Mi sono alzata col piede sinistro. La depressione in

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Mi sono alzata col piede sinistro. La depressione in
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Amedeo Cencini
Mi sono alzata col piede sinistro.
La depressione in convento
Siamo tutti soggetti alla depressione, «la più umana e più reale delle cose», come dice J.
Vanier1, un esperto di quella realtà enigmatica che è il cuore umano. E forse potremmo
spingerci anche un pochino oltre, per affermare che probabilmente un po’ tutti abbiamo
fatto esperienza nella nostra vita della depressione, o forse lo siamo tuttora o permane nel
profondo di noi stessi una sorta di «io depresso», pronto a far capolino non appena le cose
non vanno per il verso giusto. In fondo, dice Bernanos, la speranza nasce nel medesimo
punto ove potrebbe nascere la disperazione, viene dalle stesse profondità intrapsichiche,
che vuol dire che anche il tipo speranzoso, col suo atteggiamento positivo e ottimista, in
qualche modo ha intravisto, almeno per un attimo, lo spettro del suo contrario, della
disperazione. Come potrebbe conoscere e assaporare il gusto della gioia chi non ha versato
mai alcuna lacrima?
Tutto ciò per dire che non stiamo parlando di alcuni casi clinici, o per lo meno non solo di
essi, ma di qualcosa che ci appartiene e ci abita dentro, e che in qualcuno a volte emerge
con particolare evidenza e sofferenza.
Vorremmo, in questa breve riflessione, vedere il significato che può assumere la
depressione in convento (femminile soprattutto), e poi, in modo più propositivo,
identificare alcuni atteggiamenti da evitare e altri da metter in atto, per aiutare la persona
del depresso a vivere il meglio possibile la sua depressione.
Suor Depressa
Partiamo da una sorta di definizione descrittiva del fenomeno. «La persona depressa - in
modo diversificato a seconda degli stadi - è generalmente caratterizzata da una profonda
sofferenza interiore, da atteggiamenti di apatia, di scarsa fiducia in se stessa e nella vita, da
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Cf. J. Vanier, La depressione. Il cammino do guarigione. Elledici, Leumann (Torino) 2000.
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sensi di inadeguatezza e di colpa, di fallimento e di oscuramento del futuro, da una
chiusura in se stessa e da un senso di abbandono da parte degli altri e, talvolta, dalla
sensazione di essere abbandonata anche da Dio»2, al punto di sentire la vita
insopportabile, priva di senso3.
Ancor più in sintesi potremmo ricondurre a tre, allora, gli elementi costitutivi della
depressione, le sue radici: - la sensazione di non esser amabile; - né di esser di fatto stata
amata; - la convinzione che la propria esistenza sia priva di senso.
Le tre cose sono tra loro strettamente collegate, poiché le prime due sensazioni sono causa
della terza. È importante sottolinearlo, poiché questo ci fa capire la natura
fondamentalmente relazionale ed emotiva della depressione; in altre parole è la relazione
l’ambito in cui nasce la depressione4, e la sfera emotivo-affettiva l’area prevalente in cui si
manifesta. La depressione, infatti, è problema dell’umore, non del pensiero (come altre
sindromi, ad esempio la schizofrenia). Se dunque suor Depressa tende a isolarsi e sembra
rifiutare il rapporto, in realtà ne ha un bisogno enorme, e forse sta solo verificando se
davvero non vi sia nessuno che si prenda cura di lei…
Sta di fatto che le donne tendono a esser colpite il doppio dalla depressione rispetto ai
maschi, forse per il particolare significato, con conseguente alto investimento emotivo, che
la relazione ha per la psicologia femminile. E questo dunque sta a dire che il fenomeno
può esser presente anche in convento; addirittura c’è chi dice che oggi sia in aumento la
…depressione religiosa femminile.
Come aiutare queste persone?
Chi ha il dono della fede dovrebbe aver un’arma in più per uscire da questa situazione.
Le consorelle di suor Depressa
Abbiamo detto che il problema della depressione è problema relazionale, ma allora anche
la sua terapia dovrà essere legata alla relazione. Ovviamente senza escludere, per i casi più
gravi, ovvero per la depressione clinica, il ricorso ai farmaci e alla psicoterapia (che è pur
sempre fenomeno relazionale).
