Prefazione
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Prefazione
Prefazione Nel mondo gli esseri umani sono attori e spettatori allo stesso tempo. Attori in quanto interagiscono sempre fra di loro e con l’ ambiente, sono sempre alla ricerca di qualche cosa che appaghi il loro spirito. Ma il successo delle loro performance come attori dipende dalla capacità di essere spettatori, di raccogliere nel minor tempo possibile il maggior numero di informazioni utili a loro stessi. Se gli esseri umani sono attori perché hanno a disposizione una grande quantità di azioni comandate e guidate da decisioni autonome e volontarie, il loro essere spettatori dipende dal fatto che possiedono una serie di apparati sensoriali che interagiscono involontariamente con l’ambiente stesso e con gli altri esseri viventi: non possiamo decidere di non vedere a meno che non chiudiamo gli occhi, ma anche in questo caso avremmo deciso di non guardare ma non di non percepire la situazione in cui siamo immersi. Basta un rumore, un odore per richiamare nella mente il concetto di ciò che ci sta vicino. Dalla percezione inizia il processo della nostra conoscenza. Le motivazioni logiche che ci spingono a memorizzare determinate forme piuttosto che altre dipendono semplicemente dai nostri interessi personali. Spesso però i nostri sensi possono essere ingannati con estrema facilità, soprattutto la vista; tutto ciò che vediamo e percepiamo, come forma compiuta è semplicemente frutto di una elaborazione intellettiva involontaria che diventa intelligenza collettiva e univoca per gruppi di individui inserite in una stessa società. Tutti noi trasciniamo un bagaglio di informazioni personali che cresce e si arricchisce grazie alle esperienze che viviamo durante il corso della nostra esistenza. Lo scopo della tesi è chiarire, nel modo più semplice possibile, attraverso lo studio dei meccanismi della visione come possono insorgere quei particolari fenomeni noti come illusioni ottiche. La questione “come vediamo?” può essere affrontata da molti punti di vista; nelle pagine che seguiranno cercherò di spiegare in modo molto semplice, procedendo per piccoli passi, i meccanismi che regolano la visione (occhio) e l’elaborazione mentale 1 Prefazione che il cervello inconsapevolmente svolge per immagazzinare e percepire tutto ciò che ci circonda. Proprio in questa fase il nostro cervello a volte ci inganna fino a farci percepire qualcosa di irreale. Le illusioni ottiche sono sempre presenti nella vita quotidiana di ogni essere umano. Vi sono differenti e numerose tipologie d’illusioni ottiche: alcune sono causate da disfunzioni fisiologiche del sistema nervoso; altre, piuttosto diverse dalle prime, sono simili alle risposte errate in scienza, causate da assunti impropri e conoscenze inadeguate. Di seguito illustrerò e spiegherò i meccanismi che generano illusioni ottiche in soggetti sani privi di qualsiasi difetto fisico o psichico. I fenomeni d’illusione ottica rappresentano il tema centrale della tesi: classificherò i fenomeni visivi in base alle modalità del loro apparire ed alla concordanza con le relative spiegazioni teoriche. Proprio negli ultimi anni gli studi della percezione visiva sono diventati molto importanti, grazie all’impulso che ha dato la computer grafica. Al testo verrà allegato un progetto multimediale che farà comprendere meglio al lettore tali fenomeni e accennerà alle prospettive future. 2 1 Luce, occhio e cervello 1.1 Meccanismo della visione Il primo concetto fondamentale che bisogna comprendere è che l’occhio è un semplice strumento ottico per mezzo del quale, pervengano informazioni al cervello, che rappresenta il vero motore della comprensione. Non vi è nulla di più vicino alle nostre intime esperienze, eppure il cervello è una degli apparati più sconosciuti e misteriosi del nostro corpo, paragonabile alle stelle che stanno a milione di anni luce da noi. Ogni volta che i nostri occhi si posano su luci, forme, colori il nostro cervello formula concetti che ci permettono di comprendere il meccanismo e la funzione di ogni cosa. Ma com’è possibile tutto ciò? Com’è possibile che figure astratte, forme irregolari si trasformino in oggetti; quegli oggetti presenti in ogni istante nella nostra vita quotidiana? Da sempre l’uomo ha cercato una risposta a tali domande. Nell’antica Grecia i filosofi ipotizzarono che la luce fuoriuscisse dai nostri occhi fino a toccare gli oggetti allo scopo di “tastare” la realtà e formare un concetto compiuto delle cose osservate. Questa idea è stata ritenuta veritiera per molti secoli fino al diciassettesimo secolo quando finalmente si capì che non sono i nostri occhi ad emanare luce ma, al contrario, essi catturano la luce dall’esterno e la rimandano al cervello, tramite minuscoli impulsi elettrochimici, che la elabora e crea dei concetti compiuti di ciò che si osserva. “Per assumere un significato questi segnali devono essere letti in base a regole e a conoscenze acquisite. In una parola, ciò che vediamo può essere assai differente da ciò che conosciamo” o in cui crediamo. Il cervello da un grosso valore aggiunto a ciò che restituiscono i nostri occhi, fa si che noi comprendiamo ciò che si osserva. La percezione di un oggetto è molto più ricca di una qualsiasi immagine che si forma negli occhi, il valore aggiunto che la rende concetto non può che derivare da un processo Richard L. Gregory, Occhio e cervello, Milano, Raffaello Cortina Editore,1998. pag 10 Manfredo Massironi, Fenomenologia della percezione visiva, Bologna, Mulino,1998. pag. 22 3 Meccanismo della visione cerebrale molto sofisticato che fa riferimento alle esperienze acquisite in passato per formalizzare il presente e che, se servirà, sarà utilizzato in futuro. 1.2 Luce La luce ci permette di vedere. Questa può apparire un’affermazione ovvia sulla quale non valga la pena soffermarsi; ma tale non sarebbe apparsa in altri tempi. Abbiamo scoperto l’importanza della luce per la visione, solo negli ultimi secoli dell’umanità. Perché il buio ci fa paura? Non semplicemente perché al buio non si vede niente, ma perché quel non veder niente non significa che non c’è niente da vedere. Il buio genera insicurezza e paura, dentro ad esso possono esserci innumerevoli cose ma mancano le condizioni per percepirle, manca la luce. Ma cos’è la luce? Dando una risposta di carattere puramente fisico possiamo dire che la luce è un tipo di energia che si diffonde nell’ambiente, che viene riflessa dalle superfici che incontra innescando un processo neurale alla fine del quale avviene il rendimento percettivo. Ma ciò che ho detto non basta, non è così semplice dare una risposta ad una tale domanda. Negli ultimi tre secoli sono stati molti gli scienziati che hanno tentato di fornire una definizione di tale fenomeno. Il primo fu Isaac Newton (1642-1727), riteneva che la luce fosse costituita da un flusso di particelle; mentre il filosofo olandese Christiaan Huygens (1629-1695) sosteneva che gli impulsi luminosi si diffondessero attraverso un mezzo impercettibile, l’etere, concepito sotto forme di sfere plastiche in contatto fra loro: qualunque movimento o perturbazione sarebbe stata trasmessa dalle sfere, accostate l’una alle altre, in qualsiasi direzione sotto forma di un’onda che è costituita dai raggi di luce. Sono state tante le polemiche tra gli studiosi, l’intento principale sicuramente è stato quello di definire la velocità della luce stessa. La risposta venne data da un astronomo danese, Ole Romer (1644-1710) il quale osservando dei corpi celesti, si accorse che la luce per percorrere un dato spazio impiega un tempo ben determinato, da ciò deduce che la luce viaggia ad una velocità finita e calcolabile. Precedentemente si pensava che la luce fosse onnipresente in ogni cosa e che non si muovesse. Compreso questo concetto si può intuire che noi percepiamo i corpi celesti 4 Luce con un ritardo molto significativo rispetto al loro presente, per esempio, il sole lo vediamo con un ritardo di otto minuti rispetto al momento in cui ha emesso la luce che noi percepiamo. Il valore della velocità della luce attualmente è stato calcolato con grande precisione, ed è pari a 3.108 m/s, ma tale velocità vale solo in un sistema di vuoto assoluto; quando si propaga nel vetro, nell’acqua, o in qualsiasi altro corpo trasparente, la sua velocità diminuisce in relazione all’indice di rifrazione (in modo inversamente proporzionale alla densità) del corpo che attraversa. Questo fenomeno è di estrema importanza; è in virtù di questo che i prismi di deviano la luce e le lenti sono in grado di formare le immagini. La legge della rifrazione nella sua definizione trigonometrica. Quando la luce passa da un mezzo A a un altro B, il senso dell’angolo di incidenza forma un rapporto costante con il seno dell’angolo di rifrazione. Possiamo visualizzare quanto accade con un semplice diagramma: se il raggio AB passa da un mezzo più denso (per esempio il vetro) ad uno meno denso (l’aria o direttamente il vuoto) esso emergerà con un angolo i lungo la direzione BD; secondo la legge della rifrazione vale la relazione sen i = n . sen r, dove (nel caso in cui il secondo mezzo sia il vuoto) la costante n definisce il valore dell’indice di rifrazione del vetro, oppure di qualche altra sostanza presa in esame. Fu Newton il primo a condurre un importante esperimento in grado di scomporre la luce nelle sue componenti fondamentali; egli scoprì, grazie all’utilizzo di un prisma di vetro, che un raggio di luce attraversandolo, si scomponeva in una gamma di colori ben Richard L. Gregory, Occhio e cervello, Milano, Raffaello Cortina Editore,1998. pag. 20 Manfredo Massironi, Fenomenologia della percezione visiva, Bologna, Mulino,1998. pag. 25 Rudolf Arnheim, Il pensiero visivo, Torino, Giulio Einaudi Editore s.p.a. pag. 45 5 Luce definita. Quando un fascio di raggi di luce monocromatica viene scomposto da un prisma ogni radiazione di differente lunghezza d’onda (o frequenza) viene deviata con un angolo leggermente diverso, cosicché i raggi uscenti dal prisma si presentano come un ventaglio luminoso, in cui si distinguono tutti i colori dello spettro. È anche possibile ricomporre la luce bianca dall’insieme dei colori che formano lo spettro facendo passare il fascio di luce scomposta dal primo prisma attraverso un secondo prisma, simile al primo ma orientato in senso inverso. Newton distinse nello spettro che si formò ben sette colori differenti: rosso, arancione, giallo, verde, azzurro, indaco e violetto. Di fatto l’indaco non risulta ben differenziato come colore e l’esistenza dell’arancione appare dubbia. Ma Newton era particolarmente attratto dal numero sette, come numero magico, e considerava lo spettro in analogia con le note del pentagramma proprio per questi motivi aggiunse indaco e arancione. Fu forse anche più facile far accettare all’ambiente religioso il fatto che la luce fosse un mero fenomeno fisico e non emanazione del divino; il numero “sette” riporta a diversi dogmi come i peccati capitali ecc. Oggi abbiamo la certezza e sappiamo che ogni colore spettrale è una radiazione luminosa con differente frequenza. Inoltre sappiamo che tutte le radiazioni elettromagnetiche hanno la stessa natura. Il nostro occhio però è stimolato a produrre visione solo da una banda molto limitata di frequenze pari ad un ottavo del totale. Nella figura seguente si può notare chiaramente quanto sia ristretta la finestra delle radiazioni visibili al nostro occhio; rispetto al totale i nostri occhi sono davvero limitati. Gli occhi dell’essere umano sono adatti a recidere la lunghezza d’onda della radiazione solare, dotate di energia assai elevata, senza che i materiali biologici di cui sono costituiti subiscano alcun danno, invece per esempio, gli occhi composti degli insetti funzionano nell’ultravioletto a causa delle loro ridotte dimensioni. Per concludere diamo un ultima e universale definizione della luce: la luce può essere definita come un insieme di particelle di energia, denominate fotoni ovvero quanti di luce. Esse possiedono sia le proprietà caratteristiche dei corpuscoli sia quelle tipiche Richard L. Gregory, Occhio e cervello, Milano, Raffaello Cortina Editore,1998. pag 29 Manfredo Massironi, Fenomenologia della percezione visiva, Bologna, Mulino,1998. pag. 33 Rudolf Arnheim, Il pensiero visivo, Torino, Giulio Einaudi Editore s.p.a. pag 67 6 Luce delle onde, infatti proprio per questo motivo in molti casi il fotone viene descritto come un pacchetto d’onde composte da un numero tanto maggiore d’onde quanto minore è la loro lunghezza. Lunghezza d’onda della luce percepita dal nostro occhio 7 L’occhio 1.3 L’occhio L’occhio permette di catturare e trasmettere immagini al cervello. Può essere paragonato ad una sofisticata macchina ottica che soddisfa i comandi del cervello. Ma come si sono evoluti gli occhi? Attraverso quali stadi si sono sviluppati gli elementi che lo compongono? E ancora a cosa potrebbe servire l’occhio senza il cervello in grado di interpretare le immagini? Per poter spiegare l’evoluzione di tale organo sensoriale dobbiamo far riferimento alle teorie di Darwin con riferimento al processo di selezione naturale, come tutti gli organi che compongono il nostro corpo, l’occhio si è sviluppato per fornirci informazione in concomitanza con il cervello. Occhio e cervello si sono evoluti attraverso un processo lento e casuale di tentativi ed errori. C’è da dire che tutti gli esseri viventi sono sensibili alla luce, le piante prendono energia dalla luce solare ed addirittura alcune di esse seguono lo spostamento del sole proprio come se i loro fiori fossero degli occhi. Ma la percezione della forma e dei colori e stata resa possibile solo con lo sviluppo dell’apparato sensoriale deputato a tutto ciò, l’occhio. Le origini della formazione di tale apparato sensoriale sono avvolte nel mistero, per cercare una sorta di spiegazione si dovrebbe ripercorrere l’evoluzione dai pochi resti fossili che abbiamo a disposizione. Comunque, senza addentrarci nei particolari la natura ha fatto sì che gli esseri animali fossero dotati di tale organo sensoriale fondamentale per la sopravvivenza e la percezione dell’ambiente stesso. Adesso proviamo a focalizzare la funzione dell’occhio umano. I nostri occhi sono tipici di tutti i vertebrati e non sono neanche molto sofisticati rispetto a quelli di altri esseri, sebbene il cervello umano sia quello più evoluto rispetto a quelli degli altri esseri viventi, e tutto ciò non è un caso, molto spesso occhi complicati si accompagnano a cervelli molto più semplici. Ma come si formano le immagini nell’occhio? Una prima spiegazione è stata data da uno studioso arabo Alhazen agli inizi dell’anno Mille, egli si rese conto dell’errore compiuto da Euclide nel 300 a.C. nel considerare l’occhio come un punto geometrico, con raggi di luce proiettati all’esterno verso gli oggetti. Cosicché nel decimo secolo Alhazen progettò per primo la camera oscura. Egli osservò con un semplice foro ed uno schermo, che gli oggetti si disegnano sulle superficie dello schermo formando un immagine ottica. 