Libro prodotto con lavori prodotti dai ragazzi

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Libro prodotto con lavori prodotti dai ragazzi
Liceo Ginnasio Statale “Luigi Galvani”
Anno scolastico 2011-2012
Progetto: “Parole in costruzione”
Colpa/Vergogna
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Indice dei lavori
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“Attento a quel che desideri perché potrebbe avverarsi- O. Wilde” di Giulia Bencardino, I A
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“Il sogno” di Alice Po, I A
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“Edge” di Jessy Simonini, IV G
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“Croce e delizia” di Jessy Simonini, IV G
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“Memorie di un criminale” di Maria Sofia Dalla Verità, III D
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“Colpa e vergogna: due semplici sentimenti- emozioni?” di Luca Cinelli, II A
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“Ma egli non era pentito del suo delitto” di Lorenzo Cimatti, I A
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di Filippo Sanguettoli, III D
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“Colpa e vergogna” di Stefano Mincione, II A
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di Chiara Veronesi, I A
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“La coscienza di Laura” di Elisa Campanini, IV N
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"Attento a quel che desideri perché potrebbe avverarsi- O. Wilde"
di Giulia Bencardino, IA
Scrivo queste parole perché la psichiatra me lo ha chiesto. Mi ha detto di tenere un diario su quelle che lei crede mie fantasie. Non si
capacita del perché sia così. Quando mi ha visitato la prima volta, dopo vari test, mi ha detto sollevando le spalle: "Non capisco, lei non
ha nulla che non va!" Lei non crede che ciò che racconto sia vero. Pensa che sia una mitomane o qualcosa del genere. Eppure ciò che sto
dicendo è vero. Ho un fratello. O almeno lo avevo. Tanto tempo fa, quando la mia vita non sembrava ancora un film dell' orrore e io
sapevo cosa fosse sogno e cosa realtà.
Estratto dal diario di Anna E.
10/08/2009
Ho litigato con Dario anche oggi. Il motivo è il solito! Lui vuole andare in campeggio! Tutto pagato dai nostri genitori ovviamente! ]/peggio è che loro
non potranno più andare in vacanza, non se lo possono permettere! Non lo sopporto! Com'è stupido chiuso nel suo guscio di egoismo senza nessun
altro punto di riferimento se non se stesso. Lui deve andarci assolutamente in campeggio con Michele! E ai nostri genitori no n pensa? E loro, sciocchi, che
glielo permettono! Ha 24 anni! Io alla sua età ero già andata a vivere da sola, studiavo di giorno e lavoravo di notte, i miei mi davano qualcosa p er
tirare avanti ogni tanto, non dipendevo completamente da loro! Non vuole studiare lui? E' troppo impegnativo? Allora vada a lavorare, vada a
zappare la terra! Non è mica di cristallo!
09/05/2009
La sera che mio fratello scomparve avevamo litigato. Eravamo in salotto, lui guardava la televisione. Ricordo come se fosse ieri ciò che
ci dicemmo. Sono le ultime parole di mio fratello in vita, credo che, nonostante siano di basso valore morale, io debba riportarle. "Così
te ne andrai in campeggio, eh?" iniziai io.
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"Sì”.
In quel momento la rabbia mi salì al viso e mi accartocciò il petto come solo la rabbia sa fare. Non si era nemmeno degnato di staccare
gli occhi dalla tv.
"E pensi che si divertiranno i nostri a Rodi?"
"Ah no, non ci vanno più!"
"Davvero?!? E sai come mai?"
"No"
"BUGIARDO!!!! Sei solo un misero schifoso bugiardo egoista approfittatore! Sai benissimo che hanno deciso di non andarci per
permetterti il campeggio!"
"Non la smetterai mai di entrare nella mia vita, eh? Solo perché hai quattro anni più di me pensi di ess ere già vissuta, di avere la verità
in tasca! Beh, ultime notizie: non è così" "Non è solo perché sono più grande di te! Io le gonne della mamma le ho lasciate a
vent'anni!" "Ma se tutti i mesi la mamma ti dava qualcosa per andare avanti!"
"Si ma io lavoravo, studiavo, avevo una stanza in affitto e non ero servita e riverita senza fare nulla tutto il giorno"
"E' questo il problema? Che sei invidiosa perché non hai colto l'occasione quando potevi? Vorresti
aver fatto ciò che sto facendo io ma siccome non eri abbastanza intelligente adesso mi disprezzi?" Gli diedi uno schiaffo e corsi via
piangendo.
Estratto dal diario di Anna E.
10/8/2008
Quel mostriciattolo egocentrico con quel suo bel discorsetto mi ha rovinato anche la notte di San Lorenzo! Non riesco a goder mi queste bellissime stelle
per colpa sua! Lo odio! Vorrei che non fosse mai esistito!!!
13/05/2009
Qualche divinità maligna quella sera mi ascoltò. Quando la mattina seguente mi svegliai non c'era più alcuna traccia dell'esistenza di
Dario a questo mondo, non una foto, una nota, un conto da pagare. Niente se non le poche pagine di diario scritte quel giorno .
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Estratto dal diario di Anna E.
15/08/2008
Dario pensa che con un piccolo scherzo può chiedermi scusa! Si sbaglia di grosso! Non ha capito che è proprio questo atteggiamento che mi, fa saltare i
nervi?!? Ha anche messo in mezzo mamma e papà! Adesso fanno finta di essere separati! Che cosa orribile! Non lo farebbero mai , sono stati uniti in così
tante situazioni! Che scherzo di cattivo gusto! La mamma però ha un talento innato per la recitazione. Oggi le ho detto:
"Mi dispiace che non andiate più a Rodi!"
"A me no, Lanzarote è molto più bella"
"Lanzarote? E il campeggio di Dario?"
"Di chi, scusa?"
"Dario"
"Dario chi?"
"Su mamma! Dario! Mio fratello, hai presente?"
E' andata via scuotendo la testa. E' bravissima, avrebbe potuto fare cinema!
23/05/2009
Tralascerò il tempo che ci misi ad accorgermi che non era uno scherzo. Mia madre cominciò a guardarmi in maniera strana, come se
fossi una pazza (cosa che tra l'altro la psichiatra non ha mai smesso di pensare!), e io smisi di insistere sul mio "fantomatico fratello" .
Per quanto la mia mente fosse poco analitica non mi ci volle molto tempo a capire la realtà del fatto. Cercai di liquidare l'accaduto come
un qualcosa di positivo, un peso in meno, ma, nonostante questo fosse il mio mantra dalla mattina quando mi svegliavo alla se ra quando
andavo a letto, non riuscivo a non pensare ad altro.
Estratto dal diario di Anna E.
10/09/2008
Non riesco a distrarmi, questa cosa mi sia uccidendo! Mi deconcentra al lavoro, sbaglio i giorni degli appuntamenti, oggi ho quasi fatto un incidente
con la macchina. Non posso continuare così. STA RA' BENE? Cosa gli ho fallo? L'ho ucciso? L'ho spedito in una dimensione parallela? Tutte queste
domande e tutta quest'incertezza! Non so se mi farebbe bene sapere se sia morto o meno, ma sarebbe senz'altro meglio di questo!
17/09/2008
Le risposte non mi interessano più. Ormai l'ho dato per morto. Il suo viso mi perseguita di notte nei sogni e quando mi svegl io sento la sua presenza
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aleggiare su di me, come se fosse uno spirito.
23/09/2008
Oggi guardandomi allo specchio ho visto la sua faccia! Non so per quanto potrò andare avanti.
30/09/2008
Non ce la faccio più, vorrei che finisse. Vorrei che almeno qualcosa di lui fosse rimasto. Ho un disperato desiderio di pagar e per ciò che ho fatto, ma
non so cosa fare.
OS/10/2008
Ho cominciato a dimenticare il suo volto. I contorni sfumano, i colori sbiadiscono. Così è peggio, almeno prima la mia punizione era portare il suo
ricordo e adesso sto fallendo.
13/10/2008
E' molto peggio di quello che mi aspettassi, al suo volto si sovrappongono orribili mostri dagli occhi indagatori, mi puntano contro il dito e mi
sussurrano:-Tu pagherai... - E io vorrei rispondere SI, VENITE, PRENDETEMI!!! ma loro svaniscono.
