Anno 1 Numero 39 - 17.11.2008
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Anno 1 Numero 39 - 17.11.2008
Anno 1 Numero 39 - 17.11.2008 Sono anch’esse bandiere, bandiere di pelle umana che sventolano sopra le nostre teste. Sono le bandiere della nostra patria che sfilano lungo le strade di una liberazione festosa. Passando per Piazza Venezia, dal Vittoriano pende come un impiccato il tricolore. Il tricolore di Mazzini, di Menotti, di Garibaldi, di Mameli. Tutte le mani tese in alto sembrano attendere la sua caduta, per poterlo prendere prima che tocchi la polvere. La bandiera suicidata del Risorgimento non ci appartiene più. Adesso la nostra è una bandiera di pelle umana. Non appartiene neppure più agli sciagurati fascisti. L’hanno vilipesa nel modo peggiore l’hanno avvolta attorno alle spranghe per nasconderle, dimostrandosi ancora una volta i più deboli, ignoranti e nudi dei propri stessi valori. Lungo le strade di Roma e di altre città gli studenti italiani, una nuova generazione, espongono il proprio corpo a tutti i venti, escono dalle loro case e fanno della loro pelle una bandiera che si srotola in mille lingue lungo le strade. Se potessimo vederla dall’alto questa marea che invade gli spazi fra i palazzi allora riusciremmo a vedere il colore della nostra bandiera. O forse no. Non lo vedremmo perché questa bandiera non ha colore. E’ una bandiera di pelle e di parole e appartiene ad un popolo che non vuole inni, ma argomenti, come nella tradizione delle rivoluzioni italiane. Vuole ragionare. Vuole ricostruire la ricetta per uscire dall’impasse politica che ha paralizzato il paese, vuole spazzare via dal parlamento il bivacco di manipoli che chiamiamo Seconda Repubblica. E’ la strada contro il palazzo. Come nel Macbeth, è la foresta che si muove. Non contro il potere, ma contro la sua perversione. Non per rivoluzionare, ma per “ristabilire”. I moti del 2008 Editoriale di Gian Maria Tosatti E’ nel finale del libro forse più famoso di Malaparte. L’arrivo a Roma, la liberazione e un uomo che finisce per sbaglio sotto i cingoli di un carro armato venendo ridotto ad una sagoma schiacciata sul piancito. Da questo episodio involontario e triste lo scrittore torna con la memoria a qualche anno prima, in Ukraina, quando un altro uomo finito in quel modo veniva infilzato davanti ai suoi occhi da una vanga e sollevato come una bandiera. «Questa è la bandiera della nostra patria» chiosava Malaparte «una bandiera di pelle umana. La nostra vera patria è la nostra pelle». Sono gli stralci di un romanzo del 1949 che continuano a tornare su ogni qualvolta ci si scontra, scantonando, in uno di questi enormi cortei senza bandiere, che invadono le nostre città. Una moltitudine di mani alzate. Aperte. La sollevazione di questa stagione non è un nuovo ’68, ma un nuovo ’48 (se proprio si deve trovargli un antenato). Non è ideologica, è pragmatica. Non tende a generare un mondo nuovo, ma a “ricostruire” un paese. Non è una rivoluzione, ma una ristrutturazione, come quella che stanno cercando di fare gli studenti di Valle Giulia a Roma, che a differenza di allora, oggi non occupano, ma ripitturano i muri, aggiustano le finestre, combattono il degrado visibile di una gestione dissennata, partono dalla pelle, per imparare come arrivare al cuore. E lo fanno mettendo le mani sulla “cosa loro”, sulla “casa loro”. Se ne reimpossessano. Per strada è lo stesso. Il palazzo è accerchiato. E’ una zattera nella corrente che trema. Ha paura, lo dimostrano le camionette di carabinieri e poliziotti schierate in assetto di guerra, in piazza Colonna e in piazza Montecitorio, lo dimostra la foga da mastini, la foga violenta con cui gli ufficiali agli ordini dello Stato hanno spaccato le ossa ai ragazzi disarmati che occupavano i binari per cercare di far rientrare la marea. Mentre nel palazzo si sfruttava il clamore per far passare in sordina, confuso nel rumore di fondo, ancora qualche atto di regime come la privatizzazione dell’acqua e lo scandaloso verdetto del processo Diaz. L’onda, intanto, ha ricominciato a gonfiarsi. La grande bandiera di pelle umana a srotolarsi fino a coprire la città. Lungo le strade, insistentemente, perché tutti, anche quelli che oggi stanno in silenzio credendo non ci sia alternativa agli attuali simboli del potere, vedano. Le mani in alto, ma non in segno di resa. Cosa racconta la street art? Interrogativi strutturali a partire dalla terza edizione di InternaTional Poster Art di Attilio Scarpellini Il Cristo della Cena ha una vaga somiglianza con Johnny Deep, il pane su cui impone le mani è una rosetta, il vino riempie una caraffa di vetro dozzinale e Giuda al posto della solita borsa ha tirato fuori direttamente il portafoglio, mentre dalla mano nascosta dietro la schiena di uno degli apostoli (forse una citazione caravaggesca) spunta un coltellaccio da cucina: chi di spada ferisce etc... La fotografia di Artcock che campeggia su uno dei muri di Esc, una delle opere (se è ancora il caso di definirle tali) della terza edizione di InternaTional Poster Art – l'esposizione curata da Sten, Lex e Lucameleonte, viene visibilmente da Warhol e forse da un celebre fermo immagine di Bunuel in Viridiana (nonché da una serie infinita di ultime cene reinstallate nei materiali più svariati, dalla luce di Greenway al lego) ma nella cristallizzazione plastica delle sue pose si è come spento ogni bagliore di parodia e persino un teologo non ci troverebbe nulla di dire. E' precisa, puntuale, persino possibile: rimette in scena una storia evangelica finita in pizzeria sotto l'obiettivo di un fotografo d'occasione, scatta e passa, si stacca e rientra nel continuum di manifesti che