIT
tutto eccezionale anche all’interno del percorso berniniano e la
Nel 1687, tra i beni del figlio di Maffeo, Francesco Barberini
ricomparsa dell’esemplare rimasto fino ad oggi presso i discen-
(1662-1738), ricomparivano entrambi i bronzetti:
denti del pontefice sollecita a riconsiderare la questione.
Una statuetta cioè la Contessa Amatilde di bronzo con piedestallo di
Il bronzetto qui in esame proviene infatti dalla collezione
ebano5.
Barberini ed è identificabile con quello citato per la prima volta
Una statuetta indorata di metallo, cioè la contessa Amatilde con
nell’inventario post mortem dei beni del pronipote di Urbano
basa di pietra6.
VIII, il principe Maffeo Barberini (1631-1685), inventario stilato
Negli inventari Barberini sono dunque citati due bronzetti raffi-
nel 1686, nel quale compaiono insieme due raffigurazioni del
guranti Matilde; l’identificazione di quello in bronzo dorato, come
medesimo soggetto:
già detto, è certa, e quello qui in esame, già presso gli eredi
Due Contesse Matilde di bronzo, cioè una dorata, e l’altra semplice,
Barberini, è senza dubbio l’altro, che nel corso dei secoli ha perso
con piedestalli, uno di pietra, e l’altro d’ebano1.
la sua originaria, più povera, base in ebano. In merito a quest’ul-
L’esemplare dorato, e con piedistallo di pietra, era certamente
timo, pur non potendo stabilirne la collocazione nel corso degli
quello menzionato una prima volta nell’inventario dei beni del
anni Trenta del Seicento, è comunque possibile fare qualche ipo-
padre di Maffeo, Taddeo Barberini (1603-1647), a sua volta figlio
tesi circa la sua assenza dagli inventari più antichi. È possibile
di Carlo, fratello del pontefice. Taddeo era morto in esilio a Parigi
intanto che, privo dell’iscrizione, non venisse identificato fino a
e l’inventario dei suoi beni venne redatto a Roma alcuni mesi
quando non venne riunito all’esemplare dorato; poteva forse tro-
dopo la sua scomparsa. Nel febbraio 1648 troviamo infatti regi-
varsi in ambienti poco prestigiosi ed essere quindi ignorato da chi
strata a Palazzo dei Giubbonari:
redigeva l’inventario e non è neppure da escludere che, a un certo
4
.
Una statua della Contessa Amatilda di bronzo indorato alto palmi
punto, fosse stato donato da Urbano VIII a qualche personaggio
1 ¾ con suo piedestallo di pietra nera mischia .
della sua cerchia che, in seguito, secondo una prassi attestata in
Il bronzo appartenuto a Taddeo ricompare di lì a poco, nel 1649,
altri casi, l’avrebbe lasciato a sua volta agli eredi del pontefice.
descritto più analiticamente, nell’inventario dei beni del fratello di
Come per tutti gli altri bronzetti citati negli inventari a cui si è fatto
Taddeo, il cardinale Francesco Barberini (1597-1679):
qui riferimento, il nome dell’autore del modello e/o del fonditore
Una statua di bronzo di Matilda tutta in dorata con un regno in
è taciuto; la questione dell’attribuzione delle due opere è stata però
mano alto d.a statua p.mi uno e mezzo con il suo piedestallo ovato
risolta già da molti anni. Il bronzetto qui esaminato venne pubbli-
e scorniciato di pietra negra venata bianca con l’re [i.e. lettere]che
cato per la prima volta nel 1917 da Antonio Muñoz, allorché si tro-
dicono Mathildi3.
vava «nella collezione privata del principe Barberini», a quel
La leggera discrepanza fra i due inventari (1648 e 1649) relativa-
tempo Luigi Sacchetti Barberini (1863-1936). Lo studioso lo aveva
mente all’altezza del bronzo – palmi 1 e tre quarti (39,8 cm ca.) a
semplicisticamente presentato come un «modelletto» o un «boz-
fronte di un palmo e mezzo (33,5 cm ca.) – si spiega con le con-
zetto» eseguito prima dell’opera da collocare in San Pietro. Ne
suete approssimazioni nel rilevamento delle dimensioni riscontra-
aveva comunque bene evidenziato le differenze nei confronti della
bili molto spesso negli inventari antichi. Inoltre, la citazione par-
statua: «nel marmo la matrona ha forme opulente, poderose; largo
ticolarmente puntuale nell’inventario di Francesco permette di
è il collo, il volto pieno; e il panneggio forma grandi pieghe, ampie
2
4
WITTKOWER 1970-1971, pp. 11-12.
Il bronzo oggi a Melbourne misura
40,5 cm
5
ARONBERG LAVIN 1975, p. 423, n. 17
6
ARONBERG LAVIN 1975, p. 423, n. 23
Alla pagina seguente (Figure 5,6,7,8):
In senso orario partendo in alto a sin.:
Contessa Matilde, Raleigh;
Contessa Matilde, Berlino (Kunstgewerbe
Museum);
Contessa Matilde Cambridge (Mass.);
Contessa Matilde, Melbourne
9
7
MUÑOZ 1917, pp. 188-189
cannellature, e si distacca molto dal corpo. Invece il modellino di
bronzo è più raccolto; le forme sono più fini; il panneggio più stretto intorno alla persona; e il manto non si annoda affagottato intor-
WITTKOWER 1955, p. 256, cat. 33;
WITTKOWER 1970-1971, pp. 11-13. Lo
studioso poté esaminare il bronzetto a
Palazzo Barberini negli anni Cinquanta
del secolo scorso allorché apparteneva
al figlio di Enrico, Urbano Barberini,
scomparso nel 1973
no alla cintola, ma è più serrato e aderente. Il volto della gentil-
Figura 9:
Fotografia storica della Matilde già
Barberini, pubblicata da Muñoz nel 1917
Alla pagina a fianco (Figura 10):
Monumento alla contessa Matilde,
Roma, basilica di San Pietro, part.
posteriore, che traduce fedelmente l’aspetto abbozzato di una ter-
8
donna è fine, i capelli raccolti e tirati, mentre nella statua grande
ricadono abbondantemente dalle due parti»7.