26/10/2008
Oggi sarebbe stato il suo compleanno e io mi sento uno schifo. Non merito di vivere.
Lettera di suicidio di Anna E.
Mamma, Papà,
non capireste perché l'ho fatto. Non ci crederei neanche io veramente, ma vi assicuro che questa è la verità. Avevo un fratel lo anche se
voi non lo ricordate perché la sera di
San Lorenzo ho desiderato che non fosse mai esistito, e così è stato. E' stata solo colpa mia e vi prego di non odiarmi per avervi
ucciso un figlio e avervene tolto il ricordo. Non riesco più a vivere. Addio. Anna.
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28/05/2009
Dopo aver preso quel cocktail fatale, ma non abbastanza, tutto divenne buio. Mia madre arrivò a portarmi dei biscotti per farmi una
sorpresa e la sorpresa la ebbe lei. Riuscirono a salvarmi per un soffio. I miei genitori pensavano che avessi uno squilibrio mentale e mi
chiusero in questa clinica. Pensavano che avessi inventato una storia e poi fossi entrata troppo bene nel personaggio, tanto da tentare il
suicidio. Non hanno mai creduto al paranormale. Neanche io per la verità fino a quel giorno. Ora ci credo, ma la piccola vena
razionale rimasta in me mi suggerisce che forse la psichiatra ha ragione. Forse un giorno mi sveglierò e penserò che la mia mente si a
balorda, malata, e che ciò che ho vissuto sia solo una fantasia. Forse un giorno la mia vita sarà vita e non incubo...
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Il sogno
di Alice Po, IA
Mi sveglio, di colpo, nel cuore della notte, la casa è avvolta nel silenzio. Vorrei che fosse già mattino. Vorrei alzarmi e uscire di casa per
poter dimenticare l’incubo che ha tormentato il mio riposo. Purtroppo la luce dell’alba è ancora lontana e provare a scordare ciò che mi ha
turbato sembra impossibile; anche provare a pensare ad altro risulta infattibile, tanto che il mio pensiero finisce sempre lì. Mi sento in colpa,
piango. Vorrei poter controllare la mia mente nel sonno, per evitare queste visioni così orribili. Così reali. A volte mi chiedo come la mia
mente possa elaborare tali atrocità senza che io me ne renda conto. Vorrei raccontare a qualcuno il mio incubo; vorrei che mi dicessero che
non è colpa mia se ho sognato di uccidere una persona, una persona che amo. Potrei giustificarmi dicendo che non sono io che decido cosa
sognare. Ma allora se non è mia la colpa di chi è? Una volta ho letto in un libro, che il sogno è la realizzazione di un desiderio inappagato
durante il giorno, che si manifesta nel sonno sotto forma di “allucinazione”. Ma come posso desiderare di sparare ad un mio familiare.
Sarebbe come desiderare di essere infelice e sola. Tuttavia era così realistico che non ho mai provato una sensazione così forte e terribile,
come se avessi attraversato una porta e che si fosse chiusa alle mie spalle per impedirmi di tornare indietro, di rimediare alle mie azioni. Ma
non c’è modo di tornare indietro dalla morte, non c’è modo di aprire la porta. Lo so sembra stupido pensare nel cuore della notte alla
morte, al senso di colpa, all’angoscia soltanto per un sogno; già solo un sogno, tanto orribile quanto vero. Le palpebre mi si fanno pesanti,
gli oggi gonfi per le lacrime mi si chiudono. Ho paura di addormentarmi, ho paura di fare un’ altro incubo. Vorrei rimanere a scrivere su
questo foglio per tutta la notte. Scrivere un po’ mi aiuta a sfogarmi, a consolarmi. Guardo l’orologio è ancora molto tardi. Ora è meglio che
provi a dormire, non posso stare sveglia tutta la notte, domani c’è scuola. Spero che dopo aver scritto queste pagine un po’ della mia
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inquietudine e del mio senso di colpa si sia mescolata all’inchiostro e si sia sedimentata nelle parole, così che possa riaddormentarmi
serenamente. Spero che un lieto sogno cancelli il brutto ricordo di quello precedente.
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Edge
di Jessy Simonini, IVG
Non c’era ancora luce. Dalla finestra, non più serrata, non un bagliore entrava nella stanza spoglia, ma si udiva solo il rumore della città che si
stava svegliando: qualche clacson sulle infinite strade della metropoli, il passaggio di un treno pendolare sulle rotaie poco lontane, i lamenti di
un’ubriaca sul marciapiede. In poco tempo, il cielo si sarebbe illuminato con l’iridescenza del mattino e l’aria sarebbe diventata di vetro.
Sylvia aveva già programmato ogni cosa; la sua immaginazione aveva trasfigurato quel momento giorni prima, si era figurata il suo corpo
morto, il viso sorridente e perfetto e i suoi bambini, simili a serpenti bianchi, anch’essi morti, acciambellati vicino alle loro brocche di latte.
Ma quel mattino, benché avesse già programmato ogni cosa, Sylvia tentennava. Aveva deciso di non portare con sé i bambini, voleva
risparmiare, almeno a loro, il superamento di quel limite senza ritorno.
Guardò fuori dalla finestra, le luci dell’alba erano come delle piccole stelle immobili, immerse nel groviglio di palazzi, strade e autostrade che
c’era aldilà dal vetro. Sylvia non riuscì più a resistere, non aveva più paura di niente. Temeva soltanto di sentirsi in colpa, anche solo per un
attimo, perché l’immagine dei suoi bambini ancora addormentati, mentre lei era già volata via, verso la stratosfera, non la abbandonava.
Pensava al loro risveglio, nella casa vuota, al loro pianto e alle parole dette dalla piccola Freida fra le lacrime. Dove sei mamma? Dove sei?
Lei non ci sarebbe più stata, loro avrebbero dovuto imparare a convivere con l’assenza, avrebbero dovuto imparare a stare senza di lei.
Scrisse un biglietto, lo appoggiò alla carrozzina di Nicholas, vicino al portone d’entrata, in fondo alle scale. Poi risalì in casa e aprì la dispensa,
cercando di fare meno rumore possibile. Prese il pane e il burro, spalmò lentamente il burro sul pane, con le lacrime che le scendevano sugli
occhi ormai del tutto offuscati. Ricacciò dentro il pianto per non fare rumore e versò n due tazze un poco di latte per i bambini. Lasciò
quanto aveva preparato nella camera dei bambini, vicino al comodino. Guardò entrambi con gli occhi ancora annebbiati, e un piccolo sorriso
si materializzò sul suo viso; cessò per un istante di sentirsi in colpa. Era l’attimo da cogliere, il momento da sfruttare.
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Era freddo, l’aria pungente dell’alba entrava dalla finestra che Sylvia aveva aperto nonostante fosse l’undici di febbraio. La porta era chiusa,
sigillata ogni fessura con del nastro isolante e qualche asciugamano. La donna era perfetta, risoluta nei suoi movimenti mentre scendeva in
cucina. Fece gli stessi movimenti di prima; si chiuse dentro, sigillò le fessure con nastro isolante e asciugamani arrotolati. Poi respirò un po’
di quell’aria finale e chiuse gli occhi. Per un istante pensò al vuoto definitivo in cui si sarebbe gettata per sempre, e poi saltò.
Aprì lo sportello del forno, le sembrò di ritornare a casa, come rientrare nella placenta di sua madre. Un luogo familiare, terribile. Appoggiò
sul ripiano un panno dove poter appoggiare la testa; poi aprì la manopola del gas e si inginocchiò. Sylvia per l’ultima volta respirò, ma in lei
non entrò aria. Entrarono come frecce veloci, tanti invisibili aculei a distruggerle il volto e la vita. Entrarono per l’ultima volta: il suo bel viso
già era ologramma. In quel momento in Sylvia ci fu un impercettibile movimento dell’anima, forse si sentì per un attimo in colpa e volle
ritrarre la testa dal forno, ma era troppo tardi. Era troppo tardi per i sensi di colpa, il viso di Sylvia già era sfigurato, il gas era ovunque e le
finestre erano serrate, lei si stava trasformando in fumo. Sylvia si sentiva perduta, come vestita di luce, e poi svanì ogni calore e la vita si
spense nel vento.