rendono le pareti dell'atelier occupato di Via dei Reti una specie di iconostasi stratificata, dietro la quale non si nasconde alcun celebrante. Non è l'ideologia, la principale preoccupazione di questo tripudio del segno metropolitano che nella sovrapposizione rende definitivamente indistinguibile la titolarità del gesto artistico, firmandosi spesso a latere, nello spazio già occupato da qualcun altro: anche il murale di L'Atlas, che domanda “chi sono i veri criminali?” allungando le sue lettere fino a trasformarle in strisce uniformi – verdi, bianche e rosse come la bandiera nazionale – è una denuncia, quanto al significato “primo”, ma è soprattutto uno studio sulla visualità della scrittura, animato dalla stessa ansia di evidenza che spinge l'action painter francese a ricalcare con il peso del suo corpo le sagome dei tombini di Parigi, e trasformarle in altrettante mappe grafiche di mondi che aspettano ancora di venire all'esistenza negli interstizi della metropoli. Come a dire: dove tutto è funzionale, normato, trasparente, solo la decorazione è sovversiva poiché dimostra ciò che altrimenti è destinato a restare nascosto, come l'impronta di una città sotterranea – il grande mito della Parigi speculare descritta da Hugo e da Sue. L'idea che il flusso metropolitano vada interrotto e rimodulato a partire da uno sguardo che il più delle volte è un frammento di leggenda – basta gettare un occhio al fitto ricamo grafico di Ufo 5 che nel suo viluppo di teschi, cuori e angeli caduti si presenta come una visione alla William Blake – che ogni superficie urbana possa diventare una finestra e dallo sfondo corroso, indistinto (del muro e della maceria) possa riemergere un potere di figurazione, cioè una decisione formale (questa sì intrinsecamente politica) è forse l'unica che radichi veramente il congenito anarchismo espressivo della street art in un'istanza di comunità. Anche perché la pseudonimia, come la letteratura del secolo scorso insegna, è il contrario dell'anonimato: è la proclamazione di un'altra identità (di un'identità romanzesca, lo ripeto, leggendaria) rispetto a quella assegnata dall'individualismo di massa, la volontà di rifondere un corpo reificato nell'alterità del segno, cioè del desiderio con tutto il peso vertiginoso della sua gratuità. Sostenere che questa idea è anzitutto un gesto, limitandosi così a registrare l'ennesima resistenza alle derive della modernità – o il supplemento d'anima di una creatività destinata prima o poi a tradursi dalla strada nel mercato – significa incaprettare il “fenomeno” nella sociologia dell'arte. Mentre come la mostra di Esc dimostra nel suo spontaneo, nel suo potente esporsi in un luogo di convivialità quotidiana – accadeva nelle chiese, ancora qualche secolo fa, che l'arte fosse parte di un'offerta – è forse arrivato il momento di analizzare dei linguaggi. Sarebbe interessante capire, ad esempio, cosa racconta la passione figurativa dell'arte di strada agli aedi del “contemporaneo”. strada oggi la si trova più nelle gallerie. Ma ci sono esempi come Blu e JR che continuano a realizzare opere monumentali per strada, poche eccezioni che credono nel valore dell'opera pubblica. Che danno importanza al paesaggio urbano e contribuiscono a costruire lo scenario dell'arte contemporanea. Io sto nel mezzo, per strada, nei musei e nelle gallerie. Se non vendo non vivo. Rispetto agli anni Ottanta, oggi sembra che sia l'Europa più che l'America l'epicentro di una nuova arte di strada, che si inserisce nelle pieghe della metropoli e ne cambia l'estetica. Sei d'accordo? Secondo te per quale motivo? Gli Stati Uniti mantengono il dominio della risonanza che ha la street art, il più importante centro che raccoglie informazioni sulla street art è un blog di New York che si chiama Wooster Collective. Di fatto gli street artist più importanti al momento, Blu, Banksy e JR sono europei. Il luogo fisico dove si realizza più street art si sposta invece nei paesi del terzo mondo in particolare in America Latina dove è possibile realizzare opere monumentali senza troppe burocrazie e dove lo scenario si presta particolarmente. La pelle della città Una intervista a Sten di Graziano Graziani Nel groviglio di simboli e segni che ridisegnano costantemente la “pelle” della città di Roma, i suoi muri, le sue strade, il tratto di Sten è ormai divenuto una linea inconfondibile. I suoi lavori, realizzati con la tecnica dello stencil, vengono racchiusi sotto l’etichetta di “street art”, arte di strada, ovvero l’evoluzione di quel filone artistico che senza soluzione di continuità passa dalla stagione della New York anni ottanta fino ai muri di casa nostra, tra artisti già consacrati e autori anonimi. I suoi lavori sono da tempo passati anche per i muri delle gallerie, e di recente Sten (o – sten–) ha aperto uno studio nel quartiere romano di San Lorenzo, l’«Off Of The Street» in via dei Piceni, assieme ad altri due protagonisti della scena artistica romana, Lex e Lucamaleonte. Lo abbiamo raggiunto per chiedergli quale sarà secondo lui l’evoluzione di questa arte “della strada”. Che rapporto hai con lo stencil? Perché hai scelto questo mezzo e questa forma d'arte? Ho scelto la tecnica dello stencil perchè sono sempre stato affascinato dalle tecniche di stampa. Lo stencil è una delle tecniche più rudimentali di stampa, ho cercato di studiarne le possibilità e continuo a farlo. Non è poi una tecnica così rudimentale come sembra. Oggi si parla insistentemente di street art. Ma se non in strada, qual è il posto dell'arte? La street art grazie a Banksy è entrata nel circuito museale e galleristico di tutto il mondo. Nata per I tuoi lavori sono esposti anche nelle