Fu poi Rudolf Wittkower a notare come il trattamento della parte
racotta, tradisse la derivazione diretta da quello che doveva essere stato il modelletto piccolo approntato da Bernini per l’approvazione da parte del pontefice8. Siffatti modelletti non erano inizialmente realizzati per essere fusi in bronzo, ma solo per servire
da traccia per l’esecuzione dei modelli in grande, destinati a loro
volta alla traduzione in marmo (o alla fusione). L’opera in esame è
12
quindi del tutto eccezionale all’interno del corpus berniniano, ed
Fortuna di un’invenzione
è bene chiarire fin da subito come, al pari del Baldacchino o del
9
WITTKOWER 1958, p. 144; MONTANARI
2004, p. 180
10
WITTKOWER 1958, p. 164, note 33-34
11
BELDON SCOTT 1985; BACCHI, TUMIDEI
1998, pp. 26-31 e 104; MONTANARI
2000, pp. 707-710
12
POLLAK 1931, II, p. 207, doc. 617. Già
solo questa dichiarazione rende difficile
condividere l’ipotesi di attribuire la realizzazione del modelletto da cui vennero tratti i bronzetti a Stefano Speranza,
cui i documenti assegnano l’esecuzione
del rilievo nel Monumento (VISONÀ
1995, p. 101). Inoltre Stefano Speranza
rimane di fatto uno scultore privo di
opere autonome e dunque di imprecisata fisionomia artistica. E soprattutto i
caratteri stilistici del modelletto, quali si
ricavano dai bronzetti, appaiono quelli
tipici e inconfondibili di Gian Lorenzo
Monumento funebre di Urbano VIII, pur non essendo certo para-
Per circa quarant’anni il bronzetto pubblicato da Muñoz rimase
gonabile per importanza a quelle imprese colossali, deve essere
un esemplare unico ma poi, a partire dalla fine degli anni
collocata all’interno della seconda delle quattro categorie delle
Cinquanta del secolo scorso, iniziarono a emergere numerose,
opere berniniane individuate da Wittkower, quella cioè delle scul-
nuove versioni della composizione. Oggi ne sono note una dozzi-
ture «realizzate, in maggiore o minore misura, da lui». È ben noto,
na ma nessuna di quelle comparse negli ultimi sessant’anni ha
infatti, che Wittkower, a tutt’oggi il massimo studioso dell’artista,
messo seriamente in discussione il primato del bronzetto
individuò quattro categorie di opere berniniane: «le opere da lui
Barberini, quello che Wittkower riteneva richiesto proprio da
disegnate, ed eseguite di sua mano; quelle realizzate, in maggiore
Urbano VIII per possedere «a small bronze as a memento of the
o minore misura, da lui; altre, nelle quali egli teneva saldamente le
venerated Countess in his private apartment»13. Manca uno studio
redini, contribuendo poco o nulla all’esecuzione; ed infine quelle
comparativo delle varie versioni oggi note, uno studio reso più
per le quali non fece altro che alcuni schizzi preliminari» . Se tra
complicato dal fatto che solo una parte di questi bronzi sono nel
le prime andavano naturalmente annoverati prima di tutto i cele-
frattempo approdati in collezioni pubbliche e dunque la difficile
berrimi marmi Borghese, dal Plutone e Proserpina all’Apollo e
accessibilità e la mancanza di buone fotografie per alcuni degli
Dafne, tra le seconde Wittkower indicava, sintomaticamente, pro-
esemplari citati nella bibliografia non consente una analisi sistema-
prio due opere «in metallo», il Baldacchino e il Monumento fune-
tica. Il riemergere di tanti bronzetti raffiguranti la contessa Matilde
bre di Urbano VIII, entrambi in San Pietro10. Sempre Wittkower,
negli anni successivi alla pubblicazione del Bernini di Wittkower
nella sua fondamentale monografia sull’artista, fin dal 1955 aveva
(1955), dove era riprodotto quello Barberini qui discusso, forse
sottolineato come il bronzetto qui in oggetto non fosse una repli-
non è casuale e costituisce indubbiamente un capitolo minore ma
ca dalla figura della contessa del Monumento funebre di Matilde di
significativo della fortuna berniniana, una vicenda dunque che vale
Canossa in San Pietro, realizzato da Bernini con ampio intervento
la pena ripercorrere nelle sue tappe fondamentali.
della bottega11, bensì una fusione da un modelletto approntato
La sequenza si apre con la Contessa Matilde acquistata nel 1958
dall’artista in preparazione di quella monumentale statua in
dal North Carolina Museum of Art, un bronzetto che reca incisa
marmo, poi scolpita in gran parte da un suo collaboratore,
sulla parte posteriore della base la scritta
Niccolò Sale. A un modelletto preparatorio per la statua della
Successivamente, nel 1970-71, Rudolf Wittkower rendeva note
contessa allude del resto esplicitamente una relazione autografa
altre tre versioni della composizione: la prima si trovava allora
dell’artista, stesa nel 1644, alla conclusione dei lavori al monu-
nella collezione Max Falk a New York15, la seconda apparteneva
mento, nella quale Gian Lorenzo precisa il proprio ruolo, affer-
all’antiquario Cyril Humphris16 e la terza, in bronzo dorato, era
mando fra l’altro di avere eseguito «di sua mano tutti li modelli
stata appena venduta da Heim alla National Gallery of Victoria a
del’opere di scoltura, cioè dela statua dela matilda, del bassorilie-
Melbourne17. Di lì a poco, la pubblicazione degli inventari
vo e delli quattro angeli»12. Da allora il riferimento a Bernini del
Barberini consentiva di stabilire un’antica provenienza dalla col-
bronzetto barberiniano non è mai stato messo in discussione dalla
lezione di quella famiglia non solo per l’esemplare ancora in loro
critica.
proprietà ma anche, come abbiamo già visto, per quello del museo
9
OPUS EQUITIS BERNINI
13
14
WITTKOWER 1970-71, p. 12. Il
bronzetto, dapprima nella collezione di
Karl Henschel a Kassel, era appartenuto
quindi a G. Cramer all’Aia in Olanda e
da questi era stato venduto al Museo
di Raleigh
15
Ibidem, p. 12 e fig. 20. Questo
bronzetto reca incisa sulla base la
scritta: CONTESSA MATILDA
16
.
14
di Melbourne18. Frattanto, nel 1975, la Contessa Matilde di Cyril
Humphris entrava nei Musei statali di Berlino e, in occasione della
WITTKOWER 1970-71, p. 12
Ibidem, p. 12 e fig. 21
17
Ibidem, p. 12 e figg. 15, 17. Wittkower
segnala come vi fosse una tradizione
che voleva che questo bronzetto si
trovasse in Palazzo Altieri, fosse poi
passato ai Ruspoli e quindi in una collezione di Parigi. Fra le illustrazioni che
corredavano i testi sulla scultura preparati da Wittkower per le Mellon
Lectures (testi che sarebbero stati pubblicati dopo la sua scomparsa nel
1977), lo studioso segnalava una versione della Contessa Matilde indicata come
nella Art Gallery della University of
Saint Thomas a Houston ma che, esaminando la fotografia, sembrerebbe il
bronzo già Falk e oggi a Cambridge
18
ARONBERG LAVIN 1975, pp. 197, 255,
393, 423
sua pubblicazione, Ursula Schlegel segnalava un’altra versione
Alla pagina precedente (Figura 11):
Contessa Matilde, Melbourne
16
conservata sempre a Berlino19.
19
SCHLEGEL 1978, pp. 164-167
17
20
MEZZATESTA (1982, nn. 2-4, s.i.p.)
aveva segnalato che questo bronzo nel
1941 era stato messo in vendita a
New York presso le Parke-Bernet
Galleries (asta 30 aprile-3 maggio, lotto
1306) e che proveniva dalla collezione
della moglie di Henry Walters
21
Sotheby’s, London, 11 dicembre
1980, lotto 264. Stando a Mezzatesta
(1982), questo bronzo misura 41,5 cm
e sarebbe quindi più alto della maggior
parte degli altri. Ma, a giudicare dalla
foto, la base sembra più alta di quella
degli altri esemplari. Inoltre Mezzatesta
segnalava come questa versione non
presentasse sul retro quei segni della
spatola, visibili di contro negli altri
esemplari fino a quel momento noti
Nel 1982 alcuni di questi bronzetti venivano quindi esposti al
6. Berlino, Kunstgewerbe Museum im Schloss Köpenick; h. 40
Kimbell Art Museum di Fort Worth in una mostra sullo scultore
cm. Nel pubblicare la versione al punto 5, la Schlegel (1978, p.
organizzata da Michael Mezzatesta: un’apposita sezione era dedi-
166) segnalava altresì un altro bronzetto con la Contessa Matilde
cata proprio ai bronzetti della Contessa Matilde e vi comparivano
che nel 1978 si trovava a Köpenick e che la studiosa riteneva pro-
la versione di Raleigh, quella allora di Max Falk e un terzo esem-
venisse dalla Kunstkammer dei re di Prussia. Di questa versione
plare in collezione privata che proveniva da una vendita
non sono state pubblicate riproduzioni fotografiche;
Sotheby’s .
7. New York, Michael Hall, (cfr. BEWER, 1999, p. 166; non ripro-
Il Fogg Art Museum di Cambridge (Massachusetts) avrebbe inve-
dotta);
ce acquistato nel 1998 la versione della Matilde appartenuta a
8. New York, Michael Hall (già Christie’s, Londra, 2 dicembre
Max Falk e già pubblicata da Wittkower22. Venne quindi promos-
1997, lotto 116); h. 39,1 cm;
so un fascicolo monografico berniniano dell’«Harvard University
9. Stati Uniti, collezione privata (già Sotheby’s Londra, 11 dicem-
Art Museum Bulletin», nel quale Francesca Bewer esaminava pro-
bre 1980, lotto 264; vd. MEZZATESTA 1982, n. 4, h. 41,5 cm). Non
prio il bronzetto appena entrato al Museo e stilava un elenco delle
è possibile stabilire se questa versione sia quella citata da
varie versioni della composizione. Oltre alla maggior parte di
Francesca Bewer (1999, p. 166) come in una collezione privata
quelle già pubblicate, la studiosa ne segnalava altre quattro: una
statunitense;
presso Michael Hall a New York, una seconda già Christie’s
10. Amsterdam, C. Vecht;
(London, 2 dicembre 1997, lotto 116), acquisita successivamente
11. Roma, collezione privata (cfr. BEWER 1999, p.166 che non la
anche questa da Hall, una terza in collezione privata americana
riproduce ma la definisce un «very rough cast» che presenta anco-
(forse identificabile con quella pubblicata da Mezzatesta nel 1982)
ra visibili i «core pins»);
e una quarta in una collezione privata romana23.
