la stanza - Uomini Scritti

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la stanza - Uomini Scritti
La stanza
Racconto
C’è da esserne orgogliosi, in fondo. Non è un gran che, certo, ma avere una stanza qui
significa almeno due cose: che hai avuto buoni voti al Liceo e che non sei un «figlio di papà».
Perché l'Università in persona si scomodi a darti una stanza per farti studiare, devi in
qualche modo meritartelo. Certo devi anche mantenertela, darci sotto, insomma farci
qualcosa di questa stanza dell’Università in persona.
Io e il mio compagno di stanza, certo Alessandro mai visto prima assegnatomi dal computer,
prendiamo possesso della suddetta stanza il 4 Ottobre. Il 5 ci sembra già di odiarla, forse è
sintomo che ci sentiamo come a casa. Di lui so due cose, al 6 Ottobre: che ha avuto buoni
voti al Liceo e che non è un figlio di papà. Ma questo avrei potuto dedurlo da solo, dato che
se sei pieno di soldi o nullafacente scolasticamente non ti danno la stanza per pochi eletti. In
realtà non abbiamo parlato molto, ho il sospetto che non sia un chiacchierone. Forse
dipende anche dal fatto che dal 4 al 6 Ottobre ci siamo visti solo per mezz'ora, il 5, quando è
venuto a portare il resto del suo bagaglio prima di ritornare a lezione e da lì direttamente a
casa: è stato allora che l'ho sentito sbuffare, probabilmente segno che odiava già quella
stanza (a sua volta probabilmente sintomo del fatto che ci si sente già a casa). Dal 6 si dorme
entrambi nei letti dell'università in persona.
Sento a questo punto la necessità di descrivere dettagliatamente il fatidico locale. Porta di
entrata: la apri, sulla destra ti trovi un grande armadio. Alto fino al soffitto. Ti chiedi perché
sia così alto, mica ci devi portare la casa intera, qui dentro, ma poi capisci: se giri intorno
all'armadio scopri che lo stesso crea una sorta di parete, dietro cui si nasconde un mini
angolo cottura, giusto per farci il caffè e scaldarci – al limite – le cose congelate che ti dà
mamma già pronte per l'uso. Io, personalmente, mi sono subito immaginato che dovevo
dire a mia madre che non mi preparasse il sugo per la pasta, ma direttamente la pasta al
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sugo, due giorni in congelatore in dosi giornaliere, borsa-frigo per semimantenere le razioni
dal lunedì al venerdì (probabilmente per tale giorno a temperatura ideale). Tutti questi
ragionamenti dovuti al fatto che in un angolo cottura così piccolo non c'è affatto spazio per
lo scolapasta in tutte le sue versioni (vale a dire che ci sta, bello asciutto e pulito, ma
nell'azione di scolare la pasta sarebbe troppo ingombrante).
Procedendo ancora verso sinistra, dietro questa specie di cucina, porticina del bagno.
Bagno. Senza infamia e senza lode.
Il resto della stanza, due meravigliosi letti con comodino e scrivania, scaffalatura per libri e
tutto quanto si possa desiderare nel Paradiso dello studente.
Se avete un minimo di fantasia plastica, a questo punto vi siete immaginati cosa si vede,
entrando dalla porta, se – anziché procedere lungo l'armadio a destra (per scoprire a che
cosa serve un armadio così grande) – rivolgete lo sguardo a sinistra praticamente diritto: i
letti e le scrivanie. Il che vale a dire che se poco poco non siete esauriti come me che devo
complicarmi la vita a capire il perché delle cose più impensate, la ragione per cui l'università
in persona vi assegna quella stanza vi appare palesemente, immediatamente,
incontrovertibilmente chiara: RIPOSA E STUDIA – ti dice «Sua Accoglienza» – nel mio
grembo crescerai in ispirito ed intelletto, se proprio ti scappa puoi fare la pipì, vedi di farti
cucinare da mamma, ché qui potrebbe andare a fuoco, per il resto pensa solo a studiare ed a
dormire un po'.
LA LETTERA
15 Marzo. Oggi sono solo nella stanza, Alessandro è a casa con l’influenza. Mi sdraio
placidamente sul mio letto, ma forse non sono poi così placido, nel farlo, dato che appena
finito di depositare l’intero peso del mio corpo sul materasso si sente un sordo ma
fragoroso, nel suo genere, CRACK. Ha ceduto. Il letto dell’Università in persona non
rispecchia affatto l’immagine di solidità che il nostro ateneo vuole dare. In sostanza,
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inutilizzabile. Poco male. E chi ci ha mai creduto alla solidità del nostro amato ateneo?