8 L’occhio Successivamente la camera oscura progettata da Alhazen venne perfezionata da Gian Battista Della Porta, che sostituì il foro con una lente focalizzante, al fine di ottenere immagini brillanti per poterne individuare con chiarezza forme e colori. Egli descrisse la camera oscura come una “Magia Naturale” pensando di poter spiegare il funzionamento dell’occhio con un processo del tutto analogo. Infatti “considerò la pupilla come un piccolo buco attraverso il quale entra la luce che viene catturata e trasmessa al cervello da quella parte interna dell’occhio detta tavola di cristallo.” In effetti se pure un pò rozza la camera oscura progettata da Gian Battista Della Porta aveva chiarito il funzionamento dell’occhio. Il mistero era finalmente svelato, il mondo è visto dal cervello tramite la camera oscura costituita dall’occhio. Possiamo così infine considerare gli occhi come dispositivi ottici che obbediscono alle leggi della fisica e dell’ottica. L’occhio quindi è una mirabile macchina perfetta costituita dalla natura, ogni sua parte è mirabilmente progettata ed ha un compito ben specifico indipendente dalle altre. La cornea, caratterizzata dalla mancanza di vasi sanguigni, ricava il proprio nutrimento dall’umor acqueo, per cui è praticamente indipendente dal resto dell’organismo. L’altra struttura specializzata che non è irrorata da vasi sanguigni è la lente dell’occhio (il cristallino). Ogni globo oculare è provvisto di sei muscoli estrinseci che lo trattengono nella cavità orbitale, lo fanno ruotare nella direzione degli oggetti in movimento, lo dirigono negli oggetti fermi. Normalmente gli occhi partecipano nella visione in perfetta sinergia. Anche all’interno del globo oculare vi sono muscoli. L’iride è un muscolo anulare che forma la pupilla attraverso cui passa la luce per arrivare sulla lente, che si trova immediatamente dietro ad esso. L’iride si contrae, restringendo il foro pupillare, sia quando la luce è intensa, per ridurre l’apertura della lente, sia quando gli occhi convergono, per vedere oggetti vicini. Tutto ciò fa si che aumenta la profondità di campo la quale consente di focalizzare in modo distinto, con un procedimento analogo con cui opera la riduzione del diagramma di una macchina fotografica. Un altro muscolo controlla la messa a fuoco della lente. Dal sito: http://www.quipo.it/occhio/anatomia3.html Richard L. Gregory, Occhio e cervello, Milano, Raffaello Cortina Editore,1998. pag.52 9 L’occhio L’occhio umano rappresenta il più importante strumento ottico. In esso si trova la lente focale, la quale trasmette un immagine rimpicciolita e capovolta di ciò che si osserva su un numero elevatissimo di fotorecettori che trasformano l’energia luminosa in una serie di impulsi elettrici, costituendo una sorta di linguaggio che il cervello legge ed interpreta. Arrivati a questo punto non resta che descrivere i passaggi fondamentali che il nostro occhio compie nel catturare le immagini. La visione è generata dai fotorecettori della retina; l'immagine lascia l'occhio attraverso il nervo ottico e raggiunge poi il chiasma, una struttura formata dall'unione dei nervi ottici all'interno del cervello. Dopo il chiasma l'immagine attraversa tutto il cervello e raggiunge la corteccia visiva primaria che si trova a livello della nuca. http://www.quipo.it/occhio/anatomia3.html Richard L. Gregory, Occhio e cervello, Milano, Raffaello Cortina Editore,1998. pag.54 10 L’occhio I due nervi ottici unendosi formano una struttura ad X disposta sopra un’importante ghiandola del cervello chiamata ipofisi. All’interno del chiasma parte delle fibre dei nervi ottici si incrociano tra loro: le fibre provenienti dalla metà interna di ogni nervo ottico, detta nasale, passano cioè dal lato opposto mentre le fibre provenienti dalla metà esterna di ogni nervo ottico, detta temporale, rimangono dallo stesso lato. In questo modo ciascun braccio della X chiasmatica è formato dalle fibre temporali di un lato e dalle fibre nasali del lato opposto. La parte posteriore di ogni braccio del chiasma viene chiamata tratto ottico e al suo interno le fibre nervose mantengono la stessa disposizione del chiasma. I tratti ottici terminano a livello di zone del cervello chiamati corpi genicolati laterali; da qui partono le radiazioni visive, ultima parte delle vie ottiche, costituite dalle fibre nervose che si separano a ventaglio e, percorrendo tutto il cervello, arrivano alla corteccia visiva primaria la parte di cervello localizzata in sede occipitale, cioè a livello della nuca, cui vengono inviati tutti i vari dettagli registrati dalla retina generando così una visione d’insieme complessiva. La corteccia visiva primaria è divisa in una metà destra e in una metà sinistra; ciascuna metà è poi ulteriormente suddivisa in una parte inferiore e in una superiore dalla scissura calcarina. http://www.quipo.it/occhio/anatomia3.html 11 L’occhio Come già detto prima, l’occhio può ruotare grazie a sei muscoli. I movimenti oculari si rendono necessari per poter guardare con chiarezza; pertanto, la registrazione dei movimenti degli occhi può fornire un’indicazione di cosa il cervello ritenga necessario guardare in determinate situazioni. Tali movimenti sono influenzati da quanto stiamo facendo e da ciò che stiamo osservando. Diversi esperimenti hanno confermato che gli occhi si muovono dando preferenza alla visione di alcuni particolari piuttosto che di altri (tale movimento è detto Saccade). La registrazione di ciò che l’occhio preferisce osservare fornisce delle valide istruzioni su come il cervello lavori per percepire un immagine. Recentemente grazie a esperimenti particolari si è scoperto un fenomeno sorprendente. Sono stati sottoposti in visione ad alcune persone due disegni praticamente identici salvo qualche piccolo particolare, alternandoli con un certo intervallo. Si è potuto costatare che quando l’alternanza tra due immagini coincideva temporalmente con un movimento a scatti degli occhi (una Saccade), differenze anche vistose non venivano notate. Dal sito: http://www.quipo.it/occhio/anatomia3.html Richard L. Gregory, Occhio e cervello, Milano, Raffaello Cortina Editore,1998. pag.54 12 L’occhio Questi risultati sottolineano l’importanza che le rappresentazioni interne rivestono per la percezione: quando fissano una immagine, i nostri occhi registrano assai meno rispetto a quello che noi effettivamente vediamo. Un altro fattore da prendere in considerazione per comprendere la visione è il lavoro che gli occhi compiono in coppia. Molti organi sono presenti in coppia nel nostro corpo ma gli occhi presentano la particolarità di lavorare in stretto rapporto. I due occhi condividono e confrontano le informazioni che catturano dall’ambiente ed insieme espletano compiti altrimenti impossibile per un singolo occhio; in particolare segnalano la distanza e la profondità, per quanto concerne la visione. Una caratteristica del sistema visivo è la sua capacità di combinare due immagini leggermente differenti, così da ottenere una percezione unitaria di un oggetto solido collocato in un determinato spazio fisico. Questa azione rende la visione ottimale, e inoltre basandosi sull’angolo di convergenza, segnala la distanza dell’oggetto, alla stessa stregua di un semplice telemetro. L’unico limite sta nel fatto che si può segnalare la distanza di un solo oggetto per volta. Per segnalare simultaneamente la distanza di più oggetti bisogna far ricorso a strumenti assai più complessi. 1.4 Il cervello Nell’antichità il cervello non era considerato un organo di fondamentale importanza per il nostro organismo in quanto dopo la morte si presentava privo di sangue quasi come se si trattasse di un organo estraneo al nostro corpo, basti pensare che gli antichi egizi non lo conservavano dopo la morte come facevano per gli altri organi. Si intuì l’importanza del cervello solo dopo molti secoli quando particolari incidenti, come ferite di arme da fuoco o particolari malattie lo danneggiavano creando di conseguenza problemi a tutto il corpo. Tali problemi furono oggetto di studi approfonditi. I cui risultati si rilevarono di massima importanza per gli studi di neurochirurgia. Si comprese che su determinate Dal sito: http://www.edscuola.it/archivio/lre/limcogn.html, Paolo Mantelli LRE, Università di Firenze Richard L. Gregory, Occhio e cervello, Milano, Raffaello Cortina Editore,1998. pag.104-105 13 Il cervello parti del cervello danneggiate non si può intervenire mentre su altre zone è possibile intervenire per risanare danni o menomazioni fisiche. È possibile paragonare il cervello ad un circuito elettrico; se una determinata zona risulta danneggiata non è detto che il resto non funzioni ma semplicemente che i processi risultano alterati e quindi si possono verificare fenomeni percettivi anomali. Gran parte del cervello e soprattutto quella che a noi più interessa, cioè la parte dedicata alla percezione visiva, risulta essere organizzata in moduli separati ma comunque interconnessi fra di loro. Tali zone per essere studiate devono essere isolate in vari modi, talvolta anche esportati. Grazie ai più moderni metodi è possibile verificare quali zone del cervello siano particolarmente attive nelle più svariate condizioni, come quando si legge, si guarda o si immagina. Esternamente si presenta come un organo di colore grigio-rosato, grande quanto due pugni chiusi. È costituito da una sostanza “bianca” ed una “grigia”; la materia bianca contiene un insieme di fibre di connessione, le quali collegano i molti tipi di corpi cellulari che formano la materia grigia. Le attività relative alla visione avvengono nella parte più esterna detta corteccia cerebrale. Nella sua evoluzione il cervello si è sviluppato a partire dal nucleo centrale, zona destinata ai sistemi di sopravvivenza, come il respirare e attività emotive. La parte superficiale, la corteccia cerebrale, è dedicata soprattutto al controllo motorio degli arti e al funzionamento degli organi di senso. La teoria di Paul Mclean (accettata fino agli anni ’70) distingue tre tipi di cervello: uno più primitivo a “rettiliano” che comprende il midollo spinale e la zona inferiore del tronco encefalico, che controlla il comportamento istintivo e quelle attività automatiche che non coinvolgono la sfera emotiva e psichica; uno intermedio o “paleocervello” costituito dalla struttura posta sotto il curaneto cerebrale (ipotalamo e lobo limbico) che controlla gli stati emozionali e i comportamenti aggressivi e sessuali; uno più evoluto, la “neocorteccia” sede delle attività più alte dell’uomo comprese quelle razionali. Ciascuna cellula nervosa presente nel cervello, è formata da un corpo cellulare e da una lunga e sottile terminazione che trasporta gli impulsi provenienti dalla cellula stessa. Talvolta alcune terminazioni delle cellule nervose possono avere delle terminazioni Richard L. Gregory, Occhio e cervello, Milano, Raffaello Cortina Editore,1998. pag.106 14 Il cervello molto lunghe in grado di arrivare nel midollo spinale. Nella zona della corteccia dove risiedono i processi visivi, tali cellule sono raggruppate in strati, da cui deriva il nome corteccia striata dato alla regione primaria della visione. I segnali nervosi sono trasmessi sotto forma di impulsi elettrici, i quali costituiscono i soli segnali di ingresso e uscita del cervello,e che viaggiano ad una velocità molto alta, superiore a quella della luce. Gli stimoli elettrici intervengono anche nella percezione visiva, nei primi stadi di elaborazione del segnale visivo si posiziona una mappatura sommaria della retina all’interno dei vari moduli specializzati, che viene presto perduta man mano che il processo continua. Abbiamo un’elaborazione, separata e parallela, della forma, del movimento, del colore e probabilmente di numerose altre dimensioni visive. Il fatto che vi siano vari moduli di elaborazione separati, i quali combinano in qualche modo i loro risultati fino ad avere la percezione completa di un oggetto, rappresenta una scoperta recente. Mentre i meccanismi di coesione fra i moduli ancora sono avvolti nel mistero. Tramite particolari esperimenti si è scoperto che, in condizioni normali di contrasto, forma e colori possono venire dissociati. Quando lettere di diverso colore vengono illuminate in modo lampeggiante, a volte l’osservatore attribuisce in modo errato il colore ad una lettera. Si ritiene che il collegamento si verifichi più tardi, forse con un processo dall’alto verso il basso coinvolgente significato e attenzione; poiché solo raramente (se non mai), gli oggetti di colore noto vengono trasposti. Si tratta di importanti effetti soggettivi. Recentemente si è anche scoperto che esistono dei moduli cerebrali dedicati a determinate funzioni che entrano in funzione solo se si osservano determinate immagini per esempio, esistono moduli si attivano solo quando si osserva il volto di una persona o le mani. Determinate patologie possono danneggiare uno di questi moduli tanto da rendere il paziente incapace di riconoscere semplicemente il volto di una persona anche se tutte le altre sue funzioni percettive permangono perfettamente attive. Un esempio che ci può far capire meglio la funzionalità del modulo relativo al riconoscimento del viso è data dall’esperienza del volto in