STORIA DI FANTASMI E MARINAI-Cap1-2-3

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STORIA DI FANTASMI E MARINAI-Cap1-2-3
STORIA DI FANTASMI E MARINAI di Guido Quarzo Chiedete pure a un qualunque marinaio dell’Orca Zoppa, sapete cosa vi dirà? Vi dirà: «Be’, che mi venga un colpo secco se quello non fu davvero un viaggio strano!» Ecco cosa vi dirà, parola mia. Questa è dunque la storia di come l’Orca Zoppa rischiò di perdersi, di come invece perdette il suo carico e di come infine fu salvata. Alla salute! Uno Spiritello dispettoso abitava la stiva dell’Orca Zoppa. Uno Spiritello dispettoso e affamato: una certa quantità di gallette era scomparsa; poi qualche gallina, di quelle che si tenevano vive in piccole gabbiette; poi diversi tocchi di carne salata. Fu messo un marinaio di guardia alla cambusa, inutilmente. Allora ci si convinse che uno Spiritello abitava la stiva. A volte capitava sulle navi, a quei tempi. Probabilmente l’avevamo imbarcato a Porto Caraibo, insieme alle seicentoventiquattro palme che costituivano il grosso del carico dell’Orca Zoppa. O forse era uno Spiritello marino, portato su da un’onda alta, o pescato con i pesci nei primi giorni di navigazione. Comunque ora c’era, e così il cuoco si rifiutò di entrare ancora nella cambusa. «Sei grande e grosso» gli diceva il comandante, «hai affrontato tempeste e pirati, non hai tremato davanti ai Cacciatori di Teste delle Isole Lontane… che vuoi che sia uno Spiritello goloso». Ma non c’era niente da fare. «Io in cambusa non metto piede» rispondeva il cuoco in tono lamentoso, «non voglio avere a che fare con spiriti o spiritelli, fantasmi o diavoletti o altre stramberie del genere. Finché si tratta di topi o marinai ladri di polli, niente mi fa paura, ma di fantasmi non ne voglio sapere!» Siccome era evidente che frustare il cuoco non sarebbe servito a nulla, il comandante fece chiamare il carpentiere di bordo e, quando l’uomo gli fu davanti ordinò: «Alla svelta, fabbrica una trappola per Spiritelli e sistemala nella stiva: liberiamoci di quest’impiccio e non se ne parli più». Il povero carpentiere impallidì. «So fare trappole per topi, ghigliottine per conigli, trabocchetti per marinai rubacchioni o per ogni altra bestia, e anche gabbie, uccelliere, stie, cesti, casse, cassette e cassettiere, cassepanche e all’occorrenza casse da morto… ma di trappole per Spiritelli non so nulla». Al comandante parve inutile far frustare il carpentiere per quella risposta, perciò si limitò a dire: «Arrangiati, io ho altro da pensare. Tu fai in modo che il cuoco torni al lavoro entro domani, altrimenti saranno cento frustate, per te e per lui». 1 Dopodiché si chiuse nel suo alloggio a fare i suoi calcoli per raggiungere al più presto il porto di Terraferma, dove avremmo scaricato le seicentoventiquattro palme da burro vive stivate nel ventre dell’Orca Zoppa, e il resto del carico. Oltre alle palme, infatti, la nave trasportava: -­‐ centodiciotto sacchi di penne di Sbragone, un uccello dal canto sgradevolissimo e dall’odore ancora più insopportabile, ma con penne variopinte e di forme eleganti molto richieste dai fabbricanti di cappellini per signore; -­‐ venti grandi casse di semi di Stagionaria, un’erba capace di curare la pitiriasi equina, il calazio e l’occhio di bue (malattie non gravi ma fastidiose assai); -­‐ un numero imprecisato di balle di sargassi essiccati che, essendo leggerissime, volavano a mezz’aria nella stiva cambiando posizione di continuo per cui era impossibile contarle. Nessuno sapeva a cosa servissero; -­‐ cinquantaquattro botti di vino d’Agave, di cui una dissigillata a uso della ciurma. Dopo il discorso del comandante, il carpentiere, che tutti chiamavano Gattuccio (e di cui nessuno conosceva il nome), si grattò lungamente la testa. L’unica idea che gli venne in mente, però, fu che a grattarsi la testa non vengono idee in mente. Perciò smise di grattarsi e cercò di pensare a come risolvere il problema ed evitare le cento frustate promesse dal comandante. E intanto che Gattuccio pensava, pensava e pensava, un Vento