La schiavitù in Egitto. La vocazione di Mosè
Transcript
La schiavitù in Egitto. La vocazione di Mosè
Capitolo 6 La schiavitù in Egitto. La vocazione di Mosè Esodo 1-4 Gli ebrei in Egitto hanno sperimentato un’esplosione demografica nell’arco di più generazioni. Questa fenomenale espansione (cf. Es 1,9) è una realizzazione della benedizione divina, il compimento di una delle promesse fatte a Giacobbe (Gen 35,11-12; Gen 46,3-4), a Isacco (Gen 26,35.23), ad Abramo (Gen 12,2-3; 13,14-17; 17,1-8); in modo più generale, scaturisce dalla benedizione di Dio a tutta l’umanità, come partecipazione al potere creativo divino («crescete e moltiplicatevi», cf. Gen 1,28; 9,1). Va però notato che si tratta del compimento di soltanto due delle promesse patriarcali; finora si sono realizzate quella di una numerosa discendenza e quella di costituire una benedizione per coloro che accolgono i discendenti di Abramo (cf. Gen 12,3-4; 22,18; 28,14). Restano inadempiute la promessa del dono di una terra/ paese, quella di un’alleanza in cui Dio si impegna a diventare il loro Dio (Gen 17,7) e quella di diventare «una grande nazione» (goj gadol); sinora Dio è stato il Dio di una famiglia, un popolo; e se ora Israele è un «popolo», non è ancora una nazione, perché manca di un territorio e di un diritto propri. Inoltre, Dio aveva preannunciato ad Abramo l’immigrazione dei suoi discendenti in un paese straniero, la schiavitù e l’uscita verso un paese tutto loro (Gen 15,13-14), così come aveva promesso a Giacobbe un sicuro ritorno (Gen 46,4). Lo stesso Giuseppe in punto di morte aveva ribadito un certa «visita» di Dio, che avrebbe fatto uscire i figli d’Israele dall’Egitto verso la terra giurata ai padri, e aveva fatto giurare che le sue ossa sarebbero state sepolte nella terra promessa (Gen 50,24-25). Ora nel disegno storico-spirituale della Bibbia, la vicenda egiziana non rappresenta la semplice continuazione della storia dei patriarchi, ma ne è una ripresa su scala popolare e nazionale. Ciò che i patriarchi hanno vissuto personalmente, e all’interno delle loro famiglie, un popolo intero e numeroso è chiamato a viverlo collettivamente, per diventare il popolo di Dio e dell’alleanza con lui. 1. La schiavitù in Egitto 1. La situazione di schiavitù politica La situazione di benevolenza verso gli ebrei cambiò con il mutamento nelle alte sfere del potere egiziano. Salì sul trono un faraone che non si sentì più legato alla persona e all’opera di Giuseppe. Il sogno ecumenico della nazioni in Egitto intorno a Giuseppe e ai Dodici capitribù è svanito. Il popolo di Dio si trova in balìa dei rivolgimenti e del succedersi delle dinastie mondane. La famiglia di Abramo, diventata una moltitudine di «figli di Israele», ora è ritenuta minacciosa. Gli Egiziani, infatti, temevano le invasioni dei popoli vicini, che spesso entravano nel loro territorio per motivi commerciali o per trovare pascoli più abbondanti. Né si era estinto in loro il ricordo, in un periodo di caos e di debolezza politica e militare, dell’invasione e del dominio degli Hyksos (popolo asiatico) sul loro territorio dal 1720 al 1550 a.C. Con il riscatto egiziano dall’invasione straniera inizia l’era del «nuovo impero», con capitale Tebe (XVIII dinastia). E’ l’epoca dei grandi faraoni. Con l’avvento del nuovo faraone gli ebrei furono così sottoposti ai lavori forzati, con un duplice vantaggio: la sorveglianza sui sospetti ribelli e, allo stesso tempo, lo sfruttamento della mano d’opera a buon mercato. Il libro dell’Esodo ci informa che gli ebrei furono sottoposti a lavori forzati per l’erezione di due città-deposito, in pratica due centri militari strategici: Pitom, in egizio antico «città del dio Atum», il dio della creazione; e Ramses, un nome faraonico molto importante nel XIII sec. a.C., soprattutto a causa di Ramses II (che è il probabile faraone di cui si parla nel testo sacro), celebre sovrano costruttore. L’impiego della manodopera israelita a scopo militare significava un’equiparazione degli israeliti a categorie inferiori come quelle di prigionieri di guerra o “schiavi di Stato” (cfr. 2Sam 12,31). Ma l’oppressione sortisce l’effetto opposto a quello sperato dal faraone: la benedizione divina è su Israele; l’ulteriore crescita del popolo diventa un “incubo” per gli egiziani, espresso in ebraico dal verbo qûts (v. 12), che comporta sia l’idea di paura, ma anche di disgusto e di conseguente presa di distanza dal “volto” (mippene) di altri. Per questo motivo si ha l’intensificazione della schiavitù: l’oppressione diventa totale e sconfina nella violenza e nella brutalità più assolute e alienanti. Per di più il faraone, decidendo l’uccisione dei neonati maschi, volontà proclamata con un editto, condannava la popolazione ebraica maschile all’invecchiamento e quindi all’estinzione. Questo editto tolse la pace a tutte le famiglie. Immaginate la paura e l’angoscia di tutte le donne incinte e dei futuri padri che desideravano avere un figlio. 