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Croce e delizia
di Jessy Simonini, IVG
Oggi il mondo è vedovo. Brillano sulla pianura le iridescenze sparse del cielo tutto azzurro; raggi e bagliori su questo mondo verde e giallo
attraversato da strade e canali, raggi e bagliori in mezzo all’aria di vetro del primo mattino, quand’è inverno e c’è una grande sfera di cristallo
che copre le cose. Brillano le iridescenze imprendibili anche nel cielo cittadino- torrefatto, si direbbe- con bagliori evanescenti che si perdono
in mezzo alle nuvole grigie e all’aria che sa di polvere. Com’è grigionero il mondo, com’è grigionero stamattina, mentre io gli volo sopra,
vedo case e palazzi e campi e poi le paludi infinite oltre i canali che s’aprono sulle valli e i piccoli villaggi- quattro case intorno ad un’aia- che
s’addossano sugli argini e intorno ai maceri. Eppure il cielo d’inverno è così bello, un cielo di vetro, con l’azzurro che diventa blu e bianco;
con le luci- le imprendibili luci che scintillano, piene di storie; con le auto che passano sulle strade, il movimento delle nuvole nel cielo, delle
gru nei cantieri, degli operai nelle fabbriche, c’è come un ronzio infinito prodotto dal movimento, dal lavoro delle persone. Un tempo, in
questa terra che mi sembra così meravigliosa, avevo la mia residenza; guardavo il paesaggio intorno a me e mi sembrava che tutto fosse così
famigliare e vicino. Ma poi è successo qualcosa che non riesco a spiegarmi, come se fossi stato esiliato: qualcosa si è spezzato e ho percepito la
caduta, una leggera caduta su un prato di foglie. Mi sono girato, e dietro di me non c’era nulla. Io stesso forse non c’ero, io stesso forse non
ero. La mia vita nel vento, dispersa lì, equilibrata in alto, in balia di correnti d’aria, fra le nuvole io volavo e guardavo in basso.
Una volta sognai che un anziano chiese al Profeta che cosa fosse la Colpa. E lui disse più o meno così:
La Colpa è un movimento dell’anima; al principio, è impercettibile come il risuonare della corda di un’arpa in una stanza gigantesca. Ma voi
siete come campane di vetro, e questo movimento impercettibile- corda d’arpa che vibra- si propaga fino a farvi tremare. Vorreste
nascondervi e liberarvi del fardello che portate con voi, ma non ci riuscite.
Talvolta, di questa colpa nemmeno vi accorgete. Un male interiore, invisibile, metastasi di giorni capovolti; e quando il male diventa
manifesto, vorreste che davanti a voi ci fosse una grande voragine luminosa, vorreste saltarci dentro, con gli occhi chiusi, abbagliati da tutta
quella luce artificiale.
Quando vi sentite in colpa, non rimaniate soli. E quando la Colpa vi abbandonerà, non dimenticatevene, perché essa è stata per voi causa di
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grande male.
Andò avanti a lungo quel profeta che si credeva così saggio: ma come tutti i profeti, era uno stolto. Come tutti i profeti parlava per immagini
che avevano un colore antico, imprendibile; immagini aliene a me.
La colpa è per me croce e delizia. Croce perché adesso sono qui a volare, perché quando mi sono girato per capire dove mi trovassi mi sono
accorto che non c’era nulla e che ero divenuto solo polvere, perché laggiù c’è un mondo che va veloce e che mi aspetta, ma io non posso
scendere giù in picchiata; c’è una forza che mi trascina verso l’alto e un’altra forza, di ugual vigore, che mi spinge verso il basso e allora io
rimango sospeso in aria, a un passo dalla vertigine. Croce perché la madre è ora un mucchio di stracci abbandonati sul letto, perduta nel buio,
il ventre pieno di farmaci che la abbattono lentamente, finalmente priva di scialbature. Nello specchio della stanza non c’è il mio riflesso, la
vedo alle mie spalle: stranamente piccola, scura fra le lenzuola, sola, una visione di spettro. La ricordavo più bella, com’era qualche settimana
fa, all’alba, sul ponte del ferry, coi capelli scompigliati dal vento e la voce decisa e forte di chi sembra abbia sempre così tanto da dire. Perché il
padre è sdraiato sul prato, vicino a una macchia densa d’alberi, e io gli scendo vicino ma non mi vede, nemmeno lui. Gli soffio sul volto e lui
apre gli occhi, forse ha sentito arrivargli sul volto una ventata di aria gelida e i brividi gli hanno percorso la schiena. Perché l’amico mi sta
aspettando da giorni e io non arrivo mai. Ho perso l’ultimo treno per raggiungerlo, mi ci sono invece messo sotto, ad un treno, in una notte
serena, stellata. La stazione era fra il nulla dei campi, in mezzo alla notte. Le luci erano accese e le porte scorrevoli sembravano bloccate. Stava
per passare un treno superveloce che avrebbe spostato l’aria, scuotendomi. Sono verticale, ma vorrei essere orizzontale . Ho attraversato la
banchina e sono sceso in basso, lentamente, con estrema attenzione, mi sono appoggiato sulle rotaie. L’Eurostar sarebbe arrivato in un
momento; lì non fermava nessun Eurostar, esso sarebbe andato diritto, verso sud, e io era là sotto, orizzontale. L’impatto è stato violento, ho
sentito qualcosa squarciarsi e volare oltre il binario, qualcos’altro rimanere impigliato sotto il treno. Il mio corpo era decomposto. Ma è stata
proprio quella la delizia della mia grande colpa. Ho abbandonato quel giorno il mondo e la vita, ho abbandonato quel giorno la madre, il
padre e l’amico; il mondo- mia residenza- è rimasto vedovo. Ma c’è stato un momento, appena prima che la vita volasse via, quando ancora
l’aria non era invasa da clangori e fischi, in cui ho capito che tutto stava andando bene e che la mia colpa in un istante sarebbe stata espiata. E
allora mi è venuta voglia di dire grazie, come già un poeta aveva fatto tanti anni prima, per certe albe della primavera del 1999; per il
momento che precede il risveglio; per i suoni della città che si sta addormentando, d’estate; per Gibran, che mi ha risvegliato; per i cieli
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azzurri di certe estati calde in cui il sole scioglie l’asfalto; per Bach, custode di un’oscura forma di vita; per certe domeniche d’inverno in cui
il tempo si deforma; per Pasolini, sotto i cui occhiali neri mi sono sempre chiesto cosa si nascondesse; ma soprattutto per il silenzio, riflesso
della felicità. E in quell’istante, mentre stavo pensando a lunghi e infiniti e caldi silenzi, sono entrato nell’abisso, volando via, fra tutto quel
rumore di ferro e carne spezzata. La colpa era in me, non vibrazione che mi faceva sussultare, non lento movimento della mia anima, non
pugnale conficcato nello stomaco, ma, piuttosto, imprevedibile e infinita liberazione. Ero libero, senza catene; molte parti del mio corpo
erano già lontane da me, c’era odore di carne viva e bruciata e io lentamente mi immergevo in tutto quel nero. Solo quello mi sembrava ci
fosse, solo il nero, nero e silenzio. Ma, salendo in alto, vidi la luce: la liberazione più grande fu forse vedere la marina aprirsi davanti ai miei
occhi; l’azzurro mi risvegliò e io fui davvero libero, davvero innocente. Altre, nuove, iridescenze lanciavano i loro bagliori su di me e la vita
proseguiva, così veloce e così imprevedibile.
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Memorie di un criminale
di Maria Sofia Dalla Verità, IIID
Mi sentivo le mani sporche. Sporche, come se non potessero mai più essere pulite. Le mie mani che fino al momento prima erano innocenti,
che fino a pochi attimi prima erano sempre state lodate per ciò che erano in grado di fare ora erano sporche e ciò che mi terrorizzava di più
era che non sapevo se avrei mai potuto rivederle nel modo in cui facevo prima.