Bizzarro imprevedibile portava a spasso l’Orca Zoppa, così che tutti i calcoli del comandante risultavano inutili. Si andava continuamente fuori rotta, finché si perse del tutto l’orientamento. La nave pareva una trottola. Si vedevano vecchi marinai abituati a ogni tempo e a ogni vento barcollare come ubriachi e sostenersi l’un l’altro. Gli ufficiali si spencolavano dai parapetti e vomitavano. Il comandante calcolava e ricalcolava una rotta ormai inesorabilmente perduta. Solo Gattuccio non si accorgeva di nulla, tutto preso dal pensiero di come fabbricare una trappola per Spiritelli. «Più che di pialla e di segaccio, qui bisogna lavorare di astuzia» si disse il carpentiere. E incominciò a ragionare tra sé: «Vediamo un po’: uno Spiritello deve essere leggero, quindi ci vuole una trappola leggera… e se ha mangiato carne salata e gallette deve essere anche assetato… perciò l’esca si potrebbe fare con un buon bicchiere, un bicchiere di fresco vino d’Agave…» Così ragionava Gattuccio nel buio della stiva, seduto su una morbida balla di sargassi. Gli venne allora in mente una leggenda che aveva sentito raccontare dai vecchi in un villaggio delle Isole Lontane (non quelle dei Cacciatori di Teste, ma quelle dei Pacifici Pescatori): la storia di Kookotako. 2 Capitolo 2 Come fu vinto lo spirito Kookotako Kookotako era uno spirito maligno e antipatico che entrava nelle palme da cocco, si nascondeva nei tronchi e nei rami, li agitava e fingendosi vento faceva cadere grosse noci in testa a chiunque fosse passato sotto le piante. Kookotako si nascondeva ora qui ora là e i suoi spostamenti erano imprevedibili, perciò riusciva sempre a colpire qualcuno e in tutto il villaggio era difficile trovare un uomo, una donna o un bambino senza bernoccoli. Tant’è che gli indigeni delle altre isole chiamavano quel villaggio “Kapawa-­‐ahi”, che nella loro lingua significa “testa fasciata e dolorante”. Quando però Oramay, lo stregone, venne colpito con due grosse noci sulla testa e sulla spalla, decise di intervenire e mettere fine alle malefatte dello spirito Kookotako. Oramay fece quindi scavare un tronco di palma e lo riempì di miele. Fece raccogliere tutte le noci di quella palma e appese al loro posto sonore campanelle. Dopo non molto tempo Kookotako entrò nella trappola e rimase invischiato nel miele, e quando cercò di far cadere le noci fece invece suonare le campanelle. Allora Oramay ordinò ai pescatori del villaggio di portare quel tronco in mare aperto, e lì lo spirito maligno e antipatico fu lasciato alle correnti e mai più Kookotako tornò ad abitare le palme. Oramay disse: «La dolcezza del miele può vincere anche lo spirito più maligno». E da allora questo proverbio è rimasto nella memoria di tutti. Mentre Gattuccio ripeteva a se stesso la leggenda di Kookotako, il Vento Bizzarro portava l’Orca Zoppa chissà dove, ma certamente lontano dal sicuro porto e dalle allegre bettole di Terraferma. Poco dopo il tramonto, improvvisamente come era venuto, il Vento Bizzarro cessò di soffiare. Gattuccio nella stiva intrecciava lunghi nastri di sargassi essiccati per fabbricare le sue trappole, e come non si era accorto del vento, non si accorse nemmeno della bonaccia che ora faceva pendere mollemente le vele della nave. L’Orca Zoppa galleggiava inerte; dapprima ruotò leggermente su se stessa, poi fu del tutto ferma. Immobile come un modellino in una bottiglia vuota di acquavite. Il comandante fece radunare l’equipaggio e disse: «Ciurma, inutile nascondere che abbiamo perso la rotta. Inutile anche nascondere, uomini, che finché dura la bonaccia non c’è speranza di raggiungere il porto di Terraferma. Perciò manteniamo la calma e la disciplina, non sprechiamo acqua e cibo e aspettiamo con fiducia che un vento favorevole gonfi le vele. Il nostro comandante era soprannominato Capitan Triste. Era un bravo comandante, ma come diceva appunto il suo soprannome, non era certo un marinaio allegro. Non scherzava mai, sorrideva raramente e molte volte lo si poteva sorprendere a scrutare l’orizzonte con uno sguardo particolare: lo sguardo