2. L’alienazione dell’idolatria C’è però anche una dimensione teologica e religiosa della servitù egiziana: l’idolatria come la radice di alienazione (si potrebbe dire: di «diluvio spirituale») in cui versa in Egitto la discendenza di Abramo, Isacco e Giacobbe. Difatti per la Bibbia l’Egitto – come già Sodoma e Gomorra – è un paese-simbolo spirituale di questo peccato, a causa dlela confusione tra le divinità, gli esseri umani, gli animali (coccodrilli, serpenti, lucertole, rane, scarabei…), gli astri, il sole…, e le cose create1. Nel loro culto dei morti gli egiziani celebravano persino, come una promozione, il transito dalla condizione umana a quella animale. L’Egitto pretendeva di dare uno statuto di normalità religiosa e di civilizzazione progredita a quel «caos» da cui il vero Dio aveva fatto uscire la creazione bella e buona delle origini, distinguendo, separando, distribuendo nomi e ruoli secondo la natura specifica di ciascuna cosa (cf. Gen 1,1-2a). Dove tutto è divinizzato e dove Dio diventa una componente del mondo umano, non c’è più posto per il vero, unico Dio. Nelle parola di Mosé al faraone in Es 8,2123 traspare, infatti, l’ironia bruciante delal fede jahvista: «Quelli che voi, egiziani, adorate come dèi, per noi, figli d’Israele, sono vittime da sacrificare all’unico Signore, nostro Dio!». Anche l’aspetto geografico sembra doversi interpretare teologicamente. Intorno al Nilo, il grande fiume che attraversava l’Egitto, esisteva tutto un rigoglio; invece appena ci si allontanava dalle sue rive o dal suo delta, si incontra l’assolato e desolato deserto africano. Le acque del fiume «assicurano dal basso» la sopravvivenza dell’Egitto, che gravita tutto intorno ad esse, dando vita a un agglomerato indistinto di popolazione umana e animale. Intorno al Nilo si può vivere bene anche senza piogge, che in Egitto sono scarsissime. Il Nilo con le sue aque «rassicura» l’Egitto, quasi come un’onnipresente e benefica divinità. Per questo motivo l’Egitto simboleggia, per l’uomo biblico, l’autosufficienza arrogante del potere mondano (cf. Dt 11,8-17). Esso è un paese piatto, dove l’israelita gettava il seme e poi lo irrigava con l’acqua del fiume perenne e monotono, che egli utilizzava «dal basso», azionando una ruota idraulica mossa con il piede. Il paese che il Signore ha giurato di dare in dono ai patriarchi e alla loro discendenza, invece, è: «un paese di monti e di valli, beve l’acqua della pioggia che viene dal cielo; paese dal quale il Signore tuo Dio ha cura (doresh) e sul quale si posano sempre gli occhi del Signore tuo Dio dal principio dell’anno sino alla fine» (Dt 11,12-13). Geografia dell’immanenza e geografia della trascendenza; geografia dell’apparente «autosufficienza» dell’uomo e geografia della grazia che viene dall’alto. L’Egitto, insomma, è il paese-simbolo di tutti i riduzionismi di Dio al mondo, come pure di tutte le divinizzazioni del creato. Da un paese del genere bisogna uscire. La chiamata che Dio rivolge al suo popolo è la stessa che egli aveva fatta ad Abramo: «Vattene, parti, esci.. (lekh-lekha: Gen 12,1) e trasferisciti in un altro paese che Dio ti dona e che diventi, perciò, segno del donatore, dove la tua vita possa trascorrere come una liturgia di ri-conoscenza e di rin-graziamento!». La lezione spirituale di questo cambiamento di geografia è chiara. Ci sono situazioni dalle quali – divenendo esse occasioni prossime di peccato – bisogna uscire, tagliando risolutamente il male alla radice2. Certo, il «taglio geografico, ambientale e sociologico» avrà sempre un’estensione limitata e relativa, dal momento che non si potrà uscire completamente dal mondo (cf. 1Cor 5,9-13). Bisognerà, però, 1 2 Cf. Sap 11,15-16; 12,23-27; 15,14-19; ecc. Cf. Mt 5,29-30; 18,6-9; Mc 9,42-49; Lc 17,1-3; ecc. 2 sempre guardarsi dal male e dal maligno (Mt 6,13; Gv 17,15), ed è anche vero che in determinate stagioni spirituali – specialmente agli inizi di una «conversione» di vita – una rinuncia radicale e una separazione fisica da certi ambienti e da determinate frequentazioni mondane si impone a chi voglia obbedire seriamente al Signore con i fatti, e non solo a parole o in teoria. L’analogia tra geografia e teologia è completata dal deserto egiziano e sinaitico. Tra l’Egitto – punto di partenza della liberazione del popolo di Dio dalla schiavitù dell’alienazione idolatria – e la terra-dono di Canaan – punto di arrivo dell’azione liberatrice di JHWH – c’è il deserto, un lungo cammino da percorrere tra il paese che si lascia e quello nuovo, a cui si è diretti. La parabola geografica della redenzione è completa: il passaggio dalla schiavitù al servizio di Dio, dal peccato alla grazia, dalla morte alla vita, non si compie in un giorno, ma si snoda lungo un succedersi di tappe geografiche e temporali: i «quarant’anni» di peregrinazione, un numero simbolico che indica il tempo necessario per consumare un’esperienza spirituale. Un tale cammino «quadragesimale» diventa il periodo paradigmatico di noviziato, di formazione e di rieducazione del popolo alla fede, alla speranza, all’uso dei beni e alla comunione fraterna, che dovranno costituire il «modo di camminare» alla presenza del Signore, una volta che ci sia stabiliti nella terra promessa. 2. Salvato per essere salvatore Mosè è un «bambino degli ebrei» (Es 2,3.6) condannato a morte fin dalla sua nascita da una spietata sho’ah che viene provvidenzialmente salvato dalle acque. E’ questo un tema conosciuto nell’antico vicino oriente, tanto che viene usato anche nella “autobiografia” di Sargon I di Accad (ca. 2334-2270 a.C.), anch’egli concepito e partorito da sua madre in segreto, poi da questa “messo in un cestello di giunchi, dal coperchio sigillato con la pece” ed abbandonato alla corrente. Il cestello però, costruito e trattato a regola d’arte, non affonda e viene raccolto da un portatore d’acqua, il quale educa il bambino. Al di là del fatto storico ci interessa cogliere il messaggio teologico che è chiaro: Mosè è oggetto della provvidenza di Dio, perché scelto da Dio per diventare, più che un profeta, il Servo del Signore. La lettera agli Ebrei afferma che appena nato, per la fede, «fu tenuto nascosto per tre mesi dai suoi genitori, perché videro che il bambino era bello; e non ebbero paura dell’editto