Telefono al mio compagno di stanza.
« Ciao, sono Giulio. Volevo chiederti se ti dispiace se dormo nel tuo letto per stanotte. Non
potrai mai credere a che cosa sia successo al mio. Comunque non ti preoccupare, cambio le
lenzuola».
Assodato che va bene, ho quasi percepito nella sua voce una sorta di curiosità per cosa
fosse successo, forse stava perfino in pena per me. Tipo sempre più interessante. Con tutta
probabilità non mi ha chiesto di dare alcuna spiegazione per non farmi spendere troppi
soldi. Ad ogni modo, è certo che moriva dalla voglia di sapere cosa fosse successo al mio
letto. Lo immagino a non dormire, col pensiero di fantomatici ladri di letto, oppure, chissà,
di qualche sorta di pignoramento o sequestro di letti da parte dell’autorità scolastica.
Qualche volta abbiamo scherzato sulla possibilità che ci sia una specie di «psicopolizia» che
ci controlla a nostra insaputa e forse hanno scoperto che buttiamo lo scottex nel bagno per
non fare troppa immondizia (che poi dovremmo, a turno, portare giù, fuori, al portone).
Ve la sto facendo lunga perché mi vergogno molto di quello che a questo punto vi devo
raccontare, ma vi assicuro che questa storia non esisterebbe nemmeno, se non mi fossi
macchiato di tanta cafoneria. Insomma cambio le lenzuola, accendo la lucetta del comodino,
spengo tutto, chiudo a chiave, faccio pipì (nell’ordine inverso, le quattro operazioni appena
descritte, dopo il cambio di lenzuola) e mi metto a letto. Non sento ancora quel sonno che ti
prende quando hai veramente bisogno di dormire, perciò mi metto a curiosare nel
comodino del mio compagno di stanza. Così, per fare qualcosa, forse per trovare qualcosa
da leggiucchiare. E’ stata una folgorazione: una busta con scritto X ALESSANDRO.
Calligrafia femminile. Dieci lunghissimi secondi passano nel tormento della mia coscienza. Vi
assicuro che ho tentato di pormi problemi etici. Ci ho provato, credetemi, a chiedermi se
avrei potuto guardarmi allo specchio dopo aver fatto una cosa del genere. E avrei poi potuto
guardare in faccia lui?
È stato più forte di me: l’ho aperta.
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Carissimo Alessandro, so che non ti stupirai di ricevere questo foglio. Nella
tua sensibilità, capirai che ho bisogno di dirti queste cose. Ti faccio una
promessa: non cercherò di interpretare la decisione che hai preso, parlerò
solo di me. Mi sarebbe piaciuto ripercorrere con te i momenti che sono
stati per me tanto importanti, sapere come li hai vissuti tu. Visto che non
possiamo farlo, ne voglio comunque ricordare qualcuno. Tutto comincia in
una pizzeria. Non riuscivo a smettere di guardarti. Dio!, quanto sei bello
… Sai che cosa mi è successo in quel momento? Mi sono sentita bella
anch’io. Non so se è quello che pensavi tu in quel momento, ma voglio che
tu sappia che per me è stato come ricevere un regalo inaspettato.
Ti ricordi l’unica volta che ti ho dato un bacetto sulla guancia? Ti direi
una bugia, se ti dicessi che ho provato un’emozione forte. E’ come se in
quel momento non fossi stata in grado di sentire nulla, probabilmente
non me lo potevo permettere, avrei dovuto urlare dalla gioia. Mi ricordo
la tua pelle morbida come se fosse ancora appiccicata alle mie labbra.
Penserai che sono stupida. In effetti, ne faccio parecchie, di cose stupide,
come talvolta darti la buonanotte … E quel giorno in sala computer … ho
preso il mouse cercando di non toccarti, ma ti sono passata talmente
vicino che pensavo si sarebbe sentito il battito del mio cuore. Anzi, per la
verità pensavo uscisse proprio fuori. Poi di nuovo la stessa pizzeria …
Avrei voluto portarti di là, nell’altra stanza, e guardare noi due dal di
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fuori. Come in un film. Invece, come sempre, non ti ho detto una sola
parola. Tutti quei silenzi … Forse, quando non riuscivo a dire niente era
perché avrei voluto toccarti. Se avessi potuto prenderti la mano, forse
sarei riuscita a parlarti, a dirti quello che avevo per la testa. Quel muro
tra noi mi impediva perfino di ragionare. Avrei voluto abbracciarti
stretto stretto, farmi coccolare. Sì, avrei voluto anche baciarti.