di chi per mare ha incontrato La Diavolessa, la nave fantasma di Capitan Testadura. Si diceva infatti che il nostro comandante, quand’era un giovane mozzo, si fosse imbarcato su 3 un mercantile che aveva disgraziatamente incrociato la rotta della Diavolessa. Se sia una nave fantasma o altra cosa è difficile dirlo. Quel che è certo è che La Diavolessa è una nave d’alghe morte e si porta dietro per i sette mari il fetore insopportabile di tutto quel marciume. Quelli che l’hanno incontrata e si sono salvati, si possono contare su una mano, tanto è difficile fuggire prima che tutta la ciurma cada svenuta e la nave se ne vada alla deriva. Si racconta che il veliero d’alghe sia stato un tempo la nave del pirata Testadura, famoso appunto per la sua testardaggine. Un giorno, per sfuggire alle navi inglesi che l’inseguivano, Testadura portò La Diavolessa a nascondersi in una profonda e stretta insenatura di un isolotto sconosciuto, così piccolo che nemmeno stava sulle carte nautiche. Gli inglesi cercavano la nave pirata qua e là per il mare aperto e La Diavolessa se ne stava tranquillamente all’ancora fra gli scogli. Ci si sentiva così al sicuro al riparo di quell’isolotto, che Capitan Testadura non si decideva mai a levare l’ancora. E siccome era appunto una testa dura, non dava ascolto a chi gli suggeriva che forse non era salutare restare lì fermi ancora per molto. «Capitano, le alghe hanno riempito la stiva». «Fa niente, qui siamo al sicuro». «Capitano, le alghe sono arrivate ai parapetti». «Non importa, qui siamo al sicuro». «Capitano, le alghe invadono il ponte». «Non vi preoccupate, meglio le alghe che le cannonate». E via così. La risacca continuava a portare nell’insenatura una grande quantità di alghe morte che si ammassavano intorno alla nave e vi si incollavano in strati sempre più densi. Prima ricoprirono tutta la chiglia, poi incominciarono a invadere il ponte, e salirono su alle velature e ricoprirono alberi e pennoni. Persino i marinai della Diavolessa a poco a poco diventarono verdi per le alghe che si ritrovavano addosso. Quando finalmente il pirata Testadura si decise a levare l’ancora, il legno era tutto marcito e la nave era diventata un ammasso galleggiante di alghe morte che della Diavolessa conservava solo vagamente la forma. Ora la nave di Capitan Testadura vaga senza governo per i mari e tutti sperano di non incontrarla mai. I pochi che l’hanno avvicinata si riconoscono subito perché gli rimane negli occhi uno sguardo triste, uno sguardo che ha qualcosa a che fare con le alghe morte e con le correnti che si portano via le navi senza timoniere. Ed ecco perché il nostro comandante ha quel soprannome. Passò così tutta la notte. L’Orca Zoppa non si spostava di una spanna e nella stiva Gattuccio intrecciava furiosamente i sargassi per farne trappole. Venne finalmente il mattino. Il carpentiere con gli occhi pieni di sonno osservava la mezza dozzina di trappole che aveva fabbricato: galleggiavano a mezz’aria e somigliavano un po’ alle 4 nasse dei pescatori, con l’imboccatura a imbuto che facilita l’entrata ma rende impossibile uscirne. Gattuccio osservava le sue trappole quasi convinto di aver fatto un lavoro inutile. “Come si può catturare uno Spiritello? Non è mica un pesce” pensava il carpentiere, “e comunque di meglio io non so fare”. E mentre Gattuccio osservava le sue trappole, il comandante, ritto sul casseretto di poppa, osservava un mare immobile e un cielo sgombro di nuvole e di fiato. La bonaccia perdurava, e con il suo prolungarsi un pensiero lentamente cresceva e s’allargava sopra gli altri pensieri, come un’onda lenta di alta marea: che potesse apparire il terribile Calagranchio. Come la morte stessa infatti i marinai temevano la comparsa del mostro del mare chiamato Calagranchio. Si diceva che emergesse soprattutto durante le lunghe bonacce per riaffondare trascinando sul fondo uomini e navi. Altri sostenevano che non avesse nemmeno bisogno di afferrare le imbarcazioni per trascinarle a picco: con la sua sola presenza pietrificava legni e marinai, per farne scogliere