del re» (Eb 11,23; cf. Es 2,2). Essi seppero confidare nel loro Dio, aspettare e sperare. In realtà, prima ancora che ai suoi genitori, Mosè piacque a Dio (At 7,20). La bellezza del neonato deriva da questo favore del Signore, percepibile solo da una fede tanto forte da sfidare l’ira del faraone egiziano. Il futuro eroe è salvato dalla figlia stessa di colui che voleva farlo morire. Disobbedendo a suo padre, la figlia del faraone agisce – senza saperlo – secondo il piano di Dio. JHWH non è nominato, ma chi vuole capire capisce. In contrasto con il mondo brutale del faraone, l’agire divino è pervaso di dolcezza, discreto, quasi anonimo. Nato da genitori ebrei, il bambino riceve alla nascita un nome egizio: Mosè, che deriva dalla radice egizia mosi, «nascere». Giocando sull’assonanza, il nome di Mosé nella Bibbia è spiegato dalla Bibbia secondo un’interpretazione popolare che lo collega al verbo “tirar fuori” dalle acque (poiché in ebraico tale nome suona mosheh, participio attivo che significa, appunto, “colui che tira fuori”; chi è stato tratto fuori, sarà anche colui che trarrà fuori dalle acque del Nilo, come dirà Is 63,11). Come Noè sulla barca è stato salvato dai flutti del diluvio (Gen 6-9), così Mosè nella sua cesta3 è stato salvato dalle acque del Nilo. Alla corte del faraone Mosé viene sottoposto ad un’educazione raffinata , cioè alla paideia egiziana, quella iniziazione e istruzione progressiva e ragionata che formava il modello dell’educazione del tempo. E’ da notare che il testo dice: «pase sofia», il che significa che Mosé venne educato «in tutta la sapienza» che allora era disponibile: la sapienza politica di un impero molto bene organizzato; la sapienza economica di una grande struttura sociale e commerciale; la 3 Il termine «cestello» (tevah, vv. 3.5) in ebraico è lo stesso che designa l’arca di Noè, anch’essa spalmata di bitume, che servirà a scampare al diluvio (Gen 6,14; 7,1). 3 sapienza tecnica (si pensi alle piramidi e all’arte di costruire immensi edifici e templi formidabili); infine la sapienza culturale, che esprimeva un’altissima raffinatezza di vita. Mosé fu introdotto in tutta questa ricchezza di cultura umana. Questa inculturazione nella sapienza sarà preziosa – come era già stato per Giuseppe – per la sua autorità di legislatore del suo popolo. 3. Mosé senza Dio: il fallimento (Es 2,11-22) Mosè – che è cresciuto molto in fretta! – lascia l’ambiente protetto della corte e torna dai suoi. Là si rende conto della loro situazione. Vedendo un egiziano maltrattare un ebreo, uno dei suoi fratelli, Mosé, mosso dalla compassione e dalla collera, prende le difese di quest’ultimo, colpisce a morte l’egiziano e nasconde il suo cadavere nella sabbia. E’ un uomo animato da un forte senso di giustizia e della solidarietà, ma si tratta di una giustizia violenta, solitaria e impulsiva. L’indomani avviene una disputa fra due ebrei. Un nuovo intervento di Mosé – intenzionato ad instaurare il diritto - finisce male. Non viene riconosciuto dai suoi fratelli, che si rivoltano contro di lui. Chi è Mosé per agire in questo modo? «Pensi forse di uccidermi come hai ucciso l’Egiziano?» (v. 14). Può proporsi come garante della giustizia colui che ha ancora le mani sporche di sangue? Non si vince il male provocando violenza, e quindi nuovo male. Nel NT Gesù ci mette in guardia dallo sguainare la spada di Pietro (Gv 18,10), perché «chi di spada colpisce, di spada perisce» (cf. Mt 26,52). Mosé aveva ancora molto da imparare e Dio glielo avrebbe insegnato nei quarant’anni vissuti nel deserto. Dalla sua esperienza di fallimento, insuccesso, errore, imparerà a riporre la fiducia non in sé ma in Dio. Imparerà a obbedire alla volontà di Dio. Allora sarà capace di guidare il popolo di Israele alla libertà. 3. Una nuova (seconda) tappa per Mosè Vorrei prendere il via da una pagina degli Atti degli Apostoli, in cui si trovano enunciate ed individuate le cosiddette “tre tappe” della vita di Mosè (cfr. At 7,20-43). Quando Stefano nel suo discorso vuole sintetizzare la vita di Mosè al v. 23 dice: «Quando furono compiuti 40 anni, salì nel suo cuore l’idea di visitare i fratelli, che erano i figli di Israele». Poi al v. 30 dice: «Compiuti altri 40 anni, gli apparve nel deserto del Sinai un angelo in fiamma di fuoco». Ecco quindi i tre periodi di Mosè: il terzo periodo di 40 anni comincia con il roveto ardente e va fino alla fine della vita. Cosa significano quindi questi tre cicli di 40 anni? Il numero 40 indica completezza. Quindi si tratta di tre momenti qualitativamente distinti della vita di Mosè. Abbiamo visto il primo, quello dell’uomo buono ma che in realtà non conosce ancora esistenzialmente Dio. Ora comincia per Mosè un periodo qualitativamente nuovo: quello della purificazione, che, nell’incontro con Dio (episodio del roveto ardente) sfocerà nella conversione. Dunque, un periodo fondamentale per Mosè, perché nella solitudine egli prende maggiore coscienza di sé. Saggiamente commenta il Martini: «E’ noto che esiste una differenza tra isolamento e solitudine. L’isolamento come tale ha un carattere negativo: è l’uomo che vive disperatamente solo, magari in mezzo alla gente, ove comunque si sente non compreso e fallito; al contrario, la solitudine per ogni uomo, anche per l’uomo moderno, è un valore fondamentale. Ciò vuol dire che c’è un momento in cui l’uomo giunge a riconoscere che niente lo soddisfa davvero, che tutti i suoi metodi, tutte le sue esperienze, tutte le sue speranze lo hanno soddisfatto solo fino a un certo punto: rimane ancora un vuoto, un vuoto che soltanto Dio può colmare. E’ un’esperienza che non si fa quando ancora le cose si accavallano una sull’altra e si continua a sperare che ciascuna di esse riempia quel vuoto. Ma quando sopravviene lo scacco, allora ci si viene a trovare in quello stato di attesa e di vigilanza che fu lo stato di Mosè per 40 anni. Si tratta di imparare ad aspettare Dio: “I miei tentativi non hanno avuto successo; il Signore farà!”