Anno 1 Numero 39 - 17.11.2008

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Anno 1 Numero 39 - 17.11.2008
Anno 1 Numero 39 - 17.11.2008
Sono anch’esse bandiere, bandiere di pelle umana
che sventolano sopra le nostre teste. Sono le
bandiere della nostra patria che sfilano lungo le
strade di una liberazione festosa.
Passando per Piazza Venezia, dal Vittoriano pende
come un impiccato il tricolore. Il tricolore di
Mazzini, di Menotti, di Garibaldi, di Mameli. Tutte
le mani tese in alto sembrano attendere la sua
caduta, per poterlo prendere prima che tocchi la
polvere. La bandiera suicidata del Risorgimento
non ci appartiene più. Adesso la nostra è una
bandiera di pelle umana.
Non appartiene neppure più agli sciagurati
fascisti. L’hanno vilipesa nel modo peggiore
l’hanno avvolta attorno alle spranghe per
nasconderle, dimostrandosi ancora una volta i più
deboli, ignoranti e nudi dei propri stessi valori.
Lungo le strade di Roma e di altre città gli
studenti italiani, una nuova generazione,
espongono il proprio corpo a tutti i venti, escono
dalle loro case e fanno della loro pelle una
bandiera che si srotola in mille lingue lungo le
strade. Se potessimo vederla dall’alto questa
marea che invade gli spazi fra i palazzi allora
riusciremmo a vedere il colore della nostra
bandiera. O forse no. Non lo vedremmo perché
questa bandiera non ha colore. E’ una bandiera di
pelle e di parole e appartiene ad un popolo che
non vuole inni, ma argomenti, come nella
tradizione delle rivoluzioni italiane. Vuole
ragionare. Vuole ricostruire la ricetta per uscire
dall’impasse politica che ha paralizzato il paese,
vuole spazzare via dal parlamento il bivacco di
manipoli che chiamiamo Seconda Repubblica. E’
la strada contro il palazzo. Come nel Macbeth, è
la foresta che si muove. Non contro il potere, ma
contro la sua perversione. Non per rivoluzionare,
ma per “ristabilire”.
I moti del 2008
Editoriale
di Gian Maria Tosatti
E’ nel finale del libro forse più famoso di
Malaparte. L’arrivo a Roma, la liberazione e un
uomo che finisce per sbaglio sotto i cingoli di un
carro armato venendo ridotto ad una sagoma
schiacciata sul piancito. Da questo episodio
involontario e triste lo scrittore torna con la
memoria a qualche anno prima, in Ukraina,
quando un altro uomo finito in quel modo veniva
infilzato davanti ai suoi occhi da una vanga e
sollevato come una bandiera. «Questa è la
bandiera della nostra patria» chiosava Malaparte
«una bandiera di pelle umana. La nostra vera
patria è la nostra pelle».
Sono gli stralci di un romanzo del 1949 che
continuano a tornare su ogni qualvolta ci si
scontra, scantonando, in uno di questi enormi
cortei senza bandiere, che invadono le nostre
città. Una moltitudine di mani alzate. Aperte.
La sollevazione di questa stagione non è un nuovo
’68, ma un nuovo ’48 (se proprio si deve trovargli
un antenato). Non è ideologica, è pragmatica.
Non tende a generare un mondo nuovo, ma a “ricostruire” un paese. Non è una rivoluzione, ma
una ristrutturazione, come quella che stanno
cercando di fare gli studenti di Valle Giulia a
Roma, che a differenza di allora, oggi non
occupano, ma ripitturano i muri, aggiustano le
finestre, combattono il degrado visibile di una
gestione dissennata, partono dalla pelle, per
imparare come arrivare al cuore. E lo fanno
mettendo le mani sulla “cosa loro”, sulla “casa
loro”. Se ne reimpossessano.
Per strada è lo stesso. Il palazzo è accerchiato. E’
una zattera nella corrente che trema. Ha paura,
lo dimostrano le camionette di carabinieri e
poliziotti schierate in assetto di guerra, in piazza
Colonna e in piazza Montecitorio, lo dimostra la
foga da mastini, la foga violenta con cui gli
ufficiali agli ordini dello Stato hanno spaccato le
ossa ai ragazzi disarmati che occupavano i binari
per cercare di far rientrare la marea. Mentre nel
palazzo si sfruttava il clamore per far passare in
sordina, confuso nel rumore di fondo, ancora
qualche atto di regime come la privatizzazione
dell’acqua e lo scandaloso verdetto del processo
Diaz.
L’onda, intanto, ha ricominciato a gonfiarsi. La
grande bandiera di pelle umana a srotolarsi fino a
coprire la città. Lungo le strade, insistentemente,
perché tutti, anche quelli che oggi stanno in
silenzio credendo non ci sia alternativa agli
attuali simboli del potere, vedano. Le mani in
alto, ma non in segno di resa.
Cosa racconta la street art?
Interrogativi strutturali a partire dalla terza
edizione di InternaTional Poster Art
di Attilio Scarpellini
Il Cristo della Cena ha una vaga somiglianza con
Johnny Deep, il pane su cui impone le mani è una
rosetta, il vino riempie una caraffa di vetro
dozzinale e Giuda al posto della solita borsa ha
tirato fuori direttamente il portafoglio, mentre
dalla mano nascosta dietro la schiena di uno degli
apostoli (forse una citazione caravaggesca) spunta
un coltellaccio da cucina: chi di spada ferisce
etc... La fotografia di Artcock che campeggia su
uno dei muri di Esc, una delle opere (se è ancora
il caso di definirle tali) della terza edizione di
InternaTional Poster Art – l'esposizione curata da
Sten, Lex e Lucameleonte, viene visibilmente da
Warhol e forse da un celebre fermo immagine di
Bunuel in Viridiana (nonché da una serie infinita di
ultime cene reinstallate nei materiali più svariati,
dalla luce di Greenway al lego) ma nella
cristallizzazione plastica delle sue pose si è come
spento ogni bagliore di parodia e persino un
teologo non ci troverebbe nulla di dire. E' precisa,
puntuale, persino possibile: rimette in scena una
storia evangelica finita in pizzeria sotto l'obiettivo
di un fotografo d'occasione, scatta e passa, si
stacca e rientra nel continuum di manifesti che
rendono le pareti dell'atelier occupato di Via dei
Reti una specie di iconostasi stratificata, dietro la
quale non si nasconde alcun celebrante.