Ecco perché ora la nostra attenzione va da suor Depressa a chi le vive accanto. È
fondamentale un certo tipo di presenza per aiutare chi è depresso, e ancor prima è
fondamentale che chi sceglie di porsi a lui accanto comprenda il ruolo che potrebbe
S. Pintor, «Principali punti della fede sui quali è necessario particolarmente insistere», in Aa.Vv., La
depressione. Clinica, analisi antropologica, prospettive pastorali, EDB, Bologna 2005, 280.
3 Cf. T Anatrella, «Educare al senso della persona, della responsabilità e dell’autostima alla luce del
cristianesimo», in Aa.Vv., La depressione, 289.
4 E’ significativo in tal senso il fatto, rilevato da ricerche scientifiche, che il divorzio o la fine d’una relazione,
nel 45% dei casi scateni episodi depressivi (rilevazione statistica dell’Istituto di Psicologia Clinica RoccaStendoro di Milano, citato in R. Rocca- G. Stendoro, «Quando si spegne la voglia di vivere», in Tre
dimensioni. Psicologia, spiritualità, formazione 2 (2005) 286.
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giocare in questa vicenda o avverta tutta la propria responsabilità fraterna. Ben
ricordando, come abbiamo sottolineato più sopra, che nessuno è immune da questo
problema. E allora, se questo è vero, il rapporto stabilito con il depresso svela il rapporto
che ognuno di noi ha con il proprio «io depresso» e con le ricorrenti sensazioni di non
sentirci amabili, anche nei confronti di Dio. Quando si è di fronte ad una persona depressa,
si diventa poveri noi stessi perché in realtà si è messi di fronte alla propria povertà5.
Vedremo prima cosa non fare, e poi l’aspetto più positivo.
Atteggiamenti da evitare
C’è una serie di pregiudizi nei confronti di queste persone o della sindrome in sé che non
aiutano in nessun senso, né la comunità ad affrontare il problema, né tanto meno la sorella
a risolverlo.
«Lo fa solo per mettersi al centro dell’attenzione, ma io non ci casco». Sempre pericoloso mettersi
a fare gli psicologi, con interpretazioni poi scontate e banali; ancor più grave pretendere di
giudicare, impalcandosi a giudici severi e rigorosi. È vero che il problema del depresso è
un certo egocentrismo, ma è diverso leggerlo come un bisogno compulsivo, di fronte al
quale suor Depressa è relativamente impotente e di cui spesso è nemmeno consapevole, o
come un tranello che mi tende e nel quale io, l’intelligente senza problemi, evito di cadere.
Nel primo caso scatta una certa comprensione misericordiosa, nel secondo c’è solo il
giudizio presuntuoso che peggiora la situazione.
«Sei tu che ti sei messa in testa certe idee. Cacciale come tentazioni». Un bel po’ di errori in un
colpo solo. Il primo è inviare un messaggio che aumenta il senso di colpa e la percezione
negativa che il depresso ha già di sé; il secondo è far leva unicamente sulla volontà, come
fosse semplice rovesciare una sensazione che la persona si porta dietro da chissà quanto
tempo; sbagliato è pure far capire che è tutta una montatura del soggetto, poiché è vero
che il depresso distorce la realtà, ma quando qualcuno non si sente amato nessuno può
negare la realtà di quel sentimento. Gli stati d’animo non sono veri o falsi, sono e basta.
Infine anche il riferimento alle «tentazioni» non è intelligente, poiché accentua nel
depresso la sensazione di esser lontano anche da Dio.
«Anch’io mi sono sentita giù, ma ho reagito. E allora dai, tirati su». Dire questo (o pensarlo, non
fa grande differenza) è come dire: «io sono più bravo di te», ovvero è come spingere suor
Depressa ancor più dentro il baratro del suo sentirsi un nulla. Col solito insipiente
richiamo volontaristico che ne aumenta il senso di frustrazione. A volte son proprio questi
messaggi (comunque «inviati») che determinano nel depresso rabbia non tanto contro chi
Ciò ha una sua verità e utilità per chi opera professionalmente nel settore nel momento psicodiagnostico: il
depresso ti fa sentire depresso, ovvero, se ti senti depresso potrebbe esser segno che il paziente è un
depresso.
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gli parla così, quel bravone sempre vincente, ma contro se stesso, soprattutto, con esiti
anche pericolosi.