A volte mi capita di pensare che se le cose fossero andate diversamente a
poco a poco tu avresti visto i miei difetti. Altro che bella! Se mi guardi
bene sono piena di inestetismi, non potrei reggere il confronto con la
perfezione del tuo corpo. Magari dopo un po’ avresti pensato che ragiono
troppo, sono pesante, troppo piena di dolore e dico troppe parolacce. La
magia dell’innamoramento svanisce presto, forse non avrei nulla da darti.
Quanto a te, mi hai già dato molto così: perlomeno ho scoperto che non è
inevitabile, per me, avere paura dei maschi. Sono certa che tu non mi
avresti mai fatto del male.
Forse l’amore si nutre delle nostre idealizzazioni. Forse non amiamo una
persona, ma l’idea che abbiamo di lei. O meglio: l’idea che di quella
persona ci siamo fatti appositamente per poterla amare. Ma, inconscio a
parte, tutto quello che so dell’amore è che assomiglia tanto a quello che
provo per te. Probabilmente ti amerò per sempre, proprio perché non ci
siamo mai misurati con la noiosa quotidianità. Eppure, io avrei voluto
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correrlo, il rischio. Non so se e per quanto tempo avremmo potuto
amarci, so però che sarebbe stato amore.
S.
Non so come si scrive, vorrei rendere con un fiiiuuuu o qualcosa del genere, come i rumori
dei fumetti, la respirata che ho dato appena finito di leggere. Questa sì che è una cosa
interessante. Non so da che parte cominciare a descrivere i miei pensieri in quel momento.
Una marea. Veramente, sono proprio troppi per poterli elencare.
SPIONAGGIO
16 Marzo. Mattina. Devo prendere un’altra decisione. Altrettanto tormentata. Cosa fare del
foglio denso di informazioni sul mio compagno di stanza che giace inerte sul comodino?
Rimetterlo al suo posto e dimenticarlo? Farne un’analisi accurata? Una perizia calligrafica?
Come nei film di certi indiani, chiusi nella tenda fumosa a contatto con i loro spiriti, ecco che
mi appare la signora Lidia, quella della copisteria dove andiamo di solito a fare le fotocopie.
E’ deciso. Ne farò una copia e solo allora potrò riporre il corpo del reato. Alessandro si sarà
sicuramente stupito che gli telefonassi per sapere come stava, non sono uno che brilla per
premura, di solito. Ma dovevo essere sicuro che non sarebbe tornato prima del mio salto
dalla signora Lidia.
Se per caso avete incontrato uno con gli occhiali da sole il 16 Marzo, ero sicuramente io.
Non c’era neanche il più pallido spiraglio di qualche cosa che potesse assomigliare al sole,
quella mattina. Ormai mi ero completamente calato nel personaggio. La decisione era presa,
dovevo confessarlo a me stesso: lo stavo spiando. Spiavo la sua vita, nelle pieghe più
recondite della sua intimità. Ecco, pago la signora Lidia e me ne torno su in stanza. Solo col
mio tormento interiore, giaccio su di un letto che non è mio, in una stanza che non è mia, in
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una città che non è mia. Solo con i miei conflitti (quelli sì, miei), senza poter tornare indietro.
Sono irrimediabilmente perduto, non c’è confessore che mi possa assolvere.
È tutto in ordine, Alessandro non si potrà accorgere di nulla. Inconsapevole oggetto delle
mie indagini, provo pena per lui. Perfino ai più incalliti delinquenti si fa un avviso di garanzia
per dire che si sta indagando su di loro. Lui non saprà nulla. Leggerò nelle pagine più oscure
della sua vita come ho letto quella lettera. Il fatto è che non posso più tornare indietro.
Tanto vale andare avanti.
Mentre lo racconto, mi rendo conto che c’è del grottesco nel mio atteggiamento
circospetto, da spionaggio industriale ad alto livello, mentre sono solo un ragazzo curioso,
goffo e un po’ ridicolo. Ma vi assicuro che stavo soffrendo molto, consapevole com’ero che
studiare un piano d’azione – contestualmente ai sensi di colpa – mi dava un piacere quasi
erotico.