disordine, meglio conosciuto Richard L. Gregory, Occhio e cervello, Milano, Raffaello Cortina Editore,1998. pag.108 15 Il cervello come l’effetto Thompson. Se rimuoviamo dall’immagine di un viso gli occhi e la bocca, quindi li capovolgiamo e li riposizioniamo pressappoco nella posizione originaria, la faccia che ne deriva appare decisamente bizzarra e perfino spaventosa. Ma se capovolgiamo l’intera immagine, essa ci appare pressochè normale: il che mostra come la rotazione della bocca e degli occhi venga a stento notata. Tutto ciò suggerisce l’idea che i moduli cerebrali specializzati all’elaborazione dei volti siano indirizzati a elaborare solo questi particolari. Effetto Thompson Fino ad ora abbiamo compreso come lavora il cervello per percepire determinate forme, infatti è sempre più palese che esso elabora le informazioni visive attraverso dei moduli specializzati a determinate funzioni percettive. La percezione cromatica è comparsa tardi nella storia evolutiva dei mammiferi, le elaborazioni cerebrali ad essa collegate sono aggiunte posteriori, largamente separate rispetto alla percezione della forma. Le cellule predisposte alla percezione della forma e del colore sono disposte in sottili strati alternati. È stato rilevato negli ultimi anni da alcuni studi che nella stazione intermedia tra gli occhi e la corteccia, il nucleo Richard L. Gregory, Occhio e cervello, Milano, Raffaello Cortina Editore,1998. pag.119 Autore Paolo Manzelli, articolo dal sito: http://www.geocities.com/ResearchTriangle/Thinktank/4363/il_cervello.htm 16 Il cervello genicolato laterale, esistono grandi cellule chiamate magno e piccole cellule chiamate parvo, impiegate rispettivamente per la percezione della forma e del colore. Il sistema magno è assolutamente cieco al colore, esso segnala la forma ed il movimento e opera assai più velocemente del sistema parvo, che viene utilizzato per la percezione cromatica. Con i moderni strumenti e metodi che abbiamo a disposizione: le scansioni PET (Tomografia a Emissione di Positroni) e NMR (Risonanza Magnetica Nucleare), è stato possibile rivoluzionare il metodo di studio del cervello, fornendo ai medici informazioni importantissime. Per esempio, da studi fatti su soggetti sani è stato possibile rilevare, usando la scansione PET per monitorare le attività cerebrali che alcuni pazienti se spinti ad immaginare determinati colori attivano in modo automatico la zona relativa alla percezione cromatica, se spinti invece a immaginare il movimento di un animale, attivano la zona relativa alla percezione del movimento. È molto interessante notare che questi cambiamenti avvengono senza alcuna variazione dello stimolo visivo: a mutare è soltanto ciò che il soggetto si raffigura mentalmente. Il risultato è che sono all’incirca le stesse aree cerebrali ad essere attive tanto nei processi di visione del colore, del movimento o della forma, quanto in quelli in cui il colore, movimento e forma vengono immaginati. Durante un sogno sono attive le stesse aree cerebrali connesse alla vista, all’udito o al movimento degli arti che risultano attive durante lo stato di veglia. Così, infine, si può dire che i processi cognitivi sono stati ritenuti assimilabili alle esperienze e alle azioni. 17 18 2 Vedere e percepire 2.1 La luminosità La comprensione della percezione visiva della "luce" è stato uno dei temi più discussi della storia delle conoscenze dell’ uomo. Prima di intraprendere il discorso e spiegare com’è possibile osservare la luce ed in che modo viene percepita la luminosità, dobbiamo chiarire dei concetti a cui faremo spesso riferimento nella trattazione di tale argomento. La luce è una radiazione elettromagnetica emessa da una sorgente luminosa o riflessa da oggetti opachi, che viene percepita dagli occhi ed elaborata dal cervello, presenta delle determinate caratteristiche: fisiche: lunghezza d'onda ed intensità percettive: brillantezza, collegata alla sua intensità, colore (tinta), collegata alla sua lunghezza d'onda, luminosità Inoltre la luce può indurre particolari sensazioni: caldo o freddo, variazioni di umore, collegate alla visione di certi colori, sensazioni legate a fattori culturali. Il grado di luminosità percepito non è semplicemente influenzato dall’intensità di luce che colpisce la retina, ma dipende anche dallo stato di adattamento degli occhi, nonché da differenti e complicate condizioni che determinano il contrasto degli oggetti e delle macchie di luce. Per esprimermi meglio, la luminosità è funzione non soltanto dell’intensità della luce che cade in una data regione della retina in un dato istante, ma anche dell’intensità luminosa alla quale la retina è stata sottoposta in momenti precedenti, e dei valori di intensità che nel medesimo istante interessano altre aree della retina stessa. Una prova di tutto ciò che è stato detto fino ad ora deriva da un piccolo esperimento che possiamo fare tutti facilmente: se restiamo isolati per un certo tempo in un ambiente con un basso livello di luminosità, gli occhi diventano via via più sensibili e una determinata luce apparirà più luminosa. Un altro fattore che rende più o meno luminosa una determinata regione osservata è il contrasto. In genere una certa zona appare più luminosa se ciò che la circonda è scuro, e un colore sembra più intenso se circondato dal suo colore complementare. Autore Paolo Manzelli, articolo sul sito: http://www.edscuola.it/archivio/lre/intelligenza_visiva.html 19 La luminosità Tutto questo è certamente da porre in relazione con le interconnessioni con i recettori retinici: il potenziamento del contrasto sembra sia legato all’importanza che, complessivamente, rivestono i contorni ai fini della percezione; in quanto sembra che sia principalmente l’esistenza di bordi a essere segnalata al cervello. Contrasto simultaneo La parte dell’anello color grigio che si trova sul fondo nero appare un po’ più luminosa rispetto alla restante parte dell’anello, che si trova su fondo bianco. Questo effetto è maggiormente evidenziate se si dispone un filo attraverso l’anello, lungo il bordo che separa la regione bianca da quella nera. Un altro fattore importante è dato dal fatto che la luminosità dipende dal colore: se poniamo di fronte ai nostri occhi sorgenti di luce di colori diversi e di uguale intensità, i Autore Paolo Manzelli, articolo sul sito: http://www.edscuola.it/archivio/lre/intelligenza_visiva.html 20 La luminosità colori al centro appariranno più luminosi di quelli che si trovano agli estremi. Si tratta di un aspetto di una certa importanza pratica, infatti se un segnale luminoso di pericolo deve risultare chiaramente visibile, esso dovrebbe essere di un colore per il quale l’occhio presenta la massima sensibilità, ovvero nella parte centrale dello specchio. Luminosità spettrale. La parte centrale anche se di stessa intensità risulta più chiara e visibile semplicemente per una maggiore sensibilità della retina a percepire tali tonalità. Ma cosa accade al nostro occhio quando osserviamo una sorgente di luce molto debole all’interno di un luogo molto scuro? Si potrebbe immaginare che in assenza di luce nessun segnale di attività raggiunga il cervello, e che solo in presenza di una, se pur piccola fonte di luce, la retina ne segnala al cervello l’esistenza, cosicché noi vediamo la luce. Ma in realtà non è così semplice. Anche in essenza totale di luce, la retina ed il nervo ottico non sono totalmente inattivi; permane qualche attività neurale residua, la quale raggiunge il cervello senza che l’occhio ne segnali l’esistenza. Tale sottofondo continuo di attività casuale è di grande importanza, in quanto sottopone perennemente al cervello qualche problema. Il quesito che il cervello deve risolvere durante tali processi consiste nel decidere se tale attività cerebrale sta rappresentando qualche attività esterna, oppure se si tratta semplicemente di un disturbo che dovrebbe essere ignorato. Tali interferenze sono provate dai lampi di luce che delle volte si verificano alla nostra visione in modo inconsapevole senza una spiegazione fisica. Autore Paolo Manzelli, articolo sul sito: http://www.edscuola.it/archivio/lre/intelligenza_visiva.html Richard L. Gregory, Occhio e cervello, Milano, Raffaello Cortina Editore,1998. pag.139 21 Il colore 2.2 Il colore Lo studio della visione cromatica costituisce un ramo della più generale indagine sulla percezione visiva, e ne rappresenta uno degli aspetti più attraenti. Ormai è certo che nessun mammifero al di sotto dei primati, nella scala evolutiva, possiede una visione cromatica; e se anche ne possedesse una sarebbe comunque rudimentale. Tutto ciò è molto strano perché molti animali inferiori hanno una percezione cromatica molto sviluppata. Per esempio gli uccelli, i pesci, i rettili e anche gli insetti in grado di raggiungere “performances” superiori alle nostre. Lo studio della visione dei colori, come detto in precedenza, ha inizio con la grande opera di Newton, “l’Ottica”, che rappresenta indubbiamente uno dei più importanti trattati sull’ottica. Newton mostrò che la luce bianca è costituita da tutti i colori dello spettro; e con la successiva elaborazione della teoria ondulatoria della luce divenne chiaro che ciascun colore corrisponde ad una data frequenza. Ma qual’è il meccanismo mediante il quale si generano risposte differenti per diverse frequenze? Lo spettro dei colori si presenta ad una velocità molto elevata di frequenza, molto più elevata rispetto a quella che il sistema nervoso è in grado di seguire direttamente. Il numero massimo di impulsi per secondo che il sistema nervoso riesce a trasmettere è inferiore a mille, mentre la frequenza della luce è un milione di milioni di cicli al secondo. Un altro problema che sorge, arrivati a questo punto, è come vengono rappresentate dal sistema nervoso, che opera a bassa velocità, le frequenze ad altissima velocità della radiazione luminosa? La spiegazione a tale fenomeno viene dal fatto che i colori possono essere mescolati. Questa affermazione può apparire ovvia ma se spieghiamo il concetto di “mescolanza” di colori le cose si complicano. La somma di due luci colorate genera una terza luce che non conserva le caratteristiche delle prime due, per esempio sommando una luce verde ed una rossa si ottiene il giallo. I segnali nervosi si combinano nello stesso modo, quando vediamo una luce gialla non vuol dire che abbiamo un recettore che riconosce il giallo come colore univoco ma semplicemente vengono messi in moto dalle attività cerebrali i due ricettori che formano il giallo, cioè il recettore destinato alla luce verde e quello destinato alla luce rossa sono stimolati e Dal sito: http://www.itis-molinari.mi.it/documents/colori/luce.htm Richard L. Gregory, Occhio e cervello, Milano, Raffaello Cortina Editore,1998. pag.189 22 Il colore mandano un segnale al cervello che crea la sensazione del colore. Da ciò si evince il fatto che dai colori primari si formano tutti gli altri colori presenti nello spettro di luce visibile. I colori primari della luce sono il rosso, il verde e il blu. Di conseguenza il nostro cervello è dotato di tre recettori che riconoscono queste tonalità, mescolandole, in modo da render visibile tutti gli altri colori dello spettro. Nella pittura o nella stampa i colori non sono dati dalla somma di luci ma al contrario si usano i pigmenti per sottrarre colori al bianco in modo da ottenere la tinta desiderata. I pigmenti fondamentali sono i complementari dei tre colori primari della luce, i quali si combinano per generare mescolanze cromatiche additive (Sintesi Additiva). Le stampe o tutte le superfici di qualsiasi oggetto che non emettono luce, sono unicamente in grado di eliminare alcuni colori: noi vediamo ciò che rimane; per esempio, le foglie verdi assorbono ogni gamma di radiazione luminosa eccetto quella di colore verde (Sintesi Sottrattiva). Le stampanti a colori non usano quindi il rosso, il verde ed il blu per realizzare i colori, ma esse impiegano invece i complementari, cioè il ciano che stimola i recettori blu e verdi, il Magenta che stimola i rossi ed i blu, ed il giallo che stimola quelli rossi e verdi. Sottraendo tutti i colori si ottiene il nero e qual’ora non se ne sottragga nessuno si ottiene il bianco. Bisogna però ancora aggiungere altro sulla costanza cromatica e sulla visione dei colori, poiché noi tendiamo a vedere sostanzialmente inalterati i colori delle superfici degli oggetti anche se il raggio di luce che li colpisce ha una dominante di colore diversa da quella del bianco. Tale fenomeno è noto come costanza cromatica: quando a Richard L. Gregory, Occhio e cervello, Milano, Raffaello Cortina Editore,1998. pag.196 23 Il colore essere osservati sono gli oggetti noi non tendiamo a vedere il colore solo in rapporto alla lunghezza d’onda della luce che li colpisce, questo indica che i dispositivi progettati per essere di semplice uso di laboratorio, per effettuare misure quantitative, risultano trascurare aspetti essenziali della percezione. Tutto ciò ci fa capire che la visione di un determinato colore non dipende semplicemente dalle lunghezze d’onda proiettate dalla luce ma è dovuto anche alle differenza di identità della piccole regioni, e inoltre dipende dai tracciati che rappresentano o meno degli oggetti. Si potrebbe supporre che ad essere implicati siano dei processi cerebrali di alto livello. L’occhio tende ad assumere come bianca non tanto una particolare miscela di colori, quanto piuttosto un illuminazione generale, qualunque essa sia. Così, i fari di un’automobile ci sembrano bianchi quando ci troviamo in aperta campagna, mentre in città, dove possono essere confrontati con luci più bianche assumono un colore più giallo. Il fatto che ci si attenda una determinata tinta, o che si conosca l’usuale colore degli oggetti, è importantissimo, per esempio le arance e i limoni assumono un colore più intenso quando ne conosciamo l’effettiva identità. 