gallerie. Che rapporto hai coi galleristi? Ho un rapporto positivo con i galleristi di Londra perchè sono professionisti e vendono nel concreto, in particolare con i galleristi di Art Republic che ha la sede principale a Brighton. La cultura Londinese apprezza la street art e rispetta gli artisti. A Roma ci sono gallerie di settore che sono nate di recente come la Dorothy Circus e Mondo Pop con cui mi trovo bene nonostante facciano fatica a rapportarsi con un genere di pubblico che ancora non codifica bene questo genere di arte. Che cosa cambia nelle esposizioni in galleria rispetto ai muri della città? Cambia tutto, in galleria non c'è più street art. Si può simulare un ambiente di strada ma si tratterebbe comunque di contraffazione. In gallerie ci sono per lo più quadri, in strada c'è il muro. Hai un rapporto schivo rispetto alla tua immagine. Non sono molti a conoscere la tua faccia, a differenza di quanta gente conosce i tuoi lavori. Perché? Credo nell'anonimato e nella totale privacy. Non potrei mai essere un personaggio pubblico in quanto sono schivo di natura e non mi piace relazionarmi troppo al sociale. La ragione principale sarebbe quella che non posso farmi vedere perché opero nell’illegalità, ma di fatto non mi piace farmi vedere. Quali soggetti ti interessano in questo momento? e perché? Mi piacciono sempre i volti ed i ritratti fotografici degli anni 60-70. Mi piace ritrarre alcuni volti di persone che conosco ed alternarli ai ritratti del passato. apprezzata da una parte della mia generazione e da qualche avanguardista un pò più vecchio. Qui non si fa differenza tra writing e street art, tra scritte politiche e writing, tutto ciò che è su muro è uguale. D'altronde il bombardamento cartellonistico pubblicitario, le tag, i poster e stencil creano un caos talmente grande a Roma che è meglio per il passante appiattire la visuale e staccare la spina. Le mille strade del cinema Molte pellicole uscite e in uscita raccontano un rapporto identitario con la città di Federico Pontiggia «Sbagliando strada si impara a riconoscere la propria» (Proverbio della Tanzania) Qual è per te il significato politico dell'“abitare” le città tramite l'arte? Non ho mai approfondito il significato politico, so che la mia arte è violenta ed imposta al pubblico. Non voglio dare messaggi esplicitamente politici anche se l'arte si può combinare ed interpretare con tutto. "Non amo meno gli uomini ma più la natura", scrisse Lord Byron. Per immagini e suoni, lo ha riscritto Sean Penn con Into the Wild, biopic on the road destinazione Alaska, tratto dall’omonimo bestseller di Jon Krakauer (Nelle terre estreme) e disponibile in Dvd (edizione speciale doppio disco edito da 01 Distribution). Protagonista il 22enne Christopher McCandless, che a pieni voti sulla soglia della Harvard Law School nel 1992, decide di abbandonare famiglia e studi, brucia denari, taglia carte di credito, dona all’Oxfam i suoi averi (24mila dollari), e si mette sulla strada: meta finale l'Alaska, dove il suo corpo senza vita verrà ritrovato due anni dopo in un autobus abbandonato. Modellati dalle musiche di Eddie Vedder, plasmati dalla coraggiosa fisicità di Emile Hirsch e dalla natura splendida e crudele dell'Alaska, sono 148' che scorrono potenti, intersecando incontri con hippie di mezza età, agricoltori, giovani coppie, vecchi eremiti, tessere uguali e contrarie della vita, che si fa libertà: quella egoistica, amorevole, avventata e peritura di Chris, in fuga da famiglia e carriera verso un luogo che possa essere anima e corpo. Viaggerà fino alla fine, che lo lascia con le labbra socchiuse a guardare il cielo: senza rimpianti. Alle sue spalle, l’immaginario americano, rivisto e attualizzato da Penn: il miraggio della frontiera, su vagoni che ricordano Dylan; autostop à la beat generation; London, Thoreau e Tolstoj sul comodino che non c’è, ma senza più l'on the road di Kerouac (vedi il "distacco" di Penn dalla coppia hippie): ribellione in prima persona singolare, con un epilogo (auto)critico: "Non è vera felicità se non puoi dividerla con qualcuno". Rispetto a qualche anno fa c'è più attenzione o diffidenza rispetto alla street art? Quali tipi di pregiudizi permangono, e quali sono stati superati? In UK e US c’è sicuramente più apertura da parte anche delle stesse istituzioni. In Italia viene Se per Penn, pur atipicamente, la strada continua a farsi fuga dalla città, viceversa assolutamente urbane – nell’accezione peggiore del termine – sono le traiettorie de La zona di Rodrigo Plà, opera prima tra le più importanti della scorsa stagione, ora disponibile in home-video con Credi che la street art evolverà in qualcos'altro? Verso quale orizzonte? La street art sta diventando un fenomeno serio che farà emergere non più di due tre artisti a livello internazionale che diventeranno molto importanti a livello d'arte contemporanea. Dall'altro lato sarà un fenomeno adolescenziale come il writing. i ragazzi inizieranno a scuola e pochissimi ne faranno un percorso di vita. Poi ci saranno le vie di mezzo. Warner Bros.. Protagonista è Alejandro, un adolescente che vive ne La Zona, un ricco quartiere di Città del Messico recintato e protetto da guardie private: una notte, tre ragazzi delle borgate riescono a introdursi nel quartiereresidence per compiere un furto, ma qualcosa va storto. Oltre a confermare l’ottimo stato di salute del cinema messicano e il suo fil rouge dell’incomunicabilità tra individui e classi sociali, La zona miscela un potente mix di entertainment e rabbia sociale, puntando il dito contro il crescente divario tra ricchi e poveri: le classi, ovvero le barriere, sociali quale negazione del minimo comune