Colore della Pelle e Razzismo

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Colore della Pelle e Razzismo
Colore della Pelle e Razzismo
La differenza più evidente che distingue i vari popoli della Terra è il colore della pelle; essa è la
caratteristica visibile maggiore del corpo, un segno della nostra età, salute e razza, anche se l’uso
della parola razza è da considerarsi puramente convenzionale, per indicare il colore della pelle.
Infatti, tutti apparteniamo alla stessa specie (homo sapiens), in quanto deriviamo dallo stesso
ceppo ancestrale. È bene ricordare che la percentuale di patrimonio genico fra due persone di
diversa razza è maggiore del 99%.
Il colore della pelle è – al giorno d’oggi – strettamente associato al razzismo. Tuttavia i pregiudizi
razziali in senso stretto, come coscienza della superiorità "biologica" della propria "razza", si sono
sviluppati nell'epoca moderna, alla fine del XVIII secolo, per giustificare una politica nazionalistica
e colonialistica.
Nei primi tempi del colonialismo, nei confronti degli schiavi negri gli europei avevano un disprezzo
legato alla condizione sociale e non al sangue. Le persecuzioni, anticamente, potevano essere per
motivi religiosi, politici, sociali o culturali, ma mai per motivi biologici.
Il disprezzo razziale come lo intendiamo noi oggi – basato sulle differenze dei tratti somatici e del
colore della pelle – non è altro che una sofisticazione adottata per giustificare quello culturale; si
può dire che nacque in Europa nel XIX secolo, e il suo fondatore fu il conte de Gobineau, che
scrisse un libro sulle ineguaglianze delle razze umane.
Queste tesi furono poi brutalmente adottate nell’epoca nazista da Hitler, il quale scrisse, nel libro
mein Kampf, che “l’incrocio delle razze determina il decadimento della razza superiore”. Per chi
conosce la scienza e la genetica è tuttavia facile dimostrare il contrario.
Il manifesto contro il razzismo oggi più noto è certamente il discorso di M. L. King “I have a
dream…”. King fu assassinato il 4 aprile 1968, a Memphis, lasciando una ferita non ancora
cicatrizzata.
Sul discusso e confuso argomento della variabilità geografica del colore della pelle hanno fatto un
po’ di ordine due scienziati americani, N. Jablonski e G. Chaplin. Attraverso misurazioni
quantitative del colore della pelle e della luce del sole hanno infatti identificato in modo
convincente la stretta correlazione che c’è fra esse, aprendo le porte agli antropologi per
l’esplorazione di nuove correlazioni o eccezioni.
Il metodo da essi adottato si basa sul calcolo diretto delle radiazioni ultraviolette (UVR) sulla
superficie della terra in luoghi diversi, mentre ad ogni colore della pelle hanno assegnato un certo
valore numerico.
Com’era già noto, le radiazioni ultraviolette diminuiscono con la latitudine, poiché ad alte latitudini
i raggi colpiscono la Terra obliquamente, favorendone l’assorbimento e la dispersione. Ma la
correlazione fra UVR e latitudine è incompleta: a causa dell’assottigliarsi dell’atmosfera gli UVR
aumentano con l’altitudine (per esempio, sono maggiori sugli altopiani Tibetani o Andini) e
diminuiscono dove l’atmosfera è ricca di vapore, a causa di piogge frequenti, nuvole o forte umidità
(gli UVR sono infatti più intensi nel Deserto di Atacama o nel Corno d’Africa rispetto alle aree
adiacenti dell’est o dell’ovest, più umide).
Le cause di questa stretta correlazione sono state oggetto di molte speculazioni, come la protezione
dai tumori della pelle, dall’overproduzione di vitamina D o il mimetismo nelle foreste, molto utile
per le poche popolazioni che ancora le abitano.
Jablonski e Chaplin preferiscono parlare di una combinazione di due fattori selettivi, che
coinvolgono vari costi e un enorme beneficio. I costi riguardano la distruzione di diversi composti
presenti nella nostra pelle – da parte degli UVR – fra i quali il più importante è l’acido folico (
gruppo vitamina B); il beneficio riguarda la sintesi della vitamina D, importante per l’assorbimento
alimentare del calcio.
Quindi, il colore della pelle di un popolo è il risultato evolutivo di un compromesso fra una pelle
abbastanza chiara da permettere la sintesi di vitamina D, ma anche abbastanza scura da ridurre la
distruzione di acido folico.
Le donne, in tutte le popolazioni, tendono ad avere una carnagione più chiara rispetto agli uomini,
presumibilmente a causa di un loro maggior fabbisogno di calcio e vitamina D, in particolar modo
durante la gravidanza e l’allattamento.
Queste argomentazioni sono anche in grado di spiegare come – per esempio –, una popolazione di
Inuit groenlandesi abbia inaspettatamente la pelle scura: ebbene, essi tradizionalmente ottenevano
vitamina D da una dieta ricca di mammiferi marini, non necessitando così di una pelle troppo
chiara, pur vivendo ad elevata latitudine. Gli attuali Inuit, che si cibano in modo “moderno”, hanno
invece un’incidenza altissima di deficienza di vitamina D.
Trattare bene la nostra pelle è molto, anche perché e attraverso essa che ognuno di noi si pone in
contatto con tutto quel che ci circonda.
Ed ora che ci avviciniamo all’estate, è bene ricordare che la produzione di melanina (responsabile
della nostra abbronzatura) dipende solo dall’esposizione ai raggi solari, e non ha alcun legame con
l’assunzione di carotenoidi, che sono invece molto importanti per combattere l’ossidazione della
pelle. Senza ricorrere necessariamente ad integratori, un’ottima pelle si ottiene esclusivamente con
un’alimentazione giusta e appropriata.
Marco Cambiaghi
10/06/05