2.3 Il movimento Per tutti gli esseri viventi, ad eccezione dei più semplici, rilevare il movimento è essenziale alla sopravvivenza. In natura troviamo anche degli apparati visivi che in assenza di movimenti non riescono a percepire, si tratta di apparati meno evoluti che comunque non hanno bisogno di percepire tale situazioni. I bordi della nostra retina sono sensibili solo al movimento, tutto ciò è verificabile chiedendo a qualcuno di agitare un oggetto al limite del nostro campo visivo, dove vengono stimolati soltanto i bordi della retina: il movimento viene colto. Ma risulta impossibile identificare di quale oggetto si tratti, né se ne ha una visione cromatica; quando il movimento si ferma, l’oggetto diviene invisibile. Questa è l’esperienza più vicina alla visione primitiva che ci sia dato provare. Ma il movimento di un oggetto percepito, porta istintivamente a focalizzare l’oggetto all’interno della nostra area visiva maggiormente evoluta (zona foveale) per giungere alla sua identificazione. 24 Il movimento I nostri occhi forniscono due tipi di informazioni sul movimento: quando rimangono fermi, l’immagine dell’oggetto in movimento si sposta attraversando in sequenza molti recettori, e i segnali di movimento giungono dalle retine; quando invece gli occhi seguono l’oggetto in movimento, le corrispondenti immagini sulle retine rimangono per lo più stazionarie e non possono quindi segnalare alcun movimento seppure questo sia percepito da noi (ciò si verifica anche in assenza di uno sfondo che possa modificare l’immagine sulla retina man mano che gli occhi si muovono). Per rilevare il movimento esistono quindi due sistemi visivi essenzialmente differenti: il sistema immagine-retina e quello occhio-capo. Lo studio del sistema immagine-retina una registrazione dell’attività elettrica generata dal sistema oculare rivela che vi sono diversi tipi di recettori, alcuni segnalano quando una luce viene accesa, altri quando viene spenta, mentre altri ancora ne segnalano sia l’accendersi che lo spegnersi. Questi recettori sono nominati rispettivamente “on”, “off” e “on-off”, sembra che quei recettori che rispondono solamente alle variazioni di illuminazione siano responsabili della segnalazione di movimento, e che gli occhi siano tutti essenzialmente dei rivelatori di movimento. L’immagine che si sposta lungo la retina stimola, in successione, i recettori lungo il suo tragitto, e quanto più velocemente l’immagine si sposta tanto maggiore sarà il segnale di velocità da essa generato. Nello studio del sistema occhio-capo risulta che il sistema neurale che fornisce la percezione del movimento in seguito allo scorrere dell’immagine sulla retina è assai diverso da quello che rileva il movimento sulla base della rotazione degli occhi rispetto al capo. Il fatto che l’occhio si sta muovendo è segnalato in qualche modo al cervello e utilizzato per indicare i movimenti di oggetti esterni. Il meccanismo più ovvio di segnalazione del movimento occhio capo potrebbe trarre origine dai muscoli oculari: quando questi vengono contratti dei segnali potrebbero essere rinviati verso il cervello, al fine di fornire indicazioni sul movimento degli occhi e quindi sul movimento degli oggetti che vengono seguiti dagli occhi stessi. Ogni volta che muoviamo gli occhi, le immagini retiniche scorrono sui recettori, e tuttavia noi non abbiamo nessuna sensazione di movimento; cosa che si verifica invece quando a ruotare è una cinepresa o telecamera. Come è possibile tutto ciò? Sembra che Richard L. Gregory, Occhio e cervello, Milano, Raffaello Cortina Editore,1998. pag.200 25 Il movimento in occasione dei normali movimenti oculari i segnali, che arrivano dai sistemi visivi deputati alla percezione del movimento, si inibiscano vicendevolmente al fine di dare stabilità al mondo visivo. 26 3 Teorie sulla percezione visiva 3.1 Teorie filosofiche della visione Molti in passato si sono chiesti come sia possibile pervenire alla conoscenza del mondo, nasciamo con un bagaglio di conoscenze ereditarie, innate, oppure dobbiamo apprendere? I filosofi che si sono poste queste domande possono essere divisi in due grandi categorie: coloro, detti Metafisici, i quali ritengono che alcune conoscenze relative al mondo fisico siano in nostro possesso a prescindere da qualsiasi attività di esperienza sensoriale avuta in passato; e coloro che vengono denominati come Empiristi, i quali sostengono che tutta la conoscenza è derivata da esperimenti ed osservazioni. Tutte e due però hanno un punto in comune: esse considerano i sensi dei registratori passivi, o meglio dei canali attraverso i quali le informazioni scorrono da fuori a dentro o viceversa. Per dare una sorta di spiegazione a questi due metodi di studio si deve considerare il comportamento del bambino. Lo sviluppo che il bambino ha durante la fase di crescita risulta senza dubbio essere il complesso prodotto di interazioni con il mondo oggettuale che egli attua essendo collocato in determinate situazioni sociali, interazioni che dipendono dalle sue iniziative e dalle opportunità di gioco e di scoperta che sono a sua disposizione. Il gioco dei bambini non è assai dissimile dalle attività che gli scienziati compiono nei loro laboratori per giungere a delle nuove scoperte. Una gran conoscenza innata è immediatamente disponibile senza bisogno di particolari esperienze per un neonato o anche per il mondo animale. Per esempio, gli uccelli appena nati riconoscono il pericolo dei predatori, infatti, si ritraggono davanti al tale sagoma. E come gli uccelli molte specie animali sembrano avere una base di conoscenza basata sull’istinto. Allora come è possibile tutto ciò, se gli empiristi credono nel fatto che tutta la conoscenza è data dall’esperienza? Manfredo Massironi, Fenomenologia della percezione visiva, Bologna, Mulino,1998. Rudolf Arnheim, Il pensiero visivo, Torino, Giulio Einaudi Editore s.p.a. pag 247 Richard L. Gregory, Occhio e cervello, Milano, Raffaello Cortina Editore,1998. pag.196 27 Teorie filosofiche della visione Un apprendimento molto rapido forse viene confuso con una conoscenza innata? Molti studiosi ritengono che una parte della struttura profonda della lingua naturale deve essere innata nel bambino, in quanto sembra impossibile che un bambino impari così velocemente i meccanismi del linguaggio. Una vera risposta a tale quesiti ancora oggi non è possibile in quanto tutto ciò che sappiamo ci è pervenuto solo con esperimenti fatti su animali e solo qualcuno, pur limitato, fatto sui bambini. Per il momento ci congediamo dal problema dando un’affermazione sicuramente non erronea: al momento della nascita ogni bambino possiede già una base di conoscenza che sicuramente si sviluppa col diventare adulti. Con questa affermazione si può conciliare sia la teoria empirista che quella metafisica. 3.2 Il Comportamentismo Il comportamentismo fu fondato da John Broadus Watson con il suo manifesto del 1913, “La psicologia secondo i comportamentisti”, nel quale si teorizza la negazione di ogni analisi della coscienza, almeno come strumento per rendere la psicologia scientificamente credibile. Il comportamentismo si basa sugli esperimenti di riflessi condizionati ( o “condizionali”). Gli studiosi di tale corrente mostrarono che, partendo da un riflesso innato (ereditario) come quello della salvazione legata alla vista del cibo o al sentirne l’odore, si sarebbe potuto indurre in un cane il medesimo riflesso in seguito ad uno stimolo qualsiasi cui l’animale venisse sottoposto contemporaneamente o immediatamente prima della presentazione del cibo. Si mostrò così che era possibile creare catene di riflessi condizionati, per cui ai comportamentisti parve più che plausibile che tali catene di condizionamenti fossero sufficiente per spiegare tutto quanto era noto sul comportamento, perfino il linguaggio. Gli appartenenti a questo movimento elencarono i riflessi innati osservati nei bambini e misurarono la forza dello stimolo derivante dalla ricompensa; sviluppando, in tal modo, una sorta di atomismo dall’aspetto scientificamente rispettabile, mediante il quale descrivere i comportamenti complessi a partire da componenti più semplici. Manfredo Massironi, Fenomenologia della percezione visiva, Bologna, Mulino,1998. 28 Teorie filosofiche della visione Ipotizzarono che percezione e comportamento fossero direttamente e immediatamente controllati da stimoli, con modificazioni dovute ad impulsi, quali la fame, provenienti da stati interni, cosicché, partendo da una conoscenza sufficientemente estesa, la psicologia avrebbe potuto diventare una scienza perfettamente predittiva. 3.3 La psicologia della forma: “Gestalt” La Gestalt rappresenta una forma antagonista al comportamentismo. Il termine Gestalt in tedesco significa forma, tale scuola propose negli anni venti una vera e propria rivoluzione nel modo di intendere l’attività percettiva umana. Fu fondata da un gruppo di scienziati tedeschi Koheler, Koffka e Wertheimer negi anni Venti in Germania. La novità introdotta da tale corrente è sostanziale: essi ritengono che i sensi siano già capaci di svolgere un ruolo attivo, un ruolo che si esplica nell’interpretazione precategoriale della realtà e che fisicamente ha la sua zona di attuazione a livello della corteccia cerebrale. I sensi hanno dunque delle propensioni, seguono delle leggi, rilevano in definitiva delle qualità formali all’interno del percepito. Queste qualità non dipendono dalla semplice forma di elementi costituenti, ma da un rapporto strutturale di relazioni interne dell’osservato. Rispettarle significa permettere la percezione, o meglio, servire del materiale predisposto per una successiva elaborazione concettuale. Viceversa tale meccanismo non scatta e di conseguenza non si può verificare la percezione di un dato oggetto. Gli psicologi della Gestalt descrivono le percezioni come non riconducibili ad una somma di stimoli, ma come organizzate secondo varie leggi. Tali leggi, dette “costanze percettive” permettono di riconoscere un oggetto anche quando esso muta la sua posizione nello spazio e nel tempo. Le leggi dell’organizzazione gestaltiche si sono rilevate importanti per spiegare la percezioni delle immagini e dei suoni. E sono state riprese dalla comunità scientifica che si occupa di intelligenza artificiale, specialmente con l’intento di programmare il calcolatore a riconoscere forme e oggetti. Tra queste leggi vi sono: 1. Legge della vicinanza, per la quale quanto minore è la distanza, nello spazio e nel tempo, che separa gli oggetti di un insieme, tanto più grande sarà la tendenza a percepire quegli oggetti che appartenenti a un'unità. Carlo Banzaglia, Comunicare con le immagini, Paravia Bruno Mondadori editore, 2003, pag. 16-17 29 La psicologia della forma: “Gestalt” Nelle figure A, B, C. A Dalla diversa sistemazione dei punti si percepiscono figure diverse. 2. Legge della similarità, per cui all'interno di un insieme costituito da più elementi, si manifesterà la tendenza a raggruppare gli elementi che sono maggiormente simili tra loro. Nella figura si possono notare varie aree a secondo della sistemazione degli oggetti che le compongono 3. Legge del destino comune, che afferma la tendenza a percepire come appartenenti a un unico oggetto le cose che si muovono insieme, allo stesso tempo e nella stessa direzione. 4. Legge della direzione, se un modello continua nella stessa direzione di un altro, i due modelli verranno percepiti come appartenenti alla stessa unità. Nella figura si notano due s sovrapposte piuttosto che due v inclinate sullo stesso piano e opposte fra loro 30 La psicologia della forma: “Gestalt” 5. Legge della forma chiusa, per la quale si tende a percepire come appartenenti a un'unità coerente gli oggetti disposti secondo figure chiuse, regolari, simmetriche. Nella figura percepiamo delle figure compiute anche se in realtà non esistono La tendenza a organizzare elementi semplici in forme regolari, chiuse, costituite da parti simili o contigue, viene considerata dagli psicologi della Gestalt come una caratteristica innata, con conseguente ridimensionamento dell'influenza dell'apprendimento e dell'esperienza personale. Una "forma" viene considerata un'organizzazione che non può essere ricondotta alla somma degli elementi che lo costituiscono e nella quale la modificazione di uno solo di questi elementi può modificare l'intera "forma". All’origine si pensava che tali leggi si riferissero a meccanismi ereditari, ma poiché esse individuano le comuni caratteristiche della maggior parte degli oggetti, si ritenne di poter ricorrere al processo dell’apprendimento per giustificare il fatto che noi tutti possediamo pressoché le medesime organizzazioni visive. Una questione importante per la percezione visiva nella Gestalt è dato dal rapporto figura-sfondo che assume un ruolo metaforicamente molto rilevante nello scatenamento di fenomeni di riconoscimento di ordine e grado: in fondo tutta la vita dell’uomo è data dall’emergere di figure (percettive, cognitive, emotive) rispetto ad un territorio indistinto di sfondo. L’importanza del contesto ambientale e della globalità dell’esperienza che viviamo ci porta a percepire determinate cose piuttosto che altre. Sicuramente mille volte ci è capitato di imbatterci nei fenomeni di illusione ottica, casi nei quali non vediamo le cose come realmente sono perché il contesto dell’atto percettivo pretende altre informazioni. Dal sito: http://www.ildiogene.it/EncyPages/Ency=gestaltpsicologia.html Carlo Banzaglia, Comunicare con le immagini, Paravia Bruno Mondadori editore, 2003, pag. 20 31 La psicologia della forma: “Gestalt” A sinistra si vedono colonne nere a destra colonne bianche anche se il disegno è uguale ma con i colori invertiti. Un caso esemplare che è da esempio a ciò che si è detto, è dato sicuramente dai fenomeni di mimetismo. In tale caso abbiamo la vittoria, data dal contesto, di una delle leggi gestaltiche, la somiglianza e la chiusura. Pensiamo cosa accade ad un militare che indossa una tuta mimetica: la chiusura del suo corpo, pur ben percepibile, non è riconoscibile perché macchie grigio verde della stoffa richiamano le circostanti macchie della natura in cui è immerso, in tal maniera, l’unità figurale si rompe in uno sfondo costante e indeterminato che inganna il nostro occhio. I psicologi della Gestalt riconoscono il ruolo importante che ha la memoria nella percezione ma è pur vero che senza adeguate basi ottiche il riconoscimento stesso non si attua, ed è anzi molto facile mascherare cose a noi molto familiare lavorando semplicemente con il contesto di sfondo. 