. Mosè non spera più in se stesso, nei suoi metodi, nelle sue capacità, né nelle capacità di risposta dei suoi fratelli. Forse in un primo tempo Mosè li a4 vrà ricoperti di improperi, li avrà lapidati in tutti i modi. Ma poi, riflettendo, avrà dovuto concludere: “Abbiamo sbagliato tutti quanti; anche io ho fatto degli sbagli, sono stato troppo pretenzioso; ho lasciato il faraone, però speravo di diventare anch’io un capo; non è del tutto ingiusto che le cose siano andate così, perché in fondo volevo ottenere la mia gloria e il mio popolo sarebbe stato il mio monumento”»4. Ed ecco la solitudine di Mosè. Egli lascia che tutta la delusione, il dolore, la rabbia vengano a galla; non maschera né sopprime tutte queste cose, ma anzi le affronta, perché non ha più paura di guardare nella sua vita. Nel deserto di Madian, a est dell’Egitto, Mosè imparerà ad affidarsi a Dio, vincendo così la tentazione di fare “a modo mio”, confidando solo nella potenza di Dio. Solo così potrà diventare pastore di un popolo. Mosè affinerà il proprio temperamento anche alla scuola dell’ascesi familiare. Sposa, infatti, Zippora, figlia del sacerdote madianita Reuel. Da lei avrà un figlio Gherson, che significa “straniero”, “ospite”. La vita di Mosé, come si potrebbe immaginarla, è ormai scandita dal ritmo delle transumanze. L’oasi di Madian non offre che una vita rude, ma è il luogo dei grandi spazi di libertà e di disponibilità. Mosé guidando il gregge nel deserto per tutti quegli anni imparò a conoscere la zona che avrebbe attraversato più tardi guidando, questa volta, il popolo d’Israele. Quindi, tante cose che potrebbero sembrare avvenute solo per caso, e che potrebbero sembrare avvenimenti e anni sprecati, invece, sono tutti parte del piano di Dio. 4. Dio ascolta il popolo che geme (Es 2,23-25) All’orizzonte sta per sorgere una nuova era. Il faraone oppressore muore. Il lamento (i “gemiti”) d’Israele schiavo e oppresso e le loro grida salgono al cielo. a) Dio ascolta (v. 24) Dio è un Dio che «ascolta» (shama’). Cosa ascolta? Il testo biblico usa il termine legale za’aq, che indica il lamento ufficiale che si deposita presso un giudice (cfr. 2Re 8,3; Ger 20,8; Gb 19,7). Per Israele schiavo e oppresso Dio stesso si candida go’el, cioè a difensore e vendicatore, in ragione del vincolo di paternità che lo lega al suo popolo (4,22). Se Dio sa ascoltare i gemiti e le grida degli israeliti, tanto più sa ascoltare i gemiti del nostro cuore: «Sappiamo bene che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo (…) … lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio» (Rm 8,22-27) Lo Spirito Santo, che conosce il nostro cuore, e conosce anche il cuore di Dio, e sa la perfetta volontà di Dio per noi, intercede per noi, chiedendo la cosa giusta per noi. Dio è il Dio che ascolta. b) Dio si ricordò della sua alleanza con Abramo (v. 24) Dio è sempre fedele alla sua alleanza, anche quando gli uomini gli voltano le spalle adorando altri idoli (cfr. Ez 20, 5-10). Il termine “ricordare” è un termine tecnico con il quale la Bibbia indica che Dio si sente interpellato dalla sua promessa fatta ad Abramo (l’alleanza, berit) e, in forza della sua fedeltà, non può non intervenire. Così, ad es., Dio si ricorda di Noè (Gn 8,1), di Abramo (Gn 19,29), di Rachele (Gn 30,22), di Elkana (1Sam 1,19). Significativo è il Sal 105 nel quale il “ricordo” è collegato con la “misericordia” di Dio: «Si ricordò della sua alleanza con loro, si mosse a pie4 CARLO M. MARTINI, Vita di Mosé, cit, 29. 5 tà per il suo grande amore» (v. 45). E’ quello che Dio ha fatto con Gesù per liberarci dal peccato e da ogni idolatria: «Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,8). Nel suo sangue Gesù ha stretto la nuova alleanza. c) Dio vide i figli d’Israele (v. 25) Il Signore non solo ascolta, ma anche “vede”. Non è un Dio distratto. Egli ha cura dei suoi figli. In Dt 26,6-7, quando si spiega il senso del rito per le primizie, il sacerdote dovrà ricordare che «gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione…». d) Dio ne prese conoscenza (v. 25) La parola ebraica usata qui vuol dire, letteralmente, “ne prese conoscenza”. La ritroviamo in Es 3,7: «Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze». Dio, evidentemente, conosce già tutto. L’espressione indica la decisione di Dio di intervenire a favore del suo popolo. 5. L’irruzione di Dio nella vita di Mosè La terza tappa della vita di Mosè comincia con il v. 30 di At 7: «Passati 40 anni, gli apparve nel deserto del Monte Sinai un angelo in mezzo alla fiamma di un roveto ardente». E’ il “tempo della scoperta” dell’iniziativa divina. 