IPOTESI
Per questa parte del racconto, sarà più semplice riportare, prima di commentarli, gli appunti
che mi ero scritto. Proprio nella maniera confusa in cui me li ritrovo, triste trofeo di
un’avventura da cui non esco certo come un eroe, sebbene mi abbia arricchito.
a.
Potrebbe essere la sua attuale ragazza, lui non me ne ha mai parlato perché è un
ragazzo schivo;
b.
Potrebbe essere una ragazza di cui lui è innamorato, ma non ha il coraggio di
mettersi con lei;
c.
Potrebbe essere talmente brutta che lui non ha il coraggio di dirglielo;
d.
Forse lei è fidanzata con un gorilla, che non la lascia andare e lui non ha la
possibilità di liberarla da quello;
e.
E se fosse gay?
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Cominciamo dall’ipotesi n. 1. Possibile che in tutti questi mesi non si sia fatto nemmeno il
più piccolo, remoto riferimento alla sua ragazza? Non ci credo. Non sarebbe un essere
umano. Se è fidanzato e non si è mai fatto sfuggire un saluto, uno squilletto, una telefonata,
un vago accenno a questa possibilità, questo Alessandro non può che essere un alieno.
Scartata la n. 1, passiamo alla 2. Questa mi piacicchia. Coerente con la personalità schiva e la
timidezza, potrebbe essere bloccato da qualche trauma infantile o adolescenziale. Se scopro
che questa è la verità, lo devo aiutare. Sarà la mia missione, forse mi servirà ad espiare
questo senso di colpa che mi rode (ma non mi fa decidere di smettere da questa droga delle
indagini). Teniamo questa ipotesi in caldo, vagliamo le altre e vediamo se possiamo
scartarne qualcun’altra.
Ipotesi n. 3. In questo caso, il problema non è di Alessandro, ma della ragazza. Quando dice
«i miei in estetismi» potrebbe riferirsi a qualcosa tipo 30 chili di troppo, un naso 20
centimetri e/o nanismo, macrocefalia, sopracciglia modello boschetto, braccia pelose … Non
mi convince. Ad un certo punto la nostra S. dice che si è sentita bella. Io le conosco piuttosto
bene, queste caspita di adolescenti: sempre a lamentarsi dei chili di troppo (e magari noi
maschi stiamo pensando che pure un po’ di carne in più non farebbe male …). Sanno di
essere attraenti, ma non ci vogliono credere fino in fondo. Scarterei questa ipotesi. Pur con
qualche difetto, una ragazza che ti dice cose così belle, qualche effetto te lo dovrà pur fare …
Resta aperto il filone di indagine perché-le-ragazze-si-vedono-sempre-più-brutte-di-quelloche-sono, ma viene rimandato a momenti meno occupati da cose così serie come scoprire
chi è veramente il mio compagno di stanza. Ci devo ragionare con Michela, quando sarò più
lucido.
[Per chi non lo sapesse, Michela è una mia compagna di classe delle elementari, medie e
superiori: con lei posso parlare di tutto]
Restano ancora due possibilità: vediamo la n. 4: il gorilla. Non so se ci credete, ma conosco
bravissime ragazze, intelligenti, persino colte, che si fidanzano a qualcosa tipo quindici anni
con dei trogloditi microcefali e si fanno dire cosa devono fare e cosa no. Mi ricordo di una
(adesso va all’università solo perché altrimenti il padre la gonfiava) che non veniva alle gite
scolastiche perché il fidanzato era geloso. Non c’è niente da fare, finché i troglo non si
stufano, loro dietro dietro a fare e non fare, convinte che il grande amore della loro vita può
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ben valere qualche sacrificio. Di tanto in tanto, mi pare ovvio, si prendono una sbandata per
qualche ragazzetto garbato e fragile, ma il poveraccio cosa può fare, se non sparire? Di
solito, dunque, non cambia niente: il magrolino se la fuma, e le ragazze rimangono tra le
braccia possenti. Però, devo dire, questa ipotesi non collima con le riflessioni sull’amore –
quelle cose su come vediamo le persone di cui ci innamoriamo – fatte da S. in chiusura
lettera. Troppo acute per un cervello annebbiato come quello delle ragazze di cui sopra.
