Il deserto quasi una strada - Provincia di Pesaro e Urbino

Transcript

Il deserto quasi una strada - Provincia di Pesaro e Urbino
Il deserto e l’assenza
L’altro Mediterraneo 2
L’altro Mediterraneo – quello che non si conosce e insieme si teme – non è
solamente un luogo avvertito dall’Europa come estraneo e lontano, ma funge da
confine anche al suo interno. La grande distesa d’acqua rappresenta anche il limite
estremo del deserto che si estende alle sue spalle, ossia di un altro spazio anomalo per
le categorie dell’uomo occidentale. L’immensa superficie sabbiosa è un territorio
abitato da tribù che affondano le loro radici culturali in un passato senza orizzonte e,
insieme, è un luogo allegorico, un’immagine capace di risvegliare un significato
sepolto nell’uomo, eppure chiaro per chi voglia evocarlo. Sul doppio registro del
deserto come luogo reale, come scenario in cui si muovono i popoli che lo abitano, e
del deserto come allegoria, come immagine di un mondo sordo alla comunicazione ed
estraniato, si muove il breve racconto della scrittrice libanese Emily Nasrallah 1 , che
fa parte dell’Antologia di scrittori arabi del Novecento, curata da V. Colombo. Un
racconto lirico, evocativo e, nel contempo, segnato da profonde riflessioni socioculturali; un insieme di frammenti poetici uniti dall’esperienza della protagonista, una
donna abbandonata nel deserto alla ricerca della carovana smarrita.
Per decodificare il racconto occorre andare per ordine e partire dalle prime ispirate
frasi: “Il mondo è un deserto. Il tempo è una sera”. Con questi due brevi periodi, che
sembrano versicoli di una poesia simbolista, inizia il procedere narrativo della
Nasrallah, quasi a dire che nel deserto oggetto della narrazione noi lettori dobbiamo
sforzarci di cogliere quell’universale che fiorisce sul tronco di ogni esperienza
particolare. Il luogo in cui si ambienta il breve racconto, infatti, è ben individuato, ma
ha una valenza allargata, capace di coinvolgerci tutti perché il tempo della grande
storia, le vicende del mondo, sono inscritti nella sera che è al centro del narrare.
Particolare e universale, quindi, si fondono insieme: nella donna che viene
abbandonata nel deserto dalle persone della sua carovana, mentre giace a terra
addormentata, non è difficile ravvisare la condizione della straniera, che perde ogni
riferimento relazionale, che diviene soprattutto straniera a se stessa, perché avverte la
sua condizione di isolamento assoluto. Lo smarrimento della donna è drammatico
perché il risveglio coincide col prendere coscienza dell’abbandono, della sua
estraneità innervata di solitudine e infine del deserto stesso, il deserto del suo
smarrimento. “In che direzione saranno andati?” 2 si chiede allora la protagonista,
squarciando con questa domanda il silenzio di un’esperienza in cui sembra
impossibile rientrare in sé e ridisegnare un orizzonte di speranza perché il deserto non
mostra tracce evidenti. Eppure la donna avverte che qualche segno deve esistere al di
là delle apparenze, ma anche che è necessario cambiare sguardo, cercando di
individuare la via del ritorno con l’occhio attento di chi fa parte del deserto, di chi lo
1
E. NASRALLAH, Il deserto, in AA.VV., L’altro Mediterraneo. Antologia di scrittori arabi del Novecento, a cura di
V. Colombo, Mondadori, Milano 2004, pp. 179-187. La scrittrice nasce a Kubba, in Libano, nel 1931. Dopo essersi
laureata all’Università americana d Beirut, diviene collaboratrice della rivista “Sawt al-mar’a” (“La voce delle donne”)
e pubblica numerosi libri di narrativa e saggistica.
2
Ib., p. 182
abita e di chi lo considera la propria patria. E così la ragazza è costretta a cercare
dentro di sé le voci antiche della sua cultura, per riacciuffare un filo di quella
saggezza popolare che, ignara di tante nozioni, è la sola a conoscere la risposta. In
questo modo è possibile per la donna individuare una traccia che conduce a oriente e
che sente di dover seguire per ritrovare la sua carovana, per rientrare nel suo mondo.