Camminavo tra le gente senza sapere dove stavo andando esattamente. Più che altro barcollavo perché sentivo sulle spalle un peso enorme
che mi privava dell’equilibrio. Lo stesso peso che sentivo in gola e che più mi allontanavo più mi impediva di respirare. Respirare era sempre
stata la cosa più facile del mondo. Nessuno può insegnarti a farlo. Nasci e respiri. È naturale. Ora invece mi sembrava che fosse impossibile e
che attraverso il mio respiro irregolare e sconnesso tutti potessero accorgersi di quello che avevo fatto. Sempre senza alzare lo sguardo da
terra iniziai a correre. E non mi importava se sbattevo contro la gente, non mi importava se mi inciampavo e mi facevo male. La cosa più
importante in quel momento era allontanarsi, allontanarsi dal posto che avrebbe per sempre cambiato la mia vita.
Arrivato a casa corsi nella mia camera con le mie mani sporche e il mio macigno sulla schiena. Mi sdraiai nel letto e chiusi gli occhi come se
non vedendo le mie mani potessi rifugiarmi da ciò che avevo fatto. Ovviamente non era così. Non appena chiusi gli occhi rividi la scena mille
e mille volte nella mia testa. La prima volta dal mio punto di vista, le altre da angolazioni sempre nuove. Non appena riaprivo gli occhi
vedevo le mie mani sporche e il peso che neanche da sdraiato sembrava lasciarmi andare.
Mi alzai dal letto e non so quante volte mi feci la doccia. E continuavo a lavarmi e a sciacquarmi e a strofinarmi ma niente, rimanevo sporco.
Finché non caddi addormentato.
La mattina seguente mi alzai pensando di potermi lasciare alle spalle tutto quello che era successo e per pochi attimi fu così. Mi alzai e andai
in bagno. Mi guardai allo specchio. Effettivamente non molto era cambiato rispetto al giorno prima. La persona che rispondeva al mio
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sguardo stanco era la stessa banale, noiosa, brava persona che vedevo tutte le mattine. Forse se avessi finto che non fosse successo niente
anche gli altri mi avrebbero guardato allo stesso modo e non avrebbero mai dubitato di me.
Uscii di casa e come tutte le mattine salì sull’autobus.
Una signora seduta in fondo mi fissava, mi fissava come se sapesse tutto.
Mi girai dall’altra parte per non vederla ma… tutti mi guardavano come se sapessero!
Scesi dall’autobus e corsi il più velocemente possibile verso il luogo che ormai io definivo come “quello dell’incidente”.
Non appena fui davanti al negozio mi sentii rimbombare le orecchie,ma non mi importava. L’unico modo per far smettere quell’agonia era
affrontare il problema, non fuggire. Andai dritto verso il giusto reparto e in un lampo, affinché nessuno si accorgesse di ciò che avevo fatto,
rimisi a posto le caramelle.
Immediatamente mi sentii rinato, tutto era tornato come prima e io ero finalmente libero.
Avevo nove anni e quello era il mio primo crimine.
Pensai che dopo quell’esperienza non avrei mai più nella mia vita infranto la legge, per nessun motivo al mondo.
Non sapevo che in realtà era solo l’inizio.
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Colpa e vergogna: due semplici sentimenti-emozioni?
di Luca Cinelli, IIA
Il senso di colpa e la vergogna sono al centro di molte discussioni e dibattiti. Infatti è necessario fare maggiore chiarezza al riguardo di queste
due emozioni: cercando di rintracciare prima le cause e le situazioni in grado di provocarle, poi le differenze e i meccanismi che le regolano.
Innanzi tutto il senso di colpa e la vergogna possono essere differenziate in base a una dicotomia fondata su un diverso orientamento: un
atteggiamento più egocentrico, nella vergogna, più rivolto verso gli altri, invece, nel senso di colpa. Difatti la vergogna appare più focalizzata
su che cosa gli altri pensano di te, come quasi se un giudizio negativo degli altri possa prevalere su una autovalutazione di se stessi.
Di conseguenza la vergogna appare più rivolta alla valutazione di se da parte degli altri, in quanto le valutazioni negative degli altri conducono
a una valutazione più negativa di se stessi.
Al contrario il senso di colpa appare più decentrato: un atteggiamento negativo dell’individuo è visto separatamente da una propria
valutazione, è quindi tale da non comportare di conseguenza anche una valutazione negativa dell’individuo stesso. Quindi una persona che si
sente in colpa può con maggiore facilità concentrarsi sulle conseguenze della sua azione sugli altri e preoccuparsi per loro, perciò agisce più su
un livello morale.
Capita spesso di chiedersi se un qualsiasi sentimento, come lo può essere la rabbia o l’amore, sia buono o cattivo; ma in realtà i sentimenti
non possono essere giudicati, essi infatti non rispettano le leggi razionali e sono influenzati, a loro volta, da altri sentimenti. Il sentimento non
necessita come conseguenza l’azione: la persona gioiosa rallegra chi gli sta vicino, mentre una scontrosa viene evitata dagli altri pur non
facendo nulla. Dunque il senso di colpa, in particolare, si manifesta quando l’individuo collega ai sentimenti il nesso causale: bisogna che io
neghi la mia rabbia poiché altrimenti gli altri penseranno che io sono cattivo, in quanto solo i cattivi si arrabbiano. Quindi il senso di colpa si
genera dalla consapevolezza di come le nostre azioni possano essere giudicate dagli altri in maniera negativa. Perciò la premessa deve essere
che vergognarsi oppure sentirsi in colpa per una precisa azione o comportamento deplorevole non solo deve essere normali, ma anche
auspicabile; è però necessario che ciò non si sposti su emozioni e sentimenti provati in determinate circostanze e situazioni.
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Da non sottovalutare è l’importanza, fin dal principio, dell’educazione per evitare situazioni suddette. E’ fondamentale infatti che i bambini
imparino a comportarsi in pubblico in maniera adeguata, è un allenamento basilare per la loro vita sociale; ma quando la vergogna è attribuita
ai sentimenti e non alle azioni, si frantumano le fondamenta sulle quali è fondata una vita felice, ricca di equilibrio. Nell’individuo, quando la
vergogna opera a livello istintivo, il comportamento frequente è l’esibizionismo; l’esposizione tenta di controbilanciare il senso di vergogna.
E’ perciò necessario non criticare ripetutamente i sentimenti di un individuo e le sue pulsioni, altrimenti ciò lo trascinerà sempre più verso
un senso di colpa e di vergogna. Infatti il bambino in questa situazione si sentirà costretto a recitare un ruolo, mascherando quelli che sono i
suoi effettivi sentimenti ed emozioni. Sarebbe altrimenti costretto a portare una maschera, sformerebbe le sua spontaneità; e di conseguenza
il bambino si sentirà responsabile dei propri sentimenti più che del suo comportamento. E’ importante tuttavia evidenziare che nella vita
sociale il senso di responsabilità rappresenta un valore fondamentale, non si può vivere bene e tranquillamente con il prossimo senza un
adeguato senso di responsabilità. Ciò favorisce infatti l’aderenza con la realtà e la concretezza di una persona, il senso di colpa condiziona
l’individuo a vivere in modo astratto, preda delle sue illusioni.
Come si può allora mantenere elevato il senso di responsabilità, diminuendo il senso di colpa? Occorre che l’individuo riesca ad arrivare ad
una certezza assoluta: ovvero, si è responsabili delle proprie azioni e non dei propri sentimenti e non di giudicarli o, ancora peggio,
controllarli. Pertanto la funzione della razionalità è quella di controllare l’azione, e non il sentimento.
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Ma egli non era pentito del suo delitto
di Lorenzo Cimatti, IA
Valli di Comacchio. Sulla riva di un largo fiume deserto s’eleva una città, uno dei centri amministrativi della Pianura Padana ; nella città vi è
una fortezza, nella fortezza una prigione. In questa prigione è rinchiuso Mario, un uomo di ventiquattro anni, condannato ai lavori forzati.