denominatore umano. E con una Città del Messico che riecheggia Bogotà, riesce ad astrarsi dall’indicazione geografica tipica per porsi quale atto d’accusa glocal nei confronti del villaggio globale impazzito. Tutto il contrario di quanto accade nell’ultimo film di James Bond, il 22°: Quantum of Solace, in sala. Giramondo come non mai nella saga - da Panama al Cile, dall'Italia (Siena, Carrara, Lago di Garda e Fonteblanda) all'Austria, con la base dei Pinewood Studios inglesi – il film, un action-movie tagliato su misura per Jason Bourne piuttosto che 007, finisce per essere davvero apolide, senza una patria, ovvero un ubi consistam poetico: che è l'oscura piovra Quantum - presumibilmente upgrade della Spectre - se non un McGuffin piccino, inspiegata perché inspiegabile? E che dire, se non male, del suo farraginoso progetto criminale di siccità coatta? In questo caso, anziché collegare le paure globali (terrorismo e siccità) le tante strade percorse da 007 sono pura cinesi parossistica, che, pur migliore delle soste parapsicologiche disseminate nel film, non porta da nessuna parte. Viceversa, gradevolmente filantropico è il campione di incassi di tutti i tempi in Francia (21 milioni di spettatori): Giù al Nord, scritto, diretto e interpretato da Dany Boon, comico poliedrico in patria, e quasi sconosciuto da noi. Caso al botteghino e ancor più fenomeno sociale, il film (nelle nostre sale) mette alla berlina i pregiudizi dei francesi del sud verso quelli del nord con un incipit - e non solo - on the road: un funzionario della posta originario della Provenza, per punizione viene trasferito al nord, nella cittadina di Bergues, dove scoprirà una popolazione accogliente e solare, e un dialetto complicato, lo Ch'ti. Da un dialetto all’altro, il barese, smozzicato qua e là ne Il passato è una terra straniera di Daniele Vicari, dal romanzo di Gianrico Carofiglio, in sala e da vedere. Siamo a Bari, giorni nostri, quando il giovane magistrato Giorgio viene fermato da una ragazza: “Non ti ho mai ringraziato per quella notte. Ecco, volevo farlo ora. Ma ti ricordi di me? Sono Antonia…”. Giorgio torna indietro nella memoria, quando mancava ancora un esame per laurearsi, quando la conoscenza di Francesco, tenebroso e audace giocatore di carte, trasformò la sua vita borghese in un vortice infernale dai contorni sfocati, giocato a poker in ville sontuose e bettole senza nome. Ecco allora che Il passato è una terra straniera, vissuto tra ambienti sordidi e côtè borghesi, con il poker a far da collant: “Dopo aver letto il libro, di genere ma con un’impronta fortemente realistica, ho compreso – dice Vicari quanto Carofiglio conoscesse bene le cose di cui parlava: quei mondi, quei personaggi, le strade e i vicoli notturni di una Bari dai connotati indecifrabili, esistevano veramente, come la continua sovrapposizione tra società altolocata e bische malfamate”. Nel film, le strade si sfocano, i numeri civici sbiadiscono, e lo status sociale si fa terra di nessuno, dove l’identità, vanamente definita da classe, estrazione, censo e istruzione, è in realtà tutta da trovare, in una deriva particolare – quella di Giorgio (Elio Germano) – che ricorda da vicino, e senza forzature, l’attuale situazione socio-politica italiana. Attraversamenti fra cultura e politica Un convegno sul rapporto fra metropoli e codici artistici e una serie d’interventi nei punti nevralgici di Roma per il festival di Margine Operativo di Mariateresa Surianello Il tema proposto da Margine Operativo era una precisa sollecitazione, “Le trasformazioni delle metropoli e le interazioni/connessioni con i codici artistici del contemporaneo”, e avrebbe dovuto portare naturalmente verso un’esposizione teorica di pratiche poetiche, certo a partire dalle politiche, e non solo culturali, e non solo romane. E invece gli interventi che si sono succeduti alle Officine Marconi, nell’incontro curato dalla Differenza per la serata conclusiva della prima tranche di Attraversamenti Multipli 2008, sono rimasti quasi completamente incagliati ai discorsi politici. O meglio sembra siano proprio le relazioni tra cultura e politica a creare una sorta di scala di valori e a stabilire la supremazia della seconda sulla prima, portando quest’ultima al totale soggiogamento da parte della politica. Nelle occasioni di dibattito pubblico, gli artisti (e gli operatori culturali) non sono quindi disposti a parlare delle loro pratiche estetiche, mentre raccontano volentieri le loro difficoltà a esistere, che spesso poi condizionano non poco le stesse poetiche. Programmato in apertura di una lunga serata di spettacolo, il convegno è stato ospitato in uno degli spazi più discussi della capitale, le Officine Marconi, che al di là del suo essere stato, negli ultimi anni, oggetto di scambio per l’urbanizzazione di questo spicchio di città – siamo nella periferia Est - continua a mostrare tutta la sua potenzialità come luogo di accoglienza della creatività contemporanea, per questo urge chiarezza sulla sua attuale e futura gestione. Ed era stato proprio Margine Operativo, nell’edizione 2002 di Attraversamenti Multipli, ad aprirlo per la prima volta come ex Italcable, quando gli accordi per l’utilizzo si prendevano con Telecom Italia. Fu un evento memorabile, che nella memoria di chi scrive si colloca accanto all’apertura di un altro polo di aggregazione, dall’altra parte della città, l’Auditorium Parco della musica – con tutto il rispetto per Renzo Piano. Tra i pilastri di questa architettura industriale è facile raccogliersi in circolo e aprire il dialogo con le istituzioni invitate a ragionare sul tema delle trasformazioni. Cecilia D’Elia – Assessore alle Politiche