3.4 Teoria ecologica di Gibson Dalle teorie atomistiche della Grecia antica, all'atomismo della psicologia empiristica ottocentesca, attraverso il perfezionamento dell'ottica e delle conoscenze fisiologiche, le sfide e la complessità dei problemi connessi alla percezione sembrano anzi essere costantemente cresciute. Ciò che le ricerche sulla percezione cercano di porre in dubbio, in accordo con una certa Dal sito: http://www.ildiogene.it/EncyPages/Ency=gestaltpsicologia.html 32 Teoria ecologica di Gibson vocazione scettica della filosofia occidentale, è il senso comune, il realismo ingenuo che si appaga di ciò che vede, senza questionare né sul come, né sul perché. L'opera di Gibson rappresenta un originale tentativo dello psicologo americano di delineare una nuova teoria della percezione all'interno della cornice dell'ecologia. Ricevuta una formazione fenomenologica, Gibson trovò nel gestaltista Kurt Koffka uno dei suoi punti di riferimento essenziali. Ciò nonostante cercò di sviluppare un proprio originale programma di ricerca che infine approdò a quella che comunemente è nota come "psicologia ecologica". L'idea centrale attorno a cui si articola il pensiero di Gibson può essere in prima approssimazione sintetizzato così: per studiare in modo diverso la percezione, bisogna toglierla dai laboratori in cui è stata confinata, bisogna eliminare quegli stimoli di laboratorio fantasiosi, ma a volte del tutto artificiosi, per arrivare a cogliere la funzione e il funzionamento della percezione come uno degli aspetti essenziali dell'interazione tra organismo e ambiente. È questa una prima importante indicazione metodologica: non esiste soltanto un tipo di visione, tantomeno si tratta di quella visione fissa di uno stimolo in laboratorio che Gibson chiama "visione istantanea" "I trattati e i manuali assumono che il tipo più semplice di visione è quella che si ha quando l'occhio viene tenuto fermo allo stesso modo in cui deve essere tenuta ferma la macchina fotografica, in modo che si formi una figura che possa essere trasmessa al cervello." Siccome l'occhio non può restare fermo a lungo, comincerà a muoversi per cogliere la configurazione dell'oggetto dato, ossia a effettuare una "visione d'apertura" che nella similitudine di Gibson è come guardare il mondo dal buco in una staccionata. Ma nella realtà noi percepiamo in modo del tutto diverso: non solo muoviamo liberamente la testa per seguire ciò che ci interessa (visione ambiente), ma anche ci muoviamo liberamente nello spazio ambiente per circondare l'oggetto, avvicinarci o allontanarci a seconda delle nostre esigenze ("visione deambulatoria"). Ora questo tipo di visione non viene mai presa in considerazione dagli sperimentatori che cercano di ridurre la complessità della visione a una sequenza di istantanee fotografiche. Da questa premessa metodologica arriviamo a una delle tesi fondamentali di questo Maffei L., Fiorentini A., Arte e cervello, Zanichelli, 2003 33 Teoria ecologica di Gibson lavoro: il mondo che percepiamo non è il mondo della fisica o di Cartesio, ma il mondo come ecosistema ambientale in cui siamo immersi. Questo significa che nel mondo della fisica gli oggetti e il mondo ambiente sono ridotti a puri spazi forme e misure, spogliati di tutti quei caratteri significativi che poi torniamo a conferire loro attraverso quelli che chiamiamo processi di elaborazione della percezione. Gibson vuol farci passare attraverso lo specchio e tornare dal mondo cartesiano delle “res extensae” e della geometria analitica al mondo ambiente in cui vivono gli organismi, fatto di luoghi, qualità, elementi, opportunità di azione, le “affordances”. L'altro elemento caratterizzante della psicologia ecologica di Gibson è la teoria della raccolta di informazioni (Information Pickup Theory). La percezione è un processo attivo che dipende dall'interazione tra l'organismo e l'ambiente. Tutte le percezioni sono realizzate in relazione alla posizione del corpo e alle sue attività e funzione nell'ambiente. Questa teoria si pone in contrasto con le teorie correnti dell'elaborazione cognitiva dell'informazione per affermare con forza la percezione diretta. L'assetto ambientale include “invarianti” come le ombre, la texture, i colori che determinano ciò che è percepito. La percezione è in grado di cercare ed estrarre queste “invarianti” in un mondo che è costituito da un flusso incessante di informazioni, ricche e cangianti. Secondo Gibson la percezione è una diretta conseguenza delle proprietà dell'ambiente e non implica forme di elaborazione degli stimoli. Le “affordances”, che abbiamo già citato, sono considerate proprietà specifiche dell'ambiente significative e rilevanti per l'organismo che ci vive. È la capacità di percezione che permette all'organismo di sopravvivere nell'ambiente, quella che secondo il vescovo Berkeley era una delle caratteristiche essenziali della percezione, la previsione. "La teoria delle affordances rappresenta uno scarto radicale rispetto alle teorie esistenti del valore e del significato. Essa prende le mosse con una nuova definizione di che cosa sono valore e significato. La percezione di un'affordance non è un processo di percezione di un oggetto fisico privo di valori a cui il significato è qualcosa di aggiunto in un modo in cui nessuno è in grado di concordare; è un processo di percezione di un oggetto ecologico ricco di valore. Ogni sostanza, ogni superficie, ogni layout ha qualche “affordance” che può avere effetto positivo o negativo su qualcuno. La fisica può non tener conto dei valori, 34 Teoria ecologica di Gibson ma l'ecologia no. Il risultato è uno strano mondo, fatto di superfici concave che ci riparano, di strumenti che si conformano o no alla nostra forma fisica, di posti nascosti, luoghi attraenti, di elementi naturali (quelli dei Presocratici), un mondo che sembra essere stato restituito all'ecologia dopo anni di segregazione in laboratorio. Al di là di questi elementi, l'argomentazione che Gibson conduce è molto serrata, anche attraverso esperimenti e discussioni sulle teorie concorrenti riguardo alla percezione. Maffei L., Fiorentini A., Arte e cervello, Zanichelli, 2003 Dal sito: http://lgxserver.uniba.it 35 36 4 Visione e percezione ambientale 4.1 Differenze culturali E’ possibile che persone cresciute in ambienti differenti giungano ad avere una visione differente del mondo? Il mondo occidentale è ricco di svariate forme fatte di linee rette che si estendono in lunghezza ed altezza, abbiamo una certa percezione delle distanze e dell’ambiente in cui viviamo, sicuramente differente rispetto a popolazioni che vivono immerse nella natura. I molti esperimenti e studi compiuti dimostrano che culture differenti creano differenti percezioni ambientali, alcuni esperimenti compiuti su popolazioni indigene hanno confermato che è molto più difficile ingannare il loro punto di vista con particolari illusioni ottiche rispetto a noi occidentali che facilmente ci facciamo ingannare esse. Tutto ciò è dato semplicemente dal fatto che forme diverse generano illusioni diverse, l’essere ogni giorno a contatto con determinate forme plasma l’esperienza del cervello e la conseguente percezione in modo diverso da individuo ad individuo, o meglio da popolazione a popolazione. Un esempio è dato da particolari popolazioni che vivono immerse nella foresta. Tali individui risultano interessanti in quanto non vedono molti degli oggetti collocati in lontananza, poiché vivono in un posto in cui l’orizzonte è assai limitato, infatti quando vengono portati fuori dal loro ambiente e osservano degli oggetti posti in lontananza, non hanno la percezione che quell’oggetto è collocato ad una certa distanza dal loro punto di vista, ma piuttosto che sia vicino ma piccolo. Le popolazioni di cultura occidentale sperimentano una distorsione simile quando guardano dall’alto. Da un edificio molto alto gli oggetti sembrano eccessivamente piccoli; e si è costatato che gli uomini che lavorano sulle piattaforme sospese o sulle impalcature dei grattacieli vedono gli oggetti sotto di loro senza nessun tipo di distorsione. Richard L. Gregory, Occhio e cervello, Milano, Raffaello Cortina Editore,1998. pag.220 37 Recupero dalla cecità 4.2 Recupero dalla cecità In passato sono stati compiuti molti esperimenti per scoprire se è possibile recuperare l’importante la vista. Allevare degli animali nella più completa oscurità, impedendo loro di vedere qualsiasi fonte di luce per mesi o addirittura per anni e scoprire cosa vedono dopo questo lungo periodo in situazioni normali, è stato uno degli esperimenti fatti per studiare la possibilità di recuperare un individuo dalla cecità. Si costatò che in tali animali ci sia un importante perdita di comportamenti normali per il loro essere. Alcune di questi potrebbero semplicemente essere dovuti ad una conseguente degenerazione della retina (che si è costatato verificarsi in situazioni di totale oscurità) e potrebbero inoltre essere dovuti all’atteggiamento vistosamente passivo degli animali allevati in tali condizioni ambientali. Pertanto, a causa della generale assenza di comportamento in questi esseri, risultava difficile dedurre la natura e l’entità di specifici cambiamenti percettivi. Tuttavia ci sono dei casi di recupero della cecità da parte di persone adulte che possono essere molto utili per capire le modalità di sviluppo della percezione nell’uomo. Una persona cieca che torna a vedere ha bisogno di ristabilire tutte le sue esperienze percettive in modo da riuscire a percepire le realtà che prima conosceva solo grazie all’udito. Descartes, nella sua Diottrica(1637), descrisse la percezione dei ciechi come la scoperta del mondo ottenuta tastandolo con un bastone: “è vero che questa specie di sensazione, per chi non ne abbia lunga consuetudine, risulta un po’ confusa e oscura, ma consideratela in quelli che, nati ciechi, se ne sono serviti per tutta la loro vita e in essi la troverete così perfetta ed esatta da potersi dire che vedono con le mani o che il bastone che usano è l’organo di qualche sesto senso concesso loro al posto della vista.” Un individuo nato cieco ha la percezione degli oggetti semplicemente grazie al tatto, per esempio riesce a distinguere una sfera da un cubo semplicemente tastandoli. Ammettiamo il caso che ad un certo punto riacquista il dono della vista. Sicuramente visivamente non sa distinguere quali dei due oggetti è il cubo o la sfera. Tale individuo Richard L. Gregory, Occhio e cervello, Milano, Raffaello Cortina Editore,1998. pag.220 38 Recupero dalla cecità deve per forza maturare delle esperienze visive in modo da arrivare a percepire l’ambiente che lo circonda semplicemente con l’osservazione, deve “imparare a vedere”. Per egli non esiste la posizione spaziale, non può comprendere cosa può significare la parola alto o basso, non può capire, se non con il tatto, cosa può essere capovolto o meno, in passato questi attributi gli apparivano tali solo grazie al tatto. In realtà si sono verificati molti casi del genere. In certi casi dopo un periodo di esperienza l’individuo è riuscito a recuperare in pieno il dono della vista in altri casi, l’individuo si è chiuso in se stesso per ritornare ad essere cieco. Alcuni dei casi di successo sono perfettamente in linea con la teoria empiristica basata sull’esperienza. 4.3 Visione dei neonati Per comprendere meglio come si sviluppa la nostra percezione sarebbe di grande interesse ed utilità sapere cosa vedono i bambini nei primi giorni di vita. Non è facile riuscire a comprendere i meccanismi e le visioni dei neonati, in quanto appena nati hanno una scarsa capacità di coordinazione motoria e soprattutto manca gli manca il linguaggio. Esperimenti molto recenti hanno rivelato che i neonati possiedono una percezione visiva molto sviluppata, basti pensare che entro poche ore della nascita riescono a riprodurre la espressioni facciali della mamma. Arrivati a questo punto bisogna chiedersi se i neonati hanno una percezione visiva simile a quello di un adulto oppure i metodi di percezione risultano differenti. Finora abbiamo evidenziato che la percezione va ben oltre un semplice stimolo che arriva dal mondo esterno, essa rappresenta l’agire appropriatamente in considerazione della fonte, o delle cause, di tali stimoli. Di conseguenza un oggetto percepito, in quanto tale, ha delle valenze spazio temporali soggette a leggi fisiche. Di conseguenza un neonato come fa ad attribuire un determinato valore a un oggetto? Secondo le dottrine filosofiche un oggetto esiste nell’istante in cui viene percepito in quanto tale, e permane in quanto suscita sensazioni. Vari studi hanno rivelato che i bambini piccoli non hanno alcuna nozione di persistenza Richard L. Gregory, Occhio e cervello, Milano, Raffaello Cortina Editore,1998. pag.243 39 Visione dei neonati nel tempo, non sanno che gli oggetti continuano ad esistere quando non sono osservati. Solo in seguito arrivano a scoprire che tali oggetti permangono nel tempo, bisogna solo cercarli. Ma cos’è che attrae l’interesse del bambino nell’osservazione? I bambini anche appena nati, presentano un movimento oculare ben coordinato che indica cosa il bimbo guarda in modo molto preciso. Si è riscontrato che i neonati prediligono guardare forme curve piuttosto che rettilinee, si è anche notato che provano un grande interesse nel guadare figure che ricalcano il viso di una persona, sembra che hanno un’innata predisposizione al riconoscimento dei volti. Inoltre prediligono l’osservazione di oggetti tridimensionali piuttosto che figure piatte, a quanto pare possiedono anche un’innata propensione per la profondità. Il bambino inoltre già all’età di soli quattro mesi percepisce il pericolo della caduta. Possiamo dunque dire che il cucciolo di uomo inizia ad apprendere nel momento in cui apre gli occhi ciò che gli servirà per affrontare la vita futura e controllare il mondo che lo circonda, tutto ciò è un istinto innato di ogni essere vivente. 