Circa un anno e mezzo è trascorso dal giorno in cui egli commise il delitto. La procedura si svolse senza tante difficoltà. Il colpevole ripeté
con fermezza, con termini chiari e precisi, la sua deposizione, senza confondere le circostanze, senza attenuarle a proprio favore, senza
alterare i fatti né dimenticare il minimo particolare. Raccontò dal principio alla fine tutto il processo del delitto, chiarì il mistero del pegno
che era stato trovato in mano alla vecchia (un pezzo di legno unito ad una lamina di metallo)1; raccontò minutamente come avesse preso le
chiavi della vittima; descrisse quelle chiavi; descrisse il baule e la roba che vi era dentro.
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Era malato già da molto tempo; ma le sue forze non erano state fiaccate dagli orrori della prigionia, né dal greve lavoro, né dalla fame, né
dall’umiliazione di avere il capo raso e l’abito a brandelli: oh, che gli importava di tutti quei patimenti!! Le fatiche non gli dispiacevano: la
spossatezza fisica gli procurava almeno due ore di sonno tranquillo. E che significava il cibo per lui, quella zuppa di cavoli insipida con gli
scarafaggi? Quand’era studente sarebbe stato lieto di poterla mangiare! Il suo abito era caldo e adatto al suo genere di vita. Il peso dei ferri
non lo sentiva neppure. Aveva da vergognarsi della sua testa rasa e della casacca a righe? Ma davanti a chi? Davanti a sua madre. A sua madre
egli incuteva timore; davanti a lei come poteva vergognarsi?
Sì, egli si vergognava anche davanti a sua madre e perciò la faceva soffrire con i suoi modi sgarbati e sprezzanti. Non si vergognava della sua
testa rasa e dei ferri: il suo orgoglio era stato gravemente ferito; quella ferita al suo orgoglio aveva causato la sua malattia. Oh, come sarebbe
stato felice se avesse potuto sentirsi colpevole! Avrebbe allora sopportato tutto, anche la vergogna, anche il disonore. Ma, sottoposta ad un
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Si tratta del pacchetto, avvolto maldestramente, in cui Mario aveva finto ci fosse un portasigarette d’argento. Era un pretesto con cui egli si era introdotto nella casa della vecchia usuraria per
portare a compimento il suo progetto delittuoso
esame severissimo, la propria coscienza, non aveva scoperto nel suo passato nessuna colpa specialmente orrenda, all’infuori del suo
fallimento, cosa che poteva accadere a chiunque. Si vergognava appunto, perché lui, Mario, s’era perduto2 , e in un modo tanto oscuro e
sciocco per un decreto del cieco destino e doveva rassegnarsi, assoggettarsi alla “assurdità”di quel decreto se voleva ritrovare un po’ di calma.
Un’inquietante senza oggetto e senza scopo nel presente, un sacrificio continuo e sterile nell’avvenire, null’altro gli rimaneva su questa terra.
Era una magra consolazione il pensiero che, di lì a otto anni, egli ne avrebbe avuti soltanto trentadue e avrebbe potuto ricominciare la vita.
Perché doveva vivere? Che cosa aveva davanti a sé? Verso quale oggetto doveva tendere? Quale scopo proporsi? Vivere per esistere? Mille
volte, negli anni passati, per un’idea, per una speranza, anche per un capriccio, la sua esistenza l’avrebbe data senza discutere. Della pura e
semplice esistenza egli aveva fatto sempre poco caso, aveva sempre voluto di più forse soltanto per la forza dei suoi desideri egli si era allora
stimato un uomo che avesse più diritti degli altri. E se almeno la sorte gli avesse donato il pentimento, il pentimento che brucia, che spezza il
cuore, che scaccia il sonno, uno di quei pentimenti che spinge l’uomo a impiccarsi o ad annegarsi! Con quanta gioia l’avrebbe accolto!
Tormenti, lacrime.. anch’essi sono una manifestazione di vita. Ma egli non era pentito del suo delitto. Almeno avrebbe potuto prendersela
con la propria sciocchezza, come già se l’era presa con l’insulso e stupido comportamento 3 che l’aveva condotto in prigione. Ma ora che era
in prigione4 e libero, aveva di nuovo esaminato tutti i suoi atti precedenti e non gli erano parsi sciocchi e insulsi come allora in quel fatale
periodo.
“In che cosa, in che cosa”, pensava “la mia idea era più sciocca delle altre idee che pullulano, che si scontravano scambievolmente nel mondo,
da quando il mondo esiste? Basta considerare la cosa con uno sguardo largo, indipendente, libero dai pregiudizi dell’epoca, e allora, certo, la
mia idea non apparirà più tanto strana. E perché la mia azione sembra tanto mostruosa?” diceva a se stesso.
“Perché è un delitto? Che significa la parola delitto? La mia coscienza è tranquilla. Certo è stato commesso un atto illecito, è stata violata la
legge, prendetevi la mia testa e non se ne parli più, ma io non mi sento in colpa.” Egli si attribuiva un unico torto: quello di non aver saputo
sopportare il peso del proprio delitto e d’essere andato a costituirsi. Lo tormentava anche un altro pensiero: perché non s’era ucciso allora?
Perché dopo essersi fermato a guardare il fiume, aveva preferito costituirsi? Possibile che ci fosse tanta forza in quel desiderio di vivere e che
fosse così difficile vincerlo? Lo aveva pur vinto Mario, che aveva paura della morte! Soffriva! Ma quella volta mentre pensava al suicidio, non
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Il protagonista si riferisce ai frangenti che lo avevano costretto a costituirsi.
Mario giudica sciocchi e stupidi i problemi e le ansie per cui si è autodenunciato.
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Liberato dai dubbi e problemi relativi alla decisione di costituirsi.
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si rendeva ancora conto che alle sue spalle c’era sua madre che lo aspettava e che era pronta a perdonarlo, ma soprattutto c’era una donna che
sperava che suo figlio avrebbe cambiato vita e che si sarebbe svegliato da quell’ “incubo”.
Ma ora incomincia una nuova storia.
Pensava a lei. Ricordò quanto l’avesse tormentata, quanto le avesse straziato il cuore. Ricordò il suo viso pallido, magrolino, rugoso, afflitto e
freddo, ma ora quei ricordi non lo rattristavano più: sapeva con quale infinito amore avrebbe ora riscattato tutte le sofferenze di sua madre.
E che cosa erano poi tutte quelle pene del passato? Tutto, anche il suo delitto, anche la sua condanna e l’esilio gli sembravano ora, nella gioia
del ritorno alla vita, un fatto esteriore, estraneo, un fatto accaduto a un altro. Quella sera del resto, non poteva pensare a lungo alla stessa
cosa, non poteva concentrarsi in nessun pensiero, ora non era in grado di risolvere coscientemente nessun problema: pensava soltanto a lei.
Sotto il letto della sua cella c’era il Vangelo. Lo prese. Quel libro apparteneva a sua madre. Nei primi tempi della prigionia egli aveva creduto
ch’ella lo avrebbe tormentato con la religione, che gli avrebbe continuamente parlato del Vangelo, che gli avrebbe imposto dei libri. Ma, con
sommo stupore, ella non aveva mai iniziato certi discorsi, neppure una volta gli aveva offerto il Vangelo.
Egli stesso gliel’aveva chiesto poco prima d’ammalarsi ed ella gliel’aveva portato senza dir nulla. Fino allora non l’aveva neanche aperto. Non
l’aprì neanche allora, ma un pensiero balenò in lui: “Sarò in grado di aprire questo libro? Che cosa ci sarà scritto di così tanto importante
all’interno?”
Mario lo sapeva benissimo che cosa c’era scritto all’interno di quelle pagine ingiallite: aveva paura, tanta paura di ricominciare.
Ma ora comincia una nuova storia, la storia del graduale rinnovamento di un uomo, la storia della sua graduale rigenerazione. Dl suo graduale
passaggio da un mondo in un altro, dei suoi progressi della conoscenza di una nuova realtà, fino allora completamente ignorata.