5.1. La meraviglia di Mosè L’episodio è ambientato nella grande pianura desertica dell’Oreb5, a 1700 metri di altitudine, sovrastata da grandi montagne, con terrazze successive di sabbia e di roccia. Il monte nella Bibbia è solitamente il luogo dell’incontro con Dio. L’iniziativa parte da Dio, che dapprima viene presentato come «angelo del Signore», poi come lo stesso «Signore» (Jahwh) e «Dio» (‘Elohim) che parla. Mentre Mosè stava pascolando il gregge del suocero, vede un po’ lontano, su una di queste terrazze di sabbia e roccia, un roveto che brucia e gli sembra che continui a bruciare senza consumarsi. Negli Atti degli Apostoli Stefano così commenta questa scena: «Mosè si meravigliò di questa visione» (7,31). E’ bello pensare che a 80 anni Mosé è ancora capace di meravigliarsi di qualche cosa, di interessarsi a qualcosa di nuovo. Pensiamo un istante che cosa avrebbe potuto fare Mosè. Avrebbe potuto dire: «C’è del fuoco; è pericoloso per il gregge se il fuoco si allarga; andiamo via, portiamo le pecore lontano». Oppure avrebbe potuto dire: «C’è qualcosa di soprannaturale; è meglio non farsi prendere in trappola; partiamo e lasciamo che i più giovani, quelli che hanno più entusiasmo, se ne interessino: io ho già avuto le mie esperienze e mi basta». Invece «Mosè si meravigliò», cioè si fece prendere da quella capacità, che è propria del bambino, di interessarsi a qualcosa di nuovo, di pensare che c’è ancora del nuovo. Qualcuno potrebbe dire che si tratta di un particolare aggiunto al racconto. Invece è una profonda intuizione: Mosè, essendo stato 40 anni nel deserto, macerato dall’insuccesso e progressivamente purificato in virtù di quella situazione di vigilanza e di attesa, era ormai maturo per una nuova infanzia, maturo per ricevere la novità di Dio. Mosè avrà pensato così: «Io sono un pover’uomo fallito, ma Dio può fare qualcosa di nuovo». Dunque Mosè si meravigliò e poi - continua il racconto degli Atti - invece di non badarci ed andarsene, proserkomenou de autou... katanoésai, «si avvicinò per vedere», come di solito le versioni 5 Oreb significa in ebraico “arido” ed è il nome dato al monte Sinai. La tradizione cristiana dal IV secolo d.C. l’ha identificato con il Gebel Musa o Monte di Mosè, ai cui piedi fu costruito il monastero di Santa Caterina, visibile ancor oggi. 6 traducono. Ma katanoesai dice molto di più che «vedere»; indica infatti il nous, la mente. Quando in Lc 12,24 Gesù dice: katanoesate tous korakos, «guardate i corvi», non vuol dire semplicemente «vedete», bensì guardate, considerate, riflettete, cercate di comprendere, ecc. Qui si vede la libertà di spirito raggiunta da Mosè attraverso la purificazione. Se fosse stato un uomo amareggiato e rassegnato, si sarebbe limitato a concludere: «Una cosa strana, ma non mi riguarda». E invece no: vuol capire, vuol vedere di che si tratta. Non è più l’uomo che ha già tutto sistemato e catalogato, che ha capito tutto; è un uomo ancora capace di porsi delle domande che esigono un’attenta risposta. Ecco un uomo vivo, anche se vecchio”.6 5.2. La curiosità di Mosè Nel libro dell’Esodo leggiamo: «Mosè disse tra sé: ‘Voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo, perché il roveto non brucia”» (Es 3,3). Intuisce che c’è qualcosa di “straordinario” che sta avvenendo. Cioè vuole capire perché il roveto non si consuma. E, per soddisfare la sua ricerca, è disposto a lasciare il gregge, forse anche in pericolo, pur di comprendere cosa sta accadendo; è disposto a correre un po’ di pericolo. D’altra parte la “verità” non si trova stando seduti comodamente in poltrona. La “verità”, e quindi anche il senso della nostra vita, deve essere “cercato” con impegno... tralasciando tutto ciò che potrebbe “distrarmi” o impedirmi di salire lassù dove posso trovare una risposta ai miei perché. Probabilmente nel suo cuore Mosé portava ancora in sé quella domanda alla quale per 40 anni non ha trovato alcuna risposta soddisfacente: «Ma perché Dio ha permesso quello scacco? Perché, se ama il suo popolo, non si è servito di me per salvarlo? Perché non ha colto l’occasione che io gli davo?». Questo «perché», che Mosè ha coltivato, raffinato e purificato, ecco che emerge di nuovo di fronte a quella imprevista visione. Certamente l’esperienza di Mosè ci fa capire che la proposta cristiana è credibile quando la nostra vita sa suscitare “stupore” perché ha qualcosa di “diverso” dal solito... Anche noi possiamo essere per gli altri come un “roveto” che brucia senza consumarsi del fuoco dello Spirito Santo, cioè una presenza “insolita” dove la presenza del divino si deve rendere visibile nella “qualità della vita” del credente, al fine di suscitare in loro meraviglia e desiderio di ricerca... di un incontro con il Dio della vita. Credo, cioè, che la testimonianza di una vita nella quale in modo durevole, anche nelle difficoltà, godiamo della pace, dono del Risorto, sia rilevante e decisamente più eloquente delle varie forme di ricerca di “spiritualità” post-moderne. L’autenticità, quindi, è fondamentale. Ecco perché il cristiano non può rimanere nella mediocrità... 5.3. Che cosa ascolta Mosè? «Il Signore vide che si era avvicinato per vedere e Dio lo chiamò dal roveto e disse: Mosè, Mosè» (Es 3, 4-6). Il Signore quindi vede il vedere di Mosè e lo chiama. Mosè ascolta il suo nome. Immaginate lo shock di paura e insieme di stupore di Mosè, quando si sente chiamare nel deserto, in un luogo dove non c’è anima viva. Mosè si accorge che c’è qualcuno che sa il suo nome, qualcuno che si interessa di lui; egli si credeva un reietto, un fallito, un abbandonato: eppure qualcuno grida il suo nome in mezzo al deserto. Si tratta di un’esperienza violenta, che forse abbiamo fatto anche noi quando trovandoci in un luogo - per esempio una grande città - in cui credevamo di essere del tutto ignorati, d’improvviso ci siamo sentiti chiamare da qualcuno per nome. Ora Mosè si sente chiamato per nome due volte: «Mosè, Mosè». Che cosa vuol dire questa doppia chiamata? Nella Bibbia è abbastanza raro che una persona sia chiamata due volte. Un primo episodio è quello di Abramo. E’ Dio stesso che lo chiama: «Abramo, Abramo» (Gen 22,1) e gli chiede il sacrificio del figlio, mettendo così alla prova la fede del patriarca. Poi nel momento drammatico, nel quale tutto è pronto per il sacrificio, l’angelo del Signore lo chiama dal cielo: «Abramo, Abramo» (v. 12) ordinandogli di non stendere la mano sul figlio. Un altro passo è 1Sam 3,10; Samuele viene chiamato nella notte: «Samuele, Samuele». Questo 6 Cf. CARLO M. MARTINI, Vita di Mosé, cit, 30-31. 