40 5 Illusioni ottiche 5.1 Che cosa sono le illusioni ottiche? Quando una percezione si trova in disaccordo con la realtà fisica si ha un illusione ottica, osservato in questo senso si può affermare che l’illusione differisce dalla verità. Ma cos’è la verità? Com’è possibile per noi conoscere il mondo reale? Il tentativo di rispondere a queste domande ha affascinato molti studiosi ed il risultato, è dato da molte risposte viste da punti di vista molto differenti fra loro. Tuttavia vi sono realtà accettate dal senso comune, sulla base delle quali è impostata la nostra vita. L’umanità nel cercar di dare una risposta a tale domanda ha dovuto dare un limite al proprio pensare, in modo da accettare per vero ciò ve viviamo e sperimentiamo durante il corso della vita. Se non fosse così l’intera percezione del mondo cadrebbe in una grande illusione, un sogno che viviamo costantemente in ogni attimo della nostra esistenza. Consideriamo gli oggetti che percepiamo come reali. Si accetta come “oggetto” in quanto tale un qualcosa che dipende in larga misura dall’uso che se fa: per esempio, una sedia serve per sedersi, un tavolo serve per poggiar su le cose ecc. La classificazione che diamo agli oggetti dipende fortemente dal nostro comportamento; il che può suggerire un’utile distinzione tra “illusione” e “realtà”, in quando potremmo affermare che le illusioni sono scostamenti rispetto al mondo che, attraverso il nostro comportamento, accettiamo come reale. Di conseguenza pensiamo che un’illusione sia qualcosa di intangibile che non rispetta nessuna legge fisica ed è tale perché confrontata con la realtà non esiste. Tuttavia alcuni fenomeni illusori non possono essere confrontati con la realtà comunemente accettata, in quanto esistono finzioni percettive alle quali non corrisponde alcun oggetto. Altri elementi che risulta difficile confrontare con la fisicità delle cose sono i paradossi percettivi, che non possono proprio esistere come oggetti. Infine troviamo le ambiguità percettive di alternanza, nella quali vi è uno spostamento repentino dalla percezione di un oggetto a quella di un altro, che solo Richard L. Gregory, Occhio e cervello, Milano, Raffaello Cortina Editore,1998. pag.287-288 41 Che cosa sono le illusioni ottiche? occasionalmente possono corrispondere ad un oggetto reale. Di conseguenza diciamo che le nostre percezioni non sempre sono direttamente collegate alla realtà fisica, anzi è molto probabile che non lo sia. Tutto ciò genera dei grossi interrogativi su cosa si deve intendere per illusioni percettive e cosa per illusioni concettuali. Esistono delle illusioni che possono coinvolgere più di uno nei nostri sensi, pensiamo per esempio all’illusione dimensione peso: un oggetto più piccolo sembra più pesante di un oggetto più grande avendo lo stesso peso del primo. Questa illusione si dice cognitiva, in quanto dipende dalla conoscenza che ciascuno di noi possiede per oggetti materiali, la quale ci induce a pensare che oggetti più grandi siano generalmente più pesanti di quelli più piccoli dello stesso tipo. Molti sono i modi in cui la percezione può fallire. In casi estremi addirittura si possono creare dei mondi interiori allorché finzioni visive possono essere confuse con la realtà. Tutto ciò si può verificare in alcune patologie psichiche o nell’uso di sostanze stupefacenti. 5.2 Sogni e allucinazioni Ogni notte quasi 6 miliardi di persone sulla Terra sognano per più di un'ora, costruendo miliardi di sogni. I sogni, così come le allucinazioni, possono essere visive oppure uditive, e possono coinvolgere ciascuno degli altri sensi, come odorato o il tatto. Quando vengono coinvolti più sensi la sensazione di realtà che ne deriva può divenire opprimente e fastidiosa. Un fenomeno documentato è il vivere esperienze irreali in gruppo sotto forma di allucinazioni o anche sogni, tutto ciò si può verificare a causa di particolari suggestioni collettive che influenzano l’atto percettivo di gruppi di persone che condividono le stesse paure. Altri casi in cui particolari patologie possono far insorgere allucinazione sono, i tumori al cervello, in questo caso gli organi percettivi vengono attivati da stimoli nervosi interni al cervello. Anche l’uso di droghe può portare tali effetti sensoriali sostituendo quasi in modo completo l’attività sensoriale normale con una illusoria. Per comprendere meglio in che stato si verificano tali allucinazioni basta pensare alle immagini che spesso ci appaiono nello stato di Dal sito: http://www.cicap.org/enciclop 42 Sogni e allucinazioni dormiveglia quando fatti dell’esperienza personale possono riproporsi come un film nella nostra mente, con scene limpide e molto dettagliate anche se i nostri occhi restano chiusi. Altre motivi che possono far insorgere fenomeni di allucinazioni sono: la solitudine, l’alienazione sul lavoro o la noia. Ma cosa sono in realtà i sogni? Le teorie sono tante e anche contraddittorie fra loro, fin dall’antichità si è attribuito al sogno un valore magico, sono nate delle vere e proprie enciclopedie sul significato della simbologia dei sogni. Ma in realtà oggi sappiamo benissimo che il sogno è un’analisi interiore che il nostro cervello opera in quello stato di incoscienza che è il sonno. Nel 1861 il francese Alfred Maury avanzò l'ipotesi che i sogni fossero provocati da stimoli esterni. Giunse a questa conclusione in seguito a un curioso incidente che gli capitò una notte. Stava sognando di essere ghigliottinato durante la Rivoluzione francese, quando sentì la lama staccargli la testa, si svegliò pieno di terrore, si accorse che la testiera del letto gli era caduta sul collo. Da ciò, Maury concluse che tutto il sogno si era svolto tra la caduta della testiera e il risveglio, e che quindi tutta la storia e le scene di prigione fossero passate in un lampo, create da quella sensazione. In realtà, gli studi più recenti hanno potuto dimostrare che la maggior parte dei sogni occupa un tempo reale. Ai primi del novecento, enorme scalpore fecero le teorie di Sigmund Freud, il quale sosteneva che "Il sogno è la strada maestra verso l'inconscio". Con ciò intendeva dire che, considerato che durante il sonno la mente cosciente non è attiva, tutte quelle sensazioni, pensieri, idee disturbanti che cerchiamo di evitare quando siamo svegli spuntano fuori mentre stiamo sognando. Inoltre, anche durante il sogno noi ci difenderemmo dai nostri pensieri, facendoli diventare frequentemente delle idee fantastiche. Queste immagini costituirebbero i nostri sogni, interpretabili esclusivamente attraverso l'analisi di uno psicanalista. Il problema, però, è che se si cerca un significato in immagini fantasiose come quelle dei sogni lo si può sicuramente trovare, ma non c'è nessuna certezza che sia poi quello giusto. Dal sito: http://www.cicap.org/enciclop 43 Sogni e allucinazioni Una teoria contrapposta a quella freudiana è quella del neurofisiologo Robert W. McCarley, il quale suggerisce che i sogni non indichino un processo di mascheramento bensì di attivazione: questo spiegherebbe perché molti sogni riportano un'attività eccessiva come il correre, lo scalare e così via. C'è poi un'altra teoria che propone che il sogno sia un modo di elaborare le informazioni nascoste durante le esperienze quotidiane. Durante la giornata molti eventi ci colpiscono ma noi ne prendiamo in considerazione soltanto una piccola parte. Nonostante ciò molte di queste informazioni sono importanti e per questo sono mantenute in un sistema di memoria per riemergere quando cadiamo addormentati. Secondo questa teoria, dunque, noi abbiamo bisogno di sognare per classificare gli eventi e risolvere dei problemi che si sono posti durante la giornata. Vicina a questa teoria è l'ipotesi delle "reti neurali", intese come complessi gruppi di cellule nervose che lavorano insieme per registrare le associazioni tra cose ed eventi. Ogni rete è in grado di ricordare una gran quantità di eventi contemporaneamente; man mano che aumenta il numero di cose da ricordare, però, tutti questi elementi si mescolano e ciò potrebbe portare a confusioni terribili se non, addirittura, a vere e proprie allucinazioni. C'è dunque bisogno di fare ordine e pulizia tra tutte queste immagini e la teoria delle reti neurali sostiene che ciò avviene di notte. Con i sogni le reti vengono inondate di impulsi nervosi che portano via tutti i ricordi più deboli, lasciando solo quelli più forti per il giorno seguente, permettendo così alla rete pulita di continuare a imparare. In altre parole, la funzione del sogno secondo questa teoria sarebbe quella di liberarsi dei ricordi che non servono, e quello che vediamo nei sogni, dunque, non sarebbe altro che la "spazzatura" che il nostro cervello sta buttando via. 5.3 Classificare ed ordinare le illusioni visive Non è affatto facile classificare e ordinare per tipo i fenomeni delle illusioni, in quanto la classificazione può essere effettuata in base al modo in cui il fenomeno appare oppure Richard L. Gregory, Occhio e cervello, Milano, Raffaello Cortina Editore,1998. pag.297 Dal sito: http://www.illuweb.it 44 Classificare ed ordinare le illusioni visive definire la causa che lo ha generato. Purtroppo ancora oggi molte cause di questi fenomeni sono inspiegabili e spesso il manifestarsi, di tali illusioni, è diverso di volta in volta, per questo motivo non possiamo arrivare ad un risultato univoco. Di seguito organizzeremo lo studio delle illusioni ottiche in due gruppi. Il primo gruppo è riferito alle illusioni più antiche e conosciute, catalogate utilizzando il nome usato per classificare gli errori del linguaggio: ambiguità, distorsioni, paradossi e finzioni. Il secondo gruppo che non presenta una classificazione specifica, comprende illusioni generate soprattutto con tecnologie recenti, come particolari software: anamorfosi, fotomosaici e stereogrammi 5.4 Ambiguità Vi sono figure ben note in cui avviene una continua commutazione tra alcune possibilità interpretative, le così dette figure ambigue. Tramite esse si possono mettere in luce le dinamiche della percezione e la ricerca di ipotesi su quali oggetti potrebbero o non potrebbero trovarsi nel mondo. Esistono diverse tipologie di figure ambigue, a seconda che si debba decidere la forma, la profondità o la natura stessa dell’oggetto che si sta osservando. In tali figure siamo portati a vedere solo una delle tanti interpretazioni che si potrebbero dare. I motivi di tutto ciò restano ancora da studiare e scoprire. Una nota figura che mostra le variabili percettive è il cubo di Necker. Cubo di Necker Richard L. Gregory, Occhio e cervello, Milano, Raffaello Cortina Editore,1998. pag.299 45 Ambiguità In questa figura non vi è alcuna indicazione che consenta di stabilire quale delle due facce grandi si trovi davanti e quale dietro, perciò vediamo la figura commutare in due prospettive differenti ma ugualmente probabili. Le ambiguità possono risultare molto utili nelle ricerche sulla percezione, dal momento che le percezioni cambiano anche se gli stimoli visivi restano completamente immutati. Le ambiguità visive ci permettono, in particolare, di separare gli effetti dei segnali che vengono dal basso, provenienti dagli occhi, rispetto alla conoscenza e alle ipotesi che vengono dall’alto. Nella prossima figura, anche essa molto conosciuta disegnata da E.G. Boring, è illustrata un’ambiguità di tipo “commutazione di oggetto”. Se l’osservazione si sofferma su particolari differenti, si verificano due differenti percezioni della figura: un’anziana signora o una giovane donna. Anziana signora o giovane donna In base ad una regola generale, il nostro occhio riconosce più probabilità che una figura sia convessa piuttosto che concava. In natura la maggior parte degli oggetti che si presentano ai nostri occhi hanno una forma convessa. Una mirabile dimostrazione di questa tesi è l’esperimento del volto concavo. Per osservare questo fenomeno basta aver davanti agli occhi una semplice maschera di un comune viso umano, che frontalmente Dal sito: http://www.illuweb.it 46 Ambiguità è concava e internamente convessa. Se osserviamo la maschera dalla parte concava a circa un metro, la faccia interna appare come un normale volto, con naso in rilievo, nonostante in realtà sia concavo. Se la maschera viene ruotata lentamente, si passa attraverso una sequenza di sorprendenti trasformazioni, e la direzione di rotazione si inverte, a seconda che venga ad evidenziarsi il dietro concavo o la parte frontale convessa. La maschera concava 5.5 Distorsioni Le distorsioni rappresentano un altro fenomeno molto interessante delle illusioni ottiche. Le lunghezze possono venire alterate, e una linea retta può apparire piegata, per cui pare davvero difficile che sia effettivamente una questione semplicemente ottica e Dal sito: http://www.illuweb.it 47 Distorsioni che la retta in realtà sia completamente diritta. I primi a rendersi conto di tali distorsioni furono i fisici e gli astronomi del diciannovesimo secolo che progettarono delle lenti per delle osservazioni precise delle stelle o di particolari fenomeni. Proprio per questo motivo molte di queste illusioni portano il nome dei loro scopritori. Le cause di distorsione percettive sono molte per questo motivo può risultare davvero difficile stabilire le leggi che regolano tale fenomeno. Una delle più conosciute ed anche una delle più sorprendenti è la così detta “illusioni della parete del caffè”. Fu scoperta da Bristol, guardando le piastrelle di un caffè del secolo scorso, da cui deriva il nome. Questa illusione contraddice la nozione secondo la quale le distorsioni illusorie sono generate da una inadeguata riduzione di scala, provocata dall’intervento di qualche accorgimento volto a suggerire la profondità, come per esempio l’uso della prospettiva, però, dal momento che qui non ci sono né prospettive né altri elementi che possano suggerire la profondità, l’esempio risulta un’evidenza che contraddice la teoria. In effetti questo tipo di illusioni consentono di introdurre molte variabili nei fenomeni di percezione visiva, in questo caso abbiamo un ricco insieme di fenomeni illusori governati da specifiche leggi. Osservando la figura in basso ci accorgeremo che l’immagine, anche se perfettamente simmetrica e formata da linee parallele, ai nostri occhi risulta essere completamente asimmetrica e sbilanciata. Illusione della parete del caffè Richard L. Gregory, Occhio e cervello, Milano, Raffaello Cortina Editore,1998. pag.299 Dal sito: http://www.illuweb.it 48 Distorsioni In questo caso si istaurano un processo dove si localizza un contrasto di luminosità tra la linea di separazione neutra dovuta alla malta in cui la metà delle piastrelle, di colore chiaro, sembra muovere incontro all’altra metà di colore scuro, dando luogo a piccoli cunei disposti nei punti di asimmetria locale. L’occhio integra questi piccoli cunei, dando origine ai cunei grandi che si possono osservare nella figura in alto. Altre illusioni molto note per quanto riguarda i fenomeni di distorsione sono quelle di natura prospettica. Sono molte le teorie che si sono sviluppate per spiegare tali illusioni. Esse riflettono la diversità dei punti di vista sul fenomeno della percezione e sono notevolmente varie. Illusione di Hering e illusione di Orbison Nella prima figura le linee rosse sono rette? Nella seconda figura i due poligoni raffigurati sono un cerchio e un quadrato perfetti? 