12. Collezione privata, già Milano, Carlo Orsi (si tratta di una ver-
Un’ulteriore versione della composizione, presso C. Vecht ad
sione in bronzo dorato, h. 39,2 cm)24.
20
21
22
WITTKOWER 1970-71, p. 12. Alcune
foto di un bronzo che sembra senza
dubbio quello oggi a Cambridge si
conservano nella fototeca del
Kunsthistorisches Institut di Firenze
(inv. 498423-498429) e vi si afferma
che la scultura si trovava a Princeton
nella collezione di Irving Lavin
23
Non mi è possibile stabilire se la
Contessa Matilde di collezione privata
(già Sotheby’s 1980) illustrata da
Mezzatesta nel 1982 sia la stessa indicata dalla Bewer (1999, p. 166) semplicemente come di collezione privata
statunitense
Alla pagina precedente (Figure 12,13,14):
In senso orario partendo in alto a sin.:
Contessa Matilde, Raleigh;
Contessa Matilde, Berlino (Kunstgewerbe
Museum);
Contessa Matilde Cambridge (Mass.);
20
Amsterdam, era stata resa nota da Charles Avery all’interno della
monografia berniniana da lui pubblicata nel 1997, mentre in
A Francesca Bewer dobbiamo alcune interessanti osservazioni
seguito è comparsa una seconda versione in bronzo dorato presso
tecniche, fondate però soltanto sull’esame dell’esemplare di
Carlo Orsi a Milano, presentata alla XXII Biennale dell’Antiqua-
Cambridge (il solo illustrato nel testo), dei due di Michael Hall e
riato di Firenze del 2001 e oggi in collezione privata.
di quello di collezione privata romana. Già Mezzatesta aveva indi-
Dunque le versioni oggi note del bronzetto dovrebbero essere le
cato come verosimilmente fosse stato tratto uno stampo in stucco,
seguenti:
un «cavo» in più pezzi della terracotta (o della cera25?) originale di
1. Milano, Carlo Orsi (già Roma, collezione Barberini); h. 40,2 cm;
Bernini e, da questo, fossero poi stati realizzati vari esemplari in
2. Melbourne, National Gallery of Victoria (già Roma, collezione
cera per le diverse fusioni. Ogni cera sarebbe poi stata rilavorata
Barberini); h. 40, 5 cm;
e questo spiega le varianti che distinguono i diversi esemplari in
3. Cambridge (Massachusetts), Fogg Art Museum (inv. 1998.1);
dettagli quali ad esempio le decorazioni della tiara; nondimeno è
h. 40,3 cm;
ben possibile che alcune versioni derivino direttamente da un
4. Raleigh North Carolina Museum of Art (inv. 58.4.20); h. 40 cm;
bronzo e solo uno studio sistematico dei diversi esemplari potreb-
5. Berlino, Kunstgewerbe Museum im Schloss Köpenick (inv.
be recare utili chiarimenti sulla questione.
1977, 159); h. 39,4 cm; si tratta della versione pubblicata dalla
Come evidenzia la lista delle varie versioni non sono disponibili
Schlegel nel 1978 allorché si trovava nel museo di Berlino-
misurazioni attendibili per tutti gli esemplari (in alcuni casi poi le
Dahlem, passata in seguito alla sede attuale;
dimensioni di uno stesso bronzo variano da pubblicazione a pub-
24
Non è chiaro se possa essere
identificato con uno degli esemplari
noti quello di cui esiste una vecchia
fotografia presso il Kunsthistorisches
Institut di Firenze (inv. 173713),
indicato come di ubicazione ignota
25
L’ipotesi che il modelletto di partenza
fosse in terracotta sembrerebbe la più
verosimile anche perché non sono
giunti fino a noi modelletti in cera
riferibili a Bernini. Nondimeno si dovrà
ricordare come Joachim von Sandrart,
che visitò lo studio di Bernini negli anni
Trenta, affermi di avervi visto oltre
venti modelli in cera per il Longino
(cfr. SANDRART 1675, p. 414)
21
blicazione); inoltre la Bewer ha osservato che «due to the number
of variables introduced by distortions resulting from the manipulation of the wax, casting flaws or chasing the metal, most measu26
BEWER 1999, p. 167
rements are of limited use26». Un elemento dunque, quello delle
dimensioni, che non aiuta più di tanto nel tentativo di stabilire
una gerarchia fra i vari esemplari. Significativa invece, anche da
questo punto di vista, è piuttosto la storia collezionistica delle
diverse versioni. Gli inventari secenteschi barberiniani menzionano solo due bronzetti con questo soggetto, identificabili in quello
di Melbourne e in quello qui discusso mentre tutte le altre versioni sono venute alla luce nella seconda metà del XX secolo e per
nessuna di queste è possibile individuare una storia più antica. Ciò
non significa, è ovvio, che si tratti di fusioni moderne ma, nondimeno, va ribadito il primato dei due esemplari barberiniani. Un
primato confermato peraltro dalla qualità delle fusioni e della successiva rinettatura; già Wittkower, del resto, segnalava come i
bronzi Barberini, insieme a quello di Cyril Humphris, fossero
27
WITTKOWER 1970-1971, p. 13
«beautifully chased» con «rich and warm surfaces27». La campagna fotografica realizzata in questa occasione credo confermi pienamente lo straordinario livello qualitativo della versione già
Barberini.
Con l’eccezione dell’esemplare di collezione privata pubblicato da
Mezzatesta (il solo peraltro con una base rettangolare), quasi tutte
le varie versioni presentano sul retro le medesime caratteristiche
del bronzetto barberiniano: è possibile quindi che si tratti di fusioni antiche, realizzate forse sempre a partire dal medesimo modelletto, o comunque dal primo esemplare. I bronzetti più accessibili
e quindi meglio esaminabili sono naturalmente quelli appartenenti
a collezioni pubbliche (Melbourne, Cambridge, Berlino, Raleigh)
alcuni dei quali sono con evidenza fusioni meno nitide, più stanche
rispetto a quella Barberini. Un aspetto che risulta evidente, ad
esempio, nel particolare dei piedi, ben individuati anche nelle dita
nel nostro esemplare e in quelli di Melbourne e Raleigh, quasi
Alla pagina precedente
(Figure 15,16,17,18):
In senso orario partendo in alto a sin.:
Contessa Matilde, Raleigh;
Contessa Matilde, Berlino (Kunstgewerbe
Museum);
Contessa Matilde Cambridge (Mass.);
Contessa Matilde, Melbourne
24
informi invece in quelli di Berlino e Cambridge, a denunciare la
possibile derivazione di questi ultimi da un bronzetto e non dall’originaria terracotta berniniana. Il volto della Matilde barberiniana
presenta una qualità quasi impressionistica, risultato di un intervento di rinettatura molto sottile, vòlto a mantenerne il carattere
28
New York 2012, pp. 132-135
26
bozzettistico, diversamente da quanto osserviamo negli esemplari
zettistico accanto ad altre rinettate con un minuziosissimo lavoro
di Berlino e Cambridge. Nel bronzo di Berlino inoltre la resa del
di cesello vòlto a individuare le varie superfici: dalle stoffe agli
diadema appare molto rifinita ma fraintende, nel taglio smussato
incarnati, specificate da diversi gradi di lavorazione con lo scopo
delle gemme, la soluzione studiata da Bernini che ritroviamo inve-
di esaltare le vibrazioni chiaroscurali. Se non sappiamo chi ha
ce nel nostro bronzetto e in quelli di Melbourne e Raleigh.