7 episodio avviene in un periodo di svolta della storia di Israele: finito il periodo confuso dei Giudici, sta per aprirsi il periodo della monarchia, che comporterà un nuovo avvicinarsi di Dio al suo popolo. Nel NT troviamo questa doppia chiamata in Lc 22,31: «Simone, Simone, ecco che Satana ti ha cercato per vagliarti come il grano». Si tratta di un momento culminante della vita di Pietro. Infine ricordiamo anche l’episodio di Lc 10,41 nel quale Marta, presa dall’assillo di far bene, di fare un gran pranzo per Gesù, ad un certo punto si pone davanti a Gesù come una maestra, invitando il Signore ad ammonire la sorella perché l’aiutasse. Ma Gesù le dice: «Marta, Marta» (Lc 10,41), invitandola all’atteggiamento di ascolto della sua parola (è lui il maestro!) come stava facendo Maria. E’ evidentemente un insegnamento importante. Da questi passi si evince che la ripetizione del nome si ha quando Dio chiama un individuo a realizzare un compito o un’azione particolarmente importante e decisiva, oppure quando si tratta di accogliere un insegnamento di particolare importanza. 5.4. E’ Dio che prende l’iniziativa Mosè intuisce che è giunto un momento decisivo per la sua vita: è il momento in cui deve essere veramente disponibile, senza fare gli errori della prima volta. E qui Mosè ascolta qualcosa che forse non si aspettava. Lui che si era lanciato con tanto ardore per vedere il roveto ardente, avrebbe avuto piacere di sentirsi dire: «Grazie che sei venuto, che non ti sei lasciato vincere dall’amarezza»; e invece ascolta quella voce che gli dice: «Non avvicinarti, togliti i sandali dai piedi, perché il luogo dove tu stai è una terra santa» (3,5). Che significato ha questo comando divino? Perché togliersi i sandali? Credo che sia un ammonimento. I sandali infatti, rappresentano la dignità di una persona libera, il suo potere d’acquisto (Am 2,6; Sal 59,10), cioè la sua autonomia. Togliere i sandali ai piedi è un gesto di rispetto e di riconoscimento della santità di un luogo (come farà Giosuè in Gs 5,15 e come fanno ancor oggi i musulmani, i buddisti e gli indù prima di entrare in una moschea, in una pagoda e in un tempio); è un segno di povertà (Ger 2,25), di umiltà (2Sam 15,30). E’ come se Dio dicesse a Mosé: «Deponi i tuoi preconcetti, le tue idee di Dio, le tue resistenze, le tue sicurezze, e accogli ciò che Dio ora vuole rivelarti. Lasciati coinvolgere pienamente nel suo progetto». Questo è il significato del levarsi i sandali e di quell’avvicinarsi titubante, come quando si cammina sulle pietre senza scarpe, incerti; è l’incertezza dell’uomo che si chiede: «E adesso che cosa mi capiterà?». Il fatto è che nella disponibilità al mistero di Dio non si può entrare marciando trionfalmente. Ancora oggi i musulmani, entrando nella moschea, hanno il costume di togliersi le scarpe, come chi si presenta davanti a Dio in punta di piedi, in silenzio, non imponendo a Dio il proprio passo, ma lasciandosi assorbire, integrare dal passo di Dio. Mosè, dunque, ascolta: «Non avvicinarti, togliti prima i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa». Immaginate lo sconvolgimento di Mosè nel sentire queste parole. E’ questa una terra santa (letteralmente «separata», quadosh)? Questo deserto maledetto, luogo di sciacalli, di desolazione, di aridità, dove soltanto i banditi amano venire, dove la gente per bene non abita? Questo deserto dove mi credevo abbandonato, miserabile, fallito: questa è una terra santa? E’ questa la presenza di Dio? E’ questo il luogo dove Dio si rivela? Ogni terra dove JHWH, rivelandosi, incontra l’uomo è “santa”! Questa terra santa richiede venerazione e rispetto (è un santuario). E, guarda caso, ogni uomo è santuario di Dio, anche quando a noi appare solo terra desertica (cioè anche se peccatore ogni uomo è chiamato a questo incontro con Dio). 5.5. Che cosa comprende Mosè? Anzitutto questo Dio si identifica: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» (Es 3,6). Allora il Signore disse a Mosé: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese, verso un paese bello e spazioso dove scorre latte e miele... Ora il grido degli Israeliti è ar- 8 rivato fino a me ed io stesso ho visto l’oppressione con cui gli Egiziani li tormentano» (vv. 7-10). Notate com’è attenta la dizione, tutta in prima persona: «Ho visto, ho sentito, conosco, sono sceso, ...». E’ il “conoscere” (jada’) biblico che vuol dire: «ci sono dentro, le vivo anch’io, come se fossero mie». E’ il Dio che chiama “popolo mio” con un amore appassionato e creativo. Chi non lo conosce così, non lo conosce nella realtà in cui egli è e si manifesta, e quindi lo vede lontano, distante, astratto, filosofico. Qui sta la causa di ogni ateismo (teorico o pratico) che penetra ovunque nella società e anche in mezzo a noi. E’ come se Dio non ci fosse. E’ certamente una delle più grandi sciagure del nostro tempo, questa incapacità di mettersi di fronte al Dio vivo, relegandolo al di fuori della vita. E’ da notare anche che in quel «sono sceso» possiamo intravedere un preludio alle parole di Gesù: «Sono venuto perché abbiano la vita» (Gv 10,10); il Figlio dell’uomo è venuto, è disceso per dare la vita al mondo. La partecipazione divina è divenuta compartecipazione all’esperienza stessa quotidiana del popolo e delle sue sofferenze in Cristo. Dio scende per «liberare». Il verbo in ebraico esprime uno “strappare” violento (natsal) il popolo dalla «mano/potenza» (yad) e dalla terra d’Egitto, sbarazzandolo dei suoi nemici. Il secondo verbo, «uscire» (‘alah, letteralmente “salire”, geograficamente esatto, perché dall’Egitto si sale in Canaan) è in direzione di una terra fertile e vasta (Ne 9,35), verso un paese dove «scorre latte e miele», cioè fertile. 