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di Filippo Sanguettoli, IIID
Massimo ha poche passioni nella vita. Anzi ne ha solo 2: disegnare, e giocare ai videogiochi. E non fa altro tutto il giorno: disegni e
videogiochi, playstation e matite. Massimo ha 9 anni, e quindi ha molto tempo libero e poche alternative; i suoi passatempi si possono fare
bene da soli, senza l’aiuto di nessuno, perché tanto, se anche lo volesse, non avrebbe comunque nessuno che possa giocare con lui. In quella
grande casa dai colori spenti, c’è sempre silenzio: l’unico rumore è il russare del nonno dalla propria stanza, che dorme, e l’acqua che scende
nel lavello mentre la nonna lava i piatti. In particolare a Massimo danno fastidio i colori di casa sua, sono proprio brutti e lo mettono a
disagio, in un modo che non sa ben spiegare. In realtà, se Massimo non avesse 9 anni, direbbe che quei colori sono tetri, che l’atmosfera è
funerea, l’ambiente quasi ostile. Ma un bimbo di 9 anni non è che conosca tutte queste parole difficili, pertanto le riassume tutte in un
generoso “brutto”, che nella sua semplicità assume un significato ancora più terribile. Perché se una cosa è tetra, funerea, arcigna, cupa,
sgradevole, è comunque una cosa che ha una sfumatura, che possiede una caratterizzazione. Ma se una cosa è brutta, specie del brutto di un
bambino, allora assume in sé ogni significato possibile, anche quelli non esprimibili a parole, e sprofonda in un abisso cupo che divora ogni
luce.
Proprio per questo, Massimo fa sempre dei disegni spenti, usando colori cinerei, come quelli con i quali dipingerebbe la sua casa, la sua vita.
In questo momento sta disegnando il suo cane, Tobia, un bastardino vivace e giocherellone, il preferito della nonna. Infatti è lei che lo
interrompe, esclamando: “ stai disegnando il mio amore! Ma che bel disegno che fai alla tua nonna!”, poi gli scompiglia i capelli e lo guarda
muovere la mano sul foglio, in silenzio. Massimo si sente un po’ a disagio, prova una sensazione viscida proprio in mezzo al petto, alla quale
non sa dare bene un nome. In realtà il disegno lui non lo stava facendo per la nonna, lo faceva per darlo alla maestra di arte, quella giovane
con gli occhialini leopardati, che gli faceva sempre i complimenti. Perciò il sentire che la nonna si aspettava di ricevere il disegno gli aveva
dato fastidio, lo aveva fatto sentire un poco colpevole, anche se di cosa? Lui alla nonna non negava mai niente, aveva solo voluto farsi dire “
bravo” dalla signorina Chiara, tutto qua. Il fatto è che la nonna pensava che tutto ciò che lui faceva fosse per lei, lei sola, e lo presentava come
una cosa così naturale e giusta che a Massimo pareva di sbagliare quando non si comportava di conseguenza. “ Bravo il mio ometto, come sei
bravo! Forza, dai un bacino alla nonna”. Ecco, già si era sporta e la guancia si avvicinava al viso di Massimo, anzi, già era li, come a dire “
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baciami!”. E allora, un poco riluttante, la bocca del bimbo si muoveva e dava un tenero bacino a quella guancia rugosa, un timido bacetto
veloce. Ma quella riluttanza scatenava di nuovo in lui quel lento strisciare nel petto, quella colpa sibilante. Perché non aveva voluto dare il
bacino alla nonna, subito, senza esitazioni? In quei momenti accadeva qualcosa di oscuro, dentro di lui, ma così velocemente che non avrebbe
saputo descriverlo; se avesse voluto non avrebbe potuto dirlo nemmeno a sé stesso. Gli pareva di essere sempre debitore nei confronti della
nonna, ma perché? Perché? La risposta c’era, e lui la sapeva, ma non voleva pensarci, non voleva nemmeno sfiorarla con la mente. Forse
che… insomma, la mamma non lo aveva mica voluto, e il papà non c’era mai.. alla fine era la nonna l’unica che gli voleva bene, che non se
ne era andata… perché quindi non agire di conseguenza, accordandole senza remore quella piccola ricompensa?
Noi sappiamo, perché lo abbiamo sentito da qualche voce passeggera, che la mamma di Massimo era una di quelle persone fragili che
riversano i loro dubbi e i bisogni nella droga, e da essa dipendono come il bimbo che si nutre al seno materno, perché solo da essa ricevono le
due cose che più sono care ad un animo tormentato: piacere ed oblio.
Pertanto non avrebbe certo potuto occuparsi di un bimbo, per giunta nato così, all’improvviso, da una relazione con un tizio ubriaco che
nemmeno conosceva. E così Massimo la madre non l’aveva mai vista, e vedeva il padre nei rari momenti in cui era sobrio. Ma pare sia
impossibile dimenticare del tutto l’immagine materna, anche se la madre la si è vista solo per pochi minuti al momento del parto. Perché la
madre è vita, è il sicuro rifugio del neonato, è il bimbo stesso, nato dalla sua carne e cresciuto nel suo grembo. E quindi questo fatto
dell’abbandono proprio al piccolo Massi non andava giù, proprio gli diceva : “ ti ha rifiutato! Solo un bimbo brutto e cattivo come te poteva
essere scartato dai genitori, si, scartato!” Come eliminare questo sibilante sussurro, questa melliflua melodia della colpa? E da essa ne nasceva
appunto un’altra, più subdola: la viscida sensazione dell’essere sempre in debito con la nonna, che almeno lo coccolava e lo riempiva di
cioccolatini, ninnolini, giocattolini, e pensierini. Tutti “–ini”. Piccole cosine per il suo “ometto”, quella parola che lei tanto spesso
pronunciava senza accorgersi del suo terribile significato: perché, si, ometto è una parola torbida, un malefico ossimoro. Un ometto è un
mezzo uomo, un bimbo che è cresciuto troppo o un uomo cresciuto troppo poco, e Massimo era tutti e due, cresciuto dal dolore e frenato
dall’esuberante amore simil-materno, ma purtroppo di nonna.
Perché i figli sono una cosa complicata, non li si cresce coi giocattolini e i bacini, specie quelli che non vorrebbero dare. Li si cresce in altri
modi, imperscrutabili forse ai più, ma non al tenero occhio della madre, che sempre capisce il bisogno del figlio. Ma la nonna, e il nome lo
dice con chiarezza, non è una mamma, è, appunto, una nonna. E la signora Serena, che tanto aveva sbagliato col proprio figlio, che ora
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cercava quell’amore mancato nel pozzo senza fondo che è il collo di una bottiglia, ora pensava di comportarsi bene circondando di
stucchevole affetto il nipote.
Ma ecco il campanello che suona, il cane che abbaia, “ chi è?” ah, niente, è il solito postino.
Il cane continua ad abbaiare, e subito interviene la voce zuccherosa a dire “ amore mio! Fai il bravo, dai, che la nonna ti dà il biscottino”. E
così fa, mollando nella ciotola un pezzo della sua inesauribile disponibilità ad amare, che è cosa ben diversa dall’amore.
E Massimo la guarda, e la sente, la sente bene. Ed in quell’istante si sente avvolto da spire gelide, che lo trascinano sempre più a fondo, dove
non c’è luce, nel profondo della terra, al buio. Solo.
Perché in quell’istante Massi capisce l’atroce verità, realizza qualcosa di terribile: ma come quei pensieri che ci sfiorano e poi sfuggono,
schernendoci, così anche quell’assoluta realizzazione svanì, lasciando dietro di sé solo un amaro sapore.
Poco dopo, il disegno è finito, e la nonna lo appende in cucina, insieme agli altri. Ma questo dagli altri è diverso, ha qualcosa in più: ha una
scritta, una scritta strana: A B B X A
La nonna ovviamente non capisce, ma noi che siamo avvezzi a svaghi video ludici intuiamo a cosa si riferisca questo monito. Allora
accendiamo la console e ci mettiamo a giocare al gioco preferito di Massimo, quello di lotta, e spingiamo questi tasti. E allora vediamo il
nostro personaggio che prende l’avversario, lo colpisce ed infine lo sgozza. Nel gioco non c’è sangue, ma noi lo possiamo immaginare: il
sangue di un delitto immaginato ma non compiuto, di un delitto verso il povero Tobia, senza colpa, se non quella di essere amato con le
stesse parole che la nonna a tutti rivolge, anche al nipote.
