L`archiviazione dell`aura. Ontologia degli oggetti ed epistemologia

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L`archiviazione dell`aura. Ontologia degli oggetti ed epistemologia
CATERINA MARTINO*
L’archiviazione dell’aura. Ontologia degli oggetti
ed epistemologia del collezionismo in Walter Benjamin
Basta osservare un collezionista
che maneggia gli oggetti nella sua vetrina:
a stento li trattiene nella mano, e già sembra
esserne ispirato, e il suo sguardo,
come quello di un mago, sembra
attraversarli per perdersi lontano.
WALTER BENJAMIN
Nel corso di queste pagine, si tenterà di delineare il collezionismo come
una forma di archiviazione e di tracciare i suoi caratteri ontologici ed epistemologici. Una breve premessa è necessaria per specificare alcuni principi che caratterizzano la scrittura di questo saggio. L’archiviazione non sarà
considerata nel suo aspetto generico e ampio o nella sua costituzione più
propriamente tecnica, ma, come già detto, nella forma dell’atteggiamento
collezionistico. Il discorso è circoscritto ad un esempio specifico e cioè il
collezionismo che si incarna nella figura di Eduard Fuchs di cui Walter Benjamin parla in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e
società di massa1. Non si ha intenzione di forzare il testo del filosofo tedesco
né tantomeno il concetto di archiviazione, ma si tratta semplicemente di
una riflessione e un tentativo di unire le due cose.
Applicando termini come ontologia ed epistemologia a un simile ambito, si presentano inevitabilmente dei quesiti: cosa rimane degli oggetti nella loro archiviazione? Cosa fa di un oggetto un pezzo da collezione? Quali
* Il presente articolo è cofinanziato con il sostegno della Commissione Europea, Fondo
Sociale Europeo e della Regione Calabria. L’autore è il solo responsabile di questo articolo
e la Commissione Europea e la Regione Calabria declinano ogni responsabilità sull’uso che
potrà essere fatto delle informazioni in esso contenute. Cofinanziamento concesso dal Fondo Sociale Europeo attraverso il POR Calabria FSE 2007/2013, Asse IV Capitale Umano,
Obiettivo Operativo M.2 “Sostenere la realizzazione di percorsi individuali di alta formazione per giovani laureati e ricercatori presso organismi di riconosciuto prestigio nazionale
e internazionale”.
1 Il tema del collezionismo sarà affrontato seguendo l’esposizione di Benjamin nel saggio Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico. Tuttavia, quello del collezionismo non è un tema
nuovo per il filosofo tedesco, il quale era a sua volta uno straordinario collezionista.
Bollettino Filosofico 26 (2010): 246-262
ISBN 978-88-548-4673-9
ISSN 1593-7178-00026
DOI 10.4399/978885484673918
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sono i metodi, i criteri di catalogazione che il collezionista usa? E ancora:
nell’archiviazione di opere d’arte, cosa si preserva di quell’aura che originariamente le caratterizza?
Si inizierà col richiamare un’immagine che Benjamin descrive nella tesi
numero IX della sua riflessione sulla filosofia della storia. Tale immagine è
utile per comprendere meglio la precarietà che è quasi sempre alla base e
all’origine di un progetto di archiviazione.
C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un
angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo
sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al
passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede
un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le
scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata
nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa
bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle,
mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che
noi chiamiamo il progresso, è questa bufera2.
Benjamin si riferisce al progresso del quale dà una descrizione in forma allegorica. L’angelo si sta allontanando dall’origine della storia (cioè il paradiso) e intanto rivolge le spalle al futuro pur inoltrandosi in esso. Agli occhi dell’angelo la successione coeva degli avvenimenti (chiaro riferimento
all’atteggiamento storicista) appare in realtà come un cumulo di macerie, il
passato è un cumulo di macerie. Il progresso è un ammasso di rovine, ma
sembra solo un insieme di eventi. Questa idea negativa del progresso può
essere relazionata al tema di questo saggio. Infatti, nel progresso, quindi
nella velocità di riproduzione tecnica dell’opera d’arte, quello che si annienta è l’aura, e cioè quanto vi è di più autentico in un’opera. Un modo
per preservarla è l’atteggiamento che raccoglie gli oggetti del mondo, li
conserva, li protegge: questo modo è la collezione.
Collezionismo ed epistemologia: Benjamin e il caso Fuchs
Prima di procedere nell’esposizione del nucleo centrale di questa riflessione, è bene effettuare una sorta di contestualizzazione, e quindi introdur2
BENJAMIN (1974, tr. it. pp. 34-37).
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re brevemente il personaggio di Fuchs e la sua opera di collezionismo così
come descritti dallo stesso Benjamin.
Ciò di cui parla Benjamin non è tanto l’attività concreta ed empirica del
collezionista (non vi è accenno a quelli che potrebbero essere definiti metodi di ricerca e archiviazione), ma l’atteggiamento che lo caratterizza, i
principi, le idee in base alle quali Fuchs agisce nella sua opera di collezione.
Qual è la peculiarità di Fuchs? Di essere un collezionista che si interessa
ad oggetti generalmente posti al margine o sottovalutati dalla tradizionale
storia dell’arte; questi oggetti sono la caricatura, la raffigurazione pornografica e il quadro di costume. Sono queste le opere verso cui orienta il
proprio interesse. Parafrasando Benjamin, Fuchs è affascinato dalla caricatura e da questi altri modi di rappresentazione del grottesco perché ritiene
che ci sia in questa forma d’arte una verità che rispecchia l’istinto e il sentire di un’epoca. Ma l’interesse per queste opere è dovuto anche al fatto
che sono considerate come forme di arte di massa.