5.6. La missione di Mosè A questo punto, ora che Mosè si è purificato dalla possessività della propria presunzione di salvare gli Israeliti, una volta che si è reso sensibile alla realtà vera delle cose, Dio dice: «Ora và! Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo, gli Israeliti!» (v. 10). Ora Mosé è pronto a questa missione perché divenuto capace di fidarsi della forza di Dio. Mosè si sente ripreso completamente in mano da Dio e rimandato non per un’opera sua, ma per l’opera di Dio. Vedete come agisce l’educazione divina! Le richieste di Dio sono tre, aperte sempre dall’imperativo «va’»: a) presentarsi dal faraone per far uscire il popolo dall’Egitto; 2) convocare gli anziani per recarsi nel deserto a fare un sacrificio al Signore; 3) parlare con la bocca di JHWH. Ma, ad ogni richiesta, Mosè si schermisce e solleva alibi, che ricevono una puntuale controreplica di Dio. Si tratta del racconto biblico di vocazione che presenta il maggior numero di obiezioni, ben cinque, da parte dell’interpellato. L’accavallarsi di un così gran numero di obiezioni serve a confermare che Mosè non si è scelto, ma è stato scelto, “confiscato” dal sogno e dai segni di Dio. 5.7. Le obiezioni di Mosé e la conferma della missione7 Il comando del Signore era ben chiaro, la missione affidata a Mosé ben definita, ma ecco che lui accampa delle scuse. Quella di Mosé è una vera e propria lotta – come già è avvenuto per Giacobbe – con Dio. 1.1. Prima obiezione «Chi sono io, Signore, per andare davanti al faraone e per far uscire dall’Egitto gli israeliti?» (Es 3,11). Che grande contrasto con il giovane eroe di quarant’anni prima che credeva sarebbe stato facile essere il liberatore del suo popolo e ha voluto farlo con le proprie forze! Dopo quel lungo periodo passato nel deserto, Mosé si sentiva tanto inadeguato che non ha più creduto di poter attuare questo compito. Se questa proposta Dio giel’avesse fatta quarant’anni prima avrebbe risposto, pieno di orgoglio: «Certo! Sono pronto! Perché no?». Adesso risponde: «Chi sono io?». Anche se si sente rivalutato da Dio tuttavia prova ancora insicurezza, non ha coraggio. La risposta di Dio è molto semplice: «Io sarò con te». C’è un gioco di 7 Cfr. O. CEPEDA SILVA- C. DE FRAUSTO, Amico di Dio, Ed Rinnovamento nello Spirito Santo, Roma 1992, 89-93; A. NEPI, Esodo, cit., 99-111. 9 pronomi: l’«io» di Mosè incarnerà l’«Io» di Dio. Il segno di questa compagnia sta nel futuro: «servirete Dio su questo monte». Sarà un futuro appuntamento sull’Oreb, lontano dall’Egitto, stavolta con il popolo, ad attestare che Mosé è stato inviato da Dio. Si noti l’uso del verbo «servire» (‘avad), finora usato nel senso negativo di schiavizzare. La promessa è il passaggio dalla «schiavitù (‘avodah) d’Egitto» al «servizio cultuale (‘avodah)» di Dio. 1.2. Seconda obiezione «Ma mi diranno: come si chiama? E io che cosa risponderò loro?» (3,13). Mosé aveva imparato che era necessaria un’autorità che trascendesse la sua persona. La domanda del nome equivale a chiedere: «che cosa è in grado di fare?». Pur se Mosè lo presenta come «il Dio dei vostri padri», di fronte alla gravissima situazione del popolo in schiavitù, la questione è: qual è il suo potere, la sua credibilità a confronto con il pantheon della nazione oppressiva attualmente incontrastata? Dio gli dà una risposta ben chiara: «Dirai agli Israeliti: Ehyeh (Io-Sono, Sarò) mi ha mandato a voi... JHWH – il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe – mi ha mandato a voi. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione» (3,14-15)8. La risposta di JHWH a Mosé suona come una benedizione. Ti basti sapere (perché il nome è misterioso, non lo si può definire, né pronunciare: cf. Gdc 13,18) che Io-ci-sono, che io sono Coluiche-c’è, Colui-che-è-qui-con-te-per-te, con-voi-e-per-voi. In altre parole Dio dice a Mosè, agli Israeliti, ma anche a noi: «Io sarò quel che sono; capirete quello che io sono (e sono stato) da ciò che farò per voi, dalla storia che farò con voi». Rivelando il suo nome Dio si impegna «per sempre (le’olam)» ad essere il Dio di quel popolo. «Non è questo per te, per voi, molto più importante del pronunciare il mio nome?». Non è questa la benedizione di cui Mosè, il popolo del Signore, e ogni suo servo hanno bisogno, la più alta che si possa desiderare? JHWH, per bocca di Isaia, dirà al suo popolo in esilio: «Il mio popolo conoscerà il mio nome, comprenderà in quel giorno che io dicevo: eccomi» (Is 52,6=Rm 2,24)9. Il nome del Signore è: «Eccomi!», e la benedizione si posa sul popolo quando esso sa rispondegli «Eccomi!» (Es 3,4)10. Segue un secondo «va’», che precisa la missione di Mosé (vv. 16-22): riunire gli «anziani d’Israele», annunciare loro la «visita decisiva (paquad)» (compiendo così la «sicura visita» di Dio vaticinata da Giuseppe in Gn 50,24) per andare con essi dal faraone (vv. 16ss) a chiedere di poter partire per un sacrificio nel deserto. Nei vv. 19ss. si anticipa l’esito degli avvenimenti di Es 5-15. JHWH avvisa Mosè che il faraone si opporrà, ma nulla sarà insormontabile per il disegno divino che si compirà. 