«Poverina, mi fa così pena! Ha bisogno della mia amicizia calda e intima». Ammirevoli lo slancio
e la buona intenzione, ma attenzione a un paio di cose. Anzitutto alla reale motivazione
che spinge ad andare incontro alla sorella: è la sua dignità o perché mi fa pena? Quando si
vuol davvero aiutare non si può barare, e l’aiuto è vero solo se è sincero, ovvero
determinato dalla stima dell’altro; la compassione non fa crescere, proprio perché non
trasmette stima, che è la cosa di cui ha più bisogno un depresso.
Inoltre occorre capire che la depressione agisce da barriera alla comunicazione intima, per
cui suor Depressa non è capace di rispondere a questa super-amicizia, la sente eccessiva,
come le chiedesse qualcosa che non è in grado di dare. E allora, o la rifiuta isolandosi, o - al
contrario - la subisce e ne diviene dipendente.
«Con noi si trova male. Proviamo a farle cambiare comunità». E così, scaricando la sorella, ci si
toglie il peso della propria responsabilità! Se non esiste una relazione causale fra
depressione e ambiente, è più saggio far restare la persona depressa nello stesso contesto
ambientale, anche quando fosse essa stessa a chiedere il trasferimento, che provocherebbe
ulteriore stress e instabilità. Quando i sentimenti sono fragili e la capacità critica indebolita,
non è buona cosa programmare cambi di vita e di luogo.
«È nevrotica, non possiamo farci niente». Certi comportamenti (isolamento, mutismo, rifiuto
d’alimentarsi…), durante le crisi depressive, possono far pensare a un disturbo nevrotico.
Ma non è detto, sono soprattutto messaggi che vanno decifrati per dar loro una risposta
adeguata. E non sempre è facile.
Infine, etichettare uno come nevrotico, ancora una volta può esser un modo furbo per non
sentirsi responsabili di fronte a lui.
«Se noi stiamo allegre, lei dimenticherà tutto e sarà allegra». Magari bastasse alzare un po’
il tono comunitario per risolvere le depressioni! A volte è vero che la depressione di una
(la più debole psicologicamente) è il risultato della tristezza di tutte, o la conseguenza
della scarsa gioia evangelica della fraternità. Ma non si risolve il problema dando ordini
d’esser tutti allegri; non c’è niente di più inautentico della gioia artificiale! Ma poi, anche
se a fin di bene, l’invito all’allegria potrebbe accentuare in suor Depressa la sensazione di
non esser capita, quasi d’esser presa in giro.
Atteggiamenti da mettere in atto
Vediamo ora d’indicare alcuni atteggiamenti positivi, che possano aiutare a viver bene la
depressione, nei limiti del possibile, senza la pretesa di risolverla né d’improvvisarsi
psicoterapeuti, ma con l’intento di accompagnare suor Depressa a scoprire che …non è
questo il suo vero nome.
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Avvertire il più presto possibile i sintomi. Anche qui funziona il principio della medicina
preventiva, prima si coglie una certa fatica di vivere, meglio è. Quali i sintomi?
Irrequietezza, tendenza all’isolamento, insoddisfazione e frustrazione generale, tristezza
diffusa (senza motivo), mutismo, anemia generale, sospettosità, insonnia, inappetenza…
Ma ancora più importante è che la persona stessa giunga pian piano ad ammettere il suo
stato interiore, in un momento in cui può ancora far qualcosa per non piombare nella
piena depressione. Per questo è decisivo il rapporto umano con la persona depressa, per
offrirle la possibilità di fare una triplice esperienza: della stima di sé nella sua propria
amabilità, dell’accettazione di sé anche nella sua non amabilità, e della responsabilità di cui deve
farsi carico, per dare senso alla vita. È la triade terapeutica della depressione, come
vedremo, che risponde ai tre elementi costitutivi della depressione prima menzionati: il
sentirsi non amato e non amabile, e la sensazione di non senso della vita.
Resistere alla fuga e decidere di stare accanto. Grande tentazione quella di ignorare la cosa (e la
persona) con mille alibi («mi mette angoscia», «tocca alla superiora», «si fa peggio a darle
attenzione»…). In effetti «starci» o «non starci» al complesso gioco relazionale che la
depressione attiva è sempre scelta molto impegnativa. Ma, per l’appunto, dev’essere
sentita come una scelta, libera e responsabile, una specie di volontariato all’interno della
comunità religiosa, come decisione di restare accanto a suor Depressa, senza pretendere di
capire e risolvere subito tutto, ma con la disponibilità intelligente a reinventare la
relazione con una persona che si presumeva di conoscere bene.