5.5.1 -“Teoria della pregnanza”, o della “Figura gradevole”La prima teoria che cerca di dare una spiegazione a tale fenomeno di distorsione è la “Teoria della pregnanza”, o della “Figura gradevole”. Richard L. Gregory, Occhio e cervello, Milano, Raffaello Cortina Editore,1998. pag.320 Dal sito: http://www.illuweb.it 49 “Teoria della pregnanza”, o della “Figura gradevole” L’idea della pregnanza risulta centrale per l’interpretazione del processo percettivo elaborata dalla scuola della Gestalt. Si suppone che l’illusione è data proprio dalla pregnanza, la quale in una scena tende ad aumentare la distanza dei particolari che sembrano essere isolati dal contesto, e a ridurre la distanza di quelli che sembrano invece appartenere ad una figura unica. Tuttavia questa teoria è dubbia in quanto, è vero che un insieme di punti simili, rispetto all’occhio, tende ad unirsi sotto forma di un unico oggetto, ma è altrettanto vero che, tale fenomeno, non sembra manifestare alcuna tendenza a variare la posizione dei punti in conseguenza di un raggruppamento. 5.5.2 -Teorie che richiamano il movimento oculareQueste teorie ipotizzano che gli elementi che inducono l’illusione portano gli occhi a guardare in un punto sbagliato dell’immagine. Per spiegare meglio il meccanismo di tale teoria prendiamo in considerazione l’illusione della freccia di Muller Lyer. Illusione di Muller-Lyer In questa illusione si potrebbe supporre che gli occhi siano spinti dalle punte delle frecce oltre il limite delle righe facendo si che il segmento stesso appaia di lunghezza sbagliata, mentre nel secondo caso si deve ipotizzare che gli occhi siano spinti all’interno delle righe. Ma tale teoria risulta essere infondata in quanto gli occhi non si possono muovere in direzioni diverse e quindi osservare due figure differenti nel medesimo istante. Richard L. Gregory, Occhio e cervello, Milano, Raffaello Cortina Editore,1998. pag.322 Dal sito: http://www.illuweb.it 50 Teorie che richiamano alla prospettiva 5.5.3 -Teorie che richiamano alla prospettivaIl fulcro di queste teorie è il fatto che, molte figure di distorsione suggeriscono la profondità per mezzo della prospettiva, producendo delle variazioni di dimensioni. Analizzando molte illusioni di distorsione ci accorgiamo che le figure raffigurate possono senza dubbio essere delle proiezioni piatte di figure a tre dimensioni. Inoltre è accertato che in tali figure i particolari rappresentati come distanti appaiono ingranditi. Questo concetto suggerisce immediatamente che, questi fenomeni, siano puramente di natura cognitiva piuttosto che fisiologici. Di conseguenza, essi sono associati alle regole della conoscenza propria della mente. Nell’illusione di ponzo tale fenomeno risulta essere molto chiaro. Illusione di Ponzo. Semplice figura prospettica in cui il segmento A percepito come più distante viene ingrandito visivamente. Di conseguenza il segmento A sembrerà più lungo rispetto al segmento B anche se in realtà sono della stessa lunghezza. Le linee convergenti sono tipiche della prospettiva di profondità, ritenere di dover collocare il segmento superiore ad una distanza maggiore lo fa, in qualche modo, apparire più grande. Le teorie tradizionali della prospettiva affermano semplicemente che queste figure suggeriscono la profondità, e che se questo suggerimento viene seguito le figure più distanti appariranno sicuramente più grandi. Ma il fenomeno strano è che nella realtà le figure più distanti appaiono sulla retina più piccole rispetto a quelle Richard L. Gregory, Occhio e cervello, Milano, Raffaello Cortina Editore,1998. pag.322 Dal sito: http://www.illuweb.it 51 Teorie che richiamano alla prospettiva più vicine, allora perché in queste illusioni si verifica tale fenomeno? Vi è un meccanismo della percezione detto “processo di modificazione di scala”, che assicura la costanza delle dimensioni dell’immagine mediante una amplificazione visiva variabile che tende a compensare il cambiamento delle dimensioni dell’immagine retinica corrispondente a variazioni nella distanza dell’oggetto. Così, allontanando gli oggetti, questi non si rimpiccioliscono nella stessa misura in cui diminuiscono le immagini sulla retina. Un esempio è dato dalla platea del pubblico in un teatro, le facce degli spettatori ci appaiono più o meno della stessa dimensione anche se le immagini retiniche delle persone più distanti sono molto più piccole, sulla retina, rispetto a ciò che realmente percepiamo. Modificazione di scala che produce la costanza dimensionale. L’immagine di un oggetto dimezza la propria dimensione ogni volta che raddoppia la sua distanza dall’osservatore. Ma essa non sembra affatto ridursi, in quanto il cervello interviene a compensare la riduzione delle dimensioni dovuta alla maggior distanza mediante il processo di modificazione di scala. Dal sito: http://www.illuweb.it 52 Percezione della luna 5.6 Percezione della luna Sicuramente a tutti noi è capitato di vedere la luna di dimensioni diverse a secondo della posizione che occupa nel cielo. Non è l’altezza nel cielo a determinare le dimensioni della luna ma, ciò che le fa da sfondo. Per esempio se si vede sopra l’orizzonte delle montagne non solo appare più grande ma anche molto più vicino alla terra rispetto al solito. Questo fenomeno è molto particolare, sembra che un processo di tipo “verso l’alto” (come per l’illusione di Ponzo), la sua dimensione subisca un’amplificazione di scala, cosicché essa ci appare più grande nel cielo. Poi dal momento, che il cielo non presenta alcuna granulosità superficiale, la luna, proprio in quanto sembra più grande appare anche più vicina. Illusione della luna Quando la luna invece è alta nel cielo sembra avere sempre la stessa dimensione per il semplice motivo che il sistema visivo ha delle ipotesi di partenza, che sono accettate per vere quando non c’è nessun altro punto di riferimento da tenere in considerazione durante la fase dell’osservazione. Ancora purtroppo sappiamo poco su queste distanze di riferimento che il cervello calcola durante l’osservazione di corpi celesti. Dal sito: http://www.illuweb.it 53 L’assenza di prospettiva può causare distorsioni visive 5.7 L’assenza di prospettiva può causare distorsioni visive I fenomeni di distorsione si possono verificare anche con l’assenza di prospettiva. Quando la profondità tridimensionale di un’immagine viene individuata mediante altri suggerimenti, oppure quando viene ipotizzata in base alla conoscenza che si ha di un determinato oggetto rappresentato in una figura, l’effetto di distorsione che si ha può provocare fastidio, in quanto tali oggetti possono apparire stranamente modificati e privi di ogni significato logico. Da ciò si può dedurre che ci siano due tipi di processi di trasformazioni nella scala dimensionale, verso l’alto, a partire dai suggerimenti di profondità che ci danno gli oggetti raffigurati, e verso il basso, basato sull’ipotesi più attendibile che abbiamo sul concetto di profondità. Distorsione dall’alto verso il basso. Quando questa figura viene intesa come un tavolo visto obliquamente nello spazio, il bordo più lontano appare troppo lungo e i lati non sembrano paralleli, anche se in realtà lo sono. Tutto ciò è dovuto al manifestarsi del fenomeno della modificazione di scala che opera deduttivamente a partire dell’ipotesi formulata sulla profondità. 5.8 Paradossi Il più noto tra i paradossi visivi è il “triangolo impossibile”, disegnato dall’inglese Lionel Penrose e dal nipote, Roger Penrose, nel 1958. Tale figura guardata nelle prospettiva frontale risulta un oggetto impossibile che sfora dalle regole di prospettiva, ma se realizziamo un modello tridimensionale di tale triangolo e lo osserviamo su una prospettiva differente l’oggetto diventa del tutto normale e quindi possibile. L’effetto paradossale non dipende quindi da combinazioni artificiali di suggerimenti visivi, anche Dal sito: http://www.illuweb.it Richard L. Gregory, Occhio e cervello, Milano, Raffaello Cortina Editore,1998. pag.346 54 Paradossi se la prospettiva di osservazione è critica. La paradossalità dell’immagine scaturisce da un’essenziale regola visiva: quando due particolari o due oggetti si toccano, si tende a vederli alla medesima distanza, questo accade anche se la distanza fra i due oggetti è assai differente. Triangolo impossibile L’oggetto della prima figura sembra impossibile ma in realtà se osservato da punti di vista differenti magicamente non risulta più un oggetto impossibile ma assolutamente realizzabile. 5.9 Finzioni Esistono particolari circostanze in cui la visione può presentarsi come una finzione, come una serie di superfici e contorni entrambi illusori, eppure visti, in condizioni normali da tutti gli osservatori. In tali fenomeni le ombre influiscono molto sul processo visivo di tali figure, anche se percepite con distacco dalla figura stessa spesso ne sono parte integrante. Le ombre sono così importanti nel processo visivo che addirittura delle volte possono evocare la presenza di oggetti che in realtà non sono presenti nella figura. Le superficie fittizie di oggetti immaginari che percepiamo in questi casi, sono viste soltanto quando esse sono percepite di fronte alla figura che le origina. In questo modo, Richard L. Gregory, Occhio e cervello, Milano, Raffaello Cortina Editore,1998. pag.350 55 Finzioni il meccanismo di occlusione risulta essere sia un importante accorgimento volto a suggerire la sensazione di profondità, sia un postulato che viene sistematicamente introdotto dall’osservatore quando appare altamente probabile vi sia un oggetto più vicino che ostruisca la vista anche se in effetti non è presente. Finzione visiva di Shumann Fu presentata nel 1904, in questa immagine possiamo notare un quadrato sovrapposto ad un poligono Il triangolo fittizio di Kanizsa Il triangolo che appare più brillante dello sfondo non esiste. Richard L. Gregory, Occhio e cervello, Milano, Raffaello Cortina Editore,1998. pag.350 56 Applicazioni che generano illusioni ottiche 5.10 Applicazioni che generano illusioni ottiche Con l’arrivo delle nuove tecnologie è stato possibile studiare e realizzare nuovi ed entusiasmanti metodi per generare illusioni ottiche molto suggestive. Tutto ciò è possibile grazie a dei calcoli molto precisi di grandezze fisiche fatte per mezzo del computer che genera delle immagini illusorie. In passato molti artisti sono ricorsi a metodi molto particolari per generare illusioni nei propri dipinti o addirittura per nascondere qualche particolare, ma con l’avvento del calcolatore è stato possibile generare dei veri e propri mondi illusori puramente digitali e privi di qualsiasi legame con la realtà, la scienza che si occupa di tutto ciò è la realtà virtuale. Nelle pagine che seguiranno illustrerò le varie applicazioni e tecniche che generano illusioni ottiche e addirittura nuovi mondi illusori. 5.10.1 Anamorfosi E' a Leonardo da Vinci che dobbiamo le prime anamorfosi piane conosciute e studiate. Sia alcuni suoi appunti, che alcuni suoi disegni, dimostrano la perfetta acquisizione del principio che porta alla creazione di queste figure illusorie. Un foglio del Codice Atlantico contiene due disegni anamorfoci, di Leonardo, rappresentanti la testa di un bambino e un occhio (figura sotto). Questa strana figura rappresenta lo schizzo di una testa ma per vedere il disegno correttamente dovreste porvi a sinistra del foglio e guardare l'immagine di sbieco accostando il naso al bordo del foglio. Dal sito: http://www.illuweb.it/anamorfismi/anammenu.htm 57 Anamorfosi Se avete seguito correttamente le istruzioni dovreste vedere una figura simile a quella riportata sopra ottenuta "stringendo" l'immagine originale di Leonardo. Nell'anamorfosi piana quindi la figura viene disegnata tenendo conto di una visione non frontale ma laterale e l'artista che la crea la disegna ponendosi da un preciso punto di vista che l'osservatore deve ricreare per poter vedere l'immagine in prospettiva. 