C’è chi dice che nell’uccidere Abele Caino avrebbe voluto uccidere Dio, che lo aveva amato diversamente solo perché il suo sacrificio era
fatto di misere erbe.
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Qua un occhio attento vedrebbe il contrario: nell’uccidere Tobia, Massimo avrebbe sì voluto uccidere la nonna, ma poiché lo aveva amato
allo stesso modo.
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Colpa e vergogna
di Stefano Mincione, IIA
Prima di fare un discorso complessivo sulle varie connessioni fra queste due sensazioni, vorrei esaminarle una alla volta, per capire in che
contesto e grazie a che cosa i meccanismi sia di colpa sia di vergogna si azionano.
A mio parere la colpa nasce dalla civiltà in cui viviamo e dalla cultura della quale siamo inondati sin da piccoli. Basta pensare anche solo alla
sfera religiosa. In un occidente oramai scristianizzato quasi nel suo totale, una bestemmia o una blasfemia non suscitano senso di colpa in colui
che l’ha espresse, anzi molte volte vengono viste come l’unica valvola di sfogo. Mentre nei paesi arabi, se solo mostri di appartenere ad
un’altra religione, rischi la morte, poiché la tua colpa è quella di aver mancato di rispetto ad Allah, manifestandogli la tua infedeltà al suo
culto. Questi sono esempi forse eccessivi ma penso emblematici per far risaltare meglio il collegamento fra colpa e cultura. In pratica, ci
sentiamo in colpa solo se una nostra sensazione, pulsione o idea va contro ai prinicipi che ci hanno inculcato fin dalla primissima infanzia, e
che ci accompagneranno fino alla morte. Se manchiamo a questi principi, la vergogna incalza la nostra mente, dando manforte al senso di
colpa. Se il senso di colpa ci fa ragionare sull’accaduto paragonandolo alla cultura insegnata, la vergogna fa il “lavoro sporco” di obbligarci a
porre rimedio allo sbaglio commesso. Una persona prova vergogna dopo aver riconosciuto le proprie colpe e tramite questa sensazione cerca
disperatamente un modo di dare fine al travaglio interiore suscitato da quest’ultima. La vergogna in alcuni casi però può essere talmente
elevata, talmente pungente, da trasformarsi in un disturbo emotivo, come nel caso di Dave nel film Mystic River di Clint Eastwood. Se
pensiamo alla sua storia, ossia quella di un bambino violentato da due finti poliziotti, non capiamo i motivi che lo spingono a sentirsi in colpa,
ma se si scava affondo, affiora una prima motivazione, ovvero che la violenza sessuale da lui subita potesse avergli anche procurato piacere.
Quindi un senso di colpa enorme se rispecchiato alla società statunitense degli anni settanta, dove l’omofobia era quasi a pari passi con il
razzismo, di rimando questo senso di colpa ha provocato in lui vergogna, che è esplosa non appena ha provato desideri sessuali verso la figlia
del suo migliore amico d’infanzia nonché cognato Jimmy.
E allora c’è poco da meravigliarsi se ammette l’omicidio di Katie, la figlia di Jimmy, anche se non commesso da lui. Questa vergogna lo
distrugge e non riuscendo a trovare alcun appiglio per combattere questa sensazione, vede la morte come unica via di fuga dalla sua
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situazione, accettandola con serena consapevolezza.
Quindi tirando le somme, la colpa è la mente, e la vergogna il braccio. Se la prima, facendo paragoni alla cultura di appartenenza, inizia a far
pensare al soggetto coinvolto in queste sensazioni un disturbo interiore, la vergogna lo spinge a cercare soluzioni per far cessare questo
disturbo interiore, e in taluni casi, queste decisioni posso anch’essere drastiche.
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di Chiara Veronesi, IA
16 Marzo 2005
Cara Mamma,
chi ti scrive è tua figlia, tua figlia non desiderata, colei che non avresti mai partorito se non fossi stata costretta dai tuoi genitori.
Il motivo per cui ti sto scrivendo è quello di chiederti scusa. Chiederti scusa per i dolori e le sofferenze che hai dovuto subire a causa mia,
chiederti scusa per i progetti che non sei riuscita a portare a termine a seguito della mia nascita, ma soprattutto chiederti scusa perché sono
venuta al mondo.
Tre settimane fa ho scoperto che tu non mi avresti mai voluta far nascere, ma dopo le insistenti prediche dei tuoi genitori avevi ceduto e avevi
deciso di non abortire. Sul momento ero molto adirata con te perché mi apparivi un’egoista che aveva deciso di tenere sua figlia per non
dover subire un intervento peraltro molto costoso, poi però ho cominciato a pensare che il tuo gesto fosse stato un segno di benevolenza
verso di me.
Tu mi avevi dato la vita ed io come avevo contraccambiato? Rovinandoti per sempre l’esistenza.
Tutti i giorni prego di non essere mai nata; mi sento in colpa! Se io non ci fossi stata la tua vita sarebbe stata di certo migliore.
Il senso di colpa che provo non mi lascia vivere, mi distrugge ogni giorno sempre di più. Penso di stare diventando un’ automa: svolgo le
funzioni vitali senza accorgermene. Ogni giorno che passa è uguale all’altro, non ho uno scopo di vita.
Per questo ho deciso di andarmene, in modo che tu possa vivere la tua vita senza un peso continuo, senza di me. Prima di lasciarti desidero
ricordarti alcuni momenti che resteranno per sempre nel mio cuore anche se esso presto smetterà di battere.
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Era una sera di ottobre quando avevi deciso di andare a teatro con tutta la famiglia. Era tutto già organizzato, i biglietti erano già stati
comprati e stavamo per uscire quando io improvvisamente mi sentii molto male; divenni pallida e fui sul punto di svenire. Tu niente affatto
preoccupata per me ma soltanto per la tua serata, chiamasti la nonna per chiederle di rimanere a casa con me. Da lì in avanti mi hai ripetuto
molte volte che secondo te era tutta una farsa per non dover andare a teatro. Non so se fosse stata davvero una messa in scena, so solo che
ben presto a furia di sentirmelo ripetere un centinaio di volte mi convinsi che dovesse essere proprio così.
Un altro giorno ricordo che il nonno era tornato a casa con una bambola per me. Non avevo ancora cominciato a scartarla dal pacchetto in cui
era contenuta che tu arrivasti e me la strappasti di mano dicendo che ne avevo già moltissime e non dovevo diventare una bambina viziata.
Così il giorno dopo la regalasti a mia cugina che di bambole ne aveva una casa piena. Mi infuriai a tal punto che non ti parlai per
un’
intera settimana. Non so se te lo ricordi perché che io ci fossi o no a te importava il giusto.
Nella mia memoria è rimasto inoltre vivo il ricordo delle tue sfuriate con il mio “ presunto padre”, il quale non avrebbe voluto che tu mi
mettessi al mondo. Io non lo vedevo quasi mai, ma nelle rare occasioni in cui veniva a trovarci aveva sempre qualcosa da ridire su come tu mi
stavi allevando e su come mi trattavi. Secondo lui tu mi trattavi come una “reginetta” e mi viziavi troppo. Tu in risposta urlavi contro di lui e
gli davi dell’egoista e del menefreghista in quanto nel momento in cui io nacqui lui scappò di casa e tornò solamente dieci anni dopo quando
io ero già una ragazza. Io in quei momenti, spaventata dalle vostre liti, mi rintanavo in camera e cominciavo a piangere. Mi sentivo
terribilmente in colpa!
Da quel giorno cominciai ad interrogare me stessa su cosa avrei dovuto fare per alleviare le tue sofferenze e dopo poco iniziai a credere che se
io non fossi mai venuta al mondo tu ne avresti sicuramente tratto beneficio e magari non avresti mai litigato con tuo marito al quale avevi
chiesto il divorzio. Sono spaventata e indifesa ma pronta a compiere il gesto estremo.
Cara mamma,quando leggerai questa lettera, io non ci sarò più. Me ne sarò andata per sempre in modo che tu possa trascorrere la vita che
hai sempre desiderato. Addio.