La n. 5 mi tormenta un po’. Badate bene: non è che io sia uno di quelli della serie «io coi
froci non voglio averci a che fare» o che sia spaventato perché dorme nella mia stessa
stanza. E’ solo che non mi è mai capitato di parlarne apertamente con qualcuno che mi dica
«io sono gay». Se dovessi scoprire che è così, non saprei proprio cosa fare, cosa dire. Con
questo tarlo nel cervello, per la verità un po’ sonnecchiante, comincio ufficialmente le mie
indagini. La sera dopo sarebbe successo qualcosa che mi avrebbe dato ulteriori indizi.
GLI AMICI
17 Marzo. Tardo pomeriggio. Rumori strani fuori della mia porta. La chiave che gira nella
toppa. Entra Alessandro, accompagnato da tre ragazzi, più o meno della nostra età. Con la
voce ancora un po’ nasale per il raffreddore, mi presenta i tre, spiegandomi che lo hanno
accompagnato in macchina per risparmiargli il viaggio in treno e mi chiede se mi dispiace
che rimangano a cena. Compreremmo della pizza al taglio, se sono d’accordo. Ovviamente
sì, quale occasione migliore per studiare il nostro uomo nel suo ambiente naturale?
Uno dei tre dimostra una palese maggiore confidenza con lui. Per la prima volta fa una cosa
che solo allora mi rendo conto non gli ho mai visto fare: Alessandro non tocca mai le
persone. Con questo amico, invece, pacche sulla spalla, lo prende sotto braccio, cose
normali, di solito, ma sto realizzando che a lui non sono comuni. Avvalorasse, questa cosa,
l’ipotesi n. 5? Non voglio tenervi a lungo con il fiato sospeso. Cade catastroficamente questa
pista solo dopo mezz’ora. Presa la pizza, sistemata una tovaglia sul letto che nel frattempo
l’università in persona aveva provveduto a riparare, cioè il mio, che ho offerto di usare come
tavolo proprio per ricambiare la gentilezza di aver potuto dormire nel suo (anche se mi
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scocciava un po’ l’idea dell’olio della pizza sulle coperte, c’era sempre il senso di colpa in
agguato) comincia una serata di chiacchiere tra maschi. I quattro non hanno fatto altro, anzi
per dirla tutta noi cinque non abbiamo fatto altro che parlare di ragazze. Con dettagli così
succulenti da far sparire ogni dubbio sull’identità sessuale dei presenti.
Mi sa che Michela ha ragione, sul «fallocentrismo» dei maschi. Quando ci ritroviamo in
branco non c’è proprio verso che ci smentiamo. Altro filone di indagine aperto, per i
momenti di noia: cos’hanno, le ragazze, da farci perdere il lume della ragione e persino, a
volte, la dignità? Perché le donne si confidano con l’amica del cuore con dettagli di
profondità e spessore mentre noi sembriamo degli assatanati in tempesta ormonale? A
volte invidio il cosiddetto sesso debole, non mi dispiacerebbe avere un amico a cui poter
dire veramente tutto, che mi accetta per come sono, anche con le debolezze che facciamo
finta di non avere.
La serata si chiude verso mezzanotte, esausti di risate e un po’ brilli di birra, crolliamo nei
nostri rispettivi letti. Tutto, o quasi, ritorna come prima.
18 Marzo. Mattina. In effetti, non è tutto come prima. Ormai sono definitivamente schiavo
del mio progetto di indagine sul mio compagno di stanza. Devo scoprire chi è S. e cosa
rappresenta per lui. Devo svelare il mistero di un ragazzo che la sa lunga sul sesso ma non
riceve nemmeno uno squilletto rivelatore.
CERCANDO UNA SILVIA
Stamattina vado a lezione, poi a mensa ci penso. Proprio la mensa mi dà un’idea folgorante:
mi siedo in un posto a caso e scopro che due ragazze dietro a me stanno parlando dei loro
cuori infranti. Accendo il registratore del mio cervello (non sono ancora dotato di
strumentazione ad alta tecnologia, per ora facciamo solo con la vecchia, buona memoria).
Primo elemento interessante: una delle due si chiama Silvia. Con la S.
Sono della facoltà di lettere. Ciò coincide con il fare filosofeggiante e con il buon italiano
della lettera. Giurerei che S. non è iscritta né a fisica né a chimica. Mi chiedo: e se invece di
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indagare su di lui provassi a chiedere in giro qualcosa su S.? Mi butto, faccio l’indifferente e
mi siedo al loro tavolo. Me ne esco candidamente, loro ignare del mio vero scopo, scusa se
te lo chiedo, ma tu conosci Alessandro?: doveva essere fotografata (sempre dal mio cervello)
la prima reazione, che è poi quella che conta.