fuso questo bronzo, vi è però da credere che Bernini abbia forni-
Anche a confronto con la versione di Raleigh – una delle migliori –
to precise indicazioni al fonditore. Non si spiegherebbe diversa-
quella Barberini appare più sottilmente rifinita, in virtù di una lavo-
mente la volontà di far trapelare dal metallo la freschezza scabra
razione del bronzo che mira ad esaltare il carattere vibrante e mosso
della terracotta: un aspetto che, come vedremo meglio più avan-
delle superfici. Si vedano ad esempio le tracce del minutissimo
ti, troviamo anche in altre opere eseguite da Bernini negli anni
lavoro di cesello in corrispondenza del collo o del risvolto della
Trenta del Seicento e che, a quanto mi risulta, non si ritrova in
veste e anche la maggiore incisività e nitidezza dell’intaglio nelle
altri bronzi romani dell’epoca.
chiavi, tanto nella parte finale quanto nell’impugnatura. Quanto
A giudicare dai bronzetti, la terracotta (o la cera) da cui Bernini
all’aspetto più abbozzato della versione qui discussa a confronto
partiva doveva essere un modelletto, un’opera dunque complessi-
con quella di Melbourne (per la quale si dovrà però tenere in
vamente rifinita nelle parti principali ma ancora in grado di
conto l’effetto della doratura), è intanto istruttivo osservare la
mostrare la freschezza del bozzetto, specie nel retro.
diversità con cui sono rese nei due bronzi le decorazioni della
Lo status di prima fusione del bronzetto qui in discussione è com-
tiara: ben delineate nell’esemplare australiano, indicate in modo
provato infine non solo dalla qualità e dalla sua provenienza, ma
più compendiario in quello qui presentato. Ma solo un confronto
anche dall’assenza di ogni iscrizione. Il bronzetto di Raleigh reca
diretto e ravvicinato fra gli originali consentirebbe di valutarne in
nella base, sul retro, l’indicazione
modo sistematico le singole differenze che le riproduzioni foto-
fronte quella di COMTESSA MATILDA, variata in CONTESSA MATILDA
grafiche non sempre consentono di precisare.
nell’esemplare di Cambridge. Per un’opera destinata a rimanere
Già la Bewer osservava come in alcuni esemplari compaiano sulla
nelle collezioni barberiniane non era certo necessario specificare
superficie una serie di linee sottili e rilevate ad indicare il segno
l’autore dell’invenzione, né tanto meno il soggetto. Come aveva
della giuntura fra le varie parti del cavo, un dettaglio che ritrovia-
già affermato Wittkower, quindi, se ne deduce che il bronzetto qui
mo anche nel bronzetto qui esaminato, ad esempio nella testa, in
in esame fosse stato fuso come ricordo per il pontefice commit-
corrispondenza dei capelli. La studiosa affermava inoltre che, per
tente, mentre quello dorato, e provvisto di un’elegante iscrizione
quanto riguarda il retro con le superfici abbozzate, i bronzetti
in latino posta sulla preziosa base in pietra «mischia» (non diret-
lasciano scorgere solo parzialmente la freschezza della terracotta.
tamente sul bronzetto), poteva essere stato pensato come un dono
Una considerazione del tutto condivisibile di fronte all’esemplare
per una figura di prestigio (magari semplicemente per uno dei
di Cambridge (rivisto recentemente alla mostra delle terrecotte
componenti della famiglia Barberini29).
berniniane ), discutibile invece davanti alla illusionistica fragran-
Da un punto di vista strettamente stilistico, il bronzetto barberi-
za materica che anche la foto qui pubblicata restituisce piena-
niano della Matilde, che dovrebbe risalire al 1635 circa, appartie-
mente per l’esemplare Barberini (che, va ricordato, la Bewer sem-
ne, al pari del corrispondente marmo in San Pietro, a quella che è
bra conoscere solo attraverso le foto): un bronzetto che, soprat-
stata definita la fase classicista di Bernini, sostanzialmente rivalu-
tutto in questa parte, appare difficilmente distinguibile da una ter-
tata dalla critica più recente dopo i numerosi attacchi di tanti stu-
racotta patinata a finto bronzo.
diosi30. Se l’immagine della contessa non ha certo l’irruenza del
Una ricognizione ravvicinata del bronzetto Barberini mette in
San Longino, la cui esecuzione, del tutto autografa, è immediata-
luce proprio come vi convivano parti di indubbio carattere boz-
mente successiva, questo si deve certamente al soggetto stesso del-
28
OPUS EQUITIS BERNINI
e sulla
29
WITTKOWER 1970-1971, pp. 11-12
30
Si veda, a tale proposito, BELDON
SCOTT 1985, p. 119
27
l’opera, non ad un’improbabile influenza sull’artista da parte del
dal Monumento funebre di Urbano VIII alla Cattedra di San Pietro.
suo maggiore rivale nella scultura del tempo, Alessandro Algardi,
Si spiega così perché Pier Filippo Bernini, il primogenito dello
che a quella data non aveva ancora scolpito nulla di davvero
scultore, potesse indicare come di sua mano queste opere del
monumentale che potesse costituire un parametro di riferimento
padre. Nei primi anni Settanta del Seicento, infatti, quando Gian
per Gian Lorenzo. La ricchezza del panneggio, in particolare,
Lorenzo era quasi al termine della sua lunga e prolifica carriera,
certo più convincente grazie al suo effetto bozzettistico, quasi
Pier Filippo stilò un elenco delle opere del padre, via via aggior-
magmatico, del bronzo, nella sua traduzione in formato ridotto
nato, che sarebbe poi stato pubblicato in appendice della biogra-
dell’opera qui presentata, non può che essere indicata come un
fia di Filippo Baldinucci, uscita a Roma all’indomani della morte
risultato tipicamente «barocco», in un inedito (per Bernini) «com31
BACCHI, TUMIDEI 1998, p. 26
promesso classicista31».
«Statue di metallo di sua mano»
Il problema di Bernini scultore in bronzo è un tema spinoso, più
32
Cfr. da ultimo MONTANARI 2009
volte affrontato dalla critica novecentesca32. A questo proposito in
particolare, Jennifer Montagu ha invitato alla massima cautela,
ritenendo di fatto assai improbabile la diretta partecipazione di
33
MONTAGU 1996, pp. 3-4; MONTANARI
2004, p. 180
Bernini alla realizzazione di bronzetti tratti dai suoi modelli33.
Nonostante la grande studiosa abbia giustamente rivalutato il
ruolo fondamentale giocato da artigiani specializzati e fonditori
34
MONTAGU 1989, pp. 70-75
per la nascita di opere in bronzo complesse come il Baldacchino34,
non possono però esserci dubbi che anche per i contemporanei di
Bernini, così come per noi oggi, la traduzione di un bozzetto o di
un modelletto in bronzo era un’operazione assai diversa da quella della sua possibile traduzione in marmo: la prima era considerata un processo prima di tutto tecnico, che l’autore dell’opera
non doveva necessariamente svolgere in prima persona, la seconda, invece, non poteva essere affidata ad un collaboratore senza
che venisse messa in discussione l’autografia della scultura. Se
quindi gli Angeli del ponte di Castel Sant’Angelo sono stati giu-
35
MONTAGU 1985
28
stamente indicati dalla Montagu come esempi paradigmatici di
del grande maestro avvenuta nel 168036. In una versione di quella
Bernini Sculptures not by Bernini35, lo stesso discorso non può
lista databile tra la fine del 1675 e l’inizio del 1676, e contenuta
essere valido per i bronzi. Non a caso le guide dell’epoca indica-
nelle carte di Cristina di Svezia conservate a Stoccolma, le opere
no spesso, come nel caso dei Fiumi della fontana di Piazza
erano divise in quattro grandi sezioni, ovvero i Retratti, le Statue
Navona, anche i nomi degli scultori che tradussero in marmo le
di marmo, le Statue di metallo di sua mano e le Opere d’architettu-
invenzioni del maestro, mentre solo attraverso gli scavi documen-
ra, e miste37: per quelle in bronzo, quindi, veniva specificato di sua
tari novecenteschi abbiamo appreso i nomi di coloro che presero
mano, una precisazione che non era sembrata necessaria in meri-
parte alla fusione delle grandi realizzazioni bronzee berniniane,
to a quelle in marmo. I contemporanei di Bernini sapevano bene
Figura 19:
Gian Lorenzo Bernini, Monumento
alla contessa Matilde, Roma, basilica
di San Pietro, particolare del rilievo
36
MONTANARI 1998, p. 403
37
D’ONOFRIO 1967, pp. 434-438
29
come il grande artista non fosse mai stato un fonditore di professione, e certo nessuno avrebbe mai potuto pensare che Gian
Lorenzo avesse fuso da solo i quattro colossali Padri della Chiesa
alla base dell’enorme Cattedra di San Pietro nella tribuna della
basilica vaticana, pure elencati in quella lista; l’espressione di sua
mano serviva sostanzialmente a indicare la paternità dell’invenzione, della realizzazione dei modelli ma anche una stretta sorveglianza nelle fasi di fusione e rinettatura. Opere da considerarsi
quindi, tanto per i parametri dell’epoca quanto per noi oggi, delle
creazioni assolutamente autografe dell’artista. L’elenco approntato da Pier Filippo Bernini era piuttosto sintetico, e considerava
quasi unicamente le grandi opere monumentali in San Pietro.