L’idea di un’arte di massa è uno dei maggiori punti di distacco di Fuchs
dalla tradizione classicista, insieme ad altri concetti che lo inducono ad avere una diversa visione dell’arte non legata più, scrive Benjamin, all’ideale
di bellezza, armonia, unità del molteplice perché è respinta l’idea di una
pura e semplice contemplazione. Gli aspetti fuchsiani che Benjamin definisce come estremamente “rivoluzionari” sono soprattutto tre: «interpretazione degli elementi iconografici, […] considerazione dell’arte di massa,
[…] studio delle tecniche riproduttive»3. Gli oggetti della collezione di Fuchs sono parte di quella che considera arte di massa (distribuita e diffusa
presso un vasto pubblico). Interpretare iconograficamente un’opera significa studiarne la ricezione presso questa massa e di conseguenza riflettere
sulle tecniche riproduttive che ne consentono la diffusione. L’idea di arte
di massa corrisponde a un’ideale di espansione della cultura a tutte le classi. Lo stesso Fuchs rivolge il proprio lavoro «alle masse dei lettori»4. Tutte
cose impensabili per una concezione più tradizionalista5.
Albergano in Fuchs due anime distinte, quella del collezionista e quella
del teorico: «l’albero genealogico francese di Fuchs è quello del collezionista, quello tedesco è quello dello storico»6.
BENJAMIN (1955, tr. it. p. 93).
BENJAMIN (1955, tr. it. p. 87).
5 Impensabili perché tranne la moneta, in passato non esistevano modalità di riproduzione a «buon mercato» [cf. BENJAMIN (1955), tr. it. p. 115], e di conseguenza non esisteva
una modalità di riproduzione tecnica che consentisse la massificazione delle opere d’arte,
le quali mantenevano un carattere esclusivo per alcune classi sociali.
6 BENJAMIN (1955, tr. it. p. 104).
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L’anima del teorico è l’anima dello storico. Il lavoro di Fuchs risente
fortemente della sua visione materialistica della storia. Fuchs ritiene che
l’arte (la quale, rimandando alla teoria marxista, rientra tra i domini della
sovrastruttura) sia condizionata dalla base economica e dalle forze produttive e tecniche di una società (cioè la struttura). Quindi, l’arte subisce le
proprie modificazioni non in seguito a un cambio di ideali, ma proprio in
relazione a quanto accade nel modo di produzione della società. In base a
questa visione materialistica, all’interno delle sue collezioni i fattori dominanti dell’organizzazione non sono la contemplazione o il semplice ammasso di oggetti con un intento meramente enumerativo. Nel suo lavoro vi è
un tentativo più complesso che si lega a quel movimento dialettico che dovrebbe essere proprio della storia della cultura (e della storia in generale) e
cioè il far rivivere l’opera d’arte dal momento che essa può essere compresa solo rapportando la storia passata che l’ha vista realizzare a quella attuale
in cui essa ancora vive e ha conseguenze7. Non si può parlare di comprensione o apprezzamento nella sola accumulazione di fatti, ma la comprensione si genera nella costruzione dialettica8.
L’anima del collezionista lo spinge, invece, a interessarsi a quei «territori estremi»9 che in passato l’arte ha per lo più disprezzato e sminuito.
Fuchs è mosso in questa direzione da una straordinaria passione per il genere d’arte che costituisce il contenuto delle sue collezioni. Gli oggetti della sua collezione sono prede perché «il collezionista si cala nel ruolo del cacciatore-raccoglitore»10 alla ricerca di oggetti desueti e/o declassati.
Questa passione, in realtà, è descritta da Benjamin come una caratteristica propria della figura del collezionista in generale: egli «usa la propria
passione come la bacchetta del rabdomante, che gli permette di scoprire
fonti nuove»11. Condizionato da questa indole passionale, il collezionista è
alla continua ricerca di nuovi documenti e oggetti. Una volta scovati, scatta
in lui l’orgoglio di possederli allo stesso modo con cui si possiede un tesoro, con la differenza che questa vasta quantità di opere non deve essere custodita gelosamente ma piuttosto esibita agli occhi degli altri12. Il collezio7 La visione dialettica della storia tipica del materialismo «mette in questione la chiusa
autonomia dei vari settori e dei loro prodotti. Così, per quel che riguarda l’arte, la sua particolare chiusa autonomia e quella delle opere […] queste opere integrano la loro preistoria come la loro storia successiva» (BENJAMIN 1955, tr. it. p. 82).
8 Cf. BENJAMIN (1955, tr. it. p. 116, nota 3).
9 BENJAMIN (1955, tr. it. p. 92).
10 PUCCINI (2004, p. 13).
11 BENJAMIN (1955, tr. it. p. 112).
12 È il collezionista balzachiano. Cf. BENJAMIN (1955, tr. it. pp. 102-104).
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nista Fuchs, mosso da questo «desiderio di possesso, ha intrapreso lo studio
di un’arte, nelle cui creazioni le forze produttive e le masse concorrono a
definire immagini dell’uomo storico»13.
Nello sfoggiare gli oggetti che possiede, Fuchs non mette in mostra solo
il suo tesoro (le collezioni che non nasconde gelosamente), ma anche il suo
orgoglio di possesso perché probabilmente, direbbe Pomian, il possedere
oggetti conferisce un certo prestigio e può rivelare agli altri le proprie qualità di intenditore14.