1.3. Terza obiezione «Ecco, non mi crederanno, non ascolteranno la mia voce, ma diranno: Non ti è apparso il Signore!» (4,1). Mosé era convinto del potere di Dio, lo vedeva nel roveto, ma non era convinto di riuscire a persuadere gli israeliti che Dio gli aveva parlato davvero. Dio risponde con altri tre segni, con i quali conferma l’investitura di Mosè come suo ambasciatore: è lui stesso a darli, senza che Mosè li chieda (cfr. Ger 1,11.13; Am 7,8): il bastone che si trasforma in serpente (4,2-5), la mano che diventa lebbrosa (vv. 6-8) e l’acqua del Nilo che versata a terra diventa sangue (vv. 9-10). Dio appare 8 I patriarchi non conoscevano il nome di Dio rivelato a Mosè, ma solo quello di “Dio onnipotente”: in ebraico abbiamo El-Shaddaj, termine reso appunto come “Dio onnipotente”. Il nome JHWH, che non veniva mai pronunciato dagli ebrei, tanto che ad esso si sostituivano le parole Adonaj (“Signore”) oppure Shem (“nome”), richiama la radice semitica hwh, “essere”. Il senso del nome sarebbe allora: “colui che fa essere”. Dunque Dio non si rivela con un nomesostantivo, ma con un nome-verbo: è il Dio irraggiungibile che non si può dominare e manipolare a proprio vantaggio (come fa la magia quando cerca di possedere il nome), la cui azione è però visibile e operante nella storia. Anche Gesù usa l’espressione: “Io sono”: «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che IO SONO…» (Gv 8,28). 9 Cf. Es 17,7; Ez 36,20-23; Os 1,9; ecc. 10 Cf. gen 22,1.11; 31,11; 46,2; 1Sam 3,4; At 9,10; ecc. 10 come il Signore della natura. - Il serpente, infatti, nell’immaginario biblico e di altre culture (in particolare quella egiziana) è il simbolo dell’energia sotterranea che crea vita, delle potenze caotiche del mare (Is 27,1), del ciclo del tempo, della immortalità, della fecondità, della sapienza e del potere oracolare (la stessa radice nachash in ebraico significa “divinazione”: cfr. Dt 18,9; Gn 3,1). La fuga di Mosè dinanzi al serpente testimonia il suo timore verso questo animale ritenuto soprannaturale; tuttavia, all’ordine di Dio, supera lo sgomento, «stende la mano» e il serpente si ritrasforma in bastone. Questo segno dota Mosè della sapienza e potere divino sulle energie nascoste del cosmo e sul tempo. - Anche la mano che diventa lebbrosa (qui per lebbra si deve intendere ogni malattia generica della pelle) è segno di questa potenza di Dio sulla natura. Solo Dio ha il potere di colpire o guarire da questo morbo (2Re 5,7). La lebbra era particolarmente temuta e comportava l’emarginazione dalla vita comunitaria (Lv 13,45). Era una vera e propria “morte civile”. Questo secondo segno investe Mosé del potere divino di trasferire nella morte o reintegrare nella vita gli uomini. - Infine abbiamo il segno dell’acqua che si muterà in sangue. Si tratta di un anticipo parziale, che prima servirà a convincere gli Israeliti, ma in seguito sarà destinato a convincere gli Egiziani, colpendo tutta l’acqua del Nilo (Es 7,19-21). Dio, come agisce nella natura, agirà nella storia come sopra promesso (3,20-22). E’ da notare che anche Gesù usa il medesimo termine: «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che IO SONO…» (Gv 8,28). E’ la massima rivelazione di Dio-Amore e, insieme, il segno della fedeltà di Colui che assicura: «io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). 1.4. Quarta obiezione Eppure Mosé ha ancora delle scuse: «Io non sono un buon parlatore; non lo sono mai stato prima e neppure da quando tu hai cominciato a parlare al tuo servo, ma sono impacciato di bocca e di lingua» (4,10). Pur cosciente di essere entrato in dialogo con Dio dice di non possedere la necessaria competenza retorica: avverte di non possedere le idee e la persuasività necessarie per essere un buon comunicatore (cfr. anche Ger 1,4). Come potrà mai condurre una trattativa convincente con il faraone se è «impacciato di bocca e di lingua?». Quest’ultima obiezione è una dichiarazione nella quale si mescolano falsi ragionamenti a realtà: dichiarare che non era eloquente, era negare la realtà (cfr. At 7,22). Dio gli rispose: «Ora va’! Io sarò con la tua bocca e ti insegnerò quello che dovrai dire» (v. 12), cioè: metterò le mie parole sulla tua bocca. La parole che egli dovrà dire gli saranno suggerite da Dio stesso. 1.5. Quinta obiezione Ma neppure a queste parole Mosé si arrese e insistette: voleva che un’altra persona lo aiutasse. Questa volta è Mosè a dare ordini a Dio, non si maschera più: il senso della frase è «manda chi vuoi, non me!» La Sacra Scrittura dice che a questo punto JHWH si accese d’ira contro Mosé (v. 14): aveva fatto tutte le cose logiche per aiutare quest’uomo nella sua debolezza, gli aveva dato un vantaggio enorme, ma ancora non si convinceva. Da cosa è provocata l’ira di Dio? Evidentemente dal fatto che Mosè guardava alla sua debolezza, anziché alla potenza di Dio. Così Dio concluse: «Non vi è forse il tuo fratello Aronne? (...) Tu gli parlerai e metterai sulla sua bocca le parole da dire e io sarò con te e con lui mentre parlate e vi suggerirò quello che dovrete fare» (v. 15). Quindi gli viene concesso l’aiuto del fratello Aronne, che fungerà da interprete nei confronti di Mosè; sarà lui a comunicare a Israele e al faraone le parole stentate di Mosè. I ruoli, però, restano chiaramente distinti: Dio «suggerisce» soltanto a Mosé quello che deve dire, mentre suggerisce a tutti e due quel che devono fare. Inoltre se Aronne sarà la «bocca» di Mosé, Mosé farà per lui le «veci di Dio». L’incontro sull’Oreb si chiude con il bastone di Mosé: «Terrai in mano questo bastone, con il quale tu compirai i prodigi»: non è più il bastone di un pastore, ma quello dei prodigi di Dio. 11