Non è l'ideologia, la principale preoccupazione di
questo tripudio del segno metropolitano che nella
sovrapposizione rende definitivamente
indistinguibile la titolarità del gesto artistico,
firmandosi spesso a latere, nello spazio già
occupato da qualcun altro: anche il murale di
L'Atlas, che domanda “chi sono i veri criminali?”
allungando le sue lettere fino a trasformarle in
strisce uniformi – verdi, bianche e rosse come la
bandiera nazionale – è una denuncia, quanto al
significato “primo”, ma è soprattutto uno studio
sulla visualità della scrittura, animato dalla stessa
ansia di evidenza che spinge l'action painter
francese a ricalcare con il peso del suo corpo le
sagome dei tombini di Parigi, e trasformarle in
altrettante mappe grafiche di mondi che
aspettano ancora di venire all'esistenza negli
interstizi della metropoli. Come a dire: dove tutto
è funzionale, normato, trasparente, solo la
decorazione è sovversiva poiché dimostra ciò che
altrimenti è destinato a restare nascosto, come
l'impronta di una città sotterranea – il grande
mito della Parigi speculare descritta da Hugo e da
Sue.
L'idea che il flusso metropolitano vada
interrotto e rimodulato a partire da uno sguardo
che il più delle volte è un frammento di leggenda
– basta gettare un occhio al fitto ricamo grafico di
Ufo 5 che nel suo viluppo di teschi, cuori e angeli
caduti si presenta come una visione alla William
Blake – che ogni superficie urbana possa diventare
una finestra e dallo sfondo corroso, indistinto (del
muro e della maceria) possa riemergere un potere
di figurazione, cioè una decisione formale (questa
sì intrinsecamente politica) è forse l'unica che
radichi veramente il congenito anarchismo
espressivo della street art in un'istanza di
comunità.
Anche perché la pseudonimia, come la letteratura
del secolo scorso insegna, è il contrario
dell'anonimato: è la proclamazione di un'altra
identità (di un'identità romanzesca, lo ripeto,
leggendaria) rispetto a quella assegnata
dall'individualismo di massa, la volontà di
rifondere un corpo reificato nell'alterità del
segno, cioè del desiderio con tutto il peso
vertiginoso della sua gratuità. Sostenere che
questa idea è anzitutto un gesto, limitandosi così
a registrare l'ennesima resistenza alle derive della
modernità – o il supplemento d'anima di una
creatività destinata prima o poi a tradursi dalla
strada nel mercato – significa incaprettare il
“fenomeno” nella sociologia dell'arte. Mentre
come la mostra di Esc dimostra nel suo spontaneo,
nel suo potente esporsi in un luogo di convivialità
quotidiana – accadeva nelle chiese, ancora
qualche secolo fa, che l'arte fosse parte di
un'offerta – è forse arrivato il momento di
analizzare dei linguaggi. Sarebbe interessante
capire, ad esempio, cosa racconta la passione
figurativa dell'arte di strada agli aedi del
“contemporaneo”.
strada oggi la si trova più nelle gallerie. Ma ci
sono esempi come Blu e JR che continuano a
realizzare opere monumentali per strada, poche
eccezioni che credono nel valore dell'opera
pubblica. Che danno importanza al paesaggio
urbano e contribuiscono a costruire lo scenario
dell'arte contemporanea. Io sto nel mezzo, per
strada, nei musei e nelle gallerie. Se non vendo
non vivo.
Rispetto agli anni Ottanta, oggi sembra che sia
l'Europa più che l'America l'epicentro di una
nuova arte di strada, che si inserisce nelle
pieghe della metropoli e ne cambia l'estetica.
Sei d'accordo? Secondo te per quale motivo?
Gli Stati Uniti mantengono il dominio della
risonanza che ha la street art, il più importante
centro che raccoglie informazioni sulla street art
è un blog di New York che si chiama Wooster
Collective. Di fatto gli street artist più importanti
al momento, Blu, Banksy e JR sono europei. Il
luogo fisico dove si realizza più street art si sposta
invece nei paesi del terzo mondo in particolare in
America Latina dove è possibile realizzare opere
monumentali senza troppe burocrazie e dove lo
scenario si presta particolarmente.
La pelle della città
Una intervista a Sten
di Graziano Graziani
Nel groviglio di simboli e segni che ridisegnano
costantemente la “pelle” della città di Roma, i
suoi muri, le sue strade, il tratto di Sten è ormai
divenuto una linea inconfondibile. I suoi lavori,
realizzati con la tecnica dello stencil, vengono
racchiusi sotto l’etichetta di “street art”, arte di
strada, ovvero l’evoluzione di quel filone artistico
che senza soluzione di continuità passa dalla
stagione della New York anni ottanta fino ai muri
di casa nostra, tra artisti già consacrati e autori
anonimi. I suoi lavori sono da tempo passati anche
per i muri delle gallerie, e di recente Sten (o –
sten–) ha aperto uno studio nel quartiere romano
di San Lorenzo, l’«Off Of The Street» in via dei
Piceni, assieme ad altri due protagonisti della
scena artistica romana, Lex e Lucamaleonte. Lo
abbiamo raggiunto per chiedergli quale sarà
secondo lui l’evoluzione di questa arte “della
strada”.
Che rapporto hai con lo stencil? Perché hai
scelto questo mezzo e questa forma d'arte?
Ho scelto la tecnica dello stencil perchè sono
sempre stato affascinato dalle tecniche di stampa.
Lo stencil è una delle tecniche più rudimentali di
stampa, ho cercato di studiarne le possibilità e
continuo a farlo. Non è poi una tecnica così
rudimentale come sembra.
Oggi si parla insistentemente di street art. Ma se
non in strada, qual è il posto dell'arte?
La street art grazie a Banksy è entrata nel circuito
museale e galleristico di tutto il mondo. Nata per
I tuoi lavori sono esposti anche nelle gallerie.
