Concerto a due voci nella pittura italiana contemporanea

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Concerto a due voci nella pittura italiana contemporanea
n° 325 - maggio 2006
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Direttore Responsabile Lucia Aleotti - Redazione, corrispondenza: «Minuti» Via Sette Santi n.1 - 50131 Firenze - www.fondazione-menarini.it
Concerto a due voci
nella pittura italiana contemporanea
Dopo la positiva esperienza
di Action Painting: arte americana 1940-1970, Modena prosegue nel proprio
percorso espositivo con una
nuova mostra, Informale.
Jean Dubuffet e l’arte europea 1945-1970 che si è tenuta recentemente presso
il Foro Boario. Curata da
Luca Massimo Barbero, la
mostra si avvale di un corposo catalogo edito da
Skira.
Il mio intento, qui, non è
quello di recensire la mostra. Per questo scopo, occorrerebbe scendere in snodi
che non furono solo di natura artistica, ma che ebbero legami profondi con
la storia del tempo, con le
ideologie politiche, con i
partiti e i movimenti di
sinistra, con l’ansia per il
pericolo incombente della
bomba atomica, ma soprattutto, forse, con il desiderio collettivo, generazionale, di lasciarsi alle
spalle i freschi orrori della
guerra e vivere, in modo
consapevole e spesso con
un uso già smaliziato dei
mass-media, un’avventura
che si riconnettesse a climi,
utopie, conseguimenti delle
avanguardie storiche.
Una materia vasta, come
si vede, e sfuggente. Basterà, per dare una notizia
indispensabile a quanti
non hanno visitato la mostra, dire che essa ha presentato un’ampia selezione
di opere provenienti dalla
Collezione del Guggenheim Museum di Venezia,
e aggiungere che Peggy
Guggenheim fu molto di
più di una collezionista:
fu una testimone, una
musa, una presenza alla
quale molti artisti guardarono con fiducia, nella
speranza di coinvolgerla
in una stagione creativa
che creò uno spartiacque
preciso tanto in Europa
quanto negli Stati Uniti.
Per fortuna, la mostra e il
faraonico catalogo non si
fermano a Dubuffet, pittore valido nell’idea, nell’aspetto culturale dell’arte,
ma di gran lunga più debole nelle opere; né si fa
fagocitare da Tapiés, fin
troppo presente, negli ultimi anni, nello spettro di
proposte dei musei consacrati alla ricognizione storico-filologica del ‘900.
Fra i numerosi aspetti che
potrebbero fornire spunti
per un intervento critico,
ce n’è uno che mi sembra,
per così dire, sollecitato,
anzi meglio: imposto, dal
nostro tempo.
Gli anni dell’Informale,
ovvero della ricerca di
un’arte spogliata dai lacci
inibitori della forma, e
quindi in grado di esprimere l’inesprimibile, il
pulsante lavoro dell’inconscio, come pure la coscienza
vigile di un tempo storico
e di una posizione sociale,
sono abitati dal costante
franare del concetto di unità
dell’arte.
La pittura e la scultura vengono progressivamente sostituite, fagocitate, dal gesto, dall’azione, dall’opera
destinata a vivere come occupazione di uno spazio
pensato per altri scopi.
Tancredi Parmeggiani: Paesaggio nello spazio - Venezia, Collezione Peggy Guggenheim
Edmondo Bacci: Avvenimento - Venezia, Collezione Peggy Guggenheim
Il periodo che accompagna l’Informale, in Italia,
è preceduto dai fremiti antifascisti di Corrente, esplode
in opere come quelle di
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Turcato e Vedova, sconfina nel disperato nichilismo di Piero Manzoni.
Dunque, a fianco e dentro
l’Informale, si coglie il processo degenerativo dell’arte, che in nome del rifiuto del mercato e del presunto sfruttamento borghese dell’opera, si sfarina
in un’arte senza centro né
sacralità, che paradossalmente ha potuto occupare
i musei del mondo e sconcertare il pubblico con la
regia sapiente e spesso cinica dei mezzi di comunicazione di massa.
Mentre questo processo si
andava definendo, a Venezia si muoveva un pittore
puro, che lavorava con il
colore e per il colore, rifiutando di farsi risucchiare
dal vortice delle parole:
Tancredi Parmeggiani.
La scheda biografica, riassunta in breve, ricorda che
egli nacque a Belluno, nel
1927, e morì a Roma, nel
1964; una vita breve, intensa e tragica, spezzata
dal suicidio nelle acque del
Tevere.
Tancredi, al suo apparire,
parve a buona ragione la
versione italiana di Jackson Pollock, una versione
meno febbrile, più elegante, sorretta da un gusto compositivo che neppure il dogma della nonforma pareva cancellare.
Tancredi era l’amore per
la pittura, era la fiducia
che il colore possa trasmettere sensazioni che nessuna
forma di éngagement politico ha il diritto di alienare.