Collezionismo e ontologia del mondo sociale
«Di regola i collezionisti sono sempre stati guidati dall’oggetto»15. Gli
oggetti “toccano” il collezionista che a sua volta li insegue16. Il collezionista
di cui parla Benjamin è incessantemente alla ricerca di oggetti17, desidera
possederli, desidera che siano originali. Questo suo atteggiamento in qualche modo combatte la frammentarietà della storia della cultura e consente
di costruirla e organizzarla in modo più completo. Il collezionista rintraccia
oggetti nel mondo e li inserisce all’interno di un sistema grazie al quale
questi oggetti non sono preservati dalla loro storia, ma piuttosto esaltati
tramite essa18.
Nel caso particolare di Fuchs e della sua concezione materialistica vi è
l’idea che la cultura è fatta di oggetti (cose non solo nobili, ma anche prodotto di «barbarie»19), e che studiandoli sia possibile comprendere molte
cose. La cultura, scrive Benjamin, è reificata, è fatta di oggetti.
Per Benjamin la collezione ha una funzione di completezza perché è
BENJAMIN (1955, tr. it. p. 115).
Cf. POMIAN (1987, tr. it. p. 19).
15 BENJAMIN (1955, tr. it. p. 113).
16 Cf. BENJAMIN (1982, tr. it. pp. 269-270). In un altro passo dello stesso saggio Benjamin afferma che i collezionisti possiedono un «istinto tattile» che li spinge al possesso
dell’oggetto (ivi, p. 271).
17 Benjamin paragona questa ricerca a una sorta di esigenza fisiologica e biologica pari a
quella di alcuni animali, come uccelli e formiche. Cf. BENJAMIN (1982, tr. it. pp. 276 e 278).
18 «Ogni sforzo consumato intorno a un’opera d’arte è destinato a rimanere frustrato
qualora la conoscenza dialettica non riesca a coglierne il suo concreto contenuto storico. È,
questa, soltanto la prima tra le verità che orientano l’opera del collezionista Eduard Fuchs.
Le sue collezioni sono la risposta dell’uomo pratico alle aporie della teoria» (BENJAMIN
(1955, tr. it. p. 84).
19 Cfr. BENJAMIN (1955, tr. it. p. 91).
13
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un grandioso tentativo di superare l’assoluta irrazionalità della semplice
presenza dell’oggetto mediante il suo inserimento in un nuovo ordine storico appositamente creato: la collezione. E per il vero collezionista ogni
singola cosa giunge a diventare un’enciclopedia di tutte le scienze dell’epoca, del paesaggio, dell’industria, del proprietario da cui proviene. È l’incantesimo più profondo del collezionista quello di inscrivere il singolo oggetto in un cerchio magico in cui esso s’irrigidisce, nell’atto stesso in cui
un ultimo brivido (il brivido dell’essere acquistato) lo attraversa. Tutto
quanto fu oggetto di memoria, pensiero, coscienza, diviene piedistallo,
cornice, basamento, scrigno del suo possedimento. […] Il collezionismo è
una forma della memoria pratica20.
All’interno della (ri)costruzione collezionistica l’oggetto rivive; uniti in
un’unica raccolta gli oggetti si arricchiscono reciprocamente. Se il compito
del collezionista è quello di salvare oggetti dall’oblio o dalla trascuratezza,
in Fuchs questo atteggiamento è evidenziato dall’interesse per oggetti disprezzati dalla linea generale dell’arte. Trascorre la vita a ricercare con
grande passione oggetti non comuni, insoliti, non universalmente già riconosciuti nel loro status o tantomeno condivisi dalla collettività. Al contrario, preferisce rivolgere la propria attenzione a oggetti che possono essere
definiti volgarmente come «scarti»21. Oggetti tralasciati, messi da parte e
per tale ragione sottoposti al rischio di essere dimenticati.
La collezione preserva l’opera d’arte da un altro infausto destino che la
colpisce nel corso del tempo e che si basa sulla falsa idea per cui l’opera
d’arte sia qualcosa di concluso o relegata ad una sola epoca storica. In questo modo, essa si riduce semplicemente ad essere un oggetto da maneggiare.
Gli oggetti inseriti in un sistema di catalogazione, quale può essere
quello della collezione, diventano dei semiofori. Il termine proposto da Pomian è riferito ad oggetti che hanno perso la loro utilità, ma allo stesso
tempo hanno acquisito un significato e hanno assunto la funzione di rappresentare qualcosa che è divenuto ormai invisibile.
La collezione è la loro storia, la storia della loro «produzione, circolazione e “consumo”; quest’ultimo, salvo casi eccezionali, viene effettuato
unicamente attraverso lo sguardo, non causando quindi alcuna distruzione
fisica»22. Questa storia autonoma si intreccia anche ad altre storie, perché i
semiofori sono oggetti del mondo appartenenti a diversi ambiti (arte,
scienza, e così via).
BENJAMIN (1982, tr. it. pp. 268- 269).
PUCCINI (2004, p. 1).
22 POMIAN (1987, tr. it. p. 12).
20
21
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Proprio in quanto destinati unicamente allo sguardo e sottoposti a cure
e attenzioni particolari, gli oggetti assumono un carico di significato che
prima non possedevano. I semiofori non sono adoperati, ma guardati. Non
hanno più un’utilità, ma hanno un significato. Anche le opere d’arte, che
per loro essenza sono generate senza un fine pratico, perdono la propria
funzione originaria e cioè quella di decorazione, non hanno più utilità di
ornamento.