La peggior figura da cretino della mia vita.
Quella, che poi ho scoperto essere Letizia, e la stessa Silvia scoppiano a ridere senza riuscire
a fermarsi, fino a che non riesco a chiedere cosa ho detto di strano (dopo circa due minuti
che mi sono sembrati due ore) e quelle a dirmi che non erano mai state agganciate con una
scusa tanto ridicola. Ammetto che dal loro punto di vista poteva sembrare un modo per
rimorchiare, ma voi lo sapete che non è così, potete immaginare cosa significhi non potersi
difendere da un’accusa infondata. D’altra parte, se avessi raccontato la verità sarebbe
sembrata una balla anche peggiore. C’ho riso sopra anch’io, anzi: tralascerò di darvi dettagli,
ma quella sera Letizia l’ha passata con me.
Sono proprio un idiota. Come si fa a cercare una S.? E se poi fosse un nome criptato, tipo
Stella per dire il grande amore che illumina l’universo?, magari in realtà quella si chiama
Genoveffa, da buona esteta se ne vergogna e trova una metafora letteraria … O forse è
un’idiozia l’intero programma di indagine. Cosa voglio fare? Dove voglio arrivare con questa
raccolta di indizi? Mi sa che sto perdendo di vista lo scopo di tutto ciò: conoscere meglio il
mio compagno di stanza. O no?
LE DONNE
C’è un’altra cosa che posso fare, con questa lettera. Rileggerla a fondo e verificare se non ci
siano altre fonti di informazione. È il 20 Marzo, è Sabato sera e sono di nuovo solo nella
stanza. È questa stanza, che è una trappola per cervelli malati come il mio. Letizia se n’è
andata, non riesco a dormire. Riprendo la fotocopia per studiarla meglio. Hai visto mai,
riuscissi a imparare qualcosa sulle donne.
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Perché S. dovrebbe aver paura dei maschi? Cosa le è successo? Oppure tutte le ragazze
hanno paura che qualcuno faccia loro del male? Mentre usciva, Letizia ha chiamato un taxi.
So che le pesa, sul bilancio, come a tutti noi mantenuti dalla famiglia. Non ha avuto il
coraggio di chiedermi se la accompagnavo, ma nemmeno di andare a casa a piedi. Forse ha
paura.
Michela un giorno mi ha detto che noi uomini non possiamo sapere che cos’è uno stupro
per una donna. Ma neanche lei, nessuno l’ha mai toccata senza che lei lo volesse. E allora lei
che ne sa? Perché una donna dovrebbe capire la violenza ad una donna ed un uomo no?
Come dire, un nero che non è mai stato menato da nessuno può capire cosa prova un nero
ad essere menato, mentre un bianco no. O un ebreo di oggi può capire il campo di
concentramento, mentre io no. Beh, certo, se sto paragonando le donne ai prototipi delle
discriminazioni nella storia del nostro mondo, forse vuol dire che un pochino devo
ammettere che qualche problema c’è.
Sto cercando di capire se io abbia potuto urtare la sensibilità di qualcuna, in passato. Tutta
questa mania di essere brutte e grasse, ad esempio, potrebbe essere il sintomo che non si
sentono all’altezza di una prova. Ma quale? Quando si fa un po’ di sesso, mica è una gara tra
chi ha migliori prestazioni! Se decidiamo di divertirci un po’, come posso farle del male? Non
ci capisco niente. Ma, devo confessare, sono molto orgoglioso di me: sono pochi quelli che si
pongono il problema di come non ferire l’altra persona. Ora dormo.
Domenica 21 Marzo. Ricordo con una certa esattezza quando è successo, non così nel
descrivere cosa è successo dentro di me quel giorno.
L’AMORE
Forse l’amore si nutre delle nostre idealizzazioni. Forse non amiamo una
persona, ma l’idea che abbiamo di lei. O meglio: l’idea che di quella
persona ci siamo fatti appositamente per poterla amare. Ma, inconscio a
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parte, tutto quello che so dell’amore è che assomiglia tanto a quello che
provo per te. Probabilmente ti amerò per sempre, proprio perché non ci
siamo mai misurati con la noiosa quotidianità. Eppure, io avrei voluto
correrlo, il rischio. Non so se e per quanto tempo avremmo potuto
amarci, so però che sarebbe stato amore.