sul fondo del mare. Nessuno aveva in realtà mai visto il Calagranchio, anche perché vederlo significava scomparire per sempre; perciò delle navi che non tornavano si diceva: “Avranno incontrato il Calagranchio”. E si cercava di immaginare come fosse fatto. «Si muove come un calamaro gigante». «Ma con la dura corazza del granchio». «E pinze affilate come lama tagliente». «E occhi sporgenti e denti di squalo». «Quand’esce dall’acqua non si vede più il cielo». «Pare tutto d’avorio e d’argento». «Solo a pensarlo si muore di spavento». E infatti i marinai cercavano di pensarci il meno possibile. Si diceva anzi che la più temibile caratteristica del Calagranchio fosse proprio di vivere quando veniva pensato. Quelli che la sapevano lunga, e conoscevano molte parole, chiamavano questo fatto “evocare il mostro”. I marinai e gli scaricatori dei porti, invece, per spiegare la cosa avevano inventato questo proverbio: “Calagranchio nella testa, ti fa subito la festa”. Altri ancora raccontavano questa storia. Il Calagranchio viveva da sempre nelle profondità del mare Oceano, dove nemmeno arrivava il riflesso più pallido della luce del sole, dove il silenzio era assoluto e il tempo si muoveva lento come la danza di una medusa. Solo una volta ogni mille anni il Calagranchio emergeva, a prendere una boccata d’aria, a riempirsi gli occhi di luce per un attimo, e questo gli bastava per i successivi mille anni. Il fatto è che il Calagranchio non amava la confusione, lo sbattere delle onde gli era insopportabile, il cicaleccio dei gabbiani lo innervosiva, le grandi vele spiegate all’orizzonte lo spaventavano. Metteva quindi la testa fuori per un momento e poi subito via, giù nella tranquilla oscurità degli abissi. 5 Così viveva il Calagranchio, né felice né infelice, senza un pensiero, contando i millenni di gitarella in gitarella con l’indifferenza di un dio dell’acqua. Finché una volta capitò che anziché uscire nell’azzurro riflesso del cielo, alla luce accecante del sole, il mostro si portò in superficie nel pieno d’una notte di luna piena. L’aria era tiepida, la luce dolce, carezzevoli le onde. Per la prima volta nella sua lunga vita il Calagranchio non sentì il desiderio di fuggire. Si lasciò cullare pigramente, guardando le stelle, e pensò: “Ecco, sono un sogno sognato dalla luna”. E come ebbe pensato questo svanì in quel cielo di latte, come appunto svaniscono i sogni. Per questo da quella notte il Calagranchio riappare solo quando i sogni e i pensieri dei marinai lo chiamano ancora nel mare, per sprofondarlo nel fondo dell’Oceano. Non tutti credevano a questa storia, però nessuno ci teneva a scoprire se fosse vera o no: quindi meglio non pensare alla bestiaccia, dicevano i marinai. Ma naturalmente più ci si sforza di non pensare una cosa, più in realtà la si pensa. E così sull’Orca Zoppa, più passava il tempo, più diventava difficile non pensare al Calagranchio e alla possibilità che il mostro rompesse la piatta superficie del mare per balzare sulla nave e trascinarsela negli abissi. Allora il comandante ordinò a tutta la ciurma di cantare, per occupare la mente con pensieri diversi. Era difficile intonare le allegre canzoni marinare, di mattina, con la pancia vuota e così pieni di preoccupazione. Qualcuno intonò la vecchia canzone che dice: Oh oh ninna oh! Questo legno a chi lo do lo daremo al mare nero che lo tiene un anno intero. Oh oh ninna oh! Ma tutto l’equipaggio stava per addormentarsi, e dormire sarebbe stato pericolosissimo, per via dei sogni che si potevano sognare. Ecco che un altro allora prese a cantare la ballata del rum, quella che fa così: Oh bum bum bum un buon bicchiere di rum mentre il pesce sta in padella ti riscalda le budella oh! Oh bum bum bum un buon boccale di rum quando corri per il mare non ti lascia rattristare oh! 6 Oh bum bum bum un buon barile di rum se tracanni a pranzo e cena fai morire la balena oh! Oh bum bum bum una tempesta di rum oh che bello navigare e affogare in questo mare oh! E già al secondo bum bum bum tutta la nave cantava a squarciagola. Tutti insieme