Parmeggiani era un artista nato negli anni in cui
si discuteva del legame fra
tradizione e modernità;
mentre pittori come Carrà,
Severini e Sironi cercavano
un punto di equilibrio fra
la grande arte conservata
nei musei e la tensione pro-
Tancredi Parmeggiani: Senza titolo - Venezia, Collezione Peggy Guggenheim
gettuale che nel ‘900 aveva
trovato, e stava ancora trovando, l’elettrica e vivificante scossa delle avanguardie. Egli era come il
residuo, ma certo non in
un senso diminutivo, di
quanto il tempo anteguerra aveva elaborato. Si
avvicinava, con la sua pittura, alla fenomenologia
prodotta dalla cultura dell’avanguardia.
Fra il 1951 e il 1952, Tancredi seppe giungere a uno
stile personale: la sua pittura si definì nella riflessione sul segno. Tancredi
dipinge partendo da tanti
piccoli punti colorati, che
creano una spazialità stranita, forse frutto di
un’esplosione, forse frutto
di un processo generativo
che tracima sulla superficie dipinta. Non a caso un
ciclo pittorico che gli era
caro, e nel quale ha lasciato
un’indimenticabile testimonianza del suo talento,
si intitolava Primavera:
le primavere di Tancredi
sono il ritmo sincopato
della natura; sono il fiorire di colori liberi, solari,
che non si contendono gli
spazi, ma vivono in un’armonia musicale che l’occhio sa percepire e amare.
Una “filosofia poetica”:
con questa espressione
Peggy Guggenheim, che
per un periodo gli fu compagna di vita, definì la pittura di Tancredi.
Meno duro di Vedova,
meno programmatico di
Pinot Gallizio, Tancredi
Parmeggiani fu l’inventore di uno spazio pittorico nel quale si compendiano i furori futuristi e le
inaudite vie di fuga degli astrattisti. La vita segreta del suo animo era
mascherata da una pittura
che, fuori d’Italia, aveva
dei singolari punti di contatto con Jean-Paul Riopelle, del quale è esposto
un esemplare Dipinto del
1955. Tancredi si man-
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tiene al di qua delle ricerche di Lucio Fontana e di
Alberto Burri sulla materia, non contamina la pittura con elementi che le
sono estranei, rischia di essere precocemente superato da un mondo artistico
che pare procedere a una
velocità supersonica, dove
vite, esperienze, opere sono
triturate da una società vorace e ancora in grado di
appassionarsi per vicende
legate alla cultura.
Tancredi rischia di essere
un pittore la cui arte,
troppo difficile per essere
amata dal grande pubblico,
viene messo nel limbo molliccio di chi non compie il
grande salto destinato a
portare al Concettuale;
forse, il suo suicidio può
essere letto anche in una
chiave sociale e critica, oltre che strettamente privata. Se è così, bisogna dire
che nella congestione delle
installazioni, i suoi quadri sprigionano una poesia sincera e pertanto accalorata, un fuoco a cui non
si può restare indifferenti.
È esattamente questo, che
l’arte del tardo ‘900 ha perduto; il calore, la capacità
di coinvolgere, di appassionare. Forse, un esito così
scoraggiante poteva non
essere ignoto a un artista
tanto dotato e in una stagione creativa così illuminante come quella dell’Informale.
Accanto a Tancredi Parmeggiani, si ritaglia un
ruolo e uno spazio interessanti il veneziano Edmondo
Bacci (1913-1978).
Prima del 1951, Bacci si
era interessato alla vita degli operai: viveva, infatti,
nei pressi di Porto Marghera, e la visione degli
impianti e dei fumi era
quotidiana. Bacci non volle
essere un pittore realista
alla Guttuso. Scelse una
maniera del tutto peculiare, per esprimere la propria vicinanza, psicologica
e morale, agli operai.
Dipingeva quadri con un
nero espanso, il nero delle
ciminiere, che si allargava
fino a toccare ogni punto
del dipinto, sposandosi con
altri colori.
Questo tipo di pittura fotografò una stagione della
vita di Bacci, ma non poteva durare all’infinito: nei
primi anni ‘50, la sua pittura si fece meno (implicitamente) politica e più
“esistenziale” con la serie
detta Gli avvenimenti, ovvero quadri nei quali il colore impera e definisce gli
spazi.
Da lì in poi, la sua pittura
si fece limpida di senso e
severa nel colore, Bacci divenne un pittore lirico, la
cui vena avrebbe potuto
costituire un’alternativa
alla prorompente retorica
dei tanti installatori accorsi a spartirsi un mercato improvvisamente divenuto generoso di guadagni grazie allo sbocco
americano.
La mostra modenese inneggiava a Tapiés e a Dubuffet. Quanto ho scritto
sopra è deducibile dalle
opere esposte e frutto di
una militanza critica or-
Jean Paul Riopelle: Dipinto - Venezia, Collezione Peggy Guggenheim
mai piuttosto lunga: se
qualcuno, leggendo, avrà
voglia di accostarsi a Tancredi o a Bacci, o vorrà interrogarsi sulla veridicità di tante vulgate storico-critiche, potrò ritenermi soddisfatto.
stefano derosa