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La figlia che non hai mai voluto
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La coscienza di Laura
di Elisa Campanini, IV N
Nacque in una fresca giornata di primavera, nell’unico ospedale di cui disponeva il paesino dove avrebbe trascorso l’infanzia, sciatto e
semivuoto.
Il tepore estivo che la sorprese nei primi mesi di vita, unitamente all’amore dei genitori, concorsero a formarne il temperamento dolce ed
entusiasta che tanto le ammiravano e le invidiavano i compagni di scuola.
Laura crebbe forte, piena di vita e fiduciosa, nella terra – almeno ai suoi occhi - migliore del mondo: la Calabria.
All’età di sei anni, già curiosava per le strade con gli amichetti, si appassionava ai minimi particolari: alle rondini, alte e imprendibili, alle
sfumature di quel mare che si perdeva all’orizzonte, sfiorando tutte le tonalità di azzurro, allo struggente profumo delle ginestre, del
biancospino e dei fiori d’arancio.
La madre, Rosaria, negli occhi della sua bimba vedeva il riflesso della donna che avrebbe voluto che fosse. Cominciò allora, fin da subito, a
infonderle le conoscenze che esperienza e tradizione le avevano insegnato. Da cattolica praticante, di una fede che sfiora la superstizione,
accompagnava la figlia a messa ogni domenica, sforzandosi di iniziarla alla Chiesa ed alle rigide e talvolta assurde regole da quest’ultima
imposte.
Diligentemente, Laura si sedeva sulla panca tentando di non addormentarsi durante i lunghi e noiosissimi sermoni del prete di paese,
osservando le assidue vecchiette che, sulla sinistra, erano solite scuotere il ventaglio d’estate ed avvolgersi nello scialle d’inverno.
Sebbene lo giudicasse uno spreco di tempo, fingeva di apprezzare le ore pomeridiane dedicate al catechismo, per non deludere mamma
Rosaria, ed al ritorno, correndo ad abbracciarla, le raccontava con apparente entusiasmo gli argomenti trattati.
Quel prete con il naso lungo, la voce rauca ed un foruncolo marrone sulla guancia, per la verità, le incuteva un leggero timore; Laura
ascoltava i suoi discorsi prolissi quasi in apnea, nell’attesa che il fetore del suo alito si diluisse con l’aria.
Il padre, uomo di poche parole e scarsa cultura, non era che un pescatore. Portava con dignità e rassegnazione le profonde rughe che gli
solcavano il volto bruciato dalla salsedine, le cicatrici su mani e avambracci e la stanchezza che cresceva con gli sforzi e gli anni. Osservava la
figlia con orgoglio, limitandosi a donarle i suoi sorrisi assenti e talvolta qualche bambola di pezza che la fantasia fanciullesca di Laura
provvedeva a rendere una principessa.
Se da piccola era da tutti ritenuta “una bella bambina”, con l’avvento della pubertà, nel fiore degli anni, Laura era splendida, poiché possedeva
per sua natura due virtù quasi antitetiche: la travolgente bellezza e l’ingenua spontaneità.
Il percorso di studi che scelse fu di tipo classico, assecondando l’innata vocazione per le lettere e la poesia che la madre non capiva ma
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approvava. Ogni mattina si recava a scuola serena. Mai ricordo di averla sentita lamentare un brutto voto o un’ingiustizia subita, mai ho
percepito nelle sue parole una nota di insofferenza verso alcun professore.
Pur essendo più matura dei compagni di classe, era capace di un umorismo fresco e vivace: socializzava con loro volentieri e si rendeva
disponibile ad uscire e ad organizzare feste casalinghe, che di solito ravvivava danzando con i più timidi.
Eppure, a dispetto dell’apparente esuberanza e dell’età, Laura non si era mai interessata ai ragazzi ed anche se non le mancavano i
corteggiatori, preferiva, per tranquillità propria o per influenza materna, restarne lontana ed evitare di concedere loro troppa confidenza.
E’ stato così per mesi. Per anni.
Scommetto che la serenità immacolata di Laura si sarebbe mantenuta per sempre, se non fosse stato per quello sguardo insolito che quel
misterioso nuovo arrivato le rivolse una sera di settembre.
Era da qualche settimana che aleggiava nell’aria il sapore della novità, che avrebbe stravolto, come così di rado accadeva, gli equilibri ormai
consolidati del paesino. Si diceva, e i pettegolezzi delle ragazzine confermavano la notizia, che una nuova famiglia proveniente da chissà dove
si sarebbe stabilita nella casa vuota. Quella vicino alla scuola, nel vicolo che affaccia sul mare.
Laura non aveva l’impellente bisogno di vedere l’adolescente che presto sarebbe stato il suo vicino, che sembrava invece assillare le amiche.
Non le importava chi fosse, né tantomeno il motivo di un trasferimento da quelle parti. Non se ne curava, ecco tutto.
Era arrivato da qualche giorno, Michele, ma ancora nessuno aveva avuto il piacere di conoscerlo.
Amava stare solo ed aveva nostalgia dei profumi di casa. Usciva quasi solo la sera, per sgranchirsi le gambe e per accontentare Max, un setter
rosso dal manto lucido e pulito, sempre desideroso di passeggiare. Se per caso, benché li evitasse, incontrava qualche compaesano per la
strada lo ignorava, nonostante le occhiate incuriosite ed insistenti della gente, ansiosa di conoscerlo.
Solo Laura, la sera del 3 settembre se ben ricordo, riuscì a catturare la sua attenzione: Michele ne notò i capelli, lunghi e sciolti che le
lasciavano visibile il collo, la pelle delicata dalla carnagione stranamente pallida, gli occhi grandi e sinceri. Il cuore prese a palpitargli.
E Laura, per parte sua, si sorprese a fissarlo, soffermandosi sullo sguardo profondo, vagamente familiare, velato da una nota di malinconia che
emanavano quegli occhi scuri e magnetici; esaminando l’espressione interdetta e confusa dello sconosciuto ed il modo di avanzare, l’andatura
leggermente dinoccolata, si intenerì e sorrise...
Oggi Laura si trova a gambe incrociate su di uno scoglio, la sciarpa panna la protegge dal freddo, un guanto sfilato le permette di assaporare il
gusto mortale di una sigaretta. Ascolta distratta una canzone a caso, con le cuffie alle orecchie e la speranza che quel suono le perfori il
cervello. Non la sente, la voce del vento che le accarezza i capelli, non si accorge dello sciabordio regolare delle onde che, infrangendosi, le
bagnano il viso. Nella mente ha un solo pensiero, che si amplifica ogni minuto tormentandola. E’ passato ormai parecchio tempo da
quell’incontro maledetto, e dal gesto incriminante che ne è seguito, gesto che Laura, talvolta, nasconde persino a se stessa. Il dolore per il
peccato commesso è tale che, per non cadere in ostaggio degli interminabili e perversi cicli della colpa, ella cerca sempre nuove occupazioni
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che la distolgano dal passato, giusto per concedersi un momento di pausa, di quel silenzio vuoto che allora non sopportava e che oggi le dà
sollievo. Partecipa svogliatamente a tutto ciò che stimola la mente, poiché assopirla è l’unico modo per sopravvivere. E’ conscia che se lo
scoprisse la madre ne sarebbe delusa e ferita. Il padre non potrebbe più guardarla e, adirato, non penserebbe più a lei come ad una figlia. Ma
non è la consapevolezza di non aver soddisfatto le aspettative dei genitori ad attanagliarla, quanto più la vergogna verso quel Dio giudice e
severo, che perdona solo i puri d’animo, l’unico a cui nulla può essere celato, l’unico a conoscenza del suo segreto inconfessabile.
Negli occhi spenti di Laura, la luce che ardeva ieri oggi agonizza, a testimoniare il continuo conflitto tra desiderio e colpa, tra piacere e
peccato. Unico indice esterno di sofferenza, la costante presenza, ben stretta fra le mani, di una vecchia bambolina di pezza e di un rosario di
latta ricevuto in dono per la festa della prima comunione. Due oggetti, questi, rappresentanti per Laura il ricordo di un’ infanzia serena ed il
richiamo della coscienza.
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