Fino ad ora è stato descritto il carattere che acquisisce un oggetto
all’interno di una collezione. L’oggetto è estratto dal suo ruolo consueto e
inserito in un contesto che, per quanto possa dare l’impressione di isolarlo,
in realtà ne determina l’esaltazione e la conservazione. Ma da cosa è preceduto il processo che vede la trasformazione di un oggetto (in questo caso
l’oggetto opera d’arte) in pezzo da collezione? Da un punto di vista ontologico, come può essere definito un oggetto?
La prospettiva ontologica che sarà brevemente presa in considerazione
è quella di Heidegger, e in particolare la riflessione operata in Essere e tempo
sulle condizioni dell’esistenza umana e sul problema dell’essere affrontato
nel suo rapporto col tempo (nelle dimensioni di passato, presente, futuro).
Il punto di partenza è la distinzione tra due concetti: ontologico e ontico.
Mentre l’ontologico si riferisce universalmente a tutti gli esseri, l’ontico si
riferisce ad enti concreti, reali ed empirici. Ontologico: l’essere dell’ente.
Ontico: l’ente nel suo essere, l’ente che è.
La riflessione procede sull’esserci dell’uomo, cioè il suo essere nel mondo, il suo essere inserito in uno spazio di possibilità in cui l’uomo non è
una mera cosa, ma esercita la sua progettualità. L’esserci, l’essere qui e
ora, è la realtà dell’uomo. L’uomo è “gettato” nel suo essere nel mondo:
l’esistenza gli è imposta, si ritrova in essa indipendentemente dalla propria
volontà e al suo interno deve agire. Non è possibile cambiare questa condizione e quando si acquisisce questa consapevolezza è possibile dar luogo a
due diverse forme di comprensione: l’uomo può emanciparsi da questa
condizione e realizzare il suo vero essere (si compie allora la vita autentica)
oppure la consapevolezza lo proietta in una condizione di deiezione, e quindi si adegua ad un falso sapere che è quello della convenzione (questa è la
vita inautentica).
In questa condizione di essere nel mondo, l’uomo costruisce il suo essere e lo fa preoccupandosi del contesto in cui realizza se stesso. Il rapporto col contesto, e quindi la relazione con oggetti o con gli altri uomini, si
manifesta nella forma della cura. Gli oggetti sono enti passivi che non han-
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no progettualità come l’uomo, ma aderiscono ad una forma. Il rapporto tra
l’uomo e gli oggetti è definito da Heidegger come il prendersi cura del
primo per i secondi in uno scopo pratico che è il loro utilizzo. La cura degli
oggetti è il loro utilizzo nell’attuazione della progettualità.
Come già detto, l’esistenza è calata nel tempo e quindi la sua costruzione
è storica. L’uomo, il cui essere gettato nel mondo non è causa di passività
come per gli oggetti ma di progettualità e potenzialità d’azione, è inserito nel
triplice rapporto con presente (le possibilità che realizza nel mondo), il passato (il ritrovarsi nel mondo, l’essere gettato nel mondo), e il futuro (agire e
costruire la propria esistenza mantenendo la consapevolezza massima che tra
tutte le possibilità la morte è quella più certa e inevitabile).
È interessante in Heidegger anche la riflessione sull’ontologia dell’arte.
Nel saggio sull’origine dell’opera d’arte, Heidegger scrive che le opere
d’arte sono conservate in collezioni e nel momento in cui ciò avviene esse
vengono esportate dal loro spazio originario: «per grandi che siano il loro
livello e la loro capacità di suscitare emozione, per buona che sia la loro
conservazione e chiara la loro interpretazione, tuttavia il trasferimento in
una collezione ha privato queste opere del loro mondo»23.
Nelle collezioni le opere smettono di essere ciò che erano prima e diventano oggetti inseriti in un contesto di conservazione ma allo stesso tempo di esposizione. Questo concetto si lega a quel valore espositivo che secondo Benjamin accresce con la riproducibilità tecnica moderna a scapito
del valore culturale e rituale della riproduzione del passato.
Heidegger scrive che questo tipo di esposizione non è una semplice collocazione degli oggetti, ma la storicizzazione della verità perché questo è lo
stesso carattere essenziale dell’opera d’arte. Qualche pagina più avanti
Heidegger scrive che la salvaguardia dell’opera non è una semplice rappresentazione o conoscenza, ma è un sapere che «non isola l’uomo nelle sue
esperienze vissute, ma lo fa entrare nell’appartenenza alla verità quale si
storicizza nell’opera»24. In questo modo si protegge e conserva la realtà autentica dell’opera. Accanto al carattere di cosa dell’opera vi è il suo carattere
di autenticità, anzi il primo è base per il secondo. Conoscendo il carattere
immediato dell’opera d’arte in quanto materia formata è possibile rintracciare la verità dell’ente che è messa in opera nell’opera d’arte.
Nell’ontologia dell’arte di Ferraris, l’opera d’arte è considerata come
oggetto sociale, ovvero un oggetto che esiste nello spazio e nel tempo in
dipendenza dei soggetti che lo rappresentano e della loro relazione.
23
24
HEIDEGGER (1950, tr. it. p. 26).
Ivi, p. 52.
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È possibile riassumere in tal modo la definizione che Ferraris dà di oggetto artistico, o meglio quello che l’autore definisce artefatto artistico. L’oggetto artistico è un oggetto ontologico fisico, cioè esiste, e come tutti gli altri
oggetti è percepito ed esperito perché fa parte della vita e del mondo in cui
l’uomo agisce. Una delle sue principali caratteristiche è quella di essere un
oggetto invariante: «le opere d'arte hanno una durata nel tempo e possiedono una specifica consistenza, che non può essere cambiata»25.