Anche se potrebbe sembrare paradossale, il bronzetto della
Matilde, fusione fedele di un modelletto perduto di Bernini, è
dunque, lo ripetiamo, un’opera ascrivibile alla seconda delle quattro categorie individuate da Wittkower, mentre lo stesso
Monumento funebre di Matilde di Canossa in San Pietro, scolpito
materialmente dai vari Niccolò Sale, Stefano Speranza, Andrea
Bolgi e Luigi Bernini, rientra nella terza, quella delle opere nelle
quali il maestro «tenne saldamente le redini, ma attivamente con38
WITTKOWER 1958, pp. 144 e 164,
nota 35
tribuì poco o niente all’esecuzione38». Il carattere bozzettistico del
bronzetto barberiniano, connotato da una finitura scabra che non
mira ad ottenere superfici estremamente pulite e traslucide ma
piuttosto a sottolineare la prossimità del bronzo a materiali morbidi come la terracotta e la cera e a restituirne un’irregolarità ricchissima di modulazioni chiaroscurali, assolutamente in linea con
quanto vediamo nei bronzi certamente fusi sotto la direzione del
maestro, a partire da quello del Ritratto di Urbano VIII in bronzo
e porfido anch’esso ancora oggi presso gli eredi del pontefice e
39
BACCHI 2009, pp. 254-256
databile al 1632 circa39, è un’altra conferma dell’autografia dell’opera. Si tratta, infatti, di una caratteristica davvero sorprendente,
che può trovare spiegazione proprio in una precisa scelta da parte
dell’artista: negli anni Trenta, infatti, Bernini sperimenta una sorta
40
Un «non finito» che compare già
nelle opere del padre di Gian Lorenzo,
Pietro Bernini, come testimonia
l’Assunzione della Vergine in Santa Maria
Maggiore a Roma e il Carlo Martello
della controfacciata del Duomo di
Napoli, recentemente riconosciutogli
da Fernando Loffredo (2010, p. 89)
30
di «non finito», forse di ideale ascendenza michelangiolesca, non
solo nel bronzo, ma anche nel marmo40. Nel San Longino collocato in uno dei pilastri della cupola di San Pietro (1629-1638) è evidente ovunque la finitura a scalpello dentato, che contrasta fortemente con il trattamento iper-levigato della Santa Veronica di
Francesco Mochi. Una finitura che ritroviamo, alle stesse date,
anche in vari passaggi della statua di Urbano VIII dei Palazzi
Capitolini (1635-1640). E proprio nel Monumento funebre a
Matilde di Canossa si ritrova il più clamoroso esempio di questa
innovativa scelta berniniana: il rilievo del sarcofago, la cui esecuzione venne affidata al già citato Stefano Speranza, esibisce la
medesima finitura a scalpello dentato, paragonabile a quella che si
vede nel retro del bronzetto della Matilde, senza dubbio voluta
proprio da Bernini, a dimostrazione che non era solo la distanza
dall’occhio del riguardante a determinare un diverso grado di finitura, poiché in questo caso la statua di Matilde, posta più in alto e
Figura 20:
Monumento alla contessa Matilde,
Roma, basilica di San Pietro, part.
in secondo piano, appare perfettamente lustrata laddove il rilievo,
assai più vicino all’occhio, mostra quest’aspetto quasi non finito.
Se Bernini non avesse diretto personalmente la fusione del suo
modelletto, o non avesse comunque dato direttive in proposito,
sarebbe stato più naturale per un allievo o imitatore rinettare il
bronzo fino ad ottenere quegli effetti di lucentezza e politezza che
lo stesso Bernini avrebbe perseguito nei suoi più tardi, autografi
Crocifissi bronzei, ma che non era evidentemente tra i suoi obiet33
41
42
Su questi cfr. MONTANARI 2009
Los Angeles 2008, pp. 92-99
tivi negli anni Trenta41. Il nome dell’autore materiale della fusione
(1624-1633), in anni cioè non lontani dalla realizzazione del
non è al momento individuabile. Nel 1621 era stato Sebastiano
Monumento di Matilde di Canossa: lo stesso Laurenziani, Orazio
Sebastiani a fondere i busti di Paolo V e Gregorio XV e poco
Albrizzi, Gregorio de Rossi, Francesco Beltramelli, Innocenzo
dopo, nel 1623-24, ancora Sebastiani insieme a Giacomo
Albertini e Ambrogio Lucenti. In particolare quest’ultimo avreb-
Laurenziani aveva realizzato la traduzione in bronzo del model-
be lavorato con Bernini anche nel 1640, realizzando la fusione del
letto in cera del Ritratto di Paolo Giordano Orsini eseguito da
Busto di Urbano VIII del Duomo di Spoleto44. Per il Monumento
Bernini (le due opere sono probabilmente identificabili, rispetti-
a Urbano VIII invece, in un primo tempo (1628-1630), quando
42
cioè si lavora alla statua del pontefice, troviamo gli stessi fonditori del Baldacchino (Orazio Albrizzi, Gregorio de Rossi), peraltro
44
Le notizie su questi fonditori sono
ancora assai scarse; si vedano almeno i
documenti pubblicati da POLLAK 1931,
II, e le rispettive voci nel THIEME-BECKER.
Per il Busto di Urbano VIII a Spoleto si
rimanda a MARTINELLI 1954-1955, ed.
1994, p. 152
costantemente seguiti da Bernini che, nel momento della fusione
dichiara: «se bene sto convalescente, non mi parto dal focho ne
giorno ne notte che cosi e necessario»45. Successivamente (16391643), allorché si eseguono le altre parti in bronzo, il fonditore è
Cesare Sebastiani, probabilmente un parente di Sebastiano.
45
POLLAK 1931, II, pp. 602-603 doc.
2414. Più in generale i documenti sul
Monumento sono pubblicati alle pagine
590- 611
Resta il fatto, però, che di nessun altro modelletto berniniano
sono giunte a noi tante fusioni come queste della Contessa
Matilde, e sorprende davvero il numero così alto di esemplari
noti. Se infatti, come ha osservato la Bewer, sono numerose le
«reductions», i bronzetti cioè derivati dalle opere monumentali
di Bernini in larga misura eseguiti fuori dal controllo del maestro, molto più rari sono i «casts of models», categoria in cui,
oltre ai bronzetti con la contessa Matilde, è stato ipotizzato
possano rientrare il Costantino dell’Ashmoleam Museum di
Oxford e il Carlo II di collezione privata46. Uno statuto più incerto spetta ad altri bronzi come la Sant’Agnese e la Santa Caterina
(collegabili a due delle figure del colonnato), ma anche al Busto
di Richelieu e al Nettuno e il delfino47. Il solo confronto possibile per il bronzetto barberiniano della Matilde, quanto alla fortu-
46
Per il Costantino si veda WEIHRAUCH
1967, p. 240; PENNY 1992, p. 15; BEWER
1999. Per il Carlo II, FAGIOLO DELL’ARCO
2002, pp. 122-123
47
Su questi bronzi si veda BEWER 1999,
pp. 162, 164, 165 e FUSCO 2002 (con
bibliografia precedente)
na di un determinato modello, è la Sant’Agnese, nota in cinque
esemplari, anch’essa tratta da un modelletto in terracotta,
eseguito tuttavia molto probabilmente da Lazzaro Morelli, il
Figura 21:
Giovan Francesco Romanelli, La
Prudenza, Roma, Città del Vaticano,
Palazzi Apostolici, sala della contessa
Matilde, affresco
43
BENOCCI 2006, pp. 57 e 60
34
vamente, con gli esemplari del Metropolitan Museum di New
principale collaboratore di Gian Lorenzo per il Colonnato48.