poi attaccarono la Canzone del Pirata: Il forziere del tesoro ullallà tiene solo argento e oro ullallà devi molto faticare ullallà per aprirlo devi andare ullallà a crepare in fondo al mare ah ah ah! Cantavano così convinti, così intonati e tutti a tempo che pareva di essere sulla nave di Capitan Sei Corde. Conoscete la sua storia? Capitan Sei Corde, comandante dell’Armonica, era talmente appassionato di musica che ingaggiava gli uomini dell’equipaggio solo dopo un severo esame canoro. Chi aveva una bella voce e mostrava d’essere intonato veniva preso a bordo, gli altri no. Sull’Armonica infatti si doveva cantare sempre, a ogni ora del giorno e della notte, a ogni manovra, in ogni parte della nave: in coffa, al timone, in cucina, nella stiva. Si cantava sempre: quando si svuotava la sentina, durante i pasti, nei turni di guardia. Sempre si cantava e per ogni occasione c’era un canto da imparare. Se poi Capitan Sei Corde sorprendeva qualcuno con i tappi di cera nelle orecchie, eran frustate. «Il mio violoncello!» urlava il comandante. E si incaricava personalmente della punizione, usando una frusta fatta di sei corde di violoncello intrecciate. (Per questo motivo appunto lo chiamavano Capitan Sei Corde). Tra canti e frustate, molti marinai imbarcati sull’Armonica impazzivano, ma nessuno se ne accorgeva, perché erano semplicemente quelli che poi cantavano più forte. Altri si gettavano in mare, a riposare le orecchie tra i pesci. E intanto Capitan Sei Corde sorrideva, convinto di comandare una nave assolutamente felice. 7 Poi un giorno, navigando al largo della Scogliera del Dente, il sensibile orecchio musicale del comandante fu colpito dal verso sgraziato di certi gabbiani. «Rovinano la mia musica» si mise a gridare il vecchio Sei Corde, «stonano le maledette bestiacce! Stonano peggio di un marinaio ubriaco!» E ordinò di far vela verso gli scogli. «È pericoloso» diceva il nostromo. «Nessuno si è mai avvicinato alla Scogliera del Dente» osservava preoccupato il timoniere. Ma Capitan Sei Corde non ascoltava ragioni. «Agli scogli! Voglio scacciare a suon di frustate quegli uccellacci gracchianti» strillava il comandante, «portatemi il mio violoncello, voglio dargli una lezione di bel canto! Voglio umiliarli!» I gabbiani intanto avevano l’aria di divertirsi un mondo e continuavano imperterriti a starnazzare. Insomma, l’Armonica finì contro la scogliera e affondò. Si racconta che Capitan Sei Corde si sia salvato a bordo di una pianola, come fosse una scialuppa, e che ancora vaghi per i mari, tormentato dal suono scordato dello strumento e inseguito dai versi stonati dei gabbiani. Intanto che sull’Orca Zoppa si cantava a più non posso, Gattuccio, nella stiva, aveva sistemato in ciascuna delle sue trappole l’esca: un piccolo boccale colmo di fresco vino d’Agave. E siccome qualche boccale l’aveva riservato anche per sé, gli venne una gran voglia di chiacchierare e di fare qualche considerazione circa lo strano lavoro che gli era toccato. «Caro Spiritello» disse Gattuccio, «chissà dove sei e se mi senti. Ascolta comunque quello che ti dico, se puoi: anche se cerco di acchiapparti, perché me lo ha ordinato il comandante, voglio che tu sappia che non ce l’ho con te. Anzi anzi mi sei simpatico. Almeno tu mangi e bevi e non dai fastidio a nessuno. Ti assicuro che se dipendesse da me, ti ospiterei su questa nave fino a Terraferma, e ti porterei in qualunque altro porto tu volessi andare. Sì, ti ci porterei. Alla salute!» E Gattuccio brindava allo Spiritello alzando il boccale. «Ma io sono solo carpentiere» proseguì, «e come vedi non posso decidere nulla. Questa è la vita del marinaio. Anzi anzi questa è la vita. E così: alla salute!» E tornava a brindare. E non si decideva a risalire sul ponte. «Sono proprio come il Marinaio Innamorato» disse ancora il carpentiere al suo invisibile ascoltatore, «il Marinaio Innamorato che deve sempre partire e non parte mai… Senti, Spiritello mio, se vuoi ti racconto la sua storia. Sì? Chi tace acconsente, bene, alla salute!» E tra un brindisi e l’altro Gattuccio raccontò… 8