La definizione più approfondita di oggetto sociale la si ritrova in un altro saggio di Ferraris in cui l’oggetto sociale è presentato come un oggetto
che occupa un posto nel tempo e nello spazio e dipende dai soggetti che
pensano che esso esiste26. Gli oggetti sociali non esisterebbero se non ci
fossero soggetti in grado di riconoscerli come tali. Le opere d’arte sono
oggetti fisici e sociali allo stesso tempo.
È possibile applicare il discorso di Ferraris all’analisi dell’atteggiamento
collezionista. Le opere d’arte sono oggetti inseriti in un contesto sociale, «i
loro caratteri fondamentali sono la persistenza, l’avere un inizio e una fine
nel tempo, l’essere costruiti, e il fatto che questa costruzione consista per
l’appunto in una iscrizione»27. Quindi, sono oggetti storici che durano nel
tempo, derivano dall’atto di un soggetto che gli dà vita e li realizza, e sono
inscritti nella memoria collettiva, cioè vengono fissati su un supporto esposto al mondo esterno, agli occhi delle persone28. Inoltre, l’opera d’arte generalmente nasce da un processo individuale; tale processo dà vita ad un
prodotto che si inserisce nel campo dell’arte, e quindi in un contesto collettivo e sociale. Tuttavia, come oggetto di collezione l’opera ritorna in
una sorta di piano privato seppur non preservato agli occhi esterni.
L’opera è «l’iscrizione di un atto privo di finalità pratiche e, contemporaneamente, è anzitutto un oggetto materiale, privo di valori strumentali»29. Le opere d’arte, in riferimento ancora una volta al pensiero di Ferraris, possono essere considerate come tracce, segni di un’iscrizione. Questo
è il loro carattere ontologico. La registrazione è l’operazione che dà alle
tracce un significato senza le quali esse rimarrebbero solo tracce. La registrazione è per Ferraris la condizione di possibilità della comunicazione:
«senza registrazioni nella testa non avremmo niente da comunicare, né
avrebbe senso farlo, poiché […], senza registrazione di ciò che si comuni25 FERRARIS (2004, p. 4). Tutti questi concetti possono essere meglio approfonditi nel
saggio cui si fa riferimento.
26 Cf. FERRARIS (2007, pp. 247-248).
27 FERRARIS (2009, p. 44).
28 Cf. FERRARIS (2007, p. 293-294).
29 FERRARIS (2009, p. 305).
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ca, senza fissazione, comunicare sarebbe, letteralmente, parlare al vento»30. In altre parole, si potrebbe dire che la registrazione è una rappresentazione mentale con cui le cose si imprimono nella mente. In questa operazione risiede un carattere epistemologico che può essere allacciato proprio
alla funzione di una collezione.
Il collezionista si presenta, dunque, come colui che registra (fissa all’interno di un archivio) tracce (cioè gli oggetti segno e simbolo di ciò che non è
più) per comunicarle agli altri, o meglio per esporle ai loro occhi. Nel caso
di Ferraris la registrazione è una condizione importante per la trasmissione
del sapere, mentre rapportando tutto il discorso al collezionismo, non si
tratta solo di una trasmissione ma anche e soprattutto di una preservazione
delle tracce. Allo stesso tempo, il pensiero di Ferraris può essere utilizzato
per un’interpretazione di questo tipo: per il collezionista le opere collezionate non sono semplici tracce, ma vere e proprie registrazioni.
La registrazione è importante per la traccia. Le tracce sono essenzialmente
esterne. [...]. Ma il loro significato interno (ossia, il significato che rivestono
nella mente che le contempla, il loro valore intenzionale) è una registrazione,
cioè una traccia appresa sotto il profilo del significato. Se la traccia è dunque
qualcosa di tipicamente ontologico, la registrazione possiede una dimensione
più marcatamente epistemologica. […] Tracce originariamente inespressive
(per esempio, i residui organici prima degli sviluppi della polizia scientifica)
diventano registrazioni nel momento in cui il loro senso risulta tecnicamente
accessibile. Inversamente, le registrazioni sui dischi di vinile regrediscono allo stato di tracce nel momento in cui non ci sono più giradischi capaci di
suonarli, e tale sarà probabilmente il destino di moltissimi tra i nostri archivi
informatici [...]. In qualità di rappresentazione cosciente, la registrazione è la
traccia in quanto viene appresa sotto il profilo mentale31.
L’archivio e la collezione sono atti di registrazione perché sono luoghi dove
si fissa ciò che è significativo. Senza la registrazione di tracce non ci sarebbe
niente da comunicare, né avrebbe senso farlo, poiché il mondo sociale e i
suoi oggetti svanirebbero.
L’archiviazione dell’aura
Nel saggio Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico, Benjamin utilizza tre
30
31
FERRARIS (2009, p. 207).
FERRARIS (2007, pp. 290-291).
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termini che si legano alla questione dell’archiviazione. Non si tenterà di
darne una definizione minuziosa o di circoscriverne l’ambito di appartenenza e applicazione. Invece, partendo dalle loro occorrenze, è importante
capire il senso di queste espressioni in relazione all’uso che ne fa il filosofo
tedesco. I termini in questione sono archivio, inventario e collezione.