York e del Plymouth City Museum and Art Gallery43). Sebastiani
È probabile che fosse la valenza politica dell’immagine di Matilde
era già morto nel 1626, mentre Laurenziani sarebbe scomparso
di Canossa a sollecitare la realizzazione di tante versioni di quel
nel 1650 e avrebbe collaborato con Gian Lorenzo anche in altre
bronzetto, destinate ad essere inviate agli ambasciatori e ai
occasioni, come per il perduto Busto di Urbano VIII già nel refet-
regnanti d’Italia e d’Europa. Negli stessi anni del resto Urbano
torio della Trinità dei Pellegrini di Roma. Si dovranno poi qui
VIII commissiona a Giovan Francesco Romanelli la decorazione
ricordare i fonditori documentati nell’impresa del Baldacchino
ad affresco con Storie della Contessa Matilde di un’intera sala dei
48
MONTAGU 1967, pp. 567-570 (che la
riteneva una derivazione da un modelletto di Bernini). Ipotesi messa in dubbio dalla stessa Montagu già nel 1989
(MONTAGU 1989, p. 212 n.69). Più di
recente inoltre (cfr. Edinburgh 1998, p.
208 n. 68) la studiosa ha suggerito il
nome di Morelli quale autore del
modello. Per un elenco degli esemplari
si veda Emma Stirrup in Edinburgh
1998, p. 111
35
49
Sugli affreschi della sala della contessa
Matilde si veda FALDI 1970, p. 321;
BRUNO 1999, pp. 47-48
50
Per gli arazzi si veda HARPER 2007
(con bibliografia precedente). Per il
Busto, ROSSINI 1693, p. 53: «la testa, e
busto della Contessa Matilde». Stessa
citazione in DE’ ROSSI 1697, p. 347
51
BELDON SCOTT 1985, pp. 119-127. Si
veda anche RICE 1997, p. 115 e
ANDRETTA 1999 e 2003
Palazzi Apostolici (1637-1642) ed è significativo osservare come
anche per le repliche dal Ratto di Elena di Guido Reni (Parigi,
qui la raffigurazione della Prudenza alluda esplicitamente alla
Louvre56). I bronzetti raffiguranti la Contessa Matilde, quindi,
Matilde berniniana . E la contessa Matilde compare poi, accanto
dovettero essere realizzati per conto dei Barberini come doni
al pontefice, anche negli arazzi con storie della Vita di Urbano
diplomatici con l’obiettivo di richiamare i potenti d’Italia e
VIII realizzati dalla Arazzeria Barberini intorno al 1660 mentre,
d’Europa al loro dovere di difensori della Chiesa. Ma il primo
alla fine del Seicento, le guide di Roma ricordavano a Palazzo
esemplare, che doveva servire da prototipo agli altri, rimase sem-
Barberini un Busto della Contessa Matilde oggi non più rintraccia-
pre presso la famiglia del pontefice.
49
56
COLANTUONO 1997, pp. 115-118
bile ma probabilmente frutto di questa stessa stagione50.
Il significato del Monumento funebre di Matilde di Canossa nel
contesto della politica barberiniana è stato più volte indagato,
soprattutto da John Beldon Scott51. Urbano VIII aveva fatto traslare a San Pietro le spoglie della contessa dal convento di San
Benedetto Po, al Polirone, in virtù del ruolo svolto dalla nobildonna al tempo della lotta per le investiture tra l’imperatore
Enrico IV e il pontefice Gregorio VII. Come avrebbe infatti sottolineato il cardinale Guido Bentivoglio in una sua lettera, Maffeo
Barberini era «risoluto d’honorar quella memoria della Contessa,
per esempio ad altri principi della protettione che devono tenere
52
MONTANARI 2000, p. 708
53
Su tutte queste vicende cfr. soprattutto
COLANTUONO 1997, pp. 24-48
54
Su queste tele cfr. da ultimo SPARTI
2004/05, pp. 190-195, che peraltro ha
rifiutato la tradizionale lettura «politica»
dei dipinti di Poussin
55
SUTHERLAND HARRIS 1977, p. 58,
cat. 17
36
Il Monumento alla contessa Matilde*
della Sede Apostolica»52. A quel tempo si era ancora nel pieno
della guerra dei Trent’anni (1618-1648), che nelle sue fasi più
Già ai contemporanei non era certo sfuggito come, nella scelta del
recenti, il conflitto della Valtellina e quello per la successione al
nome da papa, per Maffeo Barberini avesse giocato non tanto la
ducato di Mantova, avevano interessato direttamente l’Italia, met-
memoria del predecessore trecentesco morto in odore di santità,
tendo in allarme il pontefice, sempre alla ricerca di un equilibrio
Urbano V, quanto quella ben più «militante» di Urbano II (1088-
tra la Francia di Luigi XIII (e del cardinale Richelieu) e la Spagna
1099). L’erede cioè di Gregorio VII nella sua mitica lotta contro
di Filippo IV (e del conte-duca Olivares ). I Barberini utilizzaro-
l’imperatore, il restauratore dell’idea universalistica del papato, il
no più volte le opere d’arte come doni diplomatici, senza limitarsi
pontefice della prima crociata, il rinnovatore della liturgia roma-
a scegliere oggetti di grande valore, ma selezionandole con atten-
na. Ma importa ancor più che in quella scelta venisse allo scoper-
zione in rapporto ai loro soggetti: le due tele di Nicolas Poussin
to una ben più profonda riflessione sul papato e la sua storia, che
raffiguranti Tito ferma la distruzione del Tempio di Gerusalemme,
per Maffeo, dalla traccia degli Annali del Baronio e del clima dei
una sorta di invito alla pace, donate dai Barberini agli ambasciato-
tempi, era iniziata almeno dagli anni in cui era cardinale.
ri di Francia e dell’Impero, sono l’esempio più illuminante di que-
«Portava Urbano fin da Cardinale una profonda venerazione alla
sta attenta politica delle immagini (il primo dipinto è stato identi-
memoria illustre della Contessa Matilde, che generosamente dotò
ficato con la tela oggi all’Israel Museum di Gerusalemme; il secon-
la Sede Apostolica con l’accrescimento di molti Stati che si disse-
do è certamente quello del Kunsthistorisches Museum di
ro Patrimonio di S. Pietro»1. L’identificazione con l’energico e vin-
Vienna ). Anche dell’Allegoria della Divina Sapienza affrescata da
citore Urbano II, rispetto al modello più sofferto ed esistenziale
Andrea Sacchi sulla volta di una sala di Palazzo Barberini alle
offerto da Gregorio VII, morto in solitudine dopo una vita spesa
Quattro Fontane vennero tratte diverse copie impiegate come
nella lotta contro Enrico IV, andrà tutta a credito del carattere del
doni diplomatici55, e lo stesso discorso poteva forse essere valido
nuovo pontefice. Ma in entrambi i casi il richiamo storico e, poi-
53
54
*
Viene qui ripubblicato, con alcune
varianti, il testo scritto nel 1998 insieme
a Stefano Tumidei per il volume Bernini
in San Pietro, Federico Motta editore,
Milano 1998, pp. 26-32
1
BERNINI 1713, p. 46
37
38
ché di questo si trattava, l’affermazione del papato sul potere tem-
1631. È stato notato del resto come fossero santi per così dire
porale e nel consesso delle potenze europee sulla traccia di quegli
mantovani (per antica venerazione) anche San Longino e
illustri predecessori medievali, comportava l’immediata contiguità
Sant’Andrea cui, come abbiamo visto, s’era riservata una colloca-
con un altro exemplum virtutis di non meno emblematica sugge-
zione di riguardo sotto la cupola michelangiolesca. E quanto alle
stione: quello di Matilde di Canossa (1046-1115), alleata e sodale
stesse implicazioni politiche della traslazione delle spoglie di
di Gregorio prima e di Urbano poi, vera principessa cristiana,
Matilde, non potrà tacersi il disappunto dell’ambasciatore vene-
benefattrice della Santa Sede. Matilde «proda guerriera e duce»,
ziano Alvise Contarini sul modo in cui Urbano aveva condotto
«alla Chiesa Romana... scudo» come lo stesso Maffeo aveva scrit-
l’impresa: «Il papa ha fatto rubbar il corpo della Contessa
to, anni prima, nei versi cantilenanti di un’ode pindarica data alle
Manilda [sic], che con molta venerazione era custodito nella chie-
stampe solo nel 1635, nel vivo di un revival per la contessa cui,
sa di S. Benedetto di Mantova […] senza che il Duca ne altri ne
appunto, il pontefice contribuiva ora sostanzialmente con la deci-
habbino saputo cosa alcuna»2.