Una persona e l’idea che ci facciamo di lei. La quotidianità. Il rischio. Oggi pomeriggio viene
Letizia. Dopo il Gran Premio, le ho detto. Lei è comprensiva. O io voglio credere che sia
comprensiva, perché non ci faccio una gran figura a metterla dopo la Formula 1? Oppure lei
aveva da fare e fa la comprensiva perché così io sarò più tenero con lei, dopo? Ma cosa dico,
già penso che mi vuole fregare? Non ci si dovrebbe basare sulla fiducia, se si vuole stare
insieme? Ma sarà poi vero che ti innamori di qualcuno perché ti fidi? Secondo me, questa
della fiducia è una gran balla che ti raccontano da piccoli. Tutti abbiamo paura delle
fregature.
Ma io, voglio veramente che venga, Letizia, oggi pomeriggio? Da una parte, sento che invade
il mio spazio, la mia non tanto noiosa quotidianità. Dall’altra, quando entra nella stanza, in
questa maledettissima stanza, sento che lo spazio si dilata, mi pare più bello vivere. La sto
usando? Sono innamorato? E di chi? Cosa so di lei? L’ho rimorchiata in una mensa
universitaria, sbagliando persona dopo uno sbaglio di persona. Il Fato come una sorta di
Cupido o una caso fortuito che forse sarà fortunato? Da cosa si capirà che sarà una fortuna
averla conosciuta? Usare tutti questi verbi al futuro mi dà un crampo allo stomaco. Non so
neanche se ci sarà, un futuro con lei. Ma lo vorrei? Altra grandissima balla ad uso infantile.
Ti innamori, ti sposi, fai i figli, invecchi, tutto contento di quello che hai realizzato nella vita.
Io mi sono già innamorato e strastufato decine di volte. Allora non era amore, direte voi. Sì,
perché se invece è vero amore non vedi mai i difetti, vuoi sempre le stesse cose, vai sempre
d’amore e d’accordo, non litighi, non ti rompi … Ma dai!
Lo dice anche S.: ha il dubbio perfino su Alessandro (e lei lo vede un dio) che la noiosa
quotidianità avrebbe rovinato tutto! Però dice anche che avrebbe corso il rischio. Allora, se
è un rischio, non è una ineluttabile certezza. (Senti che bella parolona che mi è uscita, mi
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sembro la Prof. di Filosofia…). Ma, dico io, per due o tre storie ben riuscite, quanti fallimenti
ci sono, in giro? Mamma e papà si amano ancora? Sono innamorati? Che fanno, a letto, la
sera?
Se continuo così mi chiederò anche cos’è l’amore, se esiste veramente, se ne vale la pena …
Dopo due ore di questa musica dentro le orecchie, con la mia stessa voce che mi tormenta,
finalmente accendo il televisore e sento il rombo dei motori. Che pace! Non prima, tuttavia,
di aver preso una risoluzione drastica: domani chiedo a Alessandro chi è S. Costi quel che
costi.
TUTTA LA VERITÀ
22 Marzo, sera. Dopo cena cucinata dalla madre di Alessandro. Ottima circostanza: dopo
aver mangiato bene la stanza sembra meno brutta e perfino la mia confessione potrebbe
essere sopportabile. Gli dico tutto. Ho frugato nel tuo comodino, ho trovato la lettera. L’ho
letta.
Pausa. Fiato sospeso. Tensione. Senso di colpa. Attesa.
«Veramente non è mia». Mi stronca il buon Alessandro. «L'omino di statistica mi ha detto
che ha chiesto a tutti gli Alessandro che conosceva, ero rimasto solo io, quindi, se non era
mia, che la buttassi».
L'ho odiato. Non già perché mi è crollata addosso una settimana di intenso lavorio. Non già
perché non mi stava dando alcuna informazione utile. E' quell'espressione omino che mi fa
andar fuori di cervello. Gliel'ho sentita usare per descrivere le più disparate categorie di
persone: uomini giovani e vecchi, magri e grassi, inespressivi e caratteristici, talvolta persino
delle donne erano per lui l'omino … Se vedeste il fruttivendolo giù all'angolo: culturista due
metri di altezza e di ampiezza spalle … ma si può chiamarlo «l'omino della frutta»??? Ora:
l'omino di statistica poteva essere un bidello, un usciere, un docente o assistente
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universitario, un gelataio, uno studente o perfino la bidella grassa che mi presta sempre i
fumetti.
Mi concentro su quanto mi rimane da indagare. Alessandro si alza, va di là senza dire niente.