5.10.2 Fotomosaici I fotomosaici sono dei disegni formati da centinaia di altri disegni o foto. Guardando questi disegni da una certa distanza si riesce a vedere il soggetto principale mentre da vicino si distinguono le singole foto che formano il disegno. Il loro inventore è Robert Silvers, che ha creato il software che permette di realizzare queste particolarissime immagini. In pratica il computer elabora quella che dovrà essere l'immagine finale e la divide in moltissimi punti creando una griglia. Poi seleziona da un database le varie foto da inserire 'pesando' la tonalità il colore e le linee principali e le inserisce nel posto che ritiene più opportuno nella griglia. Il risultato finale sarà un mosaico composto da centinaia di foto. Qui sotto potete ammirare un esempio accanto c'è un particolare con le singole foto che li compongono. Dal sito: http://www.illuweb.it/fotomosa/fotomain.htm 58 Stereogrammi 5.10.3 Stereogrammi Gli stereogrammi sono delle figure piane che osservate in particolari condizioni riescono a “creare” una raffigurazione tridimensionale. I primi stereogrammi risalgono al 1838 ad opera del fisico inglese Charles Wheatstone che inventò lo stereoscopio: un apparecchio che ricomponeva grazie ad un sistema di specchi due immagini poste a pochi centimetri l'una dall'altra e raffiguranti lo stesso oggetto ma con un angolo di visuale leggermente diverso. Con l'invenzione della fotografia la tecnica si affinò arrivando fino alla creazione di una particolare macchina fotografica formata da due obiettivi posti a 5-6 cm. di distanza che fornivano delle foto formate da due immagini prese da una differente angolazione e che simulavano la visione di ciascuno dei due occhi. Al 1972 risalgono gli RDS (Random Dot Stereograms) consistenti in un apparente coppia di disegni puntiformi casuali ed irrazionali che invece fornivano in particolari condizioni di osservazione una singola immagine tridimensionale razionale e definita. Del 1979 infine i SIS (Single Image Stereograms) che riuscivano ad incorporare in una singola immagine le informazioni di due RDS. Sono questi SIS quelli che ben conosciamo e di cui possiamo vederne uno nella figura qui sotto. SIS In questo in particolare quello che sembrerebbe essere un foglio di carta da regalo in realtà nasconde l'immagine tridimensionale di uno shuttle con tanto di pianeta saturno alla sua destra. 59 Stereogrammi Come abbiamo già detto nell'introduzione sugli stereogrammi la visione tridimensionale avviene per una serie di fattori tra i quali quello più importante è relativo al fatto che ogni occhio vede un'immagine leggermente diversa da quella che vede l'altro. Se guardiamo direttamente uno stereogramma mettendo quindi a fuoco su di esso non vedremo altro che una singola immagine piana contenente dei puntini casuali o delle texture ripetute e tutto questo non stuzzicherà molto la nostra attenzione. Se invece lo osserviamo con le tecniche che di seguito riusciremo a fornire al cervello due immagini distinte tali da ingannarlo per fargli 'creare' dal nulla una raffigurazione in tre dimensioni e non sarà affatto difficile stupirsi per quello che apparirà ai nostri occhi. Le tecniche che permettono la visione di uno stereogramma esaminiamole sono due: 1) La tecnica in parallelo richiede la messa in parallelo dell'occhio destro con quello sinistro quindi è come se si guardasse qualcosa in lontananza. Il punto di messa a fuoco deve essere oltre, ma non troppo, il piano contenente lo stereogramma. Il metodo consiste nel mettere a fuoco un oggetto a circa uno o due metri di distanza e interporre tra l'oggetto e gli occhi uno stereogramma muovendolo avanti e indietro lentamente in modo tale da trovare la posizione in cui dall'immagine sfuocata lascia posto all'immagine tridimensionale. Non si deve cercare di mettere a fuoco il foglio. 2) La tecnica incrociata richiede l'incrocio degli occhi. Se si interpone un dito o una penna tra l'immagine e gli occhi, lo sguardo si incrocia e si sfuoca tutto ciò che c’è dietro. Mantenendo nella stessa posizione gli occhi si deve spostare l’attenzione, ma non la messa a fuoco, sull’immagine. Poi si deve regolare gradualmente la distanza tra dito e immagine. Al raggiungimento della posizione corretta si deve attendere, ed apparirà magicamente l'immagine tridimensionale. Dal sito: http://www.illuweb.it 60 Illusione della realtà: la realtà virtuale 5.10.4 Illusione della realtà: la realtà virtuale La Realtà Virtuale è un fenomeno recentemente prodotto dalla tecnologia cibernetica più avanzata, che prevede l'uso di computer molto sofisticati che consentono un'interazione pressoché totale e a tutti i livelli tra il soggetto agente e la macchina alla quale esso è collegato da sensori che stimolano i sensi principali. Si può pensare alla Realtà Virtuale come ad una lanterna magica che ci apre finestre su mondi nuovi, dall'atomo alle circonvoluzioni cerebrali. La Realtà Virtuale è un assemblaggio, negli anni '80, di più invenzioni tecnologiche nel campo della cibernetica, (con notevoli contributi da parte della ricerca spaziale). Una fortunosa e geniale intuizione di un tecnico informatico di origine californiana, Jaron Lanier, appoggiato da mecenati interessati alla novità tecnologica e consapevoli del futuribile della stessa (di volta in volta, case francesi di produzione nel campo della computeristica, poi giapponesi, poi americane). Una sera, tra amici, Jaron Lanier esprime il desiderio di inventare una chitarra invisibile. Interessato all'argomento è l'amico Thomas Zimmermann, aspirante cantautore, versato nelle cose cyber, che inventa e brevetta un guanto speciale, dotato di sensori a fibre ottiche, il "data glove", che viene presto abbinato da Lanier al visore del computer ( una specie di 'mouse' che consente la percezione degli stimoli ). Il tutto viene poi perfezionato ed al guanto viene aggiunto il casco (eye-phone ) ed il cybercorredo con tanto di tuta ( data-suit ) ed occhialoni intelligenti, che forniscono sensazioni visive, acustiche e tattili completamente artificiali e prive di una corrispondente sorgente reale. Il computer converte il suo modello digitale di mondo in una configurazione di segnali luminosi, vista in modo da ingenerare la sensazione della reale esistenza dell' ambiente circostante, ed in onde sonore percepibili, mescolate nei modi giusti, per convincere il soggetto interessato di trovarsi realmente all'interno di un mondo virtuale, puramente illusorio. E' chiaro che la complessità delle immagini riprodotte, che devono avvicinarsi sempre più alla realtà conosciuta, prevede la continua necessità , da parte del computer, di ricalcolare l'intero mondo ogni volta che si muove la testa. 61 Illusione della realtà: la realtà virtuale Ne consegue che per creare un solido, colorato, illuminato in maniera appropriata ed ombreggiato, ci vuole più potenza di calcolo e, quindi, computer più costosi. Questo è uno dei motivi che hanno parzialmente frenato l'incredibile slancio iniziale dell'invenzione, che pareva, in prima battuta, non avere limiti applicativi in termini spazio-temporali di produzione industriale da fantascienza. Il progetto, allo stato embrionale concepito da Lanier e Zimmermann, viene industrializzato nella Silycon Valley, ed inizia la diffusione su scala internazionale. Tale tecnologia ha portato molti miglioramenti e progressi all’umanità ma con grandi progressi si è trascinata dietro di se anche molti problemi. I risvolti straordinariamente utili e di grande importanza per lo sviluppo dell'umanità sono davvero tanti, si pensi per esempio allo sviluppo della ricerca sul cancro mediante lo studio dell'agganciamento delle molecole iper-ingrandite nel cyberspace oppure a tutti i progressi relativi alla comunicazione o alla possibilità di ispezioni, impossibili nella realtà, in ambienti ostili grazie alla simulazione di tali spazi. Ma quali sono le potenzialità meno controllabili, prevedibili o preoccupanti di questa tecnologia? Com’è noto, la problematica inerente all'uso di uno strumento tecnologico si dipana nel senso di inquadrare i limiti adeguati ad una corretta visione morale, all'interno dei quali tale strumento può essere di grande aiuto all'espressione delle ricchezze creative dell'essere umano. All'esterno di tali limiti c'è spazio solo per una concezione che abusa dello strumento, asservendo la libertà dell'uomo alla tecnica alla quale l'oggetto è collegato. Per chiarire il discorso, si pensi all'uso della televisione: risulta di particolare evidenza che attualmente la maggior parte dei nostri simili ha largamente esorbitato da quelli che sono i limiti oggettivamente e soggettivamente auspicabili rispetto all'uso del mezzo: il porsi acriticamente davanti allo schermo con finalità di semplice drenaggio cerebrale o di ottundimento delle proprie capacità percettive per fuggire dalla realtà esterna e dalle proprie responsabilità pare essere un uso inadeguato e senz'altro nocivo del mezzo. Allo stesso modo occorre porsi in un'ottica analoga nella valutazione dei limiti necessari all'uso della tecnologia della Realtà Virtuale, coinvolgendo necessariamente parametri di carattere etico ed esistenziale. 62 Illusione della realtà: la realtà virtuale Pare fin troppo facile demonizzare una realtà così complessa e aperta ad abusi di qualunque genere e degenere; si pensi alla teledildonica (sesso simulato a distanza) o alla LSD elettronica (simulazioni cui ci si assuefà in tale modo da sostituire la realtà). Certo sono aspetti che turbano i nostri pensieri, ma non dobbiamo considerarla come un male, bisognerebbe semplicemente accettare il fatto che abbiamo a disposizione una tecnologia molto importante per il nostro sviluppo ma nello stesso tempo un’arma capace di fare molto male all’umanità. Vivere un bel sogno è una bella esperienza ma prima o poi dobbiamo svegliarci e abbandonare l’illusione. 63 Conclusioni Dopo questo breve viaggio all’interno del mondo della percezione visiva e delle illusioni ottiche, non ci resta altro che trarre delle considerazioni su ciò che abbiamo studiato. Abbiamo visto come il cervello esamina ed interpreta le informazioni visive che gli arrivano dall’occhio al fine di percepire l’osservato e dargli un significato compiuto. Ed è proprio in questo passaggio che noi comprendiamo ed interpretiamo la realtà in modo soggettivo in riferimento ad una realtà oggettiva che ci è data dall’esperienza, dall’ambiente e dalla società in cui viviamo. Ma molte volte lo stesso cervello pone dei limiti alla percezione, ed è proprio in questa fase che possono insorgere i fenomeni di illusione ottica. Le ambiguità visive, il rapporto figura-sfondo e tutti gli altri meccanismi legati alle illusioni, rappresentano i limiti percettivi del nostro cervello che cerca di comprendere la realtà secondo dei criteri specifici che normalmente intervengono nella fase percettiva. Il non riuscire a distinguere una figura posta in uno sfondo particolare o l’ambiguità di un oggetto è la prova che il cervello posto di fronte a tali processi si trova in difficoltà, in quanto non ha le potenzialità per arrivare ad interpretare questi oggetti o fenomeni. Infatti, l’esperienza che acquisiamo durante il corso della vita fornisce delle costanze percettive che riutilizziamo in ogni momento allo scopo di comprendere ciò che appare alla nostra vista. In questi casi mancano le normali costanze percettive utilizzate nella comprensione di tutto ciò che appare ai nostri occhi. Nello scorrere della vita, dalla nascita alla morte, tutto si risolve in una continua educazione dei nostri organi percettivi e soprattutto delle costanze percettive insite nel cervello di ogni essere vivente; certo è che nei primi anni di vita siamo predisposti ad apprendere molto di più per il semplice motivo che abbiamo ancora tutto da imparare. Un neonato appena apre gli occhi si trova davanti ad un mondo sconosciuto in una realtà del tutto estranea a quella che aveva vissuto prima nel ventre della madre, la prima cosa che osserva e percepisce è proprio il viso e le sue espressioni, infatti già dopo pochi giorni di vita riesce ad imitare le espressioni visive del volto che ha di fronte, il sorriso, la tristezza e così via. 64 Conclusioni Per un bambino la prima esperienza percettiva è data proprio dal volto, ed è proprio grazie a questa prima esperienza di percezione che tutti noi siamo in grado di riconoscere un volto da pochissimi tratti. Basta disegnare due punti e due tratti posti nella posizione di occhi, naso e bocca per far si che tali rappresentazioni, se pur grossolane, rendono l’idea del volto e anche dell’espressione che esso può avere a seconda della curvatura della linea che rappresenta la bocca. Ed è anche per la stessa esperienza avuta in tenera età che spesso in natura ci appaiono dei volti da particolari forme di rocce o di tronchi d’albero o quant’altro. Fino ad ora abbiamo trattato della fisicità della percezione ma non delle emozioni che sicuramente sono in grado di influire sulle percezioni, anche se non in modo sistematico. Pensiamo ad un forte sentimento come l’amore. Tale è il suo potere da renderci felici e di far percepire il mondo sotto un’ottica diversa, tutto sembra più bello quando siamo innamorati, riusciamo a superare ogni difficoltà senza grossi sforzi perché siamo motivati ad andar avanti da qualcosa di molto forte e grande. Pensiamo all’odio che ci rende ciechi e non ci fa percepire quanta sofferenza possiamo causare in determinate situazioni. Bisogna saper vivere e gestire le nostre percezioni in modo critico. E a loro volta le stesse percezioni possono influenzare i nostri stati d’animo, da qui deriva il potere dell’arte. Alcune cose ci incuriosiscono, ci appaiono belle o brutte. È difficile chiarire come possono avvenire tali scelte. Cos’è il bello? Cos’è il brutto? Sono delle risposte puramente personali che dipendono dall’esperienza che ognuno di noi ha avuto con lo scorrere della vita. L’arte, che purtroppo non è stata trattata in questo studio, rappresenta il materializzarsi di particolari sensazioni. L’osservare un’opera può scatenare moltissimi sentimenti che influiscono sulla percezione dell’opera stessa. La raffigurazione di grandi paesaggi, dalle ampie prospettive da sensazione di libertà e di benessere. Tutto ciò ci fa comprendere che la percezione di qualcosa non avviene solo in modo sensoriale, per esempio sappiamo che gli oggetti sono fatti di atomi ma in realtà non abbiamo mai visto un atomo. In questi casi interviene la scienza che da la possibilità di estendere la conoscenza ben al di là della pura e semplice percezione sensoriale delle cose. Voglio chiudere queste conclusioni con un quesito; se riflettiamo sui vari casi di manifestazioni di illusioni ottiche ed in modo particolare sul caso del rapporto figura-sfondo, ampiamente spiegato nella stesura del testo, possiamo realmente 65 Conclusioni definire tale caso un illusione ottica? In questo caso l’occhio e il cervello non fanno forse il loro dovere? L’occhio osserva e il cervello percepisce ciò che c’è da percepire; Allora perché considerare tale fenomeno come un illusione ottica? 66 Bibliografia Ernest H. Gombrich, Arte e illusione, Milano, Leonardo Arte s.r.l., 1998. 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