Culturali della Provincia di Roma, è chiara nell’esporre la sua visione a partire dal lavoro svolto dalla Provincia di Roma che ha investito, anche attraverso l’articolato progetto “Scenari Indipendenti”, su quelle realtà che si interrogano sulla ridefinizione degli spazi urbani e su come le persone vivono oggi questi spazi. E’ un tema essenziale, secondo D’Elia, nella riflessione su un nuovo modo di vivere la cittadinanza, che non è più nella vecchia polis, ma nei luoghi di attraversamento. Ci sono dimensioni di “area vasta” e di “area metropolitana” che vanno discusse, tenendo conto di quei pezzi di popolazione che rimangono prigionieri degli spazi urbani, dove si generano intolleranza e razzismo. Le istituzioni pubbliche hanno il compito di mettere in connessione chi questi spazi li sa attraversare - l’elite intellettuale e la creatività artistica - con quei pezzi di popolazione prigioniera. Questa comunicazione va supportata, è un modo di pensare gli spazi urbani e quindi le politiche culturali in una dimensione urbana, che per D’Elia è una dimensione di area vasta. L’assessore accenna anche al lavoro avviato sui “piani territoriali della cultura”, quelle zone di cintura che la popolazione attraversa quotidianamente. La sfida di Cecilia D’Elia è quella di dare una forma culturale alla dimensione che lega Roma alle zone della provincia. Mentre, Emiliano Viccaro portavoce dell’Horus Occupato (che è stato sgomberato dalla polizia, lo scorso 21 ottobre) si domanda se la rete di spazi autogestiti costituitasi da oltre un decennio a Ro m a , p o s s a s o p r a v v i v e r e a l l a n u o v a amministrazione comunale, Sandro Medici, presidente del Municipio X, mette il dito sulla sconfitta politica che è anche una sconfitta sociale. Una difficoltà di trovare forme di comunicazione con interi territori, soprattutto di periferia. Ma è anche una sconfitta – sottolinea Medici – che produrrà sempre più una crisi strutturale delle possibilità di favorire forme di espressività artistiche e culturali fuori dei circuiti di mercato. Il timore di Medici è che venga inaridita alla fonte la possibilità minima di favorire progetti che attraversino i territori. Se c’è un problema generale sull’uso degli spazi pubblici anche semplicemente per l’aggregazione sociale – non solo l’esperienza dei centri sociali – c’è accanto il problema su come queste istanze vengono ora accolte. Dal modello mediceo di Veltroni, all’interno del quale c’era una parte residuale che consentiva possibilità e condizioni indipendenti. Il nuovo governo non sappiamo – afferma Medici – cosa farà. Si dice che la cultura sia un lusso e quindi si sospendono gli investimenti sul benessere culturale. Se questo dovesse accadere a Roma, entrerebbe in crisi la cifra culturale della città, che andrebbe a fare solo il presepe vivente e la processione dei flagellati a Pasqua. Quindi, secondo il presidente del X Municipio, la cultura diventa un terreno di battaglia politica forte. Si dovrà recuperare una radicalità nella critica, per avere spazi pubblici e risorse per la cultura. E Medici ripropone la sua idea per fronteggiare il taglio alla cultura assestato dal governo. Se a ciascuna delle grandi istituzioni culturali della città (Teatro dell’Opera, Teatro di Roma, Santa Cecilia...) si togliesse uno spettacolo in cartellone e quella parte di finanziamento pubblico – dice Medici - andasse alle attività marginali, queste esperienze potrebbero sopravvivere. E sono le esperienze di lavoro nelle periferie. Questa è anche una battaglia di territorio – conclude Medici. A questa proposta Cecilia D’Elia non si mostra d’accordo e ribatte che il governo di centrodestra, mentre taglia i fondi alla cultura, destina 500 milioni a Roma, bisognerà capire quanti di questi saranno, a loro volta, destinati alla cultura. Gana e Giordano Giorgi vanno ad abitare dopo averla pensata nella loro indagine sull’acqua e sul suo scorrere. Alluminio e plastica come elementi ravvicinati e in cerca di compenetrazione, in cui sembra riemergere quella loro continua tensione tra maschile e femminile, Mi rubi gli occhi, recita il titolo. Sopra, al secondo piano, una lunghissima fila ci impedisce di entrare nella Casina Benedetta dove Leone Monteduro ha preparato il suo Ptah... ma giù sta per iniziare il concerto di musica elettronica B_Co.Me con Costanza, cantante romana, ormai attiva a New York, e Marco Messina (ex 99Posse) e proprio nella Grande Mela nasce lo scorso autunno questo progetto. Ma la notte alle Officine Marconi ripensate per gli Attraversamenti Multipli di Margine Operativo è ancora tutta da vivere. Le ore sono piccole quando iniziano il dj set dei Dj SoundTherapy e le video live performance di Riot Generation Video. Ancora suoni e immagini per risvegliare questo quartiere dormitorio. La guerra fra quattro mura Una descrizione delle barricate del ’48 da “I Miserabili” di Victor Hugo Quando il dibattito si spegne, la serata alle Officine inizia ad animarsi di performance e spettacoli, tutti site specific, che nell’immensità degli spazi diventano maestosi. A parte i Semi Volanti di Valerio Gatto Bonanni che all’esterno dell’edificio sceglie la segregazione di un pulmino Fiat per creare brevi e intimissime scene per 3 spettatori. Al piano terra, Margine Operativo prosegue con Città-spettacolo per corpi randagi la felice formula del concerto teatrale che è un nuovo attraversamento della metropoli, intesa come luogo e simbolo della complessità. In scena il testo di Pako Graziani e Alessandra Ferraro è affidato alla voce di Indo, rapper che rinuncia alla sua vocazione e modula le parole sulle musiche di Federico Camici (basso e voce) e Andrea “Loko” Cota (chitarra e voce). Nel lasciare lo spazio di Margine Operativo, nella tromba delle scale si rimane bloccati dall’incontro con i quattro grigi danzatori di Zeitgeist che il coreografo Stefano Taiuti ha rinchiuso in 2 mt 2 e gioca ora a riprenderli con una piccola telecamera. Dalla lentezza del buto si viene subito catapultati nella frenesia di MaddaI. Nella sala grande dei concerti, il disegno coreografico di Simona Lobefaro ha un respiro profondo e assume una forma distesa. E’ una sorta di elastico questo Time Remap che richiama continuamente al centro della scena i danzatori schizzati in mezzo al pubblico. Poi, di nuovo il respiro si rallenta nell’impatto con Giano, una grande installazione di teli di plastica e decine di metri di carta stagnola che Maddalena Le due barricate più memorabili, che l'osservatore delle malattie sociali possa ricordare, non appartengono al periodo in cui è collocata l'azione di questo libro. Quelle due barricate, simboli tutt'e due, sotto due aspetti diversi, d'una terribile situazione, sbucarono da sotto terra nella fatale insurrezione del giugno 1848, la più grande guerra per le vie che abbia mai visto la storia. Accade talvolta che anche contro i princìpi, anche contro la libertà, l'uguaglianza e la fratellanza, anche contro il suffragio universale, anche contro il governo popolare, dal fondo delle sue angosce, dei suoi scoraggiamenti, delle sue privazioni, delle sue febbri, delle sue miserie, dei suoi miasmi, delle sue ignoranze, delle sue tenebre, quella grande disperata, che è la canaglia, protesti, e la plebaglia dia battaglia al popolo. I pezzenti assaltano il diritto comune; l'oclocrazia insorge contro la democrazia. Sono giornate lugubri, perché c'è sempre un pizzico di diritto anche in quella demenza, un pizzico di suicidio in quel duello; e le parole accattoni, canaglia, oclocrazia, plebe, che vorrebbero essere altrettante ingiurie, dimostrano, ahimé! la colpa di chi regna piuttosto che quella dei diseredati. Dal canto nostro, non pronunciamo mai queste parole senza dolore e senza rispetto, poiché, quando la filosofia investiga i fatti a cui esse corrispondono, vi trova spesso molte grandezze accanto alle miserie. Atene era un'oclocrazia; i pezzenti hanno fatto l'Olanda; la plebaglia salvò più d'una volta Roma, e la poveraglia seguiva Gesù Cristo. Non c'è pensatore che non abbia talvolta contemplato le magnificenze delle infime classi. A quella poveraglia, a tutta quella povera gente, a tutti quei vagabondi, e a tutti quei miserabili da cui sorsero gli apostoli e i martiri, pensava san Girolamo quando diceva quella parola misteriosa: "Fex urbis, lex orbis". Le esasperazioni della folla che soffre e sanguina, le sue insensate violenze contro i princìpi che informano la sua vita, il ricorso alla forza contro il diritto, sono colpi di stato popolari e devono essere repressi. L'uomo probo si sacrifica e combatte la folla proprio per amore di essa. Ma come la trova scusabile pur tenendole testa! Come la venera pur resistendole! E' uno di quei rari momenti in cui, pur facendo ciò che è doveroso, si sente qualcosa che sconcerta e quasi sconsiglia di andare oltre; si persiste, se è necessario; però la coscienza soddisfatta è triste, e il compimento del dovere si unisce alla stretta del cuore. barricate assolutamente uniche, di cui abbiamo parlato e che caratterizzano l'insurrezione. Una sbarrava l'ingresso del sobborgo di Sant'Antonio, l'altra difendeva le vicinanze del sobborgo del Tempio. Quelli che sotto il luminoso cielo azzurro di giugno videro sorgersi davanti quei due terribili capolavori della guerra civile, non li dimenticheranno mai. La barricata Sant'Antonio era mostruosa; era alta tre piani e larga settecento piedi. Sbarrava da un angolo all'altro la vasta imboccatura del sobborgo, vale a dire tre vie. Franosa, frastagliata, dentellata, seghettata, scanalata da una immensa fenditura, rafforzata da contrafforti che erano altrettanti bastioni, con delle punte qua e là, potentemente addossata ai due grandi promontori di case del sobborgo, essa sorgeva come una costruzione ciclopica in fondo alla formidabile piazza che ha visto il 14 luglio. Altre diciannove barricate erano disposte nelle vie dietro quella barricata madre, la cui sola vista faceva capire che nel sobborgo l'immensa sofferenza era arrivata al punto estremo in cui un'angoscia sta per diventare una catastrofe. Di che era fatta quella barricata? Delle macerie di tre case a sei piani demolite apposta, dicevano alcuni. Del prodigio di tutte le collere, dicevano gli altri. Aveva il deplorevole aspetto di tutte le costruzioni dell'odio: la rovina. Si poteva chiedere: - Chi ha costruito questo? - e si poteva chiedere pure: - Chi ha distrutto questo? - Era l'improvvisazione della rivolta. Guarda: quell'imposta, quel cancello, quel tavolato quello stipite, quel caldano rotto, quella marmitta fessa. Date tutto, buttate tutto! Il giugno 1848, affrettiamoci a dichiararlo, fu un avvenimento a sé, quasi impossibile a essere classificato nella filosofia della storia. Tutte le parole vanno messe da parte quando si parla di quella straordinaria sommossa, nella quale si sentì la santa istanza del lavoro che reclamava i suoi diritti. La si dovette combattere, ed era un dovere, perché attaccava la Repubblica; ma, in fondo, che cosa fu il giugno 1848? Una rivolta del popolo contro se stesso. Quando non si perde di vista l'argomento, non ci sono digressioni; sia dunque concesso di richiamare l'attenzione del lettore sulle due spingete, rotolate, abbattete,smantellate,sconvolgete, rovesciate tutto. Era la collaborazione della pietra, della lastra, della trave, della sbarra