Io intanto continuo a formulare ipotesi. Mi torna a piacere la cosa del nome di battaglia. Se
lei si firma S. è perché è il suo vero nome. Perché non potrebbe essere criptato quello di lui?
Forse Alessandro è il nome di un pupazzo che S. aveva da piccola (io avevo un morbidissimo
asinello, che si chiamava Alessandro!) e lui glielo ricorda con tenerezza … Tutto da rifare,
Bisogna estorcere qualche informazione sulla fonte del biglietto. L'usciere-docente-gelataio
deve saperne qualcosa di più.
Ignaro del fatto che lo conosco ormai a memoria, Alessandro è andato di là per prendere il
fatidico foglio. Lo apre, ne rilegge un pezzo a mente, senza parlare. Dopo un po’, se ne esce
con il seguente discorso: «Sai perché non l’ho mai buttata via? Perché ogni tanto mi vado a
rileggere qualche frase, faccio finta che sia per me. Non è che il resto non mi interessi, è una
lettera bellissima, ma io vado sempre a finire alla frase “Dio! Quanto sei bello …” Forse tu
non puoi capire. Tu sei uno che di ragazze ne ha avute tante, mi vergogno un po’ a dirtelo,
ma io non ho ancora dato un bacio vero a nessuna. Quando mi immagino che una ragazza si
innamora di me, mi faccio il film di quello che succede e va sempre a finire che lei mi dice
“Dio! Quanto sei bello …” come la ragazza della lettera. Vedi, ho passato tutta la vita a
sentirmi dire che sono un bravo ragazzo, educato, sensibile, intelligente. Non me ne importa
più niente, di tutti questi successi scolastici, di tutti questi adulti che mi vorrebbero come
figlio, di tutti questi parenti orgogliosi, di tutta questa perfezione. Ho fatto quello che
volevano da me. Adesso vorrei quello che voglio io. Niente al mondo vorrei di più di una
ragazza che mi trova bellissimo. Non carino e intelligente. Di un bello mozzafiato. Certo che
hai una faccia, ti devo aver deluso molto, vero? Sono proprio un idiota …»
Dico a me stesso: «Giulio, quest’uomo è un maestro». Cambio faccia, non per
tranquillizzarlo, ma perché mi sono sentito, mentre parlava, un perfetto imbecille. Dalla sua
lezione ho imparato molto. Provo a raccontarvi quello che gli ho detto, ma di sicuro in quel
momento mi è uscito molto meglio.
«Alessandro, ti è mai capitato di sentire che in un determinato momento sei diventato
grande? Non dico adulto definitivamente, ma un po’ più grande, cresciuto. Beh, per me
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stasera è uno di quei momenti. Grazie a te. Cercavo indizi su di te, in fondo – mi dicevo –
dovrò pur sapere qualcosa sul mio compagno di stanza. Cercavo di conoscerti, ma non ti
ascoltavo. Credo di aver capito che se vuoi sapere una cosa di una persona non puoi
ipotizzarla, gliela devi chiedere. Non conosciamo noi stessi, figuriamoci gli altri! E figuriamoci
ancora di più se degli altri ci facciamo dei castelli costruiti su tracce labili e fraintendibili …
Prendiamo quei due: questa S. e quell’Alessandro sono entrati nelle nostre vite senza che
noi sappiamo cosa sia successo prima, né come sia andata a finire. Hai voglia a indagare! Io
ci ho provato per una settimana, ho toppato alla grande. Non saprò mai nulla di loro, ma
posso sapere qualcosa in più di me. Sapessi le pippe mentali che mi sono fatto sull’amore,
sulle donne, sulle paure … Una cosa da vomito. Eppure, ti assicuro che questa sera ho capito
che tutto questo mi è servito. Non mi è venuta voglia di farmi una contorsione mentale per
scoprire se Letizia vuole vedere il Gran Premio con me oppure no: mi è venuta voglia di
chiederlo a lei. Forse l’esempio non ti è chiaro, sta tutto nella mia testa, ti voglio far capire
questo: se tu devi (o vuoi) passare un pomeriggio con la tua ragazza, puoi decidere cosa
fare, tentare di indovinare cosa vuole fare lei oppure chiederglielo e basta. In quest’ultimo
caso, rischi di sentirti dire una cosa che non ti piace. Ma se non lo fai, sei un imbecille e
basta. La stessa cosa vale per tutti quelli che incontri: o ti fai il “film”, come lo chiami tu, o li
ascolti e li prendi per quello che sono. Così, almeno, sono veri».
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