Il termine archivio compare nel testo in un unico momento, nelle prime
righe, quando Benjamin introduce l’opera di Fuchs. «Come collezionista,
Fuchs è anzitutto un pioniere: è il fondatore di un archivio, unico nel suo
genere, per la storia della caricatura, dell’arte erotica e del quadro di costume»32. La collezione è presentata come un vero e proprio archivio; non
vi sono altri utilizzi del termine né della parola archiviazione.
Inventario compare in riferimento alla storia della cultura: «lo studio
delle singole discipline, private ormai dell’apparenza della loro chiusa autonomia, non deve forse convergere con quello della storia della cultura,
cioè di quell’inventario, che l’umanità è riuscita finora a garantirci?»33. Da
quanto si legge emerge un tono polemico: ciò che manca alla storia della
cultura, e ciò per cui viene rimproverata, è quella forza distruttiva e dialettica del pensiero che libera gli oggetti dalla pura e semplice fattualità.
L’inventario è inteso, dunque, come una semplice raccolta, un’accumulazione, un deposito in cui gli oggetti sono solo immagazzinati.
Per tutto il resto del testo Benjamin si riferisce al lavoro di Fuchs con il
termine collezione. Lo si ripete, si ha a che fare con una collezione costituita
da oggetti insoliti per l’arte e destinati alla diffusione di massa. La collezione si mostra come «sistemazione e classificazione» degli oggetti in una sorta di ordine naturale34.
A questo punto, è possibile identificare in un’accezione negativa il termine inventario (legato tra l’altro all’atteggiamento storicista e formalista
di mera accumulazione) e al contrario in un valore positivo la collezione e
l’archivio (a cui corrisponde l’atteggiamento di materialismo storico che
conserva le opere all’interno di una costruzione dialettica). Generalmente
si associa il lavoro del collezionista ad un’attività privata, per certi versi
quasi segreta, il cui contenuto è riservato a un piacere tutto personale.
Non è questo il caso di Fuchs, il quale pur essendo un collezionista non ha
intenzione di godere in modo riservato degli oggetti che raccoglie e conserva, ma preferisce metterli in mostra e veicolarli alla massa di lettori
BENJAMIN (1955, tr. it. p. 81).
BENJAMIN (1955, tr. it. p. 90).
34 BENJAMIN (1982, tr. it. p. 272).
32
33
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traendo piacere dalla stessa esibizione. Ciò che rende la collezione di Fuchs
un archivio è anche, in un certo senso, l’assenza totale di esclusiva
sull’oggetto posseduto e l’assenza di una contemplazione privata. La collezione non è nascosta né è fossilizzata in una forma di puro accumulo.
Benjamin non dà mai indizi tecnici che inducano a considerare il lavoro
di Fuchs come un’operazione di archiviazione; non è detto nello specifico
in che modo Fuchs organizzi o raccolga le opere. Benjamin si sofferma soprattutto sull’atteggiamento di ricerca del collezionista, non su quali siano i
criteri di ricerca e catalogazione. Il collezionismo è una modalità di archiviazione, ma nel caso di Fuchs si tratta di una particolare forma che può essere definita archiviazione dell’aura, ovvero di quell’autenticità e unicità essenziale delle opere d’arte.
In che senso si può parlare di archiviazione dell’aura? È necessario tornare qualche pagina dietro nel testo di Benjamin al saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. La riproduzione tecnica delle opere
d’arte è un processo che si presenta a un certo punto della storia. Ogni
epoca mostra la propria particolare modalità di riproduzione tecnica. E di
questo è convinto anche Fuchs, il quale ritiene che la caricatura e le altre
forme di arte sottostimate alle quali rivolge il proprio interesse, non sono
state diffuse e non hanno conosciuto questa riproduzione in epoche passate
perché non esisteva ancora.
Le opere d’arte sono sempre state riproducibili dall’uomo, ma la riproduzione tecnica (Benjamin ha in mente soprattutto la fotografia) è cosa nuova. La riproduzione manuale è surclassata dalla velocità della nuova tecnica.
Ma la velocità riproduttiva si paga con la perdita di autenticità dell’opera. La
riproduzione tecnica annienta un elemento fondamentale: «l’hic et nunc
dell’opera d’arte – la sua esistenza unica è irripetibile nel luogo in cui si trova»35. Tecnica vs aura, si potrebbe dire. La tecnica consente facilmente la riproduzione di opere e la trasformazione del loro valore culturale in valore
espositivo perché ne aumenta la diffusione e la ricezione presso un pubblico
di massa. Tuttavia, questa riproducibilità annienta l’autenticità dell’opera che
è determinata dall’unicità della sua collocazione spazio-temporale, cioè il
momento della sua realizzazione. Non vi è più l’evento unico originario.
L’arte viene estratta dalla dimensione rituale e inserita in una dimensione politica, perché le opere esigono una ricezione pubblica e si moltiplicano le occasioni di esposizione, dando origine alla «ricezione collettiva simultanea»36.
35
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BENJAMIN (1955, tr. it. p. 22).
Ivi, p. 39.
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Caterina Martino
Se la riproduzione tecnica dell’arte distrugge l’aura, allora l’archiviazione la preserva perché è in grado di far rivivere e conservare per sempre
quel momento originario in cui è stata creata. Nel caso particolare di Fuchs
si potrebbe parlare di una duplice aura degli oggetti: l’aura propria dell’opera d’arte legata al suo momento più autentico e originario, e una seconda aura che nasce da un interesse tutto personale del collezionista e che
è determinata dall’oggetto stesso che si desidera avere e conservare.