di ferro, del cencio, del vetro infranto, della sedia spagliata, del torso di cavolo, dello strofinaccio, dello straccio e della maledizione. Era il grandioso e il meschino. Era l'abisso parodiato dalla confusione. Era la massa accanto all'atomo, il pezzo di muro divelto e la scodella infranta; una minacciosa fratellanza di tutti i rottami; Sisifo vi aveva gettato la sua roccia, Giobbe il suo coccio. Terribile, insomma. Era l'acropoli degli scalzacani. Alcuni carretti rovesciati frastagliavano la scarpata; un carrettone immenso era messo di traverso, con l'asse rivolta al cielo, e sembrava una ferita su quella facciata tumultuosa; un omnibus issato allegramente a forza di braccia in cima al cumulo, come se gli architetti di quella costruzione selvaggia avessero voluto aggiungere il monellesco al terribile, porgeva il timone a non si sapeva quali cavalli dell'aria. Quel gigantesco ammasso, quell'alluvione della sommossa faceva pensare a un gigantesco sovrapporsi di tutte le rivoluzioni; il '93 sull'89, il 9 termidoro sul 10 agosto, il 18 brumaio sul 21 gennaio, il vendemmiale sul pratile, il 1848 sul 1830. Il luogo ne valeva la pena, e quella barricata era degna di apparire nello stesso posto da cui era scomparsa la Bastiglia. Se l'oceano formasse delle dighe, le costruirebbe così. Su quel deforme affastellamento era impressa la furia dei flutti. Quali flutti? La folla. Pareva di vedere un tumulto pietrificato; pareva di sentir ronzare, al di sopra di quella barricata, come se avessero là il loro alveare, le enormi api tenebrose del progresso violento. Era una sterpaglia? un baccanale? una fortezza? Sembrava costruita a colpi d'ala dalla vertigine. C'era qualcosa della cloaca in quella ridotta, e qualcosa di olimpico in quello scompiglio. Si vedevano in quel disordine pieno di disperazione travi di tetti, pezzi di mansarde con la loro tappezzeria di carta a colori, invetriate di finestre con tutti i vetri, piantate tra le macerie in attesa del cannone, fumaioli smantellati, armadi, tavole, banchi, una confusione urlante, e quelle mille miserabili cose, rifiuti dello stesso mendicante, che contengono insieme qualcosa di furibondo e di insignificante. Si sarebbe detto che fosse il cenciume d'un popolo, cenciume di legno, di ferro, di bronzo, di pietra e che il sobborgo Sant'Antonio lo avesse buttato là, alla sua porta, con una colossale scopa, formando con la sua miseria la sua barricata. Massi simili a ceppi patibolari, catene spezzate, cavalletti di legno che parevano forche, ruote orizzontali sporgenti dalle macerie, aggiungevano a quell'edificio dell'anarchia la tetra immagine dei vecchi supplizi sofferti dal popolo. La barricata Sant'Antonio si faceva arma di tutto; tutto quello che la guerra civile può scagliare sul capo della società usciva da essa; non era un combattimento, ma un parossismo; le carabine che difendevano quella ridotta, e fra esse anche alcuni tromboni, lanciavano cocci di terraglia, ossicini e persino rotelline di comodini da notte: proiettili pericolosi per via del rame. Quella barricata era forsennata; lanciava nel cielo un clamore inesprimibile; in certi momenti, provocando l'esercito, si copriva di folla e di tempesta; una moltitudine di teste infiammate la coronava; un brulichio la riempiva; aveva una cresta spinosa di fucili, di sciabole, di bastoni, di scuri, di picche, di baionette; una grande bandiera rossa sbatteva al vento; vi si udivano grida di comando, canzoni di battaglia, rulli di tamburi, singhiozzi di donne, e le tenebrose risate dei morti di fame. Era smisurata e vivente; e da essa, come dal dorso d'un animale elettrico, usciva uno scoppiettio di fulmini. Il genio della rivoluzione copriva con la sua nube quella cima su cui brontolava quella voce di popolo che somigliava alla voce di Dio; una maestà strana emanava da quella titanica gerla di macerie. Era un mucchio di lordure ed era il Sinai. Come abbiamo detto più su, essa assaliva in nome della Rivoluzione. Chi? la Rivoluzione. Quella barricata, ossia il caso, lo smarrimento, il malinteso, l'ignoto, aveva di fronte l'assemblea costituente, la sovranità del popolo, il suffragio universale, la nazione, la Repubblica; era la "Carmagnola" che sfidava la "Marsigliese". Sfida insensata, ma eroica, poiché quel vecchio sobborgo è un eroe. Il sobborgo e la sua ridotta si prestavano man forte: il sobborgo s'appoggiava alla ridotta, la ridotta si addossava al sobborgo. La vasta barricata si stendeva come una scogliera, contro la quale andava a infrangersi la strategia dei generali d'Africa. Le sue caverne, le sue escrescenze, le sue verruche, le sue gibbosità facevano le boccacce, per così dire, e ghignavano sotto il fumo. La mitraglia svaniva nell'informe; le palle vi si affondavano, inghiottite, inabissate; le palle riuscivano solo a fare dei buchi; a che serve cannoneggiare il caos? E i reggimenti, abituati alle più selvagge visioni di guerra, guardavano con occhio inquieto quella ridotta che era come una bestia feroce, irsuta come un cinghiale, enorme come una montagna. A un quarto di lega, dall'angolo della via del Tempio che sbocca sul boulevard presso lo Chateau d'Eau, se si sporgeva avidamente la testa fuori della punta formata dalla vetrina del magazzino Dallemagne, si scorgeva lontano, al di là del canale, nella via che sale le rampe di Belleville, al punto culminante della salita, una muraglia strana che giungeva al secondo piano della facciata, specie di tratto d'unione delle case di destra con quelle di sinistra, come se la via avesse ripiegato da sé il suo muro più alto per chiudersi bruscamente. Quel muro era fatto di selci, e si ergeva diritto, freddo, perpendicolare, livellato