Matilde di Canossa
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Matilde di Canossa
Un bronzetto di Bernini degli anni Trenta Bernini, Matilde di Canossa via Bagutta, 14 – 20121 Milano tel. +39 02 76 00 22 14 fax +39 02 76 00 40 19 [email protected] www.galleriaorsi.com Andrea Bacchi CARLO ORSI Andrea Bacchi Milano aprile 2013 Matilde di Canossa CARLO ORSI Andrea Bacchi Matilde di Canossa Un bronzetto di Bernini degli anni Trenta Milano aprile 2013 Indice «Una statuetta cioè la Contessa Amatilde di bronzo» p. 4 Per la realizzazione di questo catalogo desidero ringraziare: Andrea Bacchi Fernando Loffredo Stefano Pierguidi Susanna Zanuso Fortuna di un’invenzione p. 17 «Statue di metallo di sua mano» p. 28 Il monumento alla contessa Matilde Carlo Orsi p. 37 Catalogo a cura di: Bibliografia Ferdinando Corberi p. 44 GIAN LORENZO BERNINI (Napoli 1598 – Roma 1680) La contessa Matilde di Canossa bronzo, altezza: 40,2 cm PROVENIENZA: collezione Barberini, Roma BIBLIOGRAFIA: MUÑOZ 1917, pp. 188-189; WITTKOWER 1955, cat. 33, p. 196; WITTKOWER 1966, p. 202; LAVIN 1967, p. 103; WEIHRAUCH 1967, p. 240; WITTKOWER 1970-1971, pp. 11-14; ARONBERG LAVIN 1975, pp. 393, 423, 465-466, 636-637; SCHLEGEL 1978, pp. 165-167; MEZZATESTA 1982, s.i.p.; VISONÀ 1995, p. 101; BACCHI 1996, p. 779; MONTAGU 1996, p. 214, n. 219; AVERY 1997, p. 76; BEWER 1999, pp. 165-166, nota 9; MONTANARI 2000, p. 709; GUERRINI 2003, pp. 94-95. «Una statuetta cioè la Contessa Amatilde di bronzo» Nel corso degli anni Trenta del Seicento l’impegno professionale di Gian Lorenzo Bernini è tutto «pubblico», rivolto cioè alle monumentali imprese commissionategli da Urbano VIII Barberini soprattutto per la basilica di San Pietro: quasi solo alcuni busti straordinari rimangono a testimoniare la sua attività nel campo delle opere da stanza o da galleria; un’attività attestata però anche dal bronzetto raffigurante la Contessa Matilde. In quest’opera, infatti, l’artista ha voluto eternare nel bronzo per il suo maggiore committente, Urbano VIII, l’impronta fedele di un modelletto da lui realizzato. Il modelletto preparatorio, cioè, per la figura principale di uno dei monumenti più fortemente voluti dal pontefice, quello della contessa Matilde, «proda guerriera e duce», «alla chiesa romana scudo», come l’aveva cantata proprio il Barberini che ne aveva trafugato le spoglie da San Benedetto Po per portarle a Roma, dove aveva voluto per lei la prima sepoltura di una donna entro le mura di San Pietro, realizzata tra il 1633 e il 1637. In questi anni il collezionismo di bozzetti in terracotta era ancora di là da venire e Bernini, insieme ad Urbano VIII, doveva avere deciso che la fusione in bronzo avrebbe nobilitato il modelletto, gli avrebbe garantito una maggiore durevolezza e ne avrebbe altresì consentito la 4 1 2 3 ARONBERG LAVIN 1975, p. 393, n. WW ARONBERG LAVIN 1975, p. 197, n. 207 ARONBERG LAVIN 1975, p. 255, n. 968 Alla pagina precedente (Figure 1,2,3,4): In senso orario partendo in alto a sin.: Contessa Matilde, Raleigh; Contessa Matilde, Berlino (Kunstgewerbe Museum); Contessa Matilde Cambridge (Mass.); Contessa Matilde, Melbourne 8 riproduzione. Fu inoltre il frutto di una precisa scelta quella di identificare con certezza l’esemplare in questione con quello in volere mantenere nel bronzo il carattere non perfettamente finito bronzo dorato oggi alla National Gallery of Victoria di che doveva contraddistinguere la terracotta e serbare dunque, Melbourne, in Australia, provvisto ancora di una base in pietra anche nel materiale più nobile, la percezione di un pensiero figu- «mischia» (ovvero pietra negra venata bianca), e dell’iscrizione rativo còlto nel suo divenire. Si trattò peraltro di una pratica del MATHILDI/ GRATI ANIMI/ ERGO/ VRBANVS VIII/ POSVIT tutto eccezionale anche all’interno del percorso berniniano e la Nel 1687, tra i beni del figlio di Maffeo, Francesco Barberini ricomparsa dell’esemplare rimasto fino ad oggi presso i discen- (1662-1738), ricomparivano entrambi i bronzetti: denti del pontefice sollecita a riconsiderare la questione. Una statuetta cioè la Contessa Amatilde di bronzo con piedestallo di Il bronzetto qui in esame proviene infatti dalla collezione ebano5. Barberini ed è identificabile con quello citato per la prima volta Una statuetta indorata di metallo, cioè la contessa Amatilde con nell’inventario post mortem dei beni del pronipote di Urbano basa di pietra6. VIII, il principe Maffeo Barberini (1631-1685), inventario stilato Negli inventari Barberini sono dunque citati due bronzetti raffi- nel 1686, nel quale compaiono insieme due raffigurazioni del guranti Matilde; l’identificazione di quello in bronzo dorato, come medesimo soggetto: già detto, è certa, e quello qui in esame, già presso gli eredi Due Contesse Matilde di bronzo, cioè una dorata, e l’altra semplice, Barberini, è senza dubbio l’altro, che nel corso dei secoli ha perso con piedestalli, uno di pietra, e l’altro d’ebano1. la sua originaria, più povera, base in ebano. In merito a quest’ul- L’esemplare dorato, e con piedistallo di pietra, era certamente timo, pur non potendo stabilirne la collocazione nel corso degli quello menzionato una prima volta nell’inventario dei beni del anni Trenta del Seicento, è comunque possibile fare qualche ipo- padre di Maffeo, Taddeo Barberini (1603-1647), a sua volta figlio tesi circa la sua assenza dagli inventari più antichi. È possibile di Carlo, fratello del pontefice. Taddeo era morto in esilio a Parigi intanto che, privo dell’iscrizione, non venisse identificato fino a e l’inventario dei suoi beni venne redatto a Roma alcuni mesi quando non venne riunito all’esemplare dorato; poteva forse tro- dopo la sua scomparsa. Nel febbraio 1648 troviamo infatti regi- varsi in ambienti poco prestigiosi ed essere quindi ignorato da chi strata a Palazzo dei Giubbonari: redigeva l’inventario e non è neppure da escludere che, a un certo 4 . Una statua della Contessa Amatilda di bronzo indorato alto palmi punto, fosse stato donato da Urbano VIII a qualche personaggio 1 ¾ con suo piedestallo di pietra nera mischia . della sua cerchia che, in seguito, secondo una prassi attestata in Il bronzo appartenuto a Taddeo ricompare di lì a poco, nel 1649, altri casi, l’avrebbe lasciato a sua volta agli eredi del pontefice. descritto più analiticamente, nell’inventario dei beni del fratello di Come per tutti gli altri bronzetti citati negli inventari a cui si è fatto Taddeo, il cardinale Francesco Barberini (1597-1679): qui riferimento, il nome dell’autore del modello e/o del fonditore Una statua di bronzo di Matilda tutta in dorata con un regno in è taciuto; la questione dell’attribuzione delle due opere è stata però mano alto d.a statua p.mi uno e mezzo con il suo piedestallo ovato risolta già da molti anni. Il bronzetto qui esaminato venne pubbli- e scorniciato di pietra negra venata bianca con l’re [i.e. lettere]che cato per la prima volta nel 1917 da Antonio Muñoz, allorché si tro- dicono Mathildi3. vava «nella collezione privata del principe Barberini», a quel La leggera discrepanza fra i due inventari (1648 e 1649) relativa- tempo Luigi Sacchetti Barberini (1863-1936). Lo studioso lo aveva mente all’altezza del bronzo – palmi 1 e tre quarti (39,8 cm ca.) a semplicisticamente presentato come un «modelletto» o un «boz- fronte di un palmo e mezzo (33,5 cm ca.) – si spiega con le con- zetto» eseguito prima dell’opera da collocare in San Pietro. Ne suete approssimazioni nel rilevamento delle dimensioni riscontra- aveva comunque bene evidenziato le differenze nei confronti della bili molto spesso negli inventari antichi. Inoltre, la citazione par- statua: «nel marmo la matrona ha forme opulente, poderose; largo ticolarmente puntuale nell’inventario di Francesco permette di è il collo, il volto pieno; e il panneggio forma grandi pieghe, ampie 2 4 WITTKOWER 1970-1971, pp. 11-12. Il bronzo oggi a Melbourne misura 40,5 cm 5 ARONBERG LAVIN 1975, p. 423, n. 17 6 ARONBERG LAVIN 1975, p. 423, n. 23 Alla pagina seguente (Figure 5,6,7,8): In senso orario partendo in alto a sin.: Contessa Matilde, Raleigh; Contessa Matilde, Berlino (Kunstgewerbe Museum); Contessa Matilde Cambridge (Mass.); Contessa Matilde, Melbourne 9 7 MUÑOZ 1917, pp. 188-189 cannellature, e si distacca molto dal corpo. Invece il modellino di bronzo è più raccolto; le forme sono più fini; il panneggio più stretto intorno alla persona; e il manto non si annoda affagottato intor- WITTKOWER 1955, p. 256, cat. 33; WITTKOWER 1970-1971, pp. 11-13. Lo studioso poté esaminare il bronzetto a Palazzo Barberini negli anni Cinquanta del secolo scorso allorché apparteneva al figlio di Enrico, Urbano Barberini, scomparso nel 1973 no alla cintola, ma è più serrato e aderente. Il volto della gentil- Figura 9: Fotografia storica della Matilde già Barberini, pubblicata da Muñoz nel 1917 Alla pagina a fianco (Figura 10): Monumento alla contessa Matilde, Roma, basilica di San Pietro, part. posteriore, che traduce fedelmente l’aspetto abbozzato di una ter- 8 donna è fine, i capelli raccolti e tirati, mentre nella statua grande ricadono abbondantemente dalle due parti»7. Fu poi Rudolf Wittkower a notare come il trattamento della parte racotta, tradisse la derivazione diretta da quello che doveva essere stato il modelletto piccolo approntato da Bernini per l’approvazione da parte del pontefice8. Siffatti modelletti non erano inizialmente realizzati per essere fusi in bronzo, ma solo per servire da traccia per l’esecuzione dei modelli in grande, destinati a loro volta alla traduzione in marmo (o alla fusione). L’opera in esame è 12 quindi del tutto eccezionale all’interno del corpus berniniano, ed Fortuna di un’invenzione è bene chiarire fin da subito come, al pari del Baldacchino o del 9 WITTKOWER 1958, p. 144; MONTANARI 2004, p. 180 10 WITTKOWER 1958, p. 164, note 33-34 11 BELDON SCOTT 1985; BACCHI, TUMIDEI 1998, pp. 26-31 e 104; MONTANARI 2000, pp. 707-710 12 POLLAK 1931, II, p. 207, doc. 617. Già solo questa dichiarazione rende difficile condividere l’ipotesi di attribuire la realizzazione del modelletto da cui vennero tratti i bronzetti a Stefano Speranza, cui i documenti assegnano l’esecuzione del rilievo nel Monumento (VISONÀ 1995, p. 101). Inoltre Stefano Speranza rimane di fatto uno scultore privo di opere autonome e dunque di imprecisata fisionomia artistica. E soprattutto i caratteri stilistici del modelletto, quali si ricavano dai bronzetti, appaiono quelli tipici e inconfondibili di Gian Lorenzo Monumento funebre di Urbano VIII, pur non essendo certo para- Per circa quarant’anni il bronzetto pubblicato da Muñoz rimase gonabile per importanza a quelle imprese colossali, deve essere un esemplare unico ma poi, a partire dalla fine degli anni collocata all’interno della seconda delle quattro categorie delle Cinquanta del secolo scorso, iniziarono a emergere numerose, opere berniniane individuate da Wittkower, quella cioè delle scul- nuove versioni della composizione. Oggi ne sono note una dozzi- ture «realizzate, in maggiore o minore misura, da lui». È ben noto, na ma nessuna di quelle comparse negli ultimi sessant’anni ha infatti, che Wittkower, a tutt’oggi il massimo studioso dell’artista, messo seriamente in discussione il primato del bronzetto individuò quattro categorie di opere berniniane: «le opere da lui Barberini, quello che Wittkower riteneva richiesto proprio da disegnate, ed eseguite di sua mano; quelle realizzate, in maggiore Urbano VIII per possedere «a small bronze as a memento of the o minore misura, da lui; altre, nelle quali egli teneva saldamente le venerated Countess in his private apartment»13. Manca uno studio redini, contribuendo poco o nulla all’esecuzione; ed infine quelle comparativo delle varie versioni oggi note, uno studio reso più per le quali non fece altro che alcuni schizzi preliminari» . Se tra complicato dal fatto che solo una parte di questi bronzi sono nel le prime andavano naturalmente annoverati prima di tutto i cele- frattempo approdati in collezioni pubbliche e dunque la difficile berrimi marmi Borghese, dal Plutone e Proserpina all’Apollo e accessibilità e la mancanza di buone fotografie per alcuni degli Dafne, tra le seconde Wittkower indicava, sintomaticamente, pro- esemplari citati nella bibliografia non consente una analisi sistema- prio due opere «in metallo», il Baldacchino e il Monumento fune- tica. Il riemergere di tanti bronzetti raffiguranti la contessa Matilde bre di Urbano VIII, entrambi in San Pietro10. Sempre Wittkower, negli anni successivi alla pubblicazione del Bernini di Wittkower nella sua fondamentale monografia sull’artista, fin dal 1955 aveva (1955), dove era riprodotto quello Barberini qui discusso, forse sottolineato come il bronzetto qui in oggetto non fosse una repli- non è casuale e costituisce indubbiamente un capitolo minore ma ca dalla figura della contessa del Monumento funebre di Matilde di significativo della fortuna berniniana, una vicenda dunque che vale Canossa in San Pietro, realizzato da Bernini con ampio intervento la pena ripercorrere nelle sue tappe fondamentali. della bottega11, bensì una fusione da un modelletto approntato La sequenza si apre con la Contessa Matilde acquistata nel 1958 dall’artista in preparazione di quella monumentale statua in dal North Carolina Museum of Art, un bronzetto che reca incisa marmo, poi scolpita in gran parte da un suo collaboratore, sulla parte posteriore della base la scritta Niccolò Sale. A un modelletto preparatorio per la statua della Successivamente, nel 1970-71, Rudolf Wittkower rendeva note contessa allude del resto esplicitamente una relazione autografa altre tre versioni della composizione: la prima si trovava allora dell’artista, stesa nel 1644, alla conclusione dei lavori al monu- nella collezione Max Falk a New York15, la seconda apparteneva mento, nella quale Gian Lorenzo precisa il proprio ruolo, affer- all’antiquario Cyril Humphris16 e la terza, in bronzo dorato, era mando fra l’altro di avere eseguito «di sua mano tutti li modelli stata appena venduta da Heim alla National Gallery of Victoria a del’opere di scoltura, cioè dela statua dela matilda, del bassorilie- Melbourne17. Di lì a poco, la pubblicazione degli inventari vo e delli quattro angeli»12. Da allora il riferimento a Bernini del Barberini consentiva di stabilire un’antica provenienza dalla col- bronzetto barberiniano non è mai stato messo in discussione dalla lezione di quella famiglia non solo per l’esemplare ancora in loro critica. proprietà ma anche, come abbiamo già visto, per quello del museo 9 OPUS EQUITIS BERNINI 13 14 WITTKOWER 1970-71, p. 12. Il bronzetto, dapprima nella collezione di Karl Henschel a Kassel, era appartenuto quindi a G. Cramer all’Aia in Olanda e da questi era stato venduto al Museo di Raleigh 15 Ibidem, p. 12 e fig. 20. Questo bronzetto reca incisa sulla base la scritta: CONTESSA MATILDA 16 . 14 di Melbourne18. Frattanto, nel 1975, la Contessa Matilde di Cyril Humphris entrava nei Musei statali di Berlino e, in occasione della WITTKOWER 1970-71, p. 12 Ibidem, p. 12 e fig. 21 17 Ibidem, p. 12 e figg. 15, 17. Wittkower segnala come vi fosse una tradizione che voleva che questo bronzetto si trovasse in Palazzo Altieri, fosse poi passato ai Ruspoli e quindi in una collezione di Parigi. Fra le illustrazioni che corredavano i testi sulla scultura preparati da Wittkower per le Mellon Lectures (testi che sarebbero stati pubblicati dopo la sua scomparsa nel 1977), lo studioso segnalava una versione della Contessa Matilde indicata come nella Art Gallery della University of Saint Thomas a Houston ma che, esaminando la fotografia, sembrerebbe il bronzo già Falk e oggi a Cambridge 18 ARONBERG LAVIN 1975, pp. 197, 255, 393, 423 sua pubblicazione, Ursula Schlegel segnalava un’altra versione Alla pagina precedente (Figura 11): Contessa Matilde, Melbourne 16 conservata sempre a Berlino19. 19 SCHLEGEL 1978, pp. 164-167 17 20 MEZZATESTA (1982, nn. 2-4, s.i.p.) aveva segnalato che questo bronzo nel 1941 era stato messo in vendita a New York presso le Parke-Bernet Galleries (asta 30 aprile-3 maggio, lotto 1306) e che proveniva dalla collezione della moglie di Henry Walters 21 Sotheby’s, London, 11 dicembre 1980, lotto 264. Stando a Mezzatesta (1982), questo bronzo misura 41,5 cm e sarebbe quindi più alto della maggior parte degli altri. Ma, a giudicare dalla foto, la base sembra più alta di quella degli altri esemplari. Inoltre Mezzatesta segnalava come questa versione non presentasse sul retro quei segni della spatola, visibili di contro negli altri esemplari fino a quel momento noti Nel 1982 alcuni di questi bronzetti venivano quindi esposti al 6. Berlino, Kunstgewerbe Museum im Schloss Köpenick; h. 40 Kimbell Art Museum di Fort Worth in una mostra sullo scultore cm. Nel pubblicare la versione al punto 5, la Schlegel (1978, p. organizzata da Michael Mezzatesta: un’apposita sezione era dedi- 166) segnalava altresì un altro bronzetto con la Contessa Matilde cata proprio ai bronzetti della Contessa Matilde e vi comparivano che nel 1978 si trovava a Köpenick e che la studiosa riteneva pro- la versione di Raleigh, quella allora di Max Falk e un terzo esem- venisse dalla Kunstkammer dei re di Prussia. Di questa versione plare in collezione privata che proveniva da una vendita non sono state pubblicate riproduzioni fotografiche; Sotheby’s . 7. New York, Michael Hall, (cfr. BEWER, 1999, p. 166; non ripro- Il Fogg Art Museum di Cambridge (Massachusetts) avrebbe inve- dotta); ce acquistato nel 1998 la versione della Matilde appartenuta a 8. New York, Michael Hall (già Christie’s, Londra, 2 dicembre Max Falk e già pubblicata da Wittkower22. Venne quindi promos- 1997, lotto 116); h. 39,1 cm; so un fascicolo monografico berniniano dell’«Harvard University 9. Stati Uniti, collezione privata (già Sotheby’s Londra, 11 dicem- Art Museum Bulletin», nel quale Francesca Bewer esaminava pro- bre 1980, lotto 264; vd. MEZZATESTA 1982, n. 4, h. 41,5 cm). Non prio il bronzetto appena entrato al Museo e stilava un elenco delle è possibile stabilire se questa versione sia quella citata da varie versioni della composizione. Oltre alla maggior parte di Francesca Bewer (1999, p. 166) come in una collezione privata quelle già pubblicate, la studiosa ne segnalava altre quattro: una statunitense; presso Michael Hall a New York, una seconda già Christie’s 10. Amsterdam, C. Vecht; (London, 2 dicembre 1997, lotto 116), acquisita successivamente 11. Roma, collezione privata (cfr. BEWER 1999, p.166 che non la anche questa da Hall, una terza in collezione privata americana riproduce ma la definisce un «very rough cast» che presenta anco- (forse identificabile con quella pubblicata da Mezzatesta nel 1982) ra visibili i «core pins»); e una quarta in una collezione privata romana23. 12. Collezione privata, già Milano, Carlo Orsi (si tratta di una ver- Un’ulteriore versione della composizione, presso C. Vecht ad sione in bronzo dorato, h. 39,2 cm)24. 20 21 22 WITTKOWER 1970-71, p. 12. Alcune foto di un bronzo che sembra senza dubbio quello oggi a Cambridge si conservano nella fototeca del Kunsthistorisches Institut di Firenze (inv. 498423-498429) e vi si afferma che la scultura si trovava a Princeton nella collezione di Irving Lavin 23 Non mi è possibile stabilire se la Contessa Matilde di collezione privata (già Sotheby’s 1980) illustrata da Mezzatesta nel 1982 sia la stessa indicata dalla Bewer (1999, p. 166) semplicemente come di collezione privata statunitense Alla pagina precedente (Figure 12,13,14): In senso orario partendo in alto a sin.: Contessa Matilde, Raleigh; Contessa Matilde, Berlino (Kunstgewerbe Museum); Contessa Matilde Cambridge (Mass.); 20 Amsterdam, era stata resa nota da Charles Avery all’interno della monografia berniniana da lui pubblicata nel 1997, mentre in A Francesca Bewer dobbiamo alcune interessanti osservazioni seguito è comparsa una seconda versione in bronzo dorato presso tecniche, fondate però soltanto sull’esame dell’esemplare di Carlo Orsi a Milano, presentata alla XXII Biennale dell’Antiqua- Cambridge (il solo illustrato nel testo), dei due di Michael Hall e riato di Firenze del 2001 e oggi in collezione privata. di quello di collezione privata romana. Già Mezzatesta aveva indi- Dunque le versioni oggi note del bronzetto dovrebbero essere le cato come verosimilmente fosse stato tratto uno stampo in stucco, seguenti: un «cavo» in più pezzi della terracotta (o della cera25?) originale di 1. Milano, Carlo Orsi (già Roma, collezione Barberini); h. 40,2 cm; Bernini e, da questo, fossero poi stati realizzati vari esemplari in 2. Melbourne, National Gallery of Victoria (già Roma, collezione cera per le diverse fusioni. Ogni cera sarebbe poi stata rilavorata Barberini); h. 40, 5 cm; e questo spiega le varianti che distinguono i diversi esemplari in 3. Cambridge (Massachusetts), Fogg Art Museum (inv. 1998.1); dettagli quali ad esempio le decorazioni della tiara; nondimeno è h. 40,3 cm; ben possibile che alcune versioni derivino direttamente da un 4. Raleigh North Carolina Museum of Art (inv. 58.4.20); h. 40 cm; bronzo e solo uno studio sistematico dei diversi esemplari potreb- 5. Berlino, Kunstgewerbe Museum im Schloss Köpenick (inv. be recare utili chiarimenti sulla questione. 1977, 159); h. 39,4 cm; si tratta della versione pubblicata dalla Come evidenzia la lista delle varie versioni non sono disponibili Schlegel nel 1978 allorché si trovava nel museo di Berlino- misurazioni attendibili per tutti gli esemplari (in alcuni casi poi le Dahlem, passata in seguito alla sede attuale; dimensioni di uno stesso bronzo variano da pubblicazione a pub- 24 Non è chiaro se possa essere identificato con uno degli esemplari noti quello di cui esiste una vecchia fotografia presso il Kunsthistorisches Institut di Firenze (inv. 173713), indicato come di ubicazione ignota 25 L’ipotesi che il modelletto di partenza fosse in terracotta sembrerebbe la più verosimile anche perché non sono giunti fino a noi modelletti in cera riferibili a Bernini. Nondimeno si dovrà ricordare come Joachim von Sandrart, che visitò lo studio di Bernini negli anni Trenta, affermi di avervi visto oltre venti modelli in cera per il Longino (cfr. SANDRART 1675, p. 414) 21 blicazione); inoltre la Bewer ha osservato che «due to the number of variables introduced by distortions resulting from the manipulation of the wax, casting flaws or chasing the metal, most measu26 BEWER 1999, p. 167 rements are of limited use26». Un elemento dunque, quello delle dimensioni, che non aiuta più di tanto nel tentativo di stabilire una gerarchia fra i vari esemplari. Significativa invece, anche da questo punto di vista, è piuttosto la storia collezionistica delle diverse versioni. Gli inventari secenteschi barberiniani menzionano solo due bronzetti con questo soggetto, identificabili in quello di Melbourne e in quello qui discusso mentre tutte le altre versioni sono venute alla luce nella seconda metà del XX secolo e per nessuna di queste è possibile individuare una storia più antica. Ciò non significa, è ovvio, che si tratti di fusioni moderne ma, nondimeno, va ribadito il primato dei due esemplari barberiniani. Un primato confermato peraltro dalla qualità delle fusioni e della successiva rinettatura; già Wittkower, del resto, segnalava come i bronzi Barberini, insieme a quello di Cyril Humphris, fossero 27 WITTKOWER 1970-1971, p. 13 «beautifully chased» con «rich and warm surfaces27». La campagna fotografica realizzata in questa occasione credo confermi pienamente lo straordinario livello qualitativo della versione già Barberini. Con l’eccezione dell’esemplare di collezione privata pubblicato da Mezzatesta (il solo peraltro con una base rettangolare), quasi tutte le varie versioni presentano sul retro le medesime caratteristiche del bronzetto barberiniano: è possibile quindi che si tratti di fusioni antiche, realizzate forse sempre a partire dal medesimo modelletto, o comunque dal primo esemplare. I bronzetti più accessibili e quindi meglio esaminabili sono naturalmente quelli appartenenti a collezioni pubbliche (Melbourne, Cambridge, Berlino, Raleigh) alcuni dei quali sono con evidenza fusioni meno nitide, più stanche rispetto a quella Barberini. Un aspetto che risulta evidente, ad esempio, nel particolare dei piedi, ben individuati anche nelle dita nel nostro esemplare e in quelli di Melbourne e Raleigh, quasi Alla pagina precedente (Figure 15,16,17,18): In senso orario partendo in alto a sin.: Contessa Matilde, Raleigh; Contessa Matilde, Berlino (Kunstgewerbe Museum); Contessa Matilde Cambridge (Mass.); Contessa Matilde, Melbourne 24 informi invece in quelli di Berlino e Cambridge, a denunciare la possibile derivazione di questi ultimi da un bronzetto e non dall’originaria terracotta berniniana. Il volto della Matilde barberiniana presenta una qualità quasi impressionistica, risultato di un intervento di rinettatura molto sottile, vòlto a mantenerne il carattere 28 New York 2012, pp. 132-135 26 bozzettistico, diversamente da quanto osserviamo negli esemplari zettistico accanto ad altre rinettate con un minuziosissimo lavoro di Berlino e Cambridge. Nel bronzo di Berlino inoltre la resa del di cesello vòlto a individuare le varie superfici: dalle stoffe agli diadema appare molto rifinita ma fraintende, nel taglio smussato incarnati, specificate da diversi gradi di lavorazione con lo scopo delle gemme, la soluzione studiata da Bernini che ritroviamo inve- di esaltare le vibrazioni chiaroscurali. Se non sappiamo chi ha ce nel nostro bronzetto e in quelli di Melbourne e Raleigh. fuso questo bronzo, vi è però da credere che Bernini abbia forni- Anche a confronto con la versione di Raleigh – una delle migliori – to precise indicazioni al fonditore. Non si spiegherebbe diversa- quella Barberini appare più sottilmente rifinita, in virtù di una lavo- mente la volontà di far trapelare dal metallo la freschezza scabra razione del bronzo che mira ad esaltare il carattere vibrante e mosso della terracotta: un aspetto che, come vedremo meglio più avan- delle superfici. Si vedano ad esempio le tracce del minutissimo ti, troviamo anche in altre opere eseguite da Bernini negli anni lavoro di cesello in corrispondenza del collo o del risvolto della Trenta del Seicento e che, a quanto mi risulta, non si ritrova in veste e anche la maggiore incisività e nitidezza dell’intaglio nelle altri bronzi romani dell’epoca. chiavi, tanto nella parte finale quanto nell’impugnatura. Quanto A giudicare dai bronzetti, la terracotta (o la cera) da cui Bernini all’aspetto più abbozzato della versione qui discussa a confronto partiva doveva essere un modelletto, un’opera dunque complessi- con quella di Melbourne (per la quale si dovrà però tenere in vamente rifinita nelle parti principali ma ancora in grado di conto l’effetto della doratura), è intanto istruttivo osservare la mostrare la freschezza del bozzetto, specie nel retro. diversità con cui sono rese nei due bronzi le decorazioni della Lo status di prima fusione del bronzetto qui in discussione è com- tiara: ben delineate nell’esemplare australiano, indicate in modo provato infine non solo dalla qualità e dalla sua provenienza, ma più compendiario in quello qui presentato. Ma solo un confronto anche dall’assenza di ogni iscrizione. Il bronzetto di Raleigh reca diretto e ravvicinato fra gli originali consentirebbe di valutarne in nella base, sul retro, l’indicazione modo sistematico le singole differenze che le riproduzioni foto- fronte quella di COMTESSA MATILDA, variata in CONTESSA MATILDA grafiche non sempre consentono di precisare. nell’esemplare di Cambridge. Per un’opera destinata a rimanere Già la Bewer osservava come in alcuni esemplari compaiano sulla nelle collezioni barberiniane non era certo necessario specificare superficie una serie di linee sottili e rilevate ad indicare il segno l’autore dell’invenzione, né tanto meno il soggetto. Come aveva della giuntura fra le varie parti del cavo, un dettaglio che ritrovia- già affermato Wittkower, quindi, se ne deduce che il bronzetto qui mo anche nel bronzetto qui esaminato, ad esempio nella testa, in in esame fosse stato fuso come ricordo per il pontefice commit- corrispondenza dei capelli. La studiosa affermava inoltre che, per tente, mentre quello dorato, e provvisto di un’elegante iscrizione quanto riguarda il retro con le superfici abbozzate, i bronzetti in latino posta sulla preziosa base in pietra «mischia» (non diret- lasciano scorgere solo parzialmente la freschezza della terracotta. tamente sul bronzetto), poteva essere stato pensato come un dono Una considerazione del tutto condivisibile di fronte all’esemplare per una figura di prestigio (magari semplicemente per uno dei di Cambridge (rivisto recentemente alla mostra delle terrecotte componenti della famiglia Barberini29). berniniane ), discutibile invece davanti alla illusionistica fragran- Da un punto di vista strettamente stilistico, il bronzetto barberi- za materica che anche la foto qui pubblicata restituisce piena- niano della Matilde, che dovrebbe risalire al 1635 circa, appartie- mente per l’esemplare Barberini (che, va ricordato, la Bewer sem- ne, al pari del corrispondente marmo in San Pietro, a quella che è bra conoscere solo attraverso le foto): un bronzetto che, soprat- stata definita la fase classicista di Bernini, sostanzialmente rivalu- tutto in questa parte, appare difficilmente distinguibile da una ter- tata dalla critica più recente dopo i numerosi attacchi di tanti stu- racotta patinata a finto bronzo. diosi30. Se l’immagine della contessa non ha certo l’irruenza del Una ricognizione ravvicinata del bronzetto Barberini mette in San Longino, la cui esecuzione, del tutto autografa, è immediata- luce proprio come vi convivano parti di indubbio carattere boz- mente successiva, questo si deve certamente al soggetto stesso del- 28 OPUS EQUITIS BERNINI e sulla 29 WITTKOWER 1970-1971, pp. 11-12 30 Si veda, a tale proposito, BELDON SCOTT 1985, p. 119 27 l’opera, non ad un’improbabile influenza sull’artista da parte del dal Monumento funebre di Urbano VIII alla Cattedra di San Pietro. suo maggiore rivale nella scultura del tempo, Alessandro Algardi, Si spiega così perché Pier Filippo Bernini, il primogenito dello che a quella data non aveva ancora scolpito nulla di davvero scultore, potesse indicare come di sua mano queste opere del monumentale che potesse costituire un parametro di riferimento padre. Nei primi anni Settanta del Seicento, infatti, quando Gian per Gian Lorenzo. La ricchezza del panneggio, in particolare, Lorenzo era quasi al termine della sua lunga e prolifica carriera, certo più convincente grazie al suo effetto bozzettistico, quasi Pier Filippo stilò un elenco delle opere del padre, via via aggior- magmatico, del bronzo, nella sua traduzione in formato ridotto nato, che sarebbe poi stato pubblicato in appendice della biogra- dell’opera qui presentata, non può che essere indicata come un fia di Filippo Baldinucci, uscita a Roma all’indomani della morte risultato tipicamente «barocco», in un inedito (per Bernini) «com31 BACCHI, TUMIDEI 1998, p. 26 promesso classicista31». «Statue di metallo di sua mano» Il problema di Bernini scultore in bronzo è un tema spinoso, più 32 Cfr. da ultimo MONTANARI 2009 volte affrontato dalla critica novecentesca32. A questo proposito in particolare, Jennifer Montagu ha invitato alla massima cautela, ritenendo di fatto assai improbabile la diretta partecipazione di 33 MONTAGU 1996, pp. 3-4; MONTANARI 2004, p. 180 Bernini alla realizzazione di bronzetti tratti dai suoi modelli33. Nonostante la grande studiosa abbia giustamente rivalutato il ruolo fondamentale giocato da artigiani specializzati e fonditori 34 MONTAGU 1989, pp. 70-75 per la nascita di opere in bronzo complesse come il Baldacchino34, non possono però esserci dubbi che anche per i contemporanei di Bernini, così come per noi oggi, la traduzione di un bozzetto o di un modelletto in bronzo era un’operazione assai diversa da quella della sua possibile traduzione in marmo: la prima era considerata un processo prima di tutto tecnico, che l’autore dell’opera non doveva necessariamente svolgere in prima persona, la seconda, invece, non poteva essere affidata ad un collaboratore senza che venisse messa in discussione l’autografia della scultura. Se quindi gli Angeli del ponte di Castel Sant’Angelo sono stati giu- 35 MONTAGU 1985 28 stamente indicati dalla Montagu come esempi paradigmatici di del grande maestro avvenuta nel 168036. In una versione di quella Bernini Sculptures not by Bernini35, lo stesso discorso non può lista databile tra la fine del 1675 e l’inizio del 1676, e contenuta essere valido per i bronzi. Non a caso le guide dell’epoca indica- nelle carte di Cristina di Svezia conservate a Stoccolma, le opere no spesso, come nel caso dei Fiumi della fontana di Piazza erano divise in quattro grandi sezioni, ovvero i Retratti, le Statue Navona, anche i nomi degli scultori che tradussero in marmo le di marmo, le Statue di metallo di sua mano e le Opere d’architettu- invenzioni del maestro, mentre solo attraverso gli scavi documen- ra, e miste37: per quelle in bronzo, quindi, veniva specificato di sua tari novecenteschi abbiamo appreso i nomi di coloro che presero mano, una precisazione che non era sembrata necessaria in meri- parte alla fusione delle grandi realizzazioni bronzee berniniane, to a quelle in marmo. I contemporanei di Bernini sapevano bene Figura 19: Gian Lorenzo Bernini, Monumento alla contessa Matilde, Roma, basilica di San Pietro, particolare del rilievo 36 MONTANARI 1998, p. 403 37 D’ONOFRIO 1967, pp. 434-438 29 come il grande artista non fosse mai stato un fonditore di professione, e certo nessuno avrebbe mai potuto pensare che Gian Lorenzo avesse fuso da solo i quattro colossali Padri della Chiesa alla base dell’enorme Cattedra di San Pietro nella tribuna della basilica vaticana, pure elencati in quella lista; l’espressione di sua mano serviva sostanzialmente a indicare la paternità dell’invenzione, della realizzazione dei modelli ma anche una stretta sorveglianza nelle fasi di fusione e rinettatura. Opere da considerarsi quindi, tanto per i parametri dell’epoca quanto per noi oggi, delle creazioni assolutamente autografe dell’artista. L’elenco approntato da Pier Filippo Bernini era piuttosto sintetico, e considerava quasi unicamente le grandi opere monumentali in San Pietro. Anche se potrebbe sembrare paradossale, il bronzetto della Matilde, fusione fedele di un modelletto perduto di Bernini, è dunque, lo ripetiamo, un’opera ascrivibile alla seconda delle quattro categorie individuate da Wittkower, mentre lo stesso Monumento funebre di Matilde di Canossa in San Pietro, scolpito materialmente dai vari Niccolò Sale, Stefano Speranza, Andrea Bolgi e Luigi Bernini, rientra nella terza, quella delle opere nelle quali il maestro «tenne saldamente le redini, ma attivamente con38 WITTKOWER 1958, pp. 144 e 164, nota 35 tribuì poco o niente all’esecuzione38». Il carattere bozzettistico del bronzetto barberiniano, connotato da una finitura scabra che non mira ad ottenere superfici estremamente pulite e traslucide ma piuttosto a sottolineare la prossimità del bronzo a materiali morbidi come la terracotta e la cera e a restituirne un’irregolarità ricchissima di modulazioni chiaroscurali, assolutamente in linea con quanto vediamo nei bronzi certamente fusi sotto la direzione del maestro, a partire da quello del Ritratto di Urbano VIII in bronzo e porfido anch’esso ancora oggi presso gli eredi del pontefice e 39 BACCHI 2009, pp. 254-256 databile al 1632 circa39, è un’altra conferma dell’autografia dell’opera. Si tratta, infatti, di una caratteristica davvero sorprendente, che può trovare spiegazione proprio in una precisa scelta da parte dell’artista: negli anni Trenta, infatti, Bernini sperimenta una sorta 40 Un «non finito» che compare già nelle opere del padre di Gian Lorenzo, Pietro Bernini, come testimonia l’Assunzione della Vergine in Santa Maria Maggiore a Roma e il Carlo Martello della controfacciata del Duomo di Napoli, recentemente riconosciutogli da Fernando Loffredo (2010, p. 89) 30 di «non finito», forse di ideale ascendenza michelangiolesca, non solo nel bronzo, ma anche nel marmo40. Nel San Longino collocato in uno dei pilastri della cupola di San Pietro (1629-1638) è evidente ovunque la finitura a scalpello dentato, che contrasta fortemente con il trattamento iper-levigato della Santa Veronica di Francesco Mochi. Una finitura che ritroviamo, alle stesse date, anche in vari passaggi della statua di Urbano VIII dei Palazzi Capitolini (1635-1640). E proprio nel Monumento funebre a Matilde di Canossa si ritrova il più clamoroso esempio di questa innovativa scelta berniniana: il rilievo del sarcofago, la cui esecuzione venne affidata al già citato Stefano Speranza, esibisce la medesima finitura a scalpello dentato, paragonabile a quella che si vede nel retro del bronzetto della Matilde, senza dubbio voluta proprio da Bernini, a dimostrazione che non era solo la distanza dall’occhio del riguardante a determinare un diverso grado di finitura, poiché in questo caso la statua di Matilde, posta più in alto e Figura 20: Monumento alla contessa Matilde, Roma, basilica di San Pietro, part. in secondo piano, appare perfettamente lustrata laddove il rilievo, assai più vicino all’occhio, mostra quest’aspetto quasi non finito. Se Bernini non avesse diretto personalmente la fusione del suo modelletto, o non avesse comunque dato direttive in proposito, sarebbe stato più naturale per un allievo o imitatore rinettare il bronzo fino ad ottenere quegli effetti di lucentezza e politezza che lo stesso Bernini avrebbe perseguito nei suoi più tardi, autografi Crocifissi bronzei, ma che non era evidentemente tra i suoi obiet33 41 42 Su questi cfr. MONTANARI 2009 Los Angeles 2008, pp. 92-99 tivi negli anni Trenta41. Il nome dell’autore materiale della fusione (1624-1633), in anni cioè non lontani dalla realizzazione del non è al momento individuabile. Nel 1621 era stato Sebastiano Monumento di Matilde di Canossa: lo stesso Laurenziani, Orazio Sebastiani a fondere i busti di Paolo V e Gregorio XV e poco Albrizzi, Gregorio de Rossi, Francesco Beltramelli, Innocenzo dopo, nel 1623-24, ancora Sebastiani insieme a Giacomo Albertini e Ambrogio Lucenti. In particolare quest’ultimo avreb- Laurenziani aveva realizzato la traduzione in bronzo del model- be lavorato con Bernini anche nel 1640, realizzando la fusione del letto in cera del Ritratto di Paolo Giordano Orsini eseguito da Busto di Urbano VIII del Duomo di Spoleto44. Per il Monumento Bernini (le due opere sono probabilmente identificabili, rispetti- a Urbano VIII invece, in un primo tempo (1628-1630), quando 42 cioè si lavora alla statua del pontefice, troviamo gli stessi fonditori del Baldacchino (Orazio Albrizzi, Gregorio de Rossi), peraltro 44 Le notizie su questi fonditori sono ancora assai scarse; si vedano almeno i documenti pubblicati da POLLAK 1931, II, e le rispettive voci nel THIEME-BECKER. Per il Busto di Urbano VIII a Spoleto si rimanda a MARTINELLI 1954-1955, ed. 1994, p. 152 costantemente seguiti da Bernini che, nel momento della fusione dichiara: «se bene sto convalescente, non mi parto dal focho ne giorno ne notte che cosi e necessario»45. Successivamente (16391643), allorché si eseguono le altre parti in bronzo, il fonditore è Cesare Sebastiani, probabilmente un parente di Sebastiano. 45 POLLAK 1931, II, pp. 602-603 doc. 2414. Più in generale i documenti sul Monumento sono pubblicati alle pagine 590- 611 Resta il fatto, però, che di nessun altro modelletto berniniano sono giunte a noi tante fusioni come queste della Contessa Matilde, e sorprende davvero il numero così alto di esemplari noti. Se infatti, come ha osservato la Bewer, sono numerose le «reductions», i bronzetti cioè derivati dalle opere monumentali di Bernini in larga misura eseguiti fuori dal controllo del maestro, molto più rari sono i «casts of models», categoria in cui, oltre ai bronzetti con la contessa Matilde, è stato ipotizzato possano rientrare il Costantino dell’Ashmoleam Museum di Oxford e il Carlo II di collezione privata46. Uno statuto più incerto spetta ad altri bronzi come la Sant’Agnese e la Santa Caterina (collegabili a due delle figure del colonnato), ma anche al Busto di Richelieu e al Nettuno e il delfino47. Il solo confronto possibile per il bronzetto barberiniano della Matilde, quanto alla fortu- 46 Per il Costantino si veda WEIHRAUCH 1967, p. 240; PENNY 1992, p. 15; BEWER 1999. Per il Carlo II, FAGIOLO DELL’ARCO 2002, pp. 122-123 47 Su questi bronzi si veda BEWER 1999, pp. 162, 164, 165 e FUSCO 2002 (con bibliografia precedente) na di un determinato modello, è la Sant’Agnese, nota in cinque esemplari, anch’essa tratta da un modelletto in terracotta, eseguito tuttavia molto probabilmente da Lazzaro Morelli, il Figura 21: Giovan Francesco Romanelli, La Prudenza, Roma, Città del Vaticano, Palazzi Apostolici, sala della contessa Matilde, affresco 43 BENOCCI 2006, pp. 57 e 60 34 vamente, con gli esemplari del Metropolitan Museum di New principale collaboratore di Gian Lorenzo per il Colonnato48. York e del Plymouth City Museum and Art Gallery43). Sebastiani È probabile che fosse la valenza politica dell’immagine di Matilde era già morto nel 1626, mentre Laurenziani sarebbe scomparso di Canossa a sollecitare la realizzazione di tante versioni di quel nel 1650 e avrebbe collaborato con Gian Lorenzo anche in altre bronzetto, destinate ad essere inviate agli ambasciatori e ai occasioni, come per il perduto Busto di Urbano VIII già nel refet- regnanti d’Italia e d’Europa. Negli stessi anni del resto Urbano torio della Trinità dei Pellegrini di Roma. Si dovranno poi qui VIII commissiona a Giovan Francesco Romanelli la decorazione ricordare i fonditori documentati nell’impresa del Baldacchino ad affresco con Storie della Contessa Matilde di un’intera sala dei 48 MONTAGU 1967, pp. 567-570 (che la riteneva una derivazione da un modelletto di Bernini). Ipotesi messa in dubbio dalla stessa Montagu già nel 1989 (MONTAGU 1989, p. 212 n.69). Più di recente inoltre (cfr. Edinburgh 1998, p. 208 n. 68) la studiosa ha suggerito il nome di Morelli quale autore del modello. Per un elenco degli esemplari si veda Emma Stirrup in Edinburgh 1998, p. 111 35 49 Sugli affreschi della sala della contessa Matilde si veda FALDI 1970, p. 321; BRUNO 1999, pp. 47-48 50 Per gli arazzi si veda HARPER 2007 (con bibliografia precedente). Per il Busto, ROSSINI 1693, p. 53: «la testa, e busto della Contessa Matilde». Stessa citazione in DE’ ROSSI 1697, p. 347 51 BELDON SCOTT 1985, pp. 119-127. Si veda anche RICE 1997, p. 115 e ANDRETTA 1999 e 2003 Palazzi Apostolici (1637-1642) ed è significativo osservare come anche per le repliche dal Ratto di Elena di Guido Reni (Parigi, qui la raffigurazione della Prudenza alluda esplicitamente alla Louvre56). I bronzetti raffiguranti la Contessa Matilde, quindi, Matilde berniniana . E la contessa Matilde compare poi, accanto dovettero essere realizzati per conto dei Barberini come doni al pontefice, anche negli arazzi con storie della Vita di Urbano diplomatici con l’obiettivo di richiamare i potenti d’Italia e VIII realizzati dalla Arazzeria Barberini intorno al 1660 mentre, d’Europa al loro dovere di difensori della Chiesa. Ma il primo alla fine del Seicento, le guide di Roma ricordavano a Palazzo esemplare, che doveva servire da prototipo agli altri, rimase sem- Barberini un Busto della Contessa Matilde oggi non più rintraccia- pre presso la famiglia del pontefice. 49 56 COLANTUONO 1997, pp. 115-118 bile ma probabilmente frutto di questa stessa stagione50. Il significato del Monumento funebre di Matilde di Canossa nel contesto della politica barberiniana è stato più volte indagato, soprattutto da John Beldon Scott51. Urbano VIII aveva fatto traslare a San Pietro le spoglie della contessa dal convento di San Benedetto Po, al Polirone, in virtù del ruolo svolto dalla nobildonna al tempo della lotta per le investiture tra l’imperatore Enrico IV e il pontefice Gregorio VII. Come avrebbe infatti sottolineato il cardinale Guido Bentivoglio in una sua lettera, Maffeo Barberini era «risoluto d’honorar quella memoria della Contessa, per esempio ad altri principi della protettione che devono tenere 52 MONTANARI 2000, p. 708 53 Su tutte queste vicende cfr. soprattutto COLANTUONO 1997, pp. 24-48 54 Su queste tele cfr. da ultimo SPARTI 2004/05, pp. 190-195, che peraltro ha rifiutato la tradizionale lettura «politica» dei dipinti di Poussin 55 SUTHERLAND HARRIS 1977, p. 58, cat. 17 36 Il Monumento alla contessa Matilde* della Sede Apostolica»52. A quel tempo si era ancora nel pieno della guerra dei Trent’anni (1618-1648), che nelle sue fasi più Già ai contemporanei non era certo sfuggito come, nella scelta del recenti, il conflitto della Valtellina e quello per la successione al nome da papa, per Maffeo Barberini avesse giocato non tanto la ducato di Mantova, avevano interessato direttamente l’Italia, met- memoria del predecessore trecentesco morto in odore di santità, tendo in allarme il pontefice, sempre alla ricerca di un equilibrio Urbano V, quanto quella ben più «militante» di Urbano II (1088- tra la Francia di Luigi XIII (e del cardinale Richelieu) e la Spagna 1099). L’erede cioè di Gregorio VII nella sua mitica lotta contro di Filippo IV (e del conte-duca Olivares ). I Barberini utilizzaro- l’imperatore, il restauratore dell’idea universalistica del papato, il no più volte le opere d’arte come doni diplomatici, senza limitarsi pontefice della prima crociata, il rinnovatore della liturgia roma- a scegliere oggetti di grande valore, ma selezionandole con atten- na. Ma importa ancor più che in quella scelta venisse allo scoper- zione in rapporto ai loro soggetti: le due tele di Nicolas Poussin to una ben più profonda riflessione sul papato e la sua storia, che raffiguranti Tito ferma la distruzione del Tempio di Gerusalemme, per Maffeo, dalla traccia degli Annali del Baronio e del clima dei una sorta di invito alla pace, donate dai Barberini agli ambasciato- tempi, era iniziata almeno dagli anni in cui era cardinale. ri di Francia e dell’Impero, sono l’esempio più illuminante di que- «Portava Urbano fin da Cardinale una profonda venerazione alla sta attenta politica delle immagini (il primo dipinto è stato identi- memoria illustre della Contessa Matilde, che generosamente dotò ficato con la tela oggi all’Israel Museum di Gerusalemme; il secon- la Sede Apostolica con l’accrescimento di molti Stati che si disse- do è certamente quello del Kunsthistorisches Museum di ro Patrimonio di S. Pietro»1. L’identificazione con l’energico e vin- Vienna ). Anche dell’Allegoria della Divina Sapienza affrescata da citore Urbano II, rispetto al modello più sofferto ed esistenziale Andrea Sacchi sulla volta di una sala di Palazzo Barberini alle offerto da Gregorio VII, morto in solitudine dopo una vita spesa Quattro Fontane vennero tratte diverse copie impiegate come nella lotta contro Enrico IV, andrà tutta a credito del carattere del doni diplomatici55, e lo stesso discorso poteva forse essere valido nuovo pontefice. Ma in entrambi i casi il richiamo storico e, poi- 53 54 * Viene qui ripubblicato, con alcune varianti, il testo scritto nel 1998 insieme a Stefano Tumidei per il volume Bernini in San Pietro, Federico Motta editore, Milano 1998, pp. 26-32 1 BERNINI 1713, p. 46 37 38 ché di questo si trattava, l’affermazione del papato sul potere tem- 1631. È stato notato del resto come fossero santi per così dire porale e nel consesso delle potenze europee sulla traccia di quegli mantovani (per antica venerazione) anche San Longino e illustri predecessori medievali, comportava l’immediata contiguità Sant’Andrea cui, come abbiamo visto, s’era riservata una colloca- con un altro exemplum virtutis di non meno emblematica sugge- zione di riguardo sotto la cupola michelangiolesca. E quanto alle stione: quello di Matilde di Canossa (1046-1115), alleata e sodale stesse implicazioni politiche della traslazione delle spoglie di di Gregorio prima e di Urbano poi, vera principessa cristiana, Matilde, non potrà tacersi il disappunto dell’ambasciatore vene- benefattrice della Santa Sede. Matilde «proda guerriera e duce», ziano Alvise Contarini sul modo in cui Urbano aveva condotto «alla Chiesa Romana... scudo» come lo stesso Maffeo aveva scrit- l’impresa: «Il papa ha fatto rubbar il corpo della Contessa to, anni prima, nei versi cantilenanti di un’ode pindarica data alle Manilda [sic], che con molta venerazione era custodito nella chie- stampe solo nel 1635, nel vivo di un revival per la contessa cui, sa di S. Benedetto di Mantova […] senza che il Duca ne altri ne appunto, il pontefice contribuiva ora sostanzialmente con la deci- habbino saputo cosa alcuna»2. sione di erigerle in San Pietro una degna sepoltura. A quest’ulti- Sul piano internazionale Urbano VIII si trovava invece a dover ma faranno poi esplicita allusione, nel 1642, le Memorie di Matilda fronteggiare le rivendicazioni cesaropapiste dei più agguerriti stati la gran contessa propugnacolo della chiesa di Francesco Maria cattolici, dalla Spagna di Filippo IV alla Francia di Richelieu, spe- Fiorentini stampate a Lucca con dedica allo stesso pontefice, e cie in materia di nomine ecclesiastiche in una disputa che toccherà pronte a dar giusta amplificazione retorica ad un’impresa che toni accesissimi. Non sarà un caso allora che proprio l’episodio andava ben oltre la reiterazione simbolica dei legami che, in vita, dell’umiliazione di Enrico IV ai piedi di Gregorio VII (dai linea- avevano unito Urbano II alla contessa. menti assai simili a quelli di Urbano VIII) venisse scelto ad illu- Pochi mesi dopo l’incarico affidato a Bernini per il monumento, strare il monumento di Matilde né che sin dall’inizio la colloca- erano state traslate a Roma, nel 1634, le spoglie di Matilde, con- zione della tomba fosse pensata nell’intercolumnio del primo pila- servate fino ad allora nell’abbazia di San Benedetto a Polirone, stro, in asse dunque con la porta santa. Là dove anche i principi non lontano da Mantova. Dopo aver riunito sotto la cupola le reli- cattolici dovevano passare in occasione degli anni giubilari. quie dei santi, Urbano VIII, dunque e per la prima volta, apriva le A simili aspettative, Bernini rispose anzitutto immaginando un porte della nuova San Pietro a quelle di un laico, e per di più simulacro marmoreo, a figura intera, di Matilde ove nulla avrebbe donna. Ma in quella solenne affermazione del primato pontificio fatto pensare alla «santa» medievale. Piuttosto ad un’eroina clas- che costituisce il filo rosso di tutti gli interventi barberiniani, l’im- sica con gli attributi della Santa Sede, la tiara e le chiavi, ben in magine di Matilde introduceva in San Pietro, in modo inatteso, il vista e lo scettro in segno di comando; un’idea che già si affaccia tema soprattutto scottante del potere temporale dei principi cat- nel solo disegno preparatorio conosciuto (Bruxelles, Musée des tolici in rapporto con la Santa Sede. A celebrare l’imperatore Beaux Arts), certo riferibile, per le molte varianti presenti, ad uno Costantino, richiamo immancabile e quasi obbligato della propa- stadio relativamente precoce nell’elaborazione del monumento, ganda cattolica, avrebbe provveduto, anni dopo Innocenzo X (e dunque alla fine del 1633 o agli inizi dell’anno successivo. Altro, inizialmente con l’idea di posizionarne il monumento in ideale dei progressi ideativi che portarono alla realizzazione finale, non raccordo visivo con Matilde). Eventi più immediati e cruciali por- conosciamo, nonostante l’insistenza delle fonti sull’esistenza di tavano Urbano VIII a spendere la memoria della contessa. Intanto disegni e di modelli autografi per ogni parte, comprese quelle le mire politiche e militari del pontefice sulla stessa Mantova negli decorative. Fonti che del resto andranno rilette alla luce della anni in cui la sorte dell’ex capitale gonzaghesca era oggetto di con- testimonianza di Domenico Bernini il quale, parlando del monu- tese violentissime e allorché anche la politica territoriale della mento, non esitava a giudicarlo eseguito dal padre «più col dise- Santa Sede era ritornata in auge con l’annessione di Urbino nel gno, che colla mano». 2 HAMMOND 1984, p. 34, n. 8 39 3 BERNINI 1713, p. 47 40 Davanti a quella nuova e difficilmente aggirabile richiesta del pon- la garanzia di un diretto intervento nella rifinitura. Il che equiva- tefice e, in pratica, all’apertura di un nuovo fronte di impegno, leva per gli stessi fabbricieri di San Pietro a riferire sulla Matilde con i modelli del Longino ancora nello studio e il rilievo col Pasce che «si pol dire che habbia fatta quasi tutta perché non ci è parte Ovas Meas già iniziato, è proprio a partire dal Monumento a che non abbia ripassata e finita»4. Matilde che Bernini organizza in modo sistematico l’opera dei col- Con tutto ciò, fra le opere del maestro, il monumento a Matilde è laboratori, gli stessi per altro già sperimentati (o in via di speri- quello cui è toccata, nel Novecento, la più tiepida accoglienza cri- mentazione) nella decorazione dei pilastri. Un conto era evidente- tica. L’inattesa sterzata classicista del linguaggio berniniano che vi mente la divisione del lavoro in un’impresa ciclopica e di svilup- si rivela e che in nulla ancora il Longino lasciava presagire, poteva po architettonico, un conto, ora, l’affiatamento di un’équipe ancora costituire una felice eccezione nel percorso dell’artista per pronta quasi ad annullarsi nella riduzione su scala monumentale il neoclassico Cicognara («diresse il Monumento della contessa dei progetti del maestro. Il problema si riproporrà con il Matilde, uno de’ più saviamente inventati; dalla cui sobrietà si Monumento a Urbano VIII e soprattutto, con l’Alessandro VII, la vide recedere allorquando pose mano al monumento di Urbano Cattedra e cioè quelle imprese dove tutto parla di Bernini e quasi VIII»)5; non oltre. Al punto che talvolta si è persino fatto riferi- nulla nella realizzazione finale è materialmente suo. Per il mento ad un momento di sospensione creativa dovuto alla malat- Monumento a Matilde basterà affidarci al solito bene informato tia che, stando al biografo, avrebbe colpito Bernini proprio nel figlio biografo, ineccepibile nel segnalare che «il basso rilievo fu 1635. scolpito da Stefano Speranza suo discepolo, il Putto sopra la cassa Le ragioni dei nuovi scrupoli di ponderatezza compositiva che da Andrea Bolgi, l’altro a man dritta da Luigi Bernino suo fratel- come più volte rilevato, legano strettamente il Monumento a lo, che medesimamente ancora fece la statua della Contessa, tolta- Matilde al Pasce Ovas Meas, riflettendosi anche nell’invenzione ne la testa, che fu intieramente condotta a fine dal Cavaliere, e i della Sant’Elena di Bolgi, dunque dal 1634 ai primi anni due Putti sopra l’arme furono intagliati da Matteo Bonarelli» . Quaranta, saranno piuttosto culturali. Intanto di più organizzata I documenti repertoriati da Pollack confermano nella sostanza la e intelleggibile ripartizione di ruoli fra architettura e scultura. divisione dei lavori e ne scandiscono i tempi. I primi pagamenti a Nella prima idea per il monumento, tramandataci dallo schizzo di Stefano Speranza per il bassorilievo del sarcofago, ad Andrea Bruxelles, Bernini pensava ancora di sviluppare l’idea della Santa Bolgi, a Luigi Bernini per i putti sono del marzo 1634. La lunga e Bibiana, il tema cioè della figura stante, accortamente variata nel ornata iscrizione posta sul sarcofago riferisce la messa in opera contrapposto e avvolta in un fremente viluppo di panneggi. Il delle parti sostanziali del monumento già all’anno successivo ma è foglio è tagliato in alto e non è chiaro dunque se l’artista pensasse certo che Stefano Speranza non venne saldato per la sua parte di ambientarla poi entro una nicchia assai semplice e profonda prima del febbraio 1636 e che ancora, dopo questa data, rimane- (l’incorniciatura laterale con un ordine minore di colonne, diffi- vano da eseguirsi i due putti con lo stemma scolpiti da Matteo cilmente accordabile tuttavia al binato monumentale preesistente Bonarelli e Andrea Bolgi fra il 1637 e il ‘38 (al Bolgi doveva poi nel luogo ove il monumento sarebbe sorto, sembrerebbe in effet- succedere nel 1642 Lorenzo Flori) e posti in opera soltanto nel ti rimandare, ancora una volta, alla soluzione adottata nell’altare 1644. È a questo punto che una memoria autografa di Bernini si di Santa Bibiana). Si aggiungano la presenza inizialmente prevista preoccupava di apporre il proprio sigillo all’impresa tutta, speci- di due figure allegoriche (la Fede e la Giustizia) collocate ai lati ficando che gli si dovevano i disegni, i modelli nonché la finitura dell’iscrizione, là dove saranno poi i putti, le forme più mosse (le di ogni statua, in particolare nel rilievo e nella Matilde. Il sigillo zampe leonine) del sarcofago e si avrà la misura di come nel segui- dunque non solo dell’inventio in termini tardo rinascimentali to Bernini perfezionasse il progetto «per via di levare», puntando quanto di un controllo onnipresente sull’opera dei collaboratori e ad un insieme più organico e cesellato, quasi diminuito di scala. 3 4 POLLAK 1931, p. 207, doc. 617 5 CICOGNARA 1824, VI, p. 129 41 6 7 MONTAGU 1985a, pp. 39 ss., 434-436 WITTKOWER 1958, ed. 1983, p. 130 42 La soluzione adottata per la nicchia è emblematica, visto il modo però Pietro da Cortona irrideva l’impianto compositivo eccessiva- in cui Gian Lorenzo scelse alla fine di graduare l’affondo nella mente paratattico delle Nozze di Bacco e Arianna di Guido Reni, parete ricorrendo ad un partito ad arco già studiato da Carlo era implicito che chiamasse in causa le regole del bassorilievo clas- Maderno per l’incorniciatura delle finestre nell’ordine superiore sico, e che dunque anche la scultura fosse in qualche modo della di Palazzo Barberini. Una sorta di arco trionfale ove l’intradosso partita8. aperto e ripartito in specchiature minutamente decorate, amplifi- L’entrata in scena, proprio a questo punto, di Algardi in San ca l’effetto monumentale della statua di Matilde, e al tempo stes- Pietro sarà difficilmente casuale né si può credere che Bernini so funziona da raccordo prospettico fra i diversi piani e aggetti rimanesse davvero all’oscuro delle riserve mosse al suo della macchina celebrativa. Anche la scelta finale dei putti sul Monumento a Urbano, già presenti nei primi progetti presentati sepolcro rispondeva ad un’omogeneità di scala dimensionale dal bolognese al cardinale Ubaldini. È indicativo allora che il con- rispetto alla Matilde, che le due figure allegoriche previste nel fronto tra i due scultori si riproponesse sul 1634 intorno a un’in- disegno avrebbero potuto rispettare solo anteponendosi spavalda- venzione di grande futuro parallelamente svolta sia nel mente all’architettura, offrendosi in una tridimensionalità che ne Monumento a Leone XI sia nella Matilde: quella cioè di riservare avrebbe contraddetto la più sobria e stiacciata griglia spaziale, il fronte del sepolcro, sull’esempio dei sarcofagi antichi e paleo- quasi da bassorilievo. Ma è appunto ciò che, a queste date, Bernini cristiani, al bassorilievo narrativo, dunque all’historia9. E poiché si sforzava di evitare. Puntando ad un ordine compositivo in cui una tale soluzione viene già prospettata nel disegno più volte cita- all’architettura, come alla scultura, spettassero luoghi e ruoli intel- to di Bruxelles, è possibile che, ancora una volta, la precedenza legibilmente distinti anche se, ovviamente, concertati. spetti a Bernini, mai come in questo caso compunto nella pausata Non è irrilevante che lo scultore si ponesse in questo ordine di articolazione narrativa delle figure (indipendentemente dall’ese- problemi proprio intorno al 1634, l’anno in cui Algardi firmava il cuzione di Stefano Speranza) come nei controllatissimi accenni di contratto con il cardinale Ubaldini per il Monumento a Leone XI . illusione spaziale. Le regole del bassorilievo, di quella sorta di pit- Già Wittkower vedeva del resto, nella svolta segnata dalla Matilde, tura a tre dimensioni, rimarranno certo più congeniali ad Algardi, dal Pasce ovas meas, così come dalla statua di Urbano VIII nel ma va comunque segnalata, a fronte delle lisciatissime superfici Palazzo dei Conservatori (1635-40) e da alcuni ritratti coevi, «l’in- della Legazione di Alessandro de’ Medici in Francia posta sul sepol- flusso della crescente pressione da parte dei più entusiasti soste- cro di Leone XI, fatta per essere vista da vicino, la sprezzatura del nitori della dottrina classica» a Roma7. È in effetti di questi anni rilievo berniniano studiato per la media distanza e lasciato dunque anche la polemica, all’Accademia di San Luca, fra Andrea Sacchi senza finitura e lucidatura. Analogamente, nella Matilde, se pro- e Pietro da Cortona in tema di pittura di storia. E se anche quella prio come diceva Sacchi il decoro e la convenienza stavano nel disputa verteva poi sul numero delle figure adeguate all’azione rendere «gran sembianti, atteggiamenti maestosi, panneggiamenti (quando Poussin aveva appena dimostrato che per rendere lo stra- facili e di poche larghe pieghe»10, per il Bernini anche più classici- zio della Strage degli innocenti ne bastavano tre soltanto in primo sta questo voleva dire rifarsi semmai all’umanità florida, impo- piano), è da credere che Sacchi arricchisse subito il suo argomen- nente eppur mobilissima che, in una Roma ancora di tare con il richiamo alle convenienze dell’invenzione, e con pas- Controriforma, Rubens aveva osato issare sugli altari della Chiesa saggi che conosciamo dalla più tarda lettera a Francesco Lauri. Nuova e di Santa Croce in Gerusalemme. Le fonti della paludata Critiche, dunque, anche alle «bizzarre», «fantastiche», «affettate», Matilde sono appunto, come ha chiarito Lavin, nelle figure della «sfarzose» pieghe delle vesti «che non secondano la positura dei pala con i Santi Nereo, Domitilla e Achilleo e ancor più nella corpi che anno da ricoprire e che in vece di ricoprirli restano per Sant’Elena oggi a Grasse (ma un tempo in Santa Croce in la lor grevezza e ammassamen[t]o oppressi, e deformi». Quando Gerusalemme)11. 6 8 Sulla polemica cfr. BRIGANTI 1962, ed. 1982, pp. 88-89; SUTHERLAND HARRIS 1977, pp. 33-37 (che accetta la datazione al 1636 fissata da MAHON 1962, p. 97). La citazione è dalla lettera di Sacchi inserita dal Pascoli nella vita di Francesco Lauri (PASCOLI 1730, ed. 1992, p. 524) 9 MONTAGU 1985a, p. 49 10 MISSIRINI 1823, pp. 111-112 11 LAVIN 1968, p. 33 43 Bibliografia: ANDRETTA 1999 Stefano Andretta, I Barberini e la traslazione di Matilde di Canossa in Matilde di Canossa nelle culture europee del II millennio. Dalla storia al mito, in Atti convegno internazionale di studi (Reggio Emilia- Canossa-Quattro Castella, 2527 settembre 1997), a cura di Paolo Golinelli, Bologna 1999, pp.143-153 ANDRETTA 2003 Stefano Andretta, Matilde di Canossa nella Roma dei Barberini, in I mille volti di Matilde. Immagini di un mito nei secoli a cura di Paolo Golinelli, Milano 2003, pp. 87-103 ARONBERG LAVIN 1975 Marilyn Aronberg Lavin, Seventeenth Century Barberini Documents and Inventories of Art, New York 1975 AVERY 1997 Charles Avery, Bernini. 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