Deve rinunciare al bagaglio, deve gettare via il superfluo, deve ritornare
all’essenziale e camminare. Poi, sopraggiunge la notte e, con il buio di un cielo senza
luna, la paura di diventare preda di animali. Ma si deve ben presto rendere conto che
anche questo terrore nasce dall’aver dimenticato chi è, dall’aver perduto la sua
cultura grazie alla quale non avrebbe mai avvertito se stessa come distinta dalla
creazione e dal mondo animale: è necessario recuperare la propria animalità, del tutto
distinta dalla bestialità, per sopravvivere nel deserto. L’animalità coincide con il
coraggio di muoversi, con il credere nella fuga sempre, anche quando il predatore
sembra non lasciare alcuna possibilità di scampo. Muoversi, quindi, sotto un cielo
trapunto di stelle, in un luogo senza confini. “Tutto il deserto è quasi una strada. Da
qui la paura di perdersi”. Perdersi e trovarsi cominciano a sembrare alla ragazza più
dei simboli che delle realtà, quasi a dire che nessuna strada è certa, che nella vita
occorre avere il coraggio di seguire una rotta che non procede mai in modo
rigorosamente rettilineo, ma si contorce e a volte si avviluppa su se stessa.
Camminare sì, verso una meta, ma essendo in grado di cambiare direzione se un
profumo, una stella, una paura ci indicano un'altra via da seguire, perché la vita è
proprio un deserto con tracce molto leggere. Quando percepisce questo, la donna
avverte un senso di armonia, che le permette di vincere l’angoscia e la riconduce
verso il passato, verso i canti dei carovanieri, verso i volti dei suoi compagni i cui
“lineamenti scivolano nella memoria come gocce d’acqua tra le dita di un bambino” 3 .
Poi sopraggiunge la stanchezza e, con essa, di nuovo lo sconforto, in un’altalena di
sentimenti contrastanti così conosciuta da chi, almeno una volta nella vita, si è sentito
smarrito. Proprio in questo stato d’animo confuso, le sovviene il verso di una
preghiera di un poeta sufi che parla dell’importanza di dirigersi verso occidente – la
meta iniziale del poeta – nonostante i venti dell’est soffino contrari. Così la giovane
donna comprende che, al pari del sufi, anche lei deve tener fede all’intuizione di
fondo che le aveva indicato l’oriente, nella speranza che ci sia una risposta al suo
vagabondare: “Il poeta era diretto a occidente, lei a oriente. E continuerà a procedere
verso oriente con gli occhi puntati sulla coltre di tenebre, le labbra imploranti, le mani
levate come rami di un albero magico, i passi protesi in avanti, convogliando tutte le
energie nel tentativo di fendere le resse notturne in direzione delle sorgenti della
luce” 4 .
Sperimentare la solitudine e lo smarrimento dell’assenza è il tema di un altro
bellissimo racconto collazionato dalla Colombo, scritto dalla mano lirica di Edward
3
4
Ib., p. 186
Ib., p. 187
al-Kharrat 5 e intitolato: Lettere che non arriveranno mai. In questo caso, il deserto è
una incolmabile distanza emotiva e reale che si è creata fra due amanti. La donna,
africana, vive nell’Alto Egitto, a Luxor, e l’uomo, occidentale, al Cairo. Il lettore non
sa il motivo della separazione, ma capisce che la loro lontananza è ineluttabile,
causata da motivi non risolvibili. La bellezza del racconto, tuttavia, sta nel fatto che
al-Kharrat dà voce alle struggenti riflessioni dei due ricorrendo all’artificio di una
fitta corrispondenza immaginaria, a intense lettere scritte, ma mai spedite. Ecco il
deserto simbolico dell’incomunicabilità, quell’arido territorio della coscienza dove le
paure si fanno brucianti e impediscono alle persone – ma anche alle culture – di
fidarsi dell’altro. “Ci sono cose che è meglio non vengano dette”, pensa l’uomo,
perché “il semplice pronunciarle rivela un evento” 6 , anzi finisce col creare la realtà,
mettendo a tema il rischio insito in ogni dialogo che è la separazione, invece
dell’incontro sperato. Per questo, preferisce parlare con se stesso, piuttosto che
affrontare la sfida del confronto autentico, credendo sia sufficiente una comunione in