Accettare il confronto con la propria depressione. Ecco il punto nevralgico e il vero motivo
della tentazione di fuggire, come già accennato: il contatto con la depressione altrui
risveglia inevitabilmente quello con il nostro «io depresso», o con quella parte del nostro
io che non si sente amabile. Tale contatto, allora, è una preziosa opportunità per fare i
conti con se stessi, e può regalare l’inaspettata scoperta di trovare qualche tratto di sé che
non si conosceva pienamente, ma che è emerso forte e chiaro nel tentativo di aiutare 6.
Potrebbe, ad esempio, aiutarmi a scoprire su cosa si fonda la mia amabilità (o la mia stima
di me stesso), o - più importante ancora - potrebbe svelarmi se ho fatto l’esperienza d’esser
amato nella mia amabilità, ma anche nella mia non amabilità, che è esperienza
fondamentale per un credente.
Fare dono della stima (o far scoprire l’amabilità). La stima (da attivare) è la prima della triade
terapeutica. Se la depressione nasce nella relazione e a motivo di qualche relazione, anche
la terapia dovrà essere relazionale, di vero rapporto umano, nel quale suor Depressa possa
recuperare o correggere anzitutto la percezione della propria amabilità, da lei messa in
dubbio.
Cf. S. Landra, «Stare accanto nella sofferenza mentale», in Tre Dimensioni. Psicologia, spiritualità, formazione 3
(2006) 319.
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La condizione fondamentale, allora, sarà che chi accosta la persona depressa non faccia
finta di voler bene, non lo faccia per compassione, o per sentirsi lui più buono, ma
unicamente per la dignità dell’altra, perché lo merita ed è giusto che sia così, perché in suor
Depressa c’è un’amabilità oggettiva tale che non può essere scalfita da niente e da nessuno,
da nessun peccato e da nessuna condanna. La stima, infatti, è il segno più alto dell’amore,
la sua conseguenza inevitabile, ma anche la sua verifica implacabile: se non c’è stima nel
rapporto, non c’è neppure amore, al massimo ci sarà la compassione, che non viene
dall’amore né comunica stima. Tanto più questo sarà vero con un depresso che si sente già
negativo, e ha un bisogno vitale di stima.
È ovvio che non si potrà convincere a suon di argomenti suor Depressa che lei è amabile,
ma si potrà solo darle la possibilità di fare un’esperienza reale e concreta nella relazione
che ora le viene offerta di vivere, perché scopra anche attraverso essa la propria amabilità
radicale. Quell’amabilità radicale che è come una cicatrice dell’origine divina, e che è il
vero fondamento della stima di sé. Suor Depressa capterà subito la sincerità di chi
l’avvicina, mentre si chiuderà come un riccio dinanzi a quegli approcci che non nascono
da stima e non possono darle stima.
Amare la persona «nella sua depressione» (o nella sua amabilità). Raccomanda con la forza
dell’esperienza J. Vanier: «Bisogna amare le persone nella loro depressione. È il modo
migliore per aiutarle ad uscirne»7.7 Amarle «nella loro depressione» non è un invito
generico a voler bene, quanto l’offerta dell’esperienza che abbiamo detto fondamentale per
qualsiasi essere umano: l’esperienza di essere amato anche nella sua non amabilità. Che vuol
dire oltre i propri meriti e diritti. Abbiamo visto che il depresso si sente non amabile. Ma
in realtà questo è un fatto normale, ognuno di noi è non amabile per certi aspetti, è inutile
pretendere di oscurare quella zona negativa che c’è in tutti, tanto più inutile e falso sarà
dire al depresso che non esiste in lui alcuna non amabilità. Ma sarà possibile volergli bene
lo stesso, e su questo si deve investire nella relazione: fargli fare l’esperienza d’esser
benvoluto anche nella sua non amabilità, oltre i suoi meriti, oltre ogni sua possibile pretesa,
anche laddove è debole e incoerente. È possibile perché così ci ama Dio, e proprio questa è
la tipica esperienza cristiana, che permette poi a ognuno di accettare se stesso.