Nelle collezioni di Fuchs, l’aura è custodita all’interno di una costruzione dialettica in cui l’opera non è isolata, estraniata, collocata su un piedistallo, ma rapportata con la storia, la sua storia passata e quella attuale,
ed esposta pubblicamente. Per chi studia arte di massa, scrive Benjamin, è
fondamentale rivalutare il momento dell’esecuzione dell’opera, quindi
nient’altro che la sua autenticità37. Per il collezionista è importante l’oggetto ma anche il suo passato più autentico, quindi la sua origine, la storia
delle sue vicende, perché entrambe lo qualificano38. La sua storia originaria
e la storia della sua esistenza arricchiscono l’oggetto: è l’unico modo in cui
lo si può comprendere.
Fuchs rientra in questa serie di grandi collezionisti, intenti a perseguire
programmaticamente un loro progetto, risolutamente votati a un’unica
causa. Il suo proposito era di restituire all’opera d’arte la sua esistenza nella società da cui era stata staccata; staccata a un punto tale che il luogo in
cui egli la trovava era il mercato artistico, dove essa, ugualmente lontana
da coloro che l’avevano prodotta come da coloro che erano in grado di
comprenderla, continuava a vivere ridotta a mera merce. Il feticcio del
mercato d’arte è il nome del maestro. Per la storia, il massimo merito di
Fuchs rimarrà, probabilmente quello di aver avviato la liberazione della
storia dell’arte da questo feticcio. […] Fuchs fu così uno dei primi a definire il carattere particolare dell’arte di massa e quindi a sviluppare le suggestioni che gli erano venute dal materialismo storico39.
Cf. ivi, p. 94.
«Tutto ciò, tanto i dati “obiettivi” quanto gli altri, si fonde insieme per il vero collezionista in ciascun singolo oggetto di sua proprietà, fino a formare un’intera enciclopedia
magica, un ordine universale, il cui abbozzo costituisce il destino del suo oggetto» (BENJAMIN 1982, tr. it. p. 272).
39 BENJAMIN (1955, tr. it. pp. 113-114). A questo punto si potrebbe obiettare: l’oggetto d’arte è liberato dalla sua condizione di feticcio del mercato per diventare a sua volta
feticcio nella propria personalissima collezione. Intendendo qui per feticcio la definizione
generica di oggetto che assume profondi significati e valori simbolici per chi lo possiede,
un oggetto quasi divinizzato. Su questo argomento si potrebbe fare un’ulteriore riflessione
con implicazioni di varia natura, ma non è questa la sede.
37
38
L’archiviazione dell’aura
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Con l’archiviazione, l’opera d’arte è astratta e liberata dal suo carattere di
merce, cioè oggetto rintracciabile a “buon mercato”, carattere che acquisisce nell’epoca moderna con la facilità della riproduzione tecnica. L’oggetto
smette di essere merce e perde la sua utilità. La riproduzione tecnica trasforma le opere d’arte in merce, mentre al contrario l’archiviazione libera
l’opera da questo ruolo. Fuchs oppone la propria personale iniziativa di
collezionare opere d’arte a quel tipo di archiviazione più istituzionale che
risiede nei musei40. Queste istituzioni si concentrano solo sulle opere d’arte famose che portano «il nome del maestro». Mentre la collezione, e
quindi l’archiviazione personale, ha una marcia in più perché si interessa
all’originalità delle opere. I musei conservano l’aura, ma solo quella dei
«pezzi forti»41 restituendo un’immagine parziale di quella che è invece la
totalità della cultura. Anche in questo caso si potrebbe definire l’oggetto
come feticcio di una cultura standard e formalmente riconosciuta.
La collezione preserva gli oggetti dalla velocità e dal progresso tecnologico che la società gli impone. Per non perdere gli oggetti né rovinarli, è
necessario raccoglierli e custodirli. «Il vero metodo per renderci presenti
le cose è di rappresentarcele nel nostro spazio»42. La collezione serve a
raccogliere gli oggetti del mondo, a salvarli dalla frammentarietà, a riunirli
in base alla loro affinità, liberandoli dalla loro funzionalità, tutto ciò allo
scopo di evitare che siano soggetti ad una dispersione (è quanto Benjamin
scrive in Parigi, capitale del XIX secolo. I «passages» di Parigi).
Si potrebbe aggiungere a questa definizione anche l’idea di Pomian riguardo la collezione come un insieme di oggetti raggruppati ed estratti dal
circuito economico, sottoposti a una «protezione speciale in un luogo chiuso sistemato a tale scopo, ed esposti allo sguardo del pubblico»43. Pomian
delinea un parallelismo tra le collezioni e gli archivi che funzionano secondo le medesime modalità. Gli archivi sono al di fuori dell’ambito delle attività economiche e il loro compito è quello di raccogliere, conservare, preservare documenti ed oggetti che hanno perso la loro funzione originaria e
che rischiano di essere dispersi proprio perché non più utili44.
40 Pomian parla del fenomeno per cui molti musei nascono dalla cessione di collezioni
private. Cf. POMIAN (1987, tr. it. pp. 46-58).