sione di erigerle in San Pietro una degna sepoltura. A quest’ulti-
Sul piano internazionale Urbano VIII si trovava invece a dover
ma faranno poi esplicita allusione, nel 1642, le Memorie di Matilda
fronteggiare le rivendicazioni cesaropapiste dei più agguerriti stati
la gran contessa propugnacolo della chiesa di Francesco Maria
cattolici, dalla Spagna di Filippo IV alla Francia di Richelieu, spe-
Fiorentini stampate a Lucca con dedica allo stesso pontefice, e
cie in materia di nomine ecclesiastiche in una disputa che toccherà
pronte a dar giusta amplificazione retorica ad un’impresa che
toni accesissimi. Non sarà un caso allora che proprio l’episodio
andava ben oltre la reiterazione simbolica dei legami che, in vita,
dell’umiliazione di Enrico IV ai piedi di Gregorio VII (dai linea-
avevano unito Urbano II alla contessa.
menti assai simili a quelli di Urbano VIII) venisse scelto ad illu-
Pochi mesi dopo l’incarico affidato a Bernini per il monumento,
strare il monumento di Matilde né che sin dall’inizio la colloca-
erano state traslate a Roma, nel 1634, le spoglie di Matilde, con-
zione della tomba fosse pensata nell’intercolumnio del primo pila-
servate fino ad allora nell’abbazia di San Benedetto a Polirone,
stro, in asse dunque con la porta santa. Là dove anche i principi
non lontano da Mantova. Dopo aver riunito sotto la cupola le reli-
cattolici dovevano passare in occasione degli anni giubilari.
quie dei santi, Urbano VIII, dunque e per la prima volta, apriva le
A simili aspettative, Bernini rispose anzitutto immaginando un
porte della nuova San Pietro a quelle di un laico, e per di più
simulacro marmoreo, a figura intera, di Matilde ove nulla avrebbe
donna. Ma in quella solenne affermazione del primato pontificio
fatto pensare alla «santa» medievale. Piuttosto ad un’eroina clas-
che costituisce il filo rosso di tutti gli interventi barberiniani, l’im-
sica con gli attributi della Santa Sede, la tiara e le chiavi, ben in
magine di Matilde introduceva in San Pietro, in modo inatteso, il
vista e lo scettro in segno di comando; un’idea che già si affaccia
tema soprattutto scottante del potere temporale dei principi cat-
nel solo disegno preparatorio conosciuto (Bruxelles, Musée des
tolici in rapporto con la Santa Sede. A celebrare l’imperatore
Beaux Arts), certo riferibile, per le molte varianti presenti, ad uno
Costantino, richiamo immancabile e quasi obbligato della propa-
stadio relativamente precoce nell’elaborazione del monumento,
ganda cattolica, avrebbe provveduto, anni dopo Innocenzo X (e
dunque alla fine del 1633 o agli inizi dell’anno successivo. Altro,
inizialmente con l’idea di posizionarne il monumento in ideale
dei progressi ideativi che portarono alla realizzazione finale, non
raccordo visivo con Matilde). Eventi più immediati e cruciali por-
conosciamo, nonostante l’insistenza delle fonti sull’esistenza di
tavano Urbano VIII a spendere la memoria della contessa. Intanto
disegni e di modelli autografi per ogni parte, comprese quelle
le mire politiche e militari del pontefice sulla stessa Mantova negli
decorative. Fonti che del resto andranno rilette alla luce della
anni in cui la sorte dell’ex capitale gonzaghesca era oggetto di con-
testimonianza di Domenico Bernini il quale, parlando del monu-
tese violentissime e allorché anche la politica territoriale della
mento, non esitava a giudicarlo eseguito dal padre «più col dise-
Santa Sede era ritornata in auge con l’annessione di Urbino nel
gno, che colla mano».
2
HAMMOND 1984, p. 34, n. 8
39
3
BERNINI 1713, p. 47
40
Davanti a quella nuova e difficilmente aggirabile richiesta del pon-
la garanzia di un diretto intervento nella rifinitura. Il che equiva-
tefice e, in pratica, all’apertura di un nuovo fronte di impegno,
leva per gli stessi fabbricieri di San Pietro a riferire sulla Matilde
con i modelli del Longino ancora nello studio e il rilievo col Pasce
che «si pol dire che habbia fatta quasi tutta perché non ci è parte
Ovas Meas già iniziato, è proprio a partire dal Monumento a
che non abbia ripassata e finita»4.
Matilde che Bernini organizza in modo sistematico l’opera dei col-
Con tutto ciò, fra le opere del maestro, il monumento a Matilde è
laboratori, gli stessi per altro già sperimentati (o in via di speri-
quello cui è toccata, nel Novecento, la più tiepida accoglienza cri-
mentazione) nella decorazione dei pilastri. Un conto era evidente-
tica. L’inattesa sterzata classicista del linguaggio berniniano che vi
mente la divisione del lavoro in un’impresa ciclopica e di svilup-
si rivela e che in nulla ancora il Longino lasciava presagire, poteva
po architettonico, un conto, ora, l’affiatamento di un’équipe
ancora costituire una felice eccezione nel percorso dell’artista per
pronta quasi ad annullarsi nella riduzione su scala monumentale
il neoclassico Cicognara («diresse il Monumento della contessa
dei progetti del maestro. Il problema si riproporrà con il
Matilde, uno de’ più saviamente inventati; dalla cui sobrietà si
Monumento a Urbano VIII e soprattutto, con l’Alessandro VII, la
vide recedere allorquando pose mano al monumento di Urbano
Cattedra e cioè quelle imprese dove tutto parla di Bernini e quasi
VIII»)5; non oltre. Al punto che talvolta si è persino fatto riferi-
nulla nella realizzazione finale è materialmente suo. Per il
mento ad un momento di sospensione creativa dovuto alla malat-
Monumento a Matilde basterà affidarci al solito bene informato
tia che, stando al biografo, avrebbe colpito Bernini proprio nel
figlio biografo, ineccepibile nel segnalare che «il basso rilievo fu
1635.
scolpito da Stefano Speranza suo discepolo, il Putto sopra la cassa
Le ragioni dei nuovi scrupoli di ponderatezza compositiva che
da Andrea Bolgi, l’altro a man dritta da Luigi Bernino suo fratel-
come più volte rilevato, legano strettamente il Monumento a
lo, che medesimamente ancora fece la statua della Contessa, tolta-
Matilde al Pasce Ovas Meas, riflettendosi anche nell’invenzione
ne la testa, che fu intieramente condotta a fine dal Cavaliere, e i
della Sant’Elena di Bolgi, dunque dal 1634 ai primi anni
due Putti sopra l’arme furono intagliati da Matteo Bonarelli» .