empatia a salvare una relazione. Ma, in tal modo, non si rende conto che finisce con
l’alimentare dei fantasmi tanto potenti da riuscire a dilaniare la realtà dell’altro con
gli artigli della falsificazione. Il suo non avere fede nella comunicazione non conduce
ad alcun esito fausto, ma solo alla prosaicità di sé, alla secchezza desertica della
propria autoreferenzialità, ossia alla perdita di ogni contatto possibile: così, a poco a
poco, le lettere non partono; così, dopo le prime conversazioni, i telefoni si guastano;
così, dopo l’amore dichiarato, anche il pensiero si intorbida, corrompendo la forza
della passione. In questo silenzio la fede incrollabile nell’altro si sfalda, il cristallo del
sentimento si rompe in mille frammenti; in questa assenza, la ricchezza dell’amore, la
sicurezza della relazione si ammorbano fino a diventare sofferenza. L’uomo,
allontanato dalla donna dal deserto dell’incomunicabilità, non è più capace di vivere
l’universalità e insieme la semplicità del loro amore; non è più in grado di sciogliere
le sue angosce nel volto della sua amata e non può fare altro che nascondersi tra le
paure suscitate dalle differenze, fino a considerare “crudo” ogni romanticismo e
interessato, ogni sentimento 7 .
Anche le lettere e le riflessioni della donna seguono un andamento discendente,
diretto verso l’abisso della separazione. Tuttavia, lei sembra resistere con più forza
all’inesorabile, sembra opporre più resistenza contro la potenza magnetica
dell’azzeramento e della cancellazione. Combatte, la donna, perché è convinta che
non si deve mai lasciare spazio dentro di sé alle inutili lacerazioni della coscienza, ai
tormenti delle supposizioni infondate e, interiormente, capisce che è proprio questo
genere di sensazioni che si stanno impossessando del suo uomo, a cui vorrebbe poter
dire: “Non è lecito, amore mio, perché la vita è talmente breve che non abbiamo il
diritto di sprecare un solo istante che potrebbe non tornare un’altra volta” 8 . Ma, alla
fine, anche lei cede le armi davanti al silenzio desertico di lui, decidendo di
5
E. AL-KHARRAT, Lettere che non arriveranno mai, in AA. VV, L’altro Mediterraneo, cit., pp. 153-170. Lo scrittore
copto, nato ad Alessandria d’Egitto nel 1926, è autore di numerosi romanzi, oltre a svolgere un’intensa attività di
traduzione.
6
Ib., p. 155
7
“costa poco tutto questo crudo romanticismo. Il sentimento bada solo al proprio interesse”; ib. p. 166
8
Ib., p. 164
interrompere un rapporto che non esiste più e arrestando l’affanno di una ricerca che
non conduce ad alcun approdo. Anche per questa donna, come per quella del racconto
della Nasrallah, vivere in relazione è una ricerca, ma, mentre in questo caso si deve
registrare l’inutilità del vagare verso l’altro, nel primo rimane aperta una speranza, o
meglio, una possibilità. Per questo, la donna del racconto di al-Kharrat deve
concludere con il fiele di queste parole: “L’affetto mi ha tradita ancora una volta. Mi
ha lasciato. Non voglio dire né arrivederci né addio. Nulla.” 9 Per questo, ancora,
l’uomo afferma nelle sue ultime riflessioni che “la scrittura è balbettio, la vita è
incertezza e confusione” 10 , e conclude con l’amara constatazione che non sempre si
ha il diritto di raggiungere la pace.. E forse con questo nulla di lei e con questa
desolazione di lui l’autore vuole impietosamente triturare tutte le illusioni romantiche
di chi crede che la distanza interculturale possa sciogliersi facilmente in un abbraccio,
anche se sostenuto dalla forza di un sentimento potente come l’amore. Probabilmente
in questo racconto emerge un pessimismo esasperato ed esasperante, ma leggerlo ci
consente di riflettere su quanto sia difficile vivere e continuare a sperare nella
giustizia e nella vita per chi deve attraversare ogni istante un deserto personale,
relazionale e culturale; su quanto siano assenti di gravità e superficiali certe facili
parole di solidarietà pronunciate al riparo di una tenda concettuale.
9
Ib., P. 167
Ib., p. 168
10