41 BENJAMIN (1955, tr. it. p. 112).
42 BENJAMIN (1982, tr. it. p. 270). Si ricollega al discorso dell’Angelus Novus.
43 POMIAN (1987, tr. it. p. 18).
44 Cf. ancora POMIAN (1987, tr. it. p. 18). Per quanto la riflessione di Pomian possa risultare interessante in relazione all’essenza propria delle collezioni, essa è riportata in questo
saggio solo per rafforzare alcuni concetti. Infatti, vi è una distinzione importante da sottoli-
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Caterina Martino
Pomian definisce l’atteggiamento del collezionista come un comportamento sui generis con una funzione precisa, ovvero quella di fare da tramite
tra ciò che è visibile e ciò che è invisibile. Un ponte tra chi guarda gli oggetti (il visibile) e ciò che essi rappresentano (l’invisibile, ciò che non è più
presente, ma che è stato, qualcosa ormai lontano nello spazio e nel tempo). E ancora, gli oggetti della collezione sono «manifestazioni dei luoghi
sociali dove si opera, per gradi e secondo una gerarchia, la trasformazione
dell’invisibile in visibile»45. Il collezionista è un uomo che rappresenta e
protegge l’invisibile.
Conclusioni
Per la brevità dello spazio, non è stato possibile ampliare il discorso su
un’ontologia degli oggetti da collezione e su un’epistemologia del collezionismo.
Nel corso di queste pagine non sono stati esaminati in modo approfondito
o tecnico molti concetti presi in considerazione per affermare l’idea principale, e cioè la collezione come forma di archiviazione.
Alla luce di quanto detto, sorgono immediatamente alcune domande, o
meglio quesiti ontologici ed epistemologici. Da un punto di vista ontologico ci si chiede: cosa rimane dell’autenticità di questi oggetti? Cosa permane
della loro unicità una volta che gli oggetti divengono passato? L’archiviazione può essere considerata una risposta a tutto ciò perché consente di
conservare e tener fermo un presente che diverrebbe subito passato dimenticato o usurato dal tempo.
Più complesso è poter definire l’apparato epistemologico della modalità
di archiviazione di una collezione. Secondo quali criteri un’entità è archiviabile? In base a quali metodi di catalogazione gli oggetti sono raggruppati
creando una sorta di sistema di sapere interno? Bisognerebbe chiedersi se
esiste una scienza, o un metodo, che consenta di studiare come questi oggetti permangono, continuano ad esistere nella loro autenticità attraverso
una disposizione e collocazione ragionata.
neare rispetto a Benjamin, e cioè il fatto che secondo Pomian l’oggetto della collezione nella
sua protezione speciale è esaltato a oggetto prezioso e assume un certo valore in denaro. Come scrive lo stesso Pomian, perde il valore d’uso ma ne acquista uno di scambio.
45 POMIAN (1987, tr. it. pp. 44-45). Per invisibile e visibile si intende anche il riflesso dei
tratti specifici di una società: stabilendo un confine tra ciò che è visibile e ciò che è invisibile,
si può comprendere il modo in cui la società gerarchizza gli oggetti in base al significato che
gli attribuisce (ivi, p. 46). Quali oggetti sono privilegiati? Questo condiziona l’atteggiamento
del collezionista. Fuchs è attratto proprio dagli oggetti non privilegiati.
L’archiviazione dell’aura
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In queste pagine, l’epistemologia non è stata applicata a un contesto
scientifico come è solito pensarla, né è stata considerata nella sua accezione
più rigorosa e metodologica. In merito al collezionismo, l’epistemologia si
lega maggiormente a un contesto dal carattere più quotidiano e poco formale (dal momento che vigono regole del tutto personali). Il collezionismo
è un’epistemologia di oggetti quotidiani, o come li definirebbe Ferraris,
un’epistemologia di oggetti sociali come le opere d’arte.
Se «l’ontologia cataloga il mondo della vita»46, allora essa ha che fare
con quello che c’è, ciò che esiste, gli enti esistenti. Mentre l’epistemologia
riguarda quello che si sa, cioè la conoscenza, il sapere che si possiede in relazione agli enti che esistono. Ontologia sono gli oggetti della collezione,
l’epistemologia è il sapere che organizza questi oggetti. Parafrasando Ferraris, si tratta di un’epistemologia sui generis che ha a che fare più che col
sapere e il contemplare, con il credere e il fare. Infatti «non basta sapere
che cos’è un determinato oggetto sociale (una festa), ma bisogna credere
che quell’oggetto sociale esista (questa festa)»47 affinché sia riconosciuto come tale. E, inoltre, «le conoscenze che si acquisiscono in riferimento al
mondo sociale sono di tipo pratico, cioè si riferiscono all’agire e al comportamento, e prive di ambizioni teoriche»48.
Il collezionare si lega ad una metafisica descrittiva: è l’atteggiamento di
chi identifica, cataloga, classifica le cose del mondo (sono queste le domande guida: cosa esiste?, come può essere organizzato e ordinato?, come
si distingue dal resto?)49. La catalogazione, la raccolta di oggetti in insieme
è di per sé sempre una pratica epistemologica al di là delle necessità da cui
essa deriva e dei metodi o le regole organizzative utilizzate. Gli oggetti sono oggetti preservati, conservati, catalogati, archiviati, attraverso una “scienza” (o meglio un ambito del sapere, della modalità di conoscenza e del fare)
che è quella del collezionismo.
FERRARIS (2009, p. 358).
FERRARIS (2009, p. 145).
48 FERRARIS (2009, pp. 145-146).
49 È ancora Ferraris per il quale la metafisica descrittiva è la più adeguata per rappresentare l’ontologia dell’opera d’arte. L’arte è «la quintessenza delle esperienze ordinarie,
che si basa su un’umanità media, su una taglia media, su invarianze (cioè su elementi molto
più stabili di quanto non avvenga nell’intima dinamicità della scienza) e sulla percezione
(che in un certo senso è la quintessenza della medietà)» (FERRARIS 2004, p. 2).
46
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