Quaranta, saranno piuttosto culturali. Intanto di più organizzata
I documenti repertoriati da Pollack confermano nella sostanza la
e intelleggibile ripartizione di ruoli fra architettura e scultura.
divisione dei lavori e ne scandiscono i tempi. I primi pagamenti a
Nella prima idea per il monumento, tramandataci dallo schizzo di
Stefano Speranza per il bassorilievo del sarcofago, ad Andrea
Bruxelles, Bernini pensava ancora di sviluppare l’idea della Santa
Bolgi, a Luigi Bernini per i putti sono del marzo 1634. La lunga e
Bibiana, il tema cioè della figura stante, accortamente variata nel
ornata iscrizione posta sul sarcofago riferisce la messa in opera
contrapposto e avvolta in un fremente viluppo di panneggi. Il
delle parti sostanziali del monumento già all’anno successivo ma è
foglio è tagliato in alto e non è chiaro dunque se l’artista pensasse
certo che Stefano Speranza non venne saldato per la sua parte
di ambientarla poi entro una nicchia assai semplice e profonda
prima del febbraio 1636 e che ancora, dopo questa data, rimane-
(l’incorniciatura laterale con un ordine minore di colonne, diffi-
vano da eseguirsi i due putti con lo stemma scolpiti da Matteo
cilmente accordabile tuttavia al binato monumentale preesistente
Bonarelli e Andrea Bolgi fra il 1637 e il ‘38 (al Bolgi doveva poi
nel luogo ove il monumento sarebbe sorto, sembrerebbe in effet-
succedere nel 1642 Lorenzo Flori) e posti in opera soltanto nel
ti rimandare, ancora una volta, alla soluzione adottata nell’altare
1644. È a questo punto che una memoria autografa di Bernini si
di Santa Bibiana). Si aggiungano la presenza inizialmente prevista
preoccupava di apporre il proprio sigillo all’impresa tutta, speci-
di due figure allegoriche (la Fede e la Giustizia) collocate ai lati
ficando che gli si dovevano i disegni, i modelli nonché la finitura
dell’iscrizione, là dove saranno poi i putti, le forme più mosse (le
di ogni statua, in particolare nel rilievo e nella Matilde. Il sigillo
zampe leonine) del sarcofago e si avrà la misura di come nel segui-
dunque non solo dell’inventio in termini tardo rinascimentali
to Bernini perfezionasse il progetto «per via di levare», puntando
quanto di un controllo onnipresente sull’opera dei collaboratori e
ad un insieme più organico e cesellato, quasi diminuito di scala.
3
4
POLLAK 1931, p. 207, doc. 617
5
CICOGNARA 1824, VI, p. 129
41
6
7
MONTAGU 1985a, pp. 39 ss., 434-436
WITTKOWER 1958, ed. 1983, p. 130
42
La soluzione adottata per la nicchia è emblematica, visto il modo
però Pietro da Cortona irrideva l’impianto compositivo eccessiva-
in cui Gian Lorenzo scelse alla fine di graduare l’affondo nella
mente paratattico delle Nozze di Bacco e Arianna di Guido Reni,
parete ricorrendo ad un partito ad arco già studiato da Carlo
era implicito che chiamasse in causa le regole del bassorilievo clas-
Maderno per l’incorniciatura delle finestre nell’ordine superiore
sico, e che dunque anche la scultura fosse in qualche modo della
di Palazzo Barberini. Una sorta di arco trionfale ove l’intradosso
partita8.
aperto e ripartito in specchiature minutamente decorate, amplifi-
L’entrata in scena, proprio a questo punto, di Algardi in San
ca l’effetto monumentale della statua di Matilde, e al tempo stes-
Pietro sarà difficilmente casuale né si può credere che Bernini
so funziona da raccordo prospettico fra i diversi piani e aggetti
rimanesse davvero all’oscuro delle riserve mosse al suo
della macchina celebrativa. Anche la scelta finale dei putti sul
Monumento a Urbano, già presenti nei primi progetti presentati
sepolcro rispondeva ad un’omogeneità di scala dimensionale
dal bolognese al cardinale Ubaldini. È indicativo allora che il con-
rispetto alla Matilde, che le due figure allegoriche previste nel
fronto tra i due scultori si riproponesse sul 1634 intorno a un’in-
disegno avrebbero potuto rispettare solo anteponendosi spavalda-
venzione di grande futuro parallelamente svolta sia nel
mente all’architettura, offrendosi in una tridimensionalità che ne
Monumento a Leone XI sia nella Matilde: quella cioè di riservare
avrebbe contraddetto la più sobria e stiacciata griglia spaziale,
il fronte del sepolcro, sull’esempio dei sarcofagi antichi e paleo-
quasi da bassorilievo. Ma è appunto ciò che, a queste date, Bernini
cristiani, al bassorilievo narrativo, dunque all’historia9. E poiché
si sforzava di evitare. Puntando ad un ordine compositivo in cui
una tale soluzione viene già prospettata nel disegno più volte cita-
all’architettura, come alla scultura, spettassero luoghi e ruoli intel-
to di Bruxelles, è possibile che, ancora una volta, la precedenza
legibilmente distinti anche se, ovviamente, concertati.
spetti a Bernini, mai come in questo caso compunto nella pausata
Non è irrilevante che lo scultore si ponesse in questo ordine di
articolazione narrativa delle figure (indipendentemente dall’ese-
problemi proprio intorno al 1634, l’anno in cui Algardi firmava il
cuzione di Stefano Speranza) come nei controllatissimi accenni di
contratto con il cardinale Ubaldini per il Monumento a Leone XI .
illusione spaziale. Le regole del bassorilievo, di quella sorta di pit-
Già Wittkower vedeva del resto, nella svolta segnata dalla Matilde,
tura a tre dimensioni, rimarranno certo più congeniali ad Algardi,
dal Pasce ovas meas, così come dalla statua di Urbano VIII nel
ma va comunque segnalata, a fronte delle lisciatissime superfici
Palazzo dei Conservatori (1635-40) e da alcuni ritratti coevi, «l’in-
della Legazione di Alessandro de’ Medici in Francia posta sul sepol-
flusso della crescente pressione da parte dei più entusiasti soste-
cro di Leone XI, fatta per essere vista da vicino, la sprezzatura del
nitori della dottrina classica» a Roma7. È in effetti di questi anni
rilievo berniniano studiato per la media distanza e lasciato dunque
anche la polemica, all’Accademia di San Luca, fra Andrea Sacchi
senza finitura e lucidatura. Analogamente, nella Matilde, se pro-
e Pietro da Cortona in tema di pittura di storia. E se anche quella
prio come diceva Sacchi il decoro e la convenienza stavano nel
disputa verteva poi sul numero delle figure adeguate all’azione
rendere «gran sembianti, atteggiamenti maestosi, panneggiamenti
(quando Poussin aveva appena dimostrato che per rendere lo stra-
facili e di poche larghe pieghe»10, per il Bernini anche più classici-
zio della Strage degli innocenti ne bastavano tre soltanto in primo
sta questo voleva dire rifarsi semmai all’umanità florida, impo-
piano), è da credere che Sacchi arricchisse subito il suo argomen-
nente eppur mobilissima che, in una Roma ancora di
tare con il richiamo alle convenienze dell’invenzione, e con pas-
Controriforma, Rubens aveva osato issare sugli altari della Chiesa
saggi che conosciamo dalla più tarda lettera a Francesco Lauri.
Nuova e di Santa Croce in Gerusalemme. Le fonti della paludata
Critiche, dunque, anche alle «bizzarre», «fantastiche», «affettate»,
Matilde sono appunto, come ha chiarito Lavin, nelle figure della
«sfarzose» pieghe delle vesti «che non secondano la positura dei
pala con i Santi Nereo, Domitilla e Achilleo e ancor più nella
corpi che anno da ricoprire e che in vece di ricoprirli restano per
Sant’Elena oggi a Grasse (ma un tempo in Santa Croce in
la lor grevezza e ammassamen[t]o oppressi, e deformi». Quando
Gerusalemme)11.
6
8
Sulla polemica cfr. BRIGANTI 1962, ed.
1982, pp. 88-89; SUTHERLAND HARRIS
1977, pp. 33-37 (che accetta la datazione al 1636 fissata da MAHON 1962, p.
97). La citazione è dalla lettera di
Sacchi inserita dal Pascoli nella vita di
Francesco Lauri (PASCOLI 1730, ed.
1992, p. 524)
9
MONTAGU 1985a, p. 49
10
MISSIRINI 1823, pp. 111-112
11
LAVIN 1968, p. 33
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Le fotografie dell’opera qui pubblicata sono di
Arrigo Coppitz, Firenze
Fotolito: Pixel Studio, Milano
Finito di stampare
nell’aprile 2013