Che rapporto hai coi galleristi?
Ho un rapporto positivo con i galleristi di Londra
perchè sono professionisti e vendono nel concreto,
in particolare con i galleristi di Art Republic che
ha la sede principale a Brighton. La cultura
Londinese apprezza la street art e rispetta gli
artisti. A Roma ci sono gallerie di settore che sono
nate di recente come la Dorothy Circus e Mondo
Pop con cui mi trovo bene nonostante facciano
fatica a rapportarsi con un genere di pubblico che
ancora non codifica bene questo genere di arte.
Che cosa cambia nelle esposizioni in galleria
rispetto ai muri della città?
Cambia tutto, in galleria non c'è più street art. Si
può simulare un ambiente di strada ma si
tratterebbe comunque di contraffazione. In
gallerie ci sono per lo più quadri, in strada c'è il
muro.
Hai un rapporto schivo rispetto alla tua
immagine. Non sono molti a conoscere la tua
faccia, a differenza di quanta gente conosce i
tuoi lavori. Perché?
Credo nell'anonimato e nella totale privacy. Non
potrei mai essere un personaggio pubblico in
quanto sono schivo di natura e non mi piace
relazionarmi troppo al sociale. La ragione
principale sarebbe quella che non posso farmi
vedere perché opero nell’illegalità, ma di fatto
non mi piace farmi vedere.
Quali soggetti ti interessano in questo
momento? e perché?
Mi piacciono sempre i volti ed i ritratti fotografici
degli anni 60-70. Mi piace ritrarre alcuni volti di
persone che conosco ed alternarli ai ritratti del
passato.
apprezzata da una parte della mia generazione e
da qualche avanguardista un pò più vecchio. Qui
non si fa differenza tra writing e street art, tra
scritte politiche e writing, tutto ciò che è su muro
è uguale. D'altronde il bombardamento
cartellonistico pubblicitario, le tag, i poster e
stencil creano un caos talmente grande a Roma
che è meglio per il passante appiattire la visuale e
staccare la spina.
Le mille strade del cinema
Molte pellicole uscite e in uscita raccontano un
rapporto identitario con la città
di Federico Pontiggia
«Sbagliando strada si impara a riconoscere la
propria»
(Proverbio della Tanzania)
Qual è per te il significato politico dell'“abitare”
le città tramite l'arte?
Non ho mai approfondito il significato politico, so
che la mia arte è violenta ed imposta al pubblico.
Non voglio dare messaggi esplicitamente politici
anche se l'arte si può combinare ed interpretare
con tutto.
"Non amo meno gli uomini ma più la natura",
scrisse Lord Byron. Per immagini e suoni, lo ha
riscritto Sean Penn con Into the Wild, biopic on
the road destinazione Alaska, tratto dall’omonimo
bestseller di Jon Krakauer (Nelle terre estreme) e
disponibile in Dvd (edizione speciale doppio disco
edito da 01 Distribution). Protagonista il 22enne
Christopher McCandless, che a pieni voti sulla
soglia della Harvard Law School nel 1992, decide
di abbandonare famiglia e studi, brucia denari,
taglia carte di credito, dona all’Oxfam i suoi averi
(24mila dollari), e si mette sulla strada: meta
finale l'Alaska, dove il suo corpo senza vita verrà
ritrovato due anni dopo in un autobus
abbandonato.
Modellati dalle musiche di Eddie Vedder, plasmati
dalla coraggiosa fisicità di Emile Hirsch e dalla
natura splendida e crudele dell'Alaska, sono 148'
che scorrono potenti, intersecando incontri con
hippie di mezza età, agricoltori, giovani coppie,
vecchi eremiti, tessere uguali e contrarie della
vita, che si fa libertà: quella egoistica, amorevole,
avventata e peritura di Chris, in fuga da famiglia e
carriera verso un luogo che possa essere anima e
corpo. Viaggerà fino alla fine, che lo lascia con le
labbra socchiuse a guardare il cielo: senza
rimpianti.
Alle sue spalle, l’immaginario americano, rivisto e
attualizzato da Penn: il miraggio della frontiera,
su vagoni che ricordano Dylan; autostop à la beat
generation; London, Thoreau e Tolstoj sul
comodino che non c’è, ma senza più l'on the road
di Kerouac (vedi il "distacco" di Penn dalla coppia
hippie): ribellione in prima persona singolare, con
un epilogo (auto)critico: "Non è vera felicità se
non puoi dividerla con qualcuno".
Rispetto a qualche anno fa c'è più attenzione o
diffidenza rispetto alla street art? Quali tipi di
pregiudizi permangono, e quali sono stati
superati?
In UK e US c’è sicuramente più apertura da parte
anche delle stesse istituzioni. In Italia viene
Se per Penn, pur atipicamente, la strada continua
a farsi fuga dalla città, viceversa assolutamente
urbane – nell’accezione peggiore del termine –
sono le traiettorie de La zona di Rodrigo Plà,
opera prima tra le più importanti della scorsa
stagione, ora disponibile in home-video con
Credi che la street art evolverà in qualcos'altro?
Verso quale orizzonte?
La street art sta diventando un fenomeno serio
che farà emergere non più di due tre artisti a
livello internazionale che diventeranno molto
importanti a livello d'arte contemporanea.
Dall'altro lato sarà un fenomeno adolescenziale
come il writing. i ragazzi inizieranno a scuola e
pochissimi ne faranno un percorso di vita. Poi ci
saranno le vie di mezzo.
Warner Bros.. Protagonista è Alejandro, un
adolescente che vive ne La Zona, un ricco
quartiere di Città del Messico recintato e protetto
da guardie private: una notte, tre ragazzi delle
borgate riescono a introdursi nel quartiereresidence per compiere un furto, ma qualcosa va
storto.
Oltre a confermare l’ottimo stato di salute del
cinema messicano e il suo fil rouge
dell’incomunicabilità tra individui e classi sociali,
La zona miscela un potente mix di entertainment
e rabbia sociale, puntando il dito contro il
crescente divario tra ricchi e poveri: le classi,
ovvero le barriere, sociali quale negazione del
minimo comune denominatore umano. E con una
Città del Messico che riecheggia Bogotà, riesce ad
astrarsi dall’indicazione geografica tipica per porsi
quale atto d’accusa glocal nei confronti del
villaggio globale impazzito.