L’equivoco di suor Depressa, infatti, forse favorito da certa falsa o povera spiritualità, un
po’ meritocratica e narcisista, è quello di vedersi balorda, poco dotata, perdente (specie se
si confronta con le altre). E allora non si accetta, è come in perenne lotta con se stessa,
delusa di sé, non amabile, appunto, e dunque tutta da …rottamare. Sarebbe senza senso e
frustrante, a questo punto, ripeterle che invece no, deve accettarsi; non avrebbe senso,
primo perché non si danno ordini di tal tipo, secondo perché l’accettazione di sé è
possibile solo se entra in scena un altro, l’Altro, il tu di Dio. Già a livello psicologico la
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Intervista apparsa su Zenit, 13/2/2007.
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persona è in grado di accettarsi solo quando è accettata da un altro; ma siccome è solo Dio
che può garantire un’accettazione totale e incondizionata, allora questo altro può esser
solo lui. Solo chi si vede con gli occhi di Dio può accettarsi, dunque, perché solo il Creatore
guarda con occhio radicalmente benevolo la creatura, accogliendola nel suo limite e non
permettendo che la sua debolezza possa offuscare la sua radicale bellezza.
Ora questa verità di fede diventa esperienza per suor Depressa, diventa verità vissuta
nello sguardo e nella vicinanza, nel gesto e nella parola della sorella che ha scelto di porsi
accanto a lei. Come se i suoi occhi e mani, cuore e bocca fossero gli occhi, le mani, il cuore,
la bocca dell’Eterno amante.
Promuovere il senso di responsabilità per dare senso alla vita. A questo punto è possibile
rispondere anche al terzo sintomo o elemento costitutivo della depressione, ovvero la
sensazione di non senso della vita. E da dove può venire questa …inversione di senso?
Ancora una volta dalla qualità dell’esperienza relazionale, e particolarmente dalla verità
dell’affetto umano che è al centro di essa, e che un po’ alla volta la persona inizia a
scoprire dentro la propria vita, nella sua storia, nelle persone che le sono state accanto, a
partire dai suoi genitori, e nonostante i tanti e inevitabili limiti di cui è costellata ogni
vicenda esistenziale umana. È come se l’affetto che ora viene trasmesso a suor Depressa
nella relazione con chi le sta accanto sbloccasse in lei una certa capacità percettiva, e le
consentisse, finalmente, di vedere l’amore che ha già ricevuto nella sua storia, e di scoprire
che quest’amore è stato tanto, commuovendosi di fronte a esso. D’altronde solo l’amore
può scoprire l’amore. Liberando la memoria dai virus.
Da qui il nuovo senso della vita e di ciò che prima le appariva privo di significato, o di ciò
che sentiva come un peso o addirittura come ingiustizia: se è vero che nulla come l’amore
rende responsabili, la scoperta dell’amore ricevuto in abbondanza fa ora sentire alla
persona tutta la propria responsabilità nei confronti della vita stessa, o dello stesso amore
ricevuto, e degli altri cui potrà donare questo amore, magari soprattutto quegli altri che
soffrono come lei la tentazione di non sentirsi amabili.
Nel momento in cui suor Depressa comincia a cogliere questa connessione di significati tra
amore ricevuto e responsabilità nei confronti di tale amore, non è più depressa. Magari
questo le complicherà la vita, ma in senso costruttivo e aperto al futuro. Infatti il depresso,
a volte, è uno che piange su di sé e la propria storia, visto che si sente di fatto non amato,
perché «inconsciamente sa» (non c’è contraddizione, è possibile) che ammettere di aver
ricevuto amore significa poi essere responsabili di questo amore, e dunque darsi da fare
per rispondere a questo amore. Ma ciò è sentito come troppo difficile e spaventa il
depresso, che preferisce proprio per questo non riconoscere l’amore ricevuto e piangersi
addosso.
Farlo uscire dall’equivoco significa ridargli vita, metterlo in condizione di dare senso alla
sua vita, riaprire la sua vita al futuro.
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Allora, se stare accanto a un depresso vuol dire fare i conti con la propria depressione,
quando si fa questo cammino non è solo suor Depressa che impara a sorridere alla vita, ma
anche chi l’ha accompagnata e poi tutta la comunità. Tutti assieme a celebrare il Dio che
rende lieta la mia giovinezza!
Tratto da: Consacrazione e servizio, n.4 aprile 2007
fonte: http://www.usminazionale.it
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