con la squadra, tirato con l'archipenzolo. Mancava il cemento, è vero, ma, come in certe costruzioni romane, la rigidità architettonica non era turbata. Dall'altezza se ne indovinava lo spessore. La sommità era matematicamente parallela alla base. A tratti sulla sua superficie grigia, si distinguevano delle feritoie quasi invisibili, che somigliavano a fili neri; erano separate le une dalle altre da spazi regolari. La via era deserta a perdita d'occhio; tutte le finestre e tutte le porte erano chiuse. In fondo si ergeva quello sbarramento che faceva della via un angiporto; muro immobile e tranquillo; non vi si vedeva nessuno, non vi si udiva nulla; non un grido, non un rumore, non un soffio. Un sepolcro. L'accecante sole di giugno inondava di luce quella scena terribile. Era la barricata del sobborgo del Tempio. Appena giunti sul terreno e vedutala, era impossibile, anche ai più audaci, non diventare pensosi davanti a quell'apparizione misteriosa. Era aggiustata, incastrata, levigata, rettilinea, simmetrica e funebre. C'era la scienza e c'erano le tenebre. Si sentiva che il capo di quella barricata era un geometra o uno spettro. Guardandola si parlava sottovoce. Il valoroso colonnello Monteynard ammirava fremendo quella barricata. - "Com'è costruita bene!" - diceva a un deputato. "Non un ciottolo che sporga; sembra di porcellana". - In quel momento una palla gli spezzò la croce sul petto e cadde. - Vili! - dicevano. - Ma si mostrino dunque! si lascino vedere! non osano, si nascondono! - La barricata del sobborgo del Tempio, difesa da ottanta uomini, assalita da diecimila, resistette tre giorni. Al quarto si fece come a Zaatcha e a Costantina, si fecero delle brecce nelle case, si calarono dai tetti, e la barricata fu presa. Neppure uno degli ottanta vili pensò di fuggire; furono uccisi tutti, eccetto il capo, Barthélemy, di cui parleremo tra breve. La barricata Sant'Antonio era il rombo dei tuoni, quella del Tempio il silenzio: c'era tra queste due ridotte la differenza che esiste tra il formidabile e il sinistro; l'una sembrava una gola, l'altra una maschera. Ammesso che la gigantesca e tenebrosa insurrezione del giugno fosse composta d'una collera e d'un enigma, nella prima barricata si sentiva il drago e dietro la seconda la sfinge. Se qualcuno, soldato, ufficiale o rappresentante del popolo, si arrischiava ad attraversare la via deserta, si udiva un sibilo acuto e leggero, e il passante cadeva ferito o morto, o se sfuggiva, si vedeva penetrare in una imposta chiusa, in una connessura di selci, nell'intonaco d'un muro una pallottola e qualche volta un biscaglino, poiché i difensori della barricata s'erano fatti due cannoncini con due tubi di ferro del gas, chiusi a un'estremità con argilla e stoppa. Non facevano spreco inutile di polvere. Quasi tutti i colpi andavano a segno. C'erano qua e là dei cadaveri, e pozze di sangue sul lastricato. Mi ricordo d'una farfalla che svolazzava su e giù per la via. L'estate non abdica mai. Nei dintorni, gli androni, erano ingombri di feriti. Si era sorvegliati da qualcuno che restava invisibile e si capiva che tutta la strada era presa di mira. I soldati della colonna d'assalto, ammassati dietro quella specie di schiena d'asino formata dal ponte del canale all'ingresso del sobborgo del Tempio, osservavano gravi e pensosi quella lugubre ridotta, quella immobilità, quella impassibilità, da cui veniva la morte. Alcuni strisciavano col ventre a terra fino alla curva del ponte, attenti a non mostrare il loro chepì. Queste due fortezze erano state costruite da due uomini chiamati l'uno Cournet, l'altro Barthélémy: Cournet aveva fatto la barricata Sant'Antonio, Barthélémy quella del Tempio, e ognuna era l'immagine del suo artefice. Cournet era di alta statura, con le spalle larghe, la faccia rubiconda, il pugno robusto, il cuore ardimentoso, l'anima leale, l'occhio sincero e terribile. Intrepido, energico, irascibile, tempestoso; l'uomo più cordiale, il più formidabile combattente. La guerra, la lotta, la mischia erano la sua aria respirabile e lo mettevano di buon umore. Era stato ufficiale di marina, e dal gesto e dalla voce s'indovinava che usciva dall'oceano e veniva dalla tempesta; continuava la burrasca nella battaglia. Tranne il genio, c'era in Cournet qualcosa di Danton, come, tranne la divinità, c'era in Danton qualcosa di Ercole. Barthélémy, magro, sparuto, pallido, taciturno era una specie di monello tragico che, schiaffeggiato da una guardia di polizia, l'attese, l'uccise, e a diciassette anni fu mandato in galera. Quando ne uscì, costruì quella barricata. Più tardi, cosa fatale, a Londra, proscritti tutti e due, Barthélémy uccise Cournet. Fu un duello funebre. Qualche tempo dopo, preso nell'ingranaggio d'una di quelle misteriose avventure in cui vi si immischia la passione, catastrofi nelle quali la giustizia francese vede delle circostanze attenuanti e l'inglese vede solo la morte, Barthélémy fu impiccato. Il tetro edificio sociale è così fatto che, grazie alle privazioni materiali e all'oscurità morale, quell'essere sventurato che conteneva un'intelligenza certamente solida, forse grande, cominciò col bagno in Francia e finì con la forca in Inghilterra. Barthélémy, in tutte le occasioni, innalzava una sola bandiera: quella nera. la differenza settimanale di cultura on-line su www.differenza.org direttore responsabile Gian Maria Tosatti in redazione Graziano Graziani, Attilio Scarpellini, Mariateresa Surianello. La rivista è finanziata nell'ambito del progetto Scenari Indipendenti, promosso dalla Provincia di Roma in collaborazione con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e la Regione Lazio.