Tutto il contrario di quanto accade nell’ultimo
film di James Bond, il 22°: Quantum of Solace, in
sala. Giramondo come non mai nella saga - da
Panama al Cile, dall'Italia (Siena, Carrara, Lago di
Garda e Fonteblanda) all'Austria, con la base dei
Pinewood Studios inglesi – il film, un action-movie
tagliato su misura per Jason Bourne piuttosto che
007, finisce per essere davvero apolide, senza una
patria, ovvero un ubi consistam poetico: che è
l'oscura piovra Quantum - presumibilmente
upgrade della Spectre - se non un McGuffin
piccino, inspiegata perché inspiegabile? E che
dire, se non male, del suo farraginoso progetto
criminale di siccità coatta? In questo caso, anziché
collegare le paure globali (terrorismo e siccità) le
tante strade percorse da 007 sono pura cinesi
parossistica, che, pur migliore delle soste parapsicologiche disseminate nel film, non porta da
nessuna parte.
Viceversa, gradevolmente filantropico è il
campione di incassi di tutti i tempi in Francia (21
milioni di spettatori): Giù al Nord, scritto, diretto
e interpretato da Dany Boon, comico poliedrico in
patria, e quasi sconosciuto da noi. Caso al
botteghino e ancor più fenomeno sociale, il film
(nelle nostre sale) mette alla berlina i pregiudizi
dei francesi del sud verso quelli del nord con un
incipit - e non solo - on the road: un funzionario
della posta originario della Provenza, per
punizione viene trasferito al nord, nella cittadina
di Bergues, dove scoprirà una popolazione
accogliente e solare, e un dialetto complicato, lo
Ch'ti.
Da un dialetto all’altro, il barese, smozzicato qua
e là ne Il passato è una terra straniera di Daniele
Vicari, dal romanzo di Gianrico Carofiglio, in sala
e da vedere. Siamo a Bari, giorni nostri, quando il
giovane magistrato Giorgio viene fermato da una
ragazza: “Non ti ho mai ringraziato per quella
notte. Ecco, volevo farlo ora. Ma ti ricordi di me?
Sono Antonia…”. Giorgio torna indietro nella
memoria, quando mancava ancora un esame per
laurearsi, quando la conoscenza di Francesco,
tenebroso e audace giocatore di carte, trasformò
la sua vita borghese in un vortice infernale dai
contorni sfocati, giocato a poker in ville sontuose
e bettole senza nome. Ecco allora che Il passato è
una terra straniera, vissuto tra ambienti sordidi e
côtè borghesi, con il poker a far da collant: “Dopo
aver letto il libro, di genere ma con un’impronta
fortemente realistica, ho compreso – dice Vicari quanto Carofiglio conoscesse bene le cose di cui
parlava: quei mondi, quei personaggi, le strade e i
vicoli notturni di una Bari dai connotati
indecifrabili, esistevano veramente, come la
continua sovrapposizione tra società altolocata e
bische malfamate”. Nel film, le strade si sfocano,
i numeri civici sbiadiscono, e lo status sociale si fa
terra di nessuno, dove l’identità, vanamente
definita da classe, estrazione, censo e istruzione,
è in realtà tutta da trovare, in una deriva
particolare – quella di Giorgio (Elio Germano) –
che ricorda da vicino, e senza forzature, l’attuale
situazione socio-politica italiana.
Attraversamenti fra cultura e politica
Un convegno sul rapporto fra metropoli e codici
artistici e una serie d’interventi nei punti
nevralgici di Roma per il festival di Margine
Operativo
di Mariateresa Surianello
Il tema proposto da Margine Operativo era una
precisa sollecitazione, “Le trasformazioni delle
metropoli e le interazioni/connessioni con i codici
artistici del contemporaneo”, e avrebbe dovuto
portare naturalmente verso un’esposizione teorica
di pratiche poetiche, certo a partire dalle
politiche, e non solo culturali, e non solo romane.
E invece gli interventi che si sono succeduti alle
Officine Marconi, nell’incontro curato dalla
Differenza per la serata conclusiva della prima
tranche di Attraversamenti Multipli 2008, sono
rimasti quasi completamente incagliati ai discorsi
politici. O meglio sembra siano proprio le relazioni
tra cultura e politica a creare una sorta di scala di
valori e a stabilire la supremazia della seconda
sulla prima, portando quest’ultima al totale
soggiogamento da parte della politica. Nelle
occasioni di dibattito pubblico, gli artisti (e gli
operatori culturali) non sono quindi disposti a
parlare delle loro pratiche estetiche, mentre
raccontano volentieri le loro difficoltà a esistere,
che spesso poi condizionano non poco le stesse
poetiche.
Programmato in apertura di una lunga serata di
spettacolo, il convegno è stato ospitato in uno
degli spazi più discussi della capitale, le Officine
Marconi, che al di là del suo essere stato, negli
ultimi anni, oggetto di scambio per
l’urbanizzazione di questo spicchio di città – siamo
nella periferia Est - continua a mostrare tutta la
sua potenzialità come luogo di accoglienza della
creatività contemporanea, per questo urge
chiarezza sulla sua attuale e futura gestione. Ed
era stato proprio Margine Operativo, nell’edizione
2002 di Attraversamenti Multipli, ad aprirlo per la
prima volta come ex Italcable, quando gli accordi
per l’utilizzo si prendevano con Telecom Italia. Fu
un evento memorabile, che nella memoria di chi
scrive si colloca accanto all’apertura di un altro
polo di aggregazione, dall’altra parte della città,
l’Auditorium Parco della musica – con tutto il
rispetto per Renzo Piano.
Tra i pilastri di questa architettura industriale è
facile raccogliersi in circolo e aprire il dialogo con
le istituzioni invitate a ragionare sul tema delle
trasformazioni. Cecilia D’Elia – Assessore alle
Politiche Culturali della Provincia di Roma, è
chiara nell’esporre la sua visione a partire dal
lavoro svolto dalla Provincia di Roma che ha
investito, anche attraverso l’articolato progetto
“Scenari Indipendenti”, su quelle realtà che si
interrogano sulla ridefinizione degli spazi urbani e
su come le persone vivono oggi questi spazi. E’ un
tema essenziale, secondo D’Elia, nella riflessione
su un nuovo modo di vivere la cittadinanza, che
non è più nella vecchia polis, ma nei luoghi di
attraversamento. Ci sono dimensioni di “area
vasta” e di “area metropolitana” che vanno
discusse, tenendo conto di quei pezzi di
popolazione che rimangono prigionieri degli spazi
urbani, dove si generano intolleranza e razzismo.
Le istituzioni pubbliche hanno il compito di
mettere in connessione chi questi spazi li sa
attraversare - l’elite intellettuale e la creatività
artistica - con quei pezzi di popolazione
prigioniera. Questa comunicazione va supportata,
è un modo di pensare gli spazi urbani e quindi le
politiche culturali in una dimensione urbana, che
per D’Elia è una dimensione di area vasta.
L’assessore accenna anche al lavoro avviato sui
“piani territoriali della cultura”, quelle zone di
cintura che la popolazione attraversa
quotidianamente. La sfida di Cecilia D’Elia è
quella di dare una forma culturale alla dimensione
che lega Roma alle zone della provincia.
Mentre, Emiliano Viccaro portavoce dell’Horus
Occupato (che è stato sgomberato dalla polizia, lo
scorso 21 ottobre) si domanda se la rete di spazi
autogestiti costituitasi da oltre un decennio a
Ro m a , p o s s a s o p r a v v i v e r e a l l a n u o v a
amministrazione comunale, Sandro Medici,
presidente del Municipio X, mette il dito sulla
sconfitta politica che è anche una sconfitta
sociale. Una difficoltà di trovare forme di
comunicazione con interi territori, soprattutto di
periferia. Ma è anche una sconfitta – sottolinea
Medici – che produrrà sempre più una crisi
strutturale delle possibilità di favorire forme di
espressività artistiche e culturali fuori dei circuiti
di mercato. Il timore di Medici è che venga
inaridita alla fonte la possibilità minima di
favorire progetti che attraversino i territori. Se
c’è un problema generale sull’uso degli spazi
pubblici anche semplicemente per l’aggregazione
sociale – non solo l’esperienza dei centri sociali –
c’è accanto il problema su come queste istanze
vengono ora accolte. Dal modello mediceo di
Veltroni, all’interno del quale c’era una parte
residuale che consentiva possibilità e condizioni
indipendenti. Il nuovo governo non sappiamo –
afferma Medici – cosa farà. Si dice che la cultura
sia un lusso e quindi si sospendono gli investimenti
sul benessere culturale. Se questo dovesse
accadere a Roma, entrerebbe in crisi la cifra
culturale della città, che andrebbe a fare solo il
presepe vivente e la processione dei flagellati a
Pasqua. Quindi, secondo il presidente del X
Municipio, la cultura diventa un terreno di
battaglia politica forte. Si dovrà recuperare una
radicalità nella critica, per avere spazi pubblici e
risorse per la cultura. E Medici ripropone la sua
idea per fronteggiare il taglio alla cultura
assestato dal governo. Se a ciascuna delle grandi
istituzioni culturali della città (Teatro dell’Opera,
Teatro di Roma, Santa Cecilia...) si togliesse uno
spettacolo in cartellone e quella parte di
finanziamento pubblico – dice Medici - andasse
alle attività marginali, queste esperienze
potrebbero sopravvivere. E sono le esperienze di
lavoro nelle periferie. Questa è anche una
battaglia di territorio – conclude Medici.
A questa proposta Cecilia D’Elia non si mostra
d’accordo e ribatte che il governo di centrodestra, mentre taglia i fondi alla cultura, destina
500 milioni a Roma, bisognerà capire quanti di
questi saranno, a loro volta, destinati alla cultura.
Gana e Giordano Giorgi vanno ad abitare dopo
averla pensata nella loro indagine sull’acqua e sul
suo scorrere. Alluminio e plastica come elementi
ravvicinati e in cerca di compenetrazione, in cui
sembra riemergere quella loro continua tensione
tra maschile e femminile, Mi rubi gli occhi, recita
il titolo.
Sopra, al secondo piano, una lunghissima fila ci
impedisce di entrare nella Casina Benedetta dove
Leone Monteduro ha preparato il suo Ptah... ma
giù sta per iniziare il concerto di musica
elettronica B_Co.Me con Costanza, cantante
romana, ormai attiva a New York, e Marco Messina
(ex 99Posse) e proprio nella Grande Mela nasce lo
scorso autunno questo progetto. Ma la notte alle
Officine Marconi ripensate per gli Attraversamenti
Multipli di Margine Operativo è ancora tutta da
vivere. Le ore sono piccole quando iniziano il dj
set dei Dj SoundTherapy e le video live
performance di Riot Generation Video. Ancora
suoni e immagini per risvegliare questo quartiere
dormitorio.
La guerra fra quattro mura
Una descrizione delle barricate del ’48 da “I
Miserabili”
di Victor Hugo
Quando il dibattito si spegne, la serata alle
Officine inizia ad animarsi di performance e
spettacoli, tutti site specific, che nell’immensità
degli spazi diventano maestosi. A parte i Semi
Volanti di Valerio Gatto Bonanni che all’esterno
dell’edificio sceglie la segregazione di un pulmino
Fiat per creare brevi e intimissime scene per 3
spettatori. Al piano terra, Margine Operativo
prosegue con Città-spettacolo per corpi randagi la
felice formula del concerto teatrale che è un
nuovo attraversamento della metropoli, intesa
come luogo e simbolo della complessità. In scena
il testo di Pako Graziani e Alessandra Ferraro è
affidato alla voce di Indo, rapper che rinuncia alla
sua vocazione e modula le parole sulle musiche di
Federico Camici (basso e voce) e Andrea “Loko”
Cota (chitarra e voce). Nel lasciare lo spazio di
Margine Operativo, nella tromba delle scale si
rimane bloccati dall’incontro con i quattro grigi
danzatori di Zeitgeist che il coreografo Stefano
Taiuti ha rinchiuso in 2 mt 2 e gioca ora a
riprenderli con una piccola telecamera. Dalla
lentezza del buto si viene subito catapultati nella
frenesia di MaddaI. Nella sala grande dei concerti,
il disegno coreografico di Simona Lobefaro ha un
respiro profondo e assume una forma distesa. E’
una sorta di elastico questo Time Remap che
richiama continuamente al centro della scena i
danzatori schizzati in mezzo al pubblico. Poi, di
nuovo il respiro si rallenta nell’impatto con Giano,
una grande installazione di teli di plastica e
decine di metri di carta stagnola che Maddalena
Le due barricate più memorabili, che l'osservatore
delle malattie sociali possa ricordare, non
appartengono al periodo in cui è collocata l'azione
di questo libro. Quelle due barricate, simboli
tutt'e due, sotto due aspetti diversi, d'una
terribile situazione, sbucarono da sotto terra nella
fatale insurrezione del giugno 1848, la più grande
guerra per le vie che abbia mai visto la storia.
Accade talvolta che anche contro i princìpi, anche
contro la libertà, l'uguaglianza e la fratellanza,
anche contro il suffragio universale, anche contro
il governo popolare, dal fondo delle sue angosce,
dei suoi scoraggiamenti, delle sue privazioni, delle
sue febbri, delle sue miserie, dei suoi miasmi,
delle sue ignoranze, delle sue tenebre, quella
grande disperata, che è la canaglia, protesti, e la
plebaglia dia battaglia al popolo.
I pezzenti assaltano il diritto comune; l'oclocrazia
insorge contro la democrazia.
Sono giornate lugubri, perché c'è sempre un
pizzico di diritto anche in quella demenza, un
pizzico di suicidio in quel duello; e le parole
accattoni, canaglia, oclocrazia, plebe, che
vorrebbero essere altrettante ingiurie,
dimostrano, ahimé! la colpa di chi regna piuttosto
che quella dei diseredati.
Dal canto nostro, non pronunciamo mai queste
parole senza dolore e senza rispetto, poiché,
quando la filosofia investiga i fatti a cui esse
corrispondono, vi trova spesso molte grandezze
accanto alle miserie. Atene era un'oclocrazia; i
pezzenti hanno fatto l'Olanda; la plebaglia salvò
più d'una volta Roma, e la poveraglia seguiva Gesù
Cristo.
Non c'è pensatore che non abbia talvolta
contemplato le magnificenze delle infime classi.
A quella poveraglia, a tutta quella povera gente, a
tutti quei vagabondi, e a tutti quei miserabili da
cui sorsero gli apostoli e i martiri, pensava san
Girolamo quando diceva quella parola misteriosa:
"Fex urbis, lex orbis". Le esasperazioni della folla
che soffre e sanguina, le sue insensate violenze
contro i princìpi che informano la sua vita, il
ricorso alla forza contro il diritto, sono colpi di
stato popolari e devono essere repressi. L'uomo
probo si sacrifica e combatte la folla proprio per
amore di essa. Ma come la trova scusabile pur
tenendole testa! Come la venera pur resistendole!
E' uno di quei rari momenti in cui, pur facendo ciò
che è doveroso, si sente qualcosa che sconcerta e
quasi sconsiglia di andare oltre; si persiste, se è
necessario; però la coscienza soddisfatta è triste,
e il compimento del dovere si unisce alla stretta
del cuore.
barricate assolutamente uniche, di cui abbiamo
parlato e che caratterizzano l'insurrezione.
Una sbarrava l'ingresso del sobborgo di
Sant'Antonio, l'altra difendeva le vicinanze del
sobborgo del Tempio. Quelli che sotto il luminoso
cielo azzurro di giugno videro sorgersi davanti
quei due terribili capolavori della guerra civile,
non li dimenticheranno mai.
La barricata Sant'Antonio era mostruosa; era alta
tre piani e larga settecento piedi. Sbarrava da un
angolo all'altro la vasta imboccatura del sobborgo,
vale a dire tre vie. Franosa, frastagliata,
dentellata, seghettata, scanalata da una immensa
fenditura, rafforzata da contrafforti che erano
altrettanti bastioni, con delle punte qua e là,
potentemente addossata ai due grandi promontori
di case del sobborgo, essa sorgeva come una
costruzione ciclopica in fondo alla formidabile
piazza che ha visto il 14 luglio. Altre diciannove
barricate erano disposte nelle vie dietro quella
barricata madre, la cui sola vista faceva capire
che nel sobborgo l'immensa sofferenza era
arrivata al punto estremo in cui un'angoscia sta
per diventare una catastrofe. Di che era fatta
quella barricata? Delle macerie di tre case a sei
piani demolite apposta, dicevano alcuni. Del
prodigio di tutte le collere, dicevano gli altri.
Aveva il deplorevole aspetto di tutte le costruzioni
dell'odio: la rovina. Si poteva chiedere: - Chi ha
costruito questo? - e si poteva chiedere pure: - Chi
ha distrutto questo? - Era l'improvvisazione della
rivolta. Guarda:
quell'imposta, quel cancello, quel tavolato quello
stipite, quel caldano rotto, quella marmitta fessa.
Date tutto, buttate tutto!
Il giugno 1848, affrettiamoci a dichiararlo, fu un
avvenimento a sé, quasi impossibile a essere
classificato nella filosofia della storia. Tutte le
parole vanno messe da parte quando si parla di
quella straordinaria sommossa, nella quale si sentì
la santa istanza del lavoro che reclamava i suoi
diritti. La si dovette combattere, ed era un
dovere, perché attaccava la Repubblica; ma, in
fondo, che cosa fu il giugno 1848? Una rivolta del
popolo contro se stesso.
Quando non si perde di vista l'argomento, non ci
sono digressioni; sia dunque concesso di
richiamare l'attenzione del lettore sulle due
spingete,
rotolate,
abbattete,smantellate,sconvolgete, rovesciate
tutto. Era la collaborazione della pietra, della
lastra, della trave, della sbarra di ferro, del
cencio, del vetro infranto, della sedia spagliata,
del torso di cavolo, dello strofinaccio, dello
straccio e della maledizione. Era il grandioso e il
meschino. Era l'abisso parodiato dalla confusione.
Era la massa accanto all'atomo, il pezzo di muro
divelto e la scodella infranta; una minacciosa
fratellanza di tutti i rottami; Sisifo vi aveva
gettato la sua roccia, Giobbe il suo coccio.
Terribile, insomma. Era l'acropoli degli scalzacani.
Alcuni carretti rovesciati frastagliavano la
scarpata; un carrettone immenso era messo di
traverso, con l'asse rivolta al cielo, e sembrava
una ferita su quella facciata tumultuosa; un
omnibus issato allegramente a forza di braccia in
cima al cumulo, come se gli architetti di quella
costruzione selvaggia avessero voluto aggiungere il
monellesco al terribile, porgeva il timone a non si
sapeva quali cavalli dell'aria. Quel gigantesco
ammasso, quell'alluvione della sommossa faceva
pensare a un gigantesco sovrapporsi di tutte le
rivoluzioni; il '93 sull'89, il 9 termidoro sul 10
agosto, il 18 brumaio sul 21 gennaio, il
vendemmiale sul pratile, il 1848 sul 1830. Il luogo
ne valeva la pena, e quella barricata era degna di
apparire nello stesso posto da cui era scomparsa
la Bastiglia. Se l'oceano formasse delle dighe, le
costruirebbe così. Su quel deforme
affastellamento era impressa la furia dei flutti.
Quali flutti? La folla. Pareva di vedere un tumulto
pietrificato; pareva di sentir ronzare, al di sopra
di quella barricata, come se avessero là il loro
alveare, le enormi api tenebrose del progresso
violento. Era una sterpaglia?
un baccanale? una fortezza? Sembrava costruita a
colpi d'ala dalla vertigine. C'era qualcosa della
cloaca in quella ridotta, e qualcosa di olimpico in
quello scompiglio. Si vedevano in quel disordine
pieno di disperazione travi di tetti, pezzi di
mansarde con la loro tappezzeria di carta a colori,
invetriate di finestre con tutti i vetri, piantate tra
le macerie in attesa del cannone, fumaioli
smantellati, armadi, tavole, banchi, una
confusione urlante, e quelle mille miserabili cose,
rifiuti dello stesso mendicante, che contengono
insieme qualcosa di furibondo e di insignificante.
Si sarebbe detto che fosse il cenciume d'un
popolo, cenciume di legno, di ferro, di bronzo, di
pietra e che il sobborgo Sant'Antonio lo avesse
buttato là, alla sua porta, con una colossale
scopa, formando con la sua miseria la sua
barricata.
Massi simili a ceppi patibolari, catene spezzate,
cavalletti di legno che parevano forche, ruote
orizzontali sporgenti dalle macerie, aggiungevano
a quell'edificio dell'anarchia la tetra immagine dei
vecchi supplizi sofferti dal popolo. La barricata
Sant'Antonio si faceva arma di tutto; tutto quello
che la guerra civile può scagliare sul capo della
società usciva da essa; non era un combattimento,
ma un parossismo; le carabine che difendevano
quella ridotta, e fra esse anche alcuni tromboni,
lanciavano cocci di terraglia, ossicini e persino
rotelline di comodini da notte: proiettili pericolosi
per via del rame. Quella barricata era forsennata;
lanciava nel cielo un clamore inesprimibile; in
certi momenti, provocando l'esercito, si copriva di
folla e di tempesta; una moltitudine di teste
infiammate la coronava; un brulichio la riempiva;
aveva una cresta spinosa di fucili, di sciabole, di
bastoni, di scuri, di picche, di baionette; una
grande bandiera rossa sbatteva al vento; vi si
udivano grida di comando, canzoni di battaglia,
rulli di tamburi, singhiozzi di donne, e le
tenebrose risate dei morti di fame. Era smisurata
e vivente; e da essa, come dal dorso d'un animale
elettrico, usciva uno scoppiettio di fulmini. Il
genio della rivoluzione copriva con la sua nube
quella cima su cui brontolava quella voce di
popolo che somigliava alla voce di Dio; una
maestà strana emanava da quella titanica gerla di
macerie. Era un mucchio di lordure ed era il Sinai.
Come abbiamo detto più su, essa assaliva in nome
della Rivoluzione. Chi? la Rivoluzione. Quella
barricata, ossia il caso, lo smarrimento, il
malinteso, l'ignoto, aveva di fronte l'assemblea
costituente, la sovranità del popolo, il suffragio
universale, la nazione, la Repubblica; era la
"Carmagnola" che sfidava la "Marsigliese".
Sfida insensata, ma eroica, poiché quel vecchio
sobborgo è un eroe.
Il sobborgo e la sua ridotta si prestavano man
forte: il sobborgo s'appoggiava alla ridotta, la
ridotta si addossava al sobborgo. La vasta
barricata si stendeva come una scogliera, contro
la quale andava a infrangersi la strategia dei
generali d'Africa. Le sue caverne, le sue
escrescenze, le sue verruche, le sue gibbosità
facevano le boccacce, per così dire, e ghignavano
sotto il fumo.
La mitraglia svaniva nell'informe; le palle vi si
affondavano, inghiottite, inabissate; le palle
riuscivano solo a fare dei buchi; a che serve
cannoneggiare il caos? E i reggimenti, abituati alle
più selvagge visioni di guerra, guardavano con
occhio inquieto quella ridotta che era come una
bestia feroce, irsuta come un cinghiale, enorme
come una montagna.
A un quarto di lega, dall'angolo della via del
Tempio che sbocca sul boulevard presso lo
Chateau d'Eau, se si sporgeva avidamente la testa
fuori della punta formata dalla vetrina del
magazzino Dallemagne, si scorgeva lontano, al di
là del canale, nella via che sale le rampe di
Belleville, al punto culminante della salita, una
muraglia strana che giungeva al secondo piano
della facciata, specie di tratto d'unione delle case
di destra con quelle di sinistra, come se la via
avesse ripiegato da sé il suo muro più alto per
chiudersi bruscamente. Quel muro era fatto di
selci, e si ergeva diritto, freddo, perpendicolare,
livellato con la squadra, tirato con l'archipenzolo.
Mancava il cemento, è vero, ma, come in certe
costruzioni romane, la rigidità architettonica non
era turbata. Dall'altezza se ne indovinava lo
spessore. La sommità era matematicamente
parallela alla base. A tratti sulla sua superficie
grigia, si distinguevano delle feritoie quasi
invisibili, che somigliavano a fili neri; erano
separate le une dalle altre da spazi regolari. La
via era deserta a perdita d'occhio; tutte le
finestre e tutte le porte erano chiuse. In fondo si
ergeva quello sbarramento che faceva della via un
angiporto; muro immobile e tranquillo; non vi si
vedeva nessuno, non vi si udiva nulla; non un
grido, non un rumore, non un soffio. Un sepolcro.
L'accecante sole di giugno inondava di luce quella
scena terribile.
Era la barricata del sobborgo del Tempio.
Appena giunti sul terreno e vedutala, era
impossibile, anche ai più audaci, non diventare
pensosi davanti a quell'apparizione misteriosa. Era
aggiustata, incastrata, levigata, rettilinea,
simmetrica e funebre. C'era la scienza e c'erano le
tenebre. Si sentiva che il capo di quella barricata
era un geometra o uno spettro. Guardandola si
parlava sottovoce.
Il valoroso colonnello Monteynard ammirava
fremendo quella barricata. - "Com'è costruita
bene!" - diceva a un deputato. "Non un ciottolo
che sporga; sembra di porcellana". - In quel
momento una palla gli spezzò la croce sul petto e
cadde.
- Vili! - dicevano. - Ma si mostrino dunque! si
lascino vedere!
non osano, si nascondono! - La barricata del
sobborgo del Tempio, difesa da ottanta uomini,
assalita da diecimila, resistette tre giorni. Al
quarto si fece come a Zaatcha e a Costantina, si
fecero delle brecce nelle case, si calarono dai
tetti, e la barricata fu presa. Neppure uno degli
ottanta vili pensò di fuggire; furono uccisi tutti,
eccetto il capo, Barthélemy, di cui parleremo tra
breve.
La barricata Sant'Antonio era il rombo dei tuoni,
quella del Tempio il silenzio: c'era tra queste due
ridotte la differenza che esiste tra il formidabile e
il sinistro; l'una sembrava una gola, l'altra una
maschera.
Ammesso che la gigantesca e tenebrosa
insurrezione del giugno fosse composta d'una
collera e d'un enigma, nella prima barricata si
sentiva il drago e dietro la seconda la sfinge.
Se qualcuno, soldato, ufficiale o rappresentante
del popolo, si arrischiava ad attraversare la via
deserta, si udiva un sibilo acuto e leggero, e il
passante cadeva ferito o morto, o se sfuggiva, si
vedeva penetrare in una imposta chiusa, in una
connessura di selci, nell'intonaco d'un muro una
pallottola e qualche volta un biscaglino, poiché i
difensori della barricata s'erano fatti due
cannoncini con due tubi di ferro del gas, chiusi a
un'estremità con argilla e stoppa. Non facevano
spreco inutile di polvere. Quasi tutti i colpi
andavano a segno. C'erano qua e là dei cadaveri, e
pozze di sangue sul lastricato. Mi ricordo d'una
farfalla che svolazzava su e giù per la via. L'estate
non abdica mai.
Nei dintorni, gli androni, erano ingombri di feriti.
Si era sorvegliati da qualcuno che restava
invisibile e si capiva che tutta la strada era presa
di mira.
I soldati della colonna d'assalto, ammassati dietro
quella specie di schiena d'asino formata dal ponte
del canale all'ingresso del sobborgo del Tempio,
osservavano gravi e pensosi quella lugubre ridotta,
quella immobilità, quella impassibilità, da cui
veniva la morte. Alcuni strisciavano col ventre a
terra fino alla curva del ponte, attenti a non
mostrare il loro chepì.
Queste due fortezze erano state costruite da due
uomini chiamati l'uno Cournet, l'altro Barthélémy:
Cournet aveva fatto la barricata Sant'Antonio,
Barthélémy quella del Tempio, e ognuna era
l'immagine del suo artefice.
Cournet era di alta statura, con le spalle larghe,
la faccia rubiconda, il pugno robusto, il cuore
ardimentoso, l'anima leale, l'occhio sincero e
terribile. Intrepido, energico, irascibile,
tempestoso; l'uomo più cordiale, il più formidabile
combattente.
La guerra, la lotta, la mischia erano la sua aria
respirabile e lo mettevano di buon umore. Era
stato ufficiale di marina, e dal gesto e dalla voce
s'indovinava che usciva dall'oceano e veniva dalla
tempesta; continuava la burrasca nella battaglia.
Tranne il genio, c'era in Cournet qualcosa di
Danton, come, tranne la divinità, c'era in Danton
qualcosa di Ercole.
Barthélémy, magro, sparuto, pallido, taciturno era
una specie di monello tragico che, schiaffeggiato
da una guardia di polizia, l'attese, l'uccise, e a
diciassette anni fu mandato in galera.
Quando ne uscì, costruì quella barricata.
Più tardi, cosa fatale, a Londra, proscritti tutti e
due, Barthélémy uccise Cournet. Fu un duello
funebre. Qualche tempo dopo, preso
nell'ingranaggio d'una di quelle misteriose
avventure in cui vi si immischia la passione,
catastrofi nelle quali la giustizia francese vede
delle circostanze attenuanti e l'inglese vede solo
la morte, Barthélémy fu impiccato. Il tetro
edificio sociale è così fatto che, grazie alle
privazioni materiali e all'oscurità morale,
quell'essere sventurato che conteneva
un'intelligenza certamente solida, forse grande,
cominciò col bagno in Francia e finì con la forca in
Inghilterra. Barthélémy, in tutte le occasioni,
innalzava una sola bandiera: quella nera.
la differenza
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