Un volontariato che si fa prossimo. Intervento di Beppe Milanesi

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Un volontariato che si fa prossimo. Intervento di Beppe Milanesi
TAVOLA ROTONDA
“Famiglia, Solidarietà e nuovo Welfare”
Martedi 3 luglio 2012
MINITALIA-LEOLANDIA
“Un volontariato che si fa prossimo”
intervento di beppe milanesi
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Mi perdonerete se leggo il mio contributo.
Personalmente, a pelle, un relatore che legge non mi piace.
E' come quando un cantautore si dimentica una strofa di una propria canzone.
Ma come, mi chiedo, non è dentro di te la poesia di quelle rime?
Non hai chiaro quel che devi dire?
Capita però che si debba dire qualcosa di sensato e di compiuto in un tempo limitato.
Se si vuole arrivare alla meta in modo certo e sicuro serve un binario sul quale correre.
Altrimenti il rischio è quello di dimenticarsi qualcosa.
Io poi, conoscendomi, passerei giornate intere a rimuginare, a rimproverarmi e a darmi pacche
poderose sulla fronte spaziosa.
Ecco perché leggo.
Cosa ci faccia io qui, oggi, è un mistero, prima di tutto per me.
Scartata l'ipotesi dell'esistenza di meriti particolari, che certamente non ho,
temo non sia percorribile nemmeno l'idea della bella presenza, per cui il dubbio resta.
Diciamo che forse è l'affetto fraterno che condivido all'interno della famiglia vincenziana che mi
ha fatto apparire degno di questo onore
si ch'io fui sesto tra cotanto senno
come avrebbe detto il Sommo Poeta.
Credo che chiunque in questo spazio abbia da insegnare a me il carisma vincenziano,
cosa significhi accompagnare persone in difficoltà con lo stile indicato dal beato Federico
Ozanam.
Federico diceva una cosa grande grande:
“L’assistenza che UMILIA quando si preoccupa soltanto di garantire le necessità terrene
dell’uomo, ONORA quando al pane che nutre aggiunge la visita che consola,
il consiglio che illumina, la stretta di mano che solleva dall’abbattimento”
Se davvero ciascuno di noi avesse già incarnato questo pensiero ora potremmo anche alzarci ed
andare a pranzo, ma se vogliamo riflettere con onestà anche sui limiti del nostro agire, la strada
è ancora un pochino lunga, non illudetevi.
Il mio professore di italiano delle medie mi diceva sempre: leggi bene il titolo del tema prima di
cominciare a scrivere.
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Rileggilo ancora man mano che scrivi e vedrai che il tuo lavoro sarà premiato.
Sarebbe certo contento del fatto che ho seguito i suoi consigli, non so del risultato.
In verità mi è stato chiesto di parlare di esperienze concrete, ma riflettendo bene
credo che ciascuno di voi, in cuor suo, ne abbia certo di straordinarie, di miracolose,
di più curiose e di più significative di quelle che potrei conoscere io.
Mi sembra, in questi casi, che ci si trovi a “suonarsela” e a “cantarsela” sempre tra di noi.
No, io vi propongo un'altra possibilità.
Vorrei cercare di capire, con voi, questa mattina, dove stia l'essenza della diversità
del cristiano prima e del vincenziano poi
in questo mondo.
Vorrei arrivare a convincermi che non devo avere paura di scomparire per mano di altre
associazioni o aggregazioni, perché io ho chiara:
la mia identità, ciò che faccio e perché lo faccio.
Ho letto e riletto il tema che mi è stato assegnato.
“Un volontariato che si fa prossimo”.
Mi sembra chiaro che si tratti di due “cose” diverse, altrimenti perché usare due termini
differenti?
Per come è posta la questione sembrerebbe anche che il “volontario” sia subordinato al
“prossimo”, se deve fare qualcosa per diventarvi.
Ma, estremizzando un po' il concetto, potrebbe anche essere il contrario,
potrebbe trattarsi di una degenerazione.
Necessita allora capire qualcosa di più di questi due stati nei quali ci si può trovare.
Se dico volontario mi viene in mente subito la parola “gratis”.
Poi mi vengono in mente: bambini, malati, missioni, macerie.
Cose estremamente concrete.
Una grande ricchezza per una comunità che voglia dirsi ed essere solidale.
Ho letto una definizione interessante:
L'obiettivo del volontariato è quello di restituire ad ogni persona il suo posto nella società.
Bellissimo.
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E' davvero molto, ma è sufficiente?
In linea teorica, per la “pancia”, sì.
Ma ci è stato insegnato chiaramente che non possiamo, non dobbiamo, fermarci alla “pancia”.
Do per scontato che condividiamo tutti una fede e quindi potremmo essere tutti d'accordo sul
fatto che le fonti della Sacra Scrittura e del Magistero siano un faro per ciascuno noi.
Oh, peraltro in esse vi sono dei valori la cui riconoscibilità supera quella derivante dall'adesione
al cristianesimo e mi viene da sperare che qualcuno possa copiare uno stile di servizio che è
terribilmente più faticoso e, si badi bene, non certamente più gratificante di quello di un
“bancomat”.
Uno stile di servizio evidentemente concreto, attivo e fattivo, produttivo.
Ma proprio una fonte autorevole come Giovanni Paolo II disse:
La Chiesa non intende essere una semplice agenzia di aiuto umanitario.
Essa vuole, piuttosto, testimoniare in ogni modo la Carità di Cristo
che libera l'essere umano da ogni male.
La Carità cristiana passa dalla “pancia”, ma non si può fermare ad essa.
Nel vangelo di Matteo si legge:
Ma Gesù, conoscendo i loro pensieri, disse: "Perché mai pensate cose malvagie nel vostro cuore?
Che cosa dunque è più facile, dire: Ti sono rimessi i peccati, o dire: Alzati e cammina? Ora, perché
sappiate che il Figlio dell'uomo ha il potere in terra di rimettere i peccati: alzati, disse allora al
paralitico, prendi il tuo letto e va' a casa tua". Ed egli si alzò e andò a casa sua.
La guarigione del paralitico è duplice: interiore ed esteriore.
Ora, rispondetevi silenziosamente nel vostro cuore:
è più facile distribuire cento pacchi di prodotti del Banco Alimentare o dire:
“Ciao, come ti chiami, come stai, e tua moglie, e i tuoi figli, e quelli che hai lasciato al tuo paese,
c'è ancora la tortura da voi, che cosa è per te la libertà?”.
Eh, certo però che i cento pacchi hanno tolto la fame a cento persone o famiglie!
In verità non del tutto e per un breve tempo.
Allora, al di là del cosa è più facile, che cosa è meglio?
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Guardate che se vi aspettate una risposta da me vi sbagliate di grosso.
Io sono sulla vostra stessa barca.
Cullato tra l'emergenza costante di una povertà dilagante e la responsabilità di
evangelizzare attraverso la testimonianza della Carità.
Che è il nostro primo dovere, di cristiani prima e di vincenziani poi.
Ma che cosa vuole dire “testimoniare la Carità”?
Federico Ozanam dice:
"La carità non deve mai guardare dietro di sé, ma sempre davanti, perché il numero delle sue
beneficenze passate è sempre troppo piccolo e perché infinite sono le miserie presenti e future che
deve lenire.
Guardate le associazioni filantropiche: non sono che assemblee, relazioni, rendiconti, memorie; a
meno d'un anno d'esistenza posseggono già grossi volumi di verbali.
La filantropia è un'orgogliosa per cui le buone azioni sono una specie d'ornamento e che si
compiace di guardarsi nello specchio.
La carità è una tenera madre che tiene gli occhi fissi sul bimbo che porta alla mammella, e non
pensa più a sé stessa e dimentica la sua bellezza per il suo amore".
Lo sapevo, mi sono perso.
Nonostante lo scrivere e nonostante i saggi consigli del professor Ferrari.
Torniamo al tema.
Il volontariato è un concetto che, bene o male, siamo stati in grado di tratteggiare.
Abbiamo visto che è cosa buona.
Ora manca l'altra “cosa”.
Se dico “prossimo” il primo pensiero che viene a nove su dieci di voi è...
“Buon samaritano”.
Luca, ispirato, (mi spiace, ma vi tocca) scrive:
Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova:
«Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?».
Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?».
Costui rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta
la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso».
E Gesù: «Hai risposto bene; fa questo e vivrai».
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Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?».
Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo
spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto.
Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada
e quando lo vide passò oltre dall'altra parte.
Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre.
Invece un samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n'ebbe compassione.
Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento,
lo portò a una locanda e si prese cura di lui.
Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo:
Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno.
Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?».
Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va' e anche tu fa' lo stesso».
Mi sovviene che l'organo ufficiale della San Vincenzo si chiamava “Il Samaritano” prima di
divenire “La San Vincenzo in Italia”, evidentemente non a caso.
Ma torniamo al tema.
Il testo evangelico ha una particolarità.
Parte con l'idea di chiarire chi è il mio prossimo, da amare come me stesso,
l'oggetto della mia attenzione.
Arriva a dire che il prossimo è colui che è stato soggetto dell'attenzione prestata.
Il prossimo è sia chi soccorre, sia chi è soccorso.
Ora, nella lingua di Dante, vi è un'altra curiosa analogia.
E' la parola “ospite”, che usiamo correttamente ed indifferentemente per definire sia l'ospitante
sia l'ospitato.
Il termine latino hospes ha in sé la radice hostis.
Che non c'entra nulla con il motto bresciano che si cita quando ci si dimentica qualcosa.
Hostis dicevamo.
Nonostante il senso classico di hostis sia nemico, il significato primitivo della nozione hostis è
quello di uguaglianza per compenso:
è hostis colui che compensa il "dono" con un "contro-dono".
Tutto questo per dire che, in entrambi i casi, le due figure che si relazionano hanno una parità
che li rende quasi la medesima persona, praticamente indistinguibili nel discorso se non chiarisci
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bene a chi ti riferisci.
Questa uguaglianza implica quindi un tipo di relazione molto particolare.
Mi sembra importante ricordare un insegnamento che ho ricevuto nella San Vincenzo.
Non si deve camminare né davanti ne dietro al povero, ma in parte a lui, accostati a lui, spalla a
spalla.
Questo è l'atteggiamento che consente di “confondersi”,
non uno che spiana la strada o che spinge,
ma uno che condivide il cammino, per arduo che sia, con grande rispetto per la dignità persona.
A proposito della parabola, la domanda spontanea che sorge è: quale dei personaggi sono io?
Il sacerdote o il levita che sono passati oltre?
L'uomo moribondo sul ciglio della strada?
O il samaritano che si è fatto prossimo?
Quando qualcuno ha bisogno, ci chiediamo:
Che cosa accadrà a me se mi fermo ad aiutare questa persona?
o dobbiamo forse chiederci:
Che cosa accadrà a questa persona, se non mi fermo ad aiutarla?
Non voglio fare l'esegesi del brano né farvi un'omelia, ma credo sia importante riflettere su
questa storiella.
Intendiamoci.
Il sacerdote ed il levita non sono cattivi.
Passano oltre per buoni motivi.
In primis si trovavano in luoghi pericolosi, i briganti avevano appena colpito, per cui fermarsi
era certo rischioso per la loro incolumità.
Si deve poi considerare che entrambi, impegnati a vario titolo nei servizi al tempio, dovevano
essere puri, il contatto con il sangue o con un uomo morto significava contaminarsi e non poter
svolgere il proprio compito per un certo tempo. Non poter servire Dio!
Certo avrebbero potuto soccorrerlo se fosse appartenuto ai figli puri d’Israele, ma denudato,
incosciente e gonfiato di botte come una zampogna era certo difficile da riconoscere come tale.
Se non fossimo inguaribili moralisti (con gli altri), aspetteremmo a giudicare e ci accorgeremmo
che vi erano anche delle buone ragioni per non soccorrere quell'uomo.
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Però persino quel marpione del dottore della Legge, deve ammettere che il vero “prossimo” è chi
ha avuto compassione.
Farsi prossimo vuole dire per il samaritano:
avere occhi per vedere,
cuore per provare compassione,
iniziativa e creatività per dare concretezza al proprio sentimento di compartecipazione alla
sventura altrui, non basta commuoversi.
Questo è amare!
Questo potrebbe essere ciò che rende speciale il “prossimo”.
Ma non ne sono ancora convinto fino in fondo. Quasi tutti i volontari che conosco, chi più chi
meno, potrebbero essere dei “buoni samaritani”, così intesi.
Mi sembri manchi ancora qualcosa.
Si diceva “compassione”.
Di compassione parla un racconto Zen:
In Cina c'era un'anziana donna che da oltre venti anni manteneva un monaco.
Gli aveva costruito una piccola capanna e gli dava da mangiare
mentre lui si dedicava alla meditazione.
Un bel giorno si domandò quali progressi egli avesse fatti in tutto quel tempo.
Per scoprirlo, si fece aiutare da una ragazza piena di desiderio.
«Va' da lui e abbraccialo» le disse «e poi domandagli all'improvviso: "E adesso?"».
La ragazza andò dal monaco e senza troppi preliminari lo accarezzò,
chiedendogli che cosa si proponesse di fare con lei.
«Un vecchio albero cresce su una roccia fredda nel cuore dell'inverno» rispose il monaco,
poeticamente. «Non c'è più calore in nessun luogo».
La ragazza andò a riferire alla vecchia quel che lui le aveva detto.
«E pensare che ho mantenuto quell'individuo per vent'anni» proruppe la vecchia indignata.
«Non ha dimostrato la minima considerazione per i tuoi bisogni, non si è nemmeno provato a
capire la tua situazione. Non era necessario che rispondesse alla passione,
ma avrebbe almeno potuto dimostrare un po' di compassione».
Andò senza indugio alla capanna del monaco vi appiccò il fuoco e la distrusse.
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Avrebbe almeno potuto dimostrare un po' di compassione...
La componente della relazione non è un optional per chi ama.
Certo potremmo dirci:
come faccio con tutto quel che c'è da fare ad avere questa cura.
Immaginati se un medico dovesse dedicare un'attenzione personale ad ogni caso che gli si
propone.
Infatti non mi fece molto piacere essere chiamato col numero del mio letto durante un ricovero.
Non mi importava quanti pazienti fossero stati operati quella mattina.
Di me ce n'è uno nell'universo (qualcuno magari dice per fortuna).
Io ho un nome.
E tu non mi riconosci?
Esagero? E' il senso di giustificazione che agisce in noi.
Chi è il mio prossimo? Dice il dottore della Legge.
Ovvero: A chi devo volere bene? Anzi, meglio, chi devo amare? Chi devo riconoscere?
TUTTI è la risposta di Cristo.
Che siano figli d'Israele o che non lo siano, stranieri o indigeni, belli o brutti, sposati o separati,
eterosessuali o omosessuali.
Esagero? E' il senso di giustificazione che agisce in noi.
Come quello estremo, intriso di sgomento, di Matteo 25
Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere
e non ti abbiamo assistito?
Ma egli risponderà: In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi
miei fratelli più piccoli, non l'avete fatto a me.
Nel brano sono citate opere di misericordia corporale.
Senza le quali saremo giudicati e mandati a destra o a sinistra.
Sembrerebbe bastare, ma la sfida che ci è stato chiesto di accettare è quella di spostare l'asticella
un po' più in alto.
Nel celeberrimo Inno alla Carità di San Paolo (che è Parola di Dio) si legge
E se anche distribuissi TUTTE le mie sostanze e dessi il MIO CORPO per essere bruciato,
ma non avessi la Carità, niente mi giova.
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Scusatemi ma io leggo:
...e se anche distribuissi MILLE pacchi del Banco Alimentare, ma non li dessi con AMORE, non
servirebbe a nulla.
Eh, ma per una settimana gli ho dato da mangiare...
Bene, benissimo, non male,
ma mi era stato chiesto altro.
ANCHE ALTRO.
Certo saprete che il brano del “Buon Samaritano” di Luca prosegue, oltre la parabola, per
chiudere il capitolo 10.
Non credo a caso, visto che Dio è uno che la sa lunga.
Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua
casa. Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua
parola; Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: «Signore, non
ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma Gesù le
rispose: «Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c'è
bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta».
Chiarito che senza la povera Marta quella sera non si sarebbe mangiato, il messaggio di Gesù
Cristo mi sembra abbastanza inequivocabile.
Come scrive Giancarlo Bruni
Il dovere primo e caratteristico dei discepoli è l'ospitalità della Parola,
radice che genera, sostiene e alimenta il fare e ogni altra ospitalità...
Forse ci siamo.
Ho la sensazione che l'identikit del “prossimo” sia completo.
Senza riconoscere Gesù Cristo come il Signore, senza la componente spirituale, siamo solo
volontari, che non è poco, davvero, ma a noi viene chiesto di più.
Il “prossimo” è infatti colui che ricerca la vita eterna, proprio come aveva chiesto il dottore della
Legge.
Se ricordate la parabola viene generata dalla domanda:
«Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?».
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Io personalmente vedo la nostra San Vincenzo incarnare bene la dicotomia delle sorelle di
Lazzaro, ovvero: l'attività operosa di Marta e l'ascolto devoto di Maria.
Sono due metà della stessa mela che dobbiamo sforzarci di essere per la fame delle persone che
si rivolgono a noi col loro grido di aiuto.
Una delle prime cose che mi ha veramente affascinato della San Vincenzo è un passaggio della
nostra preghiera
Signore aiutami,
perché non passi accanto a nessuno con il volto indifferente,
con il cuore chiuso, con il passo affrettato.
Signore, aiutami ad accorgermi subito:
di quelli che mi stanno accanto
Vorrei essere capace di entrare nella vita, nel dolore, nella prova di chi mi tende la mano.
Come vorrei si facesse con me quando sono nello sconforto.
Vorrei essere “prossimo” come quando sono “prossimo”. Capito?
Ugolino nel canto XXXIII dell'Inferno, dice a Dante
Ben se' crudel, se tu già non ti duoli
pensando ciò che 'l mio cor s'annunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli?
Ugolino, che ha visto morire di fame i propri figli, reclama l'empatia di Dante chiedendogli
compassione.
Gli chiede di con-patire, di soffrire assieme, per portare meglio il peso del dolore, per non sentirsi
solo di fronte allo sgomento del male di vivere.
A tal proposito mi viene in mente una poesia bellissima, tra le mie preferite.
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
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Nella seconda quartina, in opposizione al "male di vivere" che si manifesta negli aspetti più
comuni della natura (il rivo, la foglia, il cavallo), Montale afferma che l'unico "bene" per
l'uomo consiste nell'atteggiamento di "indifferenza" per tutto ciò che è segnato dal male e dal
dolore.
Apparentemente l'indifferenza, potrebbe sembrare l'unico scampo al male di vivere: la statua si
caratterizza per la sua statica freddezza, la nuvola e il falco perché stanno in alto, ben sopra le
miserie del mondo.
Noi siamo convinti del contrario.
Siamo di questo mondo e qui giochiamo la nostra partita.
Noi non siamo indifferenti, anche se potrebbe essere una soluzione per stare meglio.
L'etimologia di assistenza è ad-sistere
che vuole dire letteralmente
(ad) andare incontro e (sistere) fermarsi
fermarsi e farsi prossimo, vicino.
Perché il prossimo è vicino.
Un caro sacerdote disse una volta in una omelia
Ricordiamoci che dare da bere agli assetati è alzarsi da tavola quando l'acqua è finita,
non necessariamente andare in Africa a fare pozzi.
Il rischio è la “sindrome del Messia”: devo salvare il mondo, altrimenti non comincio nemmeno.
Anche mia mamma ci ha messo un po' a capire.
Mi vedeva andare in dormitorio e mi raccontava alla sue amiche come una sorta di Madre
Teresa al maschile.
Ho avuto il mio bel da fare a spiegarle che ci andavo a giocare a carte.
Devo molto al dormitorio.
Nel 1994 ci arrivai per svolgere l’anno di servizio civile alternativo a quello militare.
Avevo già avuto altre esperienze di servizio.
Avevo fatto per alcuni periodi significativi del volontariato con disabili, poi con anziani ed in
parrocchia, animando l’oratorio.
Non riuscivo però a capire fino in fondo il senso delle mie azioni.
Mi costavano e sentivo sempre un po’ di amaro in bocca.
A prima vista potevo sembrare un gran “brao scèt”.
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Ma ero come un pesce in un acquario.
Nuotavo, non da solo, ma certamente non correvo alcun rischio.
Nemmeno il rischio di pormi domande, che invece si dovrebbe affrontare frequentemente.
Arrivai infatti a quella che io vedo un po’ come la battigia della nostra società.
Dove si accumulano lattine arrugginite, alghe, conchiglie rotte.
Tra poco ci sono le vacanze e dovrebbe ricordare a tutti qualcosa di preciso quest’immagine.
Vi arrivai e cambiò il mio rapporto con il mondo, attraverso quel “mondo”.
Dove si offre un pasto caldo, un letto e la colazione a barboni, ex carcerati, tossicodipendenti,
alcolisti. Bresciani e stranieri.
Che vogliono essere chiamati per nome.
Sono persone, non il disagio o lo stato in cui si trovano.
Con esperienze e storie ricchissime.
E se tu usi il loro “nome proprio” è più difficile giudicare. Anche l'effetto è diverso.
Luigi, Marco, Mohamed:
non riesci più a pensare così facilmente di reimbarcarli, a sperare che se ne vadano lontano
dalla tua strada, dalla tua storia, dalla società.
Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry incontra una volpe che chiede di essere
addomesticata e le dice:
“...Che cosa vuol dire -addomesticare-?"
"È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire -creare dei legami-..."
"Creare dei legami?"
"Certo", disse la volpe.
"Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini.
E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me.
Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi.
Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l'uno dell'altro.
Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo".
Perché scegliere di non essere indifferenti, di non passare oltre senza almeno provare ad
intessere una relazione che assomigli a quella che naturalmente si crea col legame di parentela?
Sapete, forse sarà proprio il modello della famiglia a salvarci.
Un nucleo, non necessariamente di consanguinei, che forma una comunità solidale dove il bene
comune viene prima dell'interesse particolare.
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Perché la ricerca del bene comune fa stare bene tutti, o per lo meno fa stare tutti benino, non
uno bene ed uno male.
E' chiaro che così non si può andare avanti,
è chiaro che così non possiamo permettere che si vada avanti.
Dobbiamo alzare la voce! Altro che “servizio nell'ombra” e “il lasciarsi vedere, ma non farsi
vedere” e “la destra non sappia quel che fa la sinistra”.
Chi vogliamo aspettare che si faccia carico di alzare la voce?
Aspettiamo la Parusìa? Attendiamo che ritorni Gesù Cristo?
Tocca a noi, ciascuno nelle proprie comunità.
C’è un gran bisogno di ritrovare un atteggiamento solidale, un modo di vita più sobrio e nel
contempo meno egoista.
Siamo di fronte ad un sfida globale che va affrontata tutti assieme, se non per amore almeno per
calcolo, visto che nessuno di noi è davvero al riparo dal rischio di ritrovarsi a mani vuote.
Non possiamo essere sicuri di rimanere per sempre tra quelli che stanno bene, potremmo
diventare a nostra volta chi ha bisogno, più facilmente di quel che si possa pensare.
Adesso vi racconto una fiaba:
C'era una volta un pugno di uomini...
“Erano assidui nell'ascoltare ... e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. Un
senso di timore era in tutti e prodigi e segni avvenivano ... Tutti coloro che erano diventati credenti
stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne
faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno.”
Questa fiaba non è dei fratelli Grimm.
Il bello è che in principio non era nemmeno una fiaba.
Oggi suscita istantaneamente una reazione, sempre e ovunque.
Quella del “sì, ma”, un po' come la bava alla bocca del cane di Pavlov al suono della
campanella.
“Si, ma”, che cosa?
Pensiamo davvero che il modello della società in cui viviamo sia quello ideale?
Dopo l'evidente fallimento di tutti i grandi sistemi economici teorizzati dall'uomo moderno
quale strada rimane?
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Che sia forse quella onirica, fiabesca, di un racconto delle origini, ispirato da Dio stesso?
La risposta spetta a noi, oggi.
Non ai politici, non domani, non c'è più tempo.
Noi, oggi!
Scusate se lo cito ancora.
Ne “Il piccolo principe” l'aviatore è impegnato a cercare di aggiustare il motore del proprio
aereo.
E' caduto nel deserto, è solo e l'acqua sta per finire.
Il piccolo principe gli pone delle domande che a lui sembrano banali e protesta il fatto che LUI si
occupa di cose serie.
Allora il piccolo principe gli dice:
"Se qualcuno ama un fiore, di cui esiste un solo esemplare in milioni e milioni di stelle, questo
basta a farlo felice quando lo guarda.
E lui si dice: «Il mio fiore è là in qualche luogo».
Ma se la pecora mangia il fiore, è come se per lui tutto a un tratto, tutte le stelle si spegnessero!
E non è importante questo!"
Non poté proseguire. Scoppiò bruscamente in singhiozzi.
Era caduta la notte.
Avevo abbandonato i miei utensili.
Me ne infischiavo del mