east21_Bielorussia
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Terra di laghi, fiumi e pescatori, tutto ti aspetteresti di trovare tranne che moschee. Invece i tartari, discendenti dei guerrieri di Gengis Khan, abitano qui. E qui, una volta l’anno, in una coreografia solenne, prega- Bielorussia, dove gli slavi leggono il Corano REPORTAGE 1 testo e foto di Monika Bulaj no nei loro cimiteri. Alcuni, come Jakub, un musulmano dal nome giudaico-cristiano, lo sanno fare meglio degli altri e per questo assumono MoniKa Bulaj un funzione particolare nella loro comunità REPORTAGE 1 otte fonda. Guido attenta a ogni fruscio, a ogni ombra che muove la foresta. Quando il sonno sta per sopraffarmi, cerco d’istinto un fiume per dormirci accanto, per uscire dal fitto del bosco. La Bielorussia è piena di fiumi e torrenti. Lo spazio delle radure è intriso di una debole luminescenza d’argento e il tocco vellutato dell’acqua scura accarezza e avvolge. Ricamati di grandi, immobili gigli bianchi, qui i fiumi rimangono neri anche all’alba. tano di slancio nel fiume, a piedi e a cavallo, vestiti come noi, con le scarpe e senza i calzini, i pantaloni strappati e le camicie madide di sudore. Spingono avanti mandrie di vacche e strigliano i cavalli con fastelli di piante acquatiche divelte dal letto argilloso del fiume. Esce il sole, i prati fumano di vapore, stendiamo i pantaloni bagnati ad asciugare. Sull’erba apriamo una tovaglia, ci mettiamo sopra mele profumate, un pezzo di formaggio secco e pane raffermo. Due bambini scalNon una luce, non un villaggio. In zi emergono dalla scarpata portando pesci Bielorussia trovare un letto è un’impresa. A dentro una retina appesa a un bastone. parte le grandi città, non ci sono hotel, ostel- Sembra che abbiano acchiappato il sole: le li e ristoranti. Dormo in macchina, un sonno scaglie mandano riverberi folgoranti. breve, profondo e pieno di calma; poi sorge un’alba blu, nuvolosa, liquida, quasi lunare. “Arrivano gli angeli e chiedono agli uomini chi sono e cosa hanno fatto, come sono visCon mio figlio Stas, quindici anni, saltiamo suti. Per questo bisogna dare ai morti un nel fiume vestiti; l’acqua è pura, lenta e documento per l’altro mondo, nella mano regolare come una linfa fatata. Poi arrivano ragazzi dai villaggi vicini e anche loro si but- destra un foglio e nella mano sinistra un MoniKa Bulaj N BIELORUSSIA, DOVE GLI SLAVI LEGGONO IL CORANO altro”. Jakub Aleksandroviã Adamoviã si inginocchia. Spinge nella terra smossa un foglio scritto in caratteri arabi, beve un sorso di vodka da una bottiglia e versa il resto su una tomba. Morde un pasticcino, si sporge in avanti bisbigliando, e la sua barba bianca si distende sull’erba umida come un tappeto. Jakub piange sulla tomba e tutti si mettono a singhiozzare: le vecchie infagottate negli scialli, le bambine in jeans e fazzoletto a colori, la giovane che abbraccia la lapide ornata da una grande mezzaluna ricurva e da caratteri arabi, il mullah Mustafà Radkjevic dalla faccia rubiconda come una mela matura, tagliata da sottili occhi a mandorla. Tutti piangono forte, senza misura, come un sol uomo, come se avessero aspettato solo quel segnale. Le lacrime si mescolano alle briciole del pasto. Anche a noi vengono le lacrime agli occhi. Poi il gruppo si trasferisce alla tomba successiva e si ricomincia da capo. In Bielorussia – terra di laghi, fiumi, pescatori – tutto ti aspetteresti tranne che moschee. E invece i tartari, i discendenti dei guerrieri di Gengis Khan, abitano qui. E qui, una volta all’anno – come oggi – in una coreografia solenne, pregano nei loro cimiteri. Alcuni lo sanno fare meglio degli altri, e per questo – come Jakub, un musulmano dal nome giudaico-cristiano – assumono una funzione centrale nella comunità. Un ruolo extra-confessionale, medianico, che talvolta li pone al di sopra degli stessi mullah. I fogli che Jakub seppellisce nella terra sono il lasciapassare per l’Aldilà. Contengono citazioni del Corano. Al vecchio non sembra importare che così venga infranto uno dei più implacabili tabù dell’Islam, quello che vieta – pena la morte – di seppellire la Scrittura. Quel rituale l’ha preso in prestito – ci spiega – dai suoi ex-vicini di casa, gli ebrei, per i quali, come è noto, ogni lettera sacra è un nome di Dio, quindi non puo essere calpestata e ha bisogno del suo funerale. L’ha preso in prestito con la stessa naturalezza dei buoni vicini quando si prestano il sale. I tartari sono un campione da laboratorio di come si applica la grande lezione della convivialità. E che si tratti di convivialità tra islam, ebraismo, e critianesimo, non importa: in fondo, quando chiedo chi sono, rispondono con semplicità: “Siamo, tutejsi, gente di qui”. “La buona preghiera è buona 80 per tutti”, mi dice Jakub, che ha adottato anche, sotto forma di scongiuro contro le malattie di uomini e bestie, la preghiera cattolica – in lingua polacca – alla Madonna e agli angeli. Nella moschea vedo gli ultimi eredi europei dell’Orda d’Oro leggere il Corano in lingua slava, fumi d’incenso disperso con l’abbondanza dei preti ortodossi, sento il Salah, la preghiera del muezzin, ma cantata in coro da una dozzina di uomini baffuti con beretti con la visiera, che seguono la polifonia bizantina. MoniKa Bulaj E non basta. “Noi tartari”, ci spiega il mullah Radkjevic che ritroviamo nella sua casetta di legno piena di libri e vecchi documenti, “accendiamo candele per i morti e deponiamo corone di fiori, come i cristiani. I peccati del morto possono essere alleggeriti dai vivi, con la logica delle indulgenze cattoliche. Preghiamo solo una volta alla settimana, di venerdì, ma per bene, e più di qualsiasi altro musulmano. Dividiamo il cibo con i defunti, li piangiamo e parliamo con loro, perché così fanno i contadini bielorussi ortodossi, russi Vecchi Credenti e i cattolici polacchi”. “Abbiamo sempre difeso con ardore queste terre pur conservando la nostra religione”, ci racconta. “Assieme alla coalizione slava, nel 1410 combattemmo nella battaglia di Grunwald contro i Cavalieri Teutonici. Abbiamo ottenuto privilegi reali, terreni, titoli nobiliari e mogli bielorusse. Abbiamo partecipato a tutte le insurrezioni per l’indipendenza della Polonia. Durante la Grande Guerra avevamo ventidue generali nell’esercito zarista. Nella campagna polacca del ’39 contro i nazisti avevamo formato uno spe81 BIELORUSSIA, DOVE GLI SLAVI LEGGONO IL CORANO Tramonto arancione, formazioni di oche selvatiche in decollo dai laghi. Le antiche strade della Polesia, le gallerie d’ombra dei viali di tigli, la saggezza antica degli abitanti. Vorremmo perderci tra i mirtilli. Nel suo lungo viaggio ferroviario dopo Auschwitz, Primo Levi qui si commuove: “Quando lasciammo quella terra sterminata, In fondo a un filare di pioppi vedo una volpe […] quegli orizzonti intatti e primordiali, accovacciata sotto un falcetto di luna. Scappa quella gente vigorosa e amante della vita, ci danzando a zig-zag, mentre il corno celeste stavano nel cuore”. Sulla carta che ci ha pende ancora a lungo, saldato alla strada regalato la comunità ebraica a Minsk è scritcome un cartello stradale. Una luna familiare, to a grandi lettere che la Bielorussia è il messa come si deve, dritta come una parente- posto più piacevole e sicuro in Europa e che i si in un compito di matematica. È la luna del suoi cittadini sono più gentili con gli stranieNord. Niente a che fare con la storta luna ri di tutti gli altri popoli europei. Il nostro mediterranea, o quella dei Tropici, che naviga lusso è la mancanza di fretta. Abbiamo mannel cielo come una barca di papiro. ciate, grappoli, interi mazzi di tempo. Lo potremmo ammucchiare, disperdere per i Ripartiamo. Ed è proprio allora che per un prati, dissipare. La strada porta dove vuole, attimo ci si affianca sferragliando il bruco scompare l’inutile, nuovi pensieri si formaluminoso del treno per Vilnius, così vicino no, accumulandosi come sassi portati da una che sento l’odore noto delle tappezzerie, il corrente in un ruscello. Dai finestrini aperti cigolio dei giunti, le chiacchiere dei passegentra profumo di erbe. Ogni particolare, geri, lo sbattere delle tendine. albero, vicolo, cavallo, si tramuta in segno. MoniKa Bulaj ciale squadrone di cavalleria”. “I nazisti ci chiamavano turchi”, dice il mullah, “e avevano simpatia per noi. Venivano a guardarci nella moschea. Abbiamo resistito anche allo stalinismo. Pagando tasse proibitive al regime, siamo riusciti a tenere la moschea sempre aperta”. REPORTAGE 1 allora che per un attimo ci affianca sferragliando il bruco luminoso del treno per Vilnius, così vicino che sento l’odore noto delle tappezzerie, il cigolio dei giunti, le chiacchiere dei passeggeri, lo sbattere delle tendine” Steccati di legno, recinti di legno, case di legno, tegole di legno ricoperte di muschio. L’unico lusso sono le campanule delle malve e i grappoli di dalie che ricoprono come un velo da sposa le finestre scure. L’infanzia dell’Europa, un paesaggio di cento, duecento anni fa: prima del tempo in cui gli uomini destinati alla fucilazione avrebbero dovuto scavarsi la fossa sulla riva dei fiumi. I boschi, quando ci si entra, sembrano metropoli. Arcipelaghi di carpini legati dal ponte sottile di una strada sabbiosa. Viali di salici tarlati, un folto sottobosco di sterpi, bianche colonne di betulle. E la certezza che tra un attimo vedremo l’immobile specchio d’acqua, il calamo aromatico, il ponticello storto di legno e i salici. I fiumi sembrano star fermi, da quanto qui l’acqua è piatta. Nella toilette di un ristorante a Pinsk uno sciame di ragazze si cambia la gonna. Si sfilano i collant, le camicette attillate, buttano via con un calcio le loro scarpine dai tacchi alti. In silenzio, senza un sorriso, smagrite, indifese. Si truccano i grandi occhi con una MoniKa Bulaj “Ripartiamo. Ed è proprio BIELORUSSIA, DOVE GLI SLAVI LEGGONO IL CORANO matita nera, si ingrandiscono le labbra sottili con una matita rossa. In sala stanno seduti in silenzio uomini dai colli taurini e bianche scarpe da ginnastica. Sono compagni della loro vita? Bevono birra e fissano ora la porta, ora la finestra. Fuori si infittisce il crepuscolo, sparisce il colleggio dei Gesuiti e con essa l’ombra invisibile di sant’Andrea Bobola, il martire irato, il più controverso – anche se minore – patrono della Polonia. Sant’Andrea, patrono del conflitto tra cattolici e ortodossi, è in genere raffigurato con le spade cosacche che gli trafiggono il corpo oppure come un povero viandante, difensore degli antichi confini orientali. E al primo piano del ristorante oggi c’è un grande ballo con palloncini, fiori finti, festoni. Ci sono i polacchi più anziani di Pinsk, quelli che nel ’45 non sono riusciti ad andarsene. Poi Stalin prosciugò le paludi e fondò i kolchoz, sparirono le barche piatte dei pescatori che portavano pesci e miele, infine arrivò Cernobyl. Vespri alla polacca. Canti patriottici. Poesie di Slowacki. Perfette l’intonazione e la pronuncia vecchia maniera della “l”, la liquida anteriore dentale, la stessa che usano i migliori attori dei teatri polacchi. Danzano il valzer stretti come adolescenti. Non è facile trovare Anna Borusewicz, nata nel 1888, forse la donna più vecchia del mondo. Bisogna non vedere Minsk – la sua città – e seguire un’altra geografia, segreta. Ignorare i viali costruiti per le parate militari e gli aeroplani, il monumentalismo prospettico e un certo frettoloso sparire di limousine. A Minsk puoi morire di fame prima di riuscire a raggiungere un negozio. La città era trent’anni avanti rispetto al mondo sovietico circostante. Oggi è un fossile, la riserva indiana del pensiero unico, un luogo così particolare che l’Unesco l’ha annoverato tra i patrimoni dell’umanità. Lo sguardo si perde all’infinito. E sul collo si sente il caldo respiro del Grande Sceneggiatore. Per fortuna c’è Valja, una scrittrice che sembra vivere in un mondo a parte e vede quello che non c’è. Al posto dei palazzi staliniani, della foresta di casermoni informi e dei campi di cavoli, vede residenze, parrocchie, palazzi principeschi, quartieri ebraici, mahal tartari, sinagoghe, chiese ortodosse e cattoliche. «È il vizio dell’immaginazione», spiega. È 84 dolce e saggia Valja. Racconta che sua nonna analfabeta cantava in quattro lingue: polacco, bielorusso, russo e yiddish. E così, all’improvviso, in quella città che neppure esiste, ci vengono incontro davvero i paesaggi della sua immaginazione, sopravvissuti dietro i casermoni staliniani: il muro bianco di un palazzo con i portici, l’atto avventato del gotico, case con facciate in legno, rese brune, quasi violacee dal sole e dalla pioggia. E poi campanili che ardono come ceri, un fanciullo con i peoth che si dondola su un libro in una yeshiva incastrata fra i cadenti falansteri di era crusceviana, anatre che marciano nel fango, vecchi ontani, selciati, stradine di sabbia. Anna Borusewicz abita in fondo a tutto questo. Ha una faccia dolce piena di calore e comunicativa. Ha uno sguardo vuoto ma fiuta fortissimamente la nostra presenza. Ha lavorato nei kolchoz fino a novantacinque anni. Cieca, ci parla dell’inferno e del paradiso con una tale cura per i particolari che sembra descriva i corridoi della sua anima. Non sente, a volte afferra solo una parola che le apre la memoria come una chiave. “Lenin? Lo ricordo benissimo. Ci liberò dallo zar. Ricordo anche Stalin. Fece deportare mio marito, dichiarato nemico del popolo. In Siberia, per sempre”. Allora Anna è rimasta sola con i suoi numerosi bambini. Non sente quando le chiedo quanti fossero. Nemmeno sua figlia se lo ricorda. “Ne morirono tanti”. Ha battezzato nipoti e pro nipoti di nascosto, in bagno, con l’acqua di una bacinella, tutta sola. “Dio è morto. Gesù è morto. Sono morti tutti. Non c’è nessuno. Dall’altra parte, ci sarà solo il respiro di Dio”. La bacio, e quando la lascio la città di Stalin riprende possesso di noi. Nella piazza principale, piena di belle ragazze con tacchi a spillo, mi colpisce un uomo esausto e smarrito, che sparge parole come brandelli di telegramma. Si chiama Jurij, è in odore di opposizione, e per paura dei servizi segreti dorme ogni notte in una casa diversa. Intorno a lui c’è gente che sparisce. Dimitrij Zavadzkij, Viktor Gonãar, e molti altri. Desaparecidos. Jurij non fa mai nomi, nemmeno quello di Lukashenko. Dice soltanto “Lui”. “Lui è riuscito a mettere in moto una macchina del tempo. Alla televisione ci sono tre, quattro ore ininterrotte delle sue prediche. REPORTAGE 1 MoniKa Bulaj MoniKa Bulaj MoniKa Bulaj Ha rianimato il sistema del controllo assoluto, il cadavere sovietico collaudato per quattro generazioni. I giornali escono con pagine interamente bianche, cancellate dalla censura, poi vengono chiusi. Siamo vicini a Varsavia, ma per l’Europa siamo solo un Aldilà. E sì che chiediamo poco: solo stare in pace, senza più guerre, avere un pezzo di pane, un sacco di patate, un pezzo d’orto”. La sbarra della dogana ucraina nel villaggio di Nieviel non spaventa nemmeno i passeri. Separa due vuoti identici. È un monumento all’insensatezza. Siamo gli unici visitatori, ma impieghiamo ore a passare. Una trafila esasperante: compilare, copiare, timbrare, firmare, incollare, staccare il modulo, timbrare di nuovo, umettare il retro del bollo, timbrare, attaccare, copiare, incollare la foto, il permesso, così non si deve, non si può, così va bene, ancora un timbro punto a capo. Le guardie hanno un aspetto davvero poco serio. Qualcuno le ha portate in questa campagna sterminata, qualcun altro ha dato loro una divisa, un berretto con visiera e un’arma, e ora restano impettite, dritte come girasoli. Scorrono le dita sui bordi dei visti postsovietici, a lettere d’oro, dal doppio strato di colla, grandi e rigonfi come gli altipiani dell’Anatolia, poi sui timbri sbiaditi del Medio Oriente in caratteri arabi, oramai illeggibili. Il mio passaporto irrita le guardie per la sua totale mancanza di logica, per gli itinerari insensati che racchiude, simili al girare in tondo dei miei centocinquanta rabbini. Umettano le pagine del passaporto, le accartocciano come se fossero fatte di una sostanza aliena e scompaiono nell’ufficio insieme al documento per tempi infiniti in cui trionfa il ronzio delle mosche. Passeremo, ne siamo certi. In fondo questa frontiera inutile ha senso solo perché noi la oltrepassiamo. E difatti ci lasciano andare. Ma prima della sbarra c’è un ultimo ostacolo: una pozza enorme come un lago, piena di un liquido puzzolente per la disinfestazione. Lì bisogna immergere i piedi, le ruote dei carri e delle automobili, gli zoccoli dei cavalli e delle vacche. Per emendare quali colpe? Delle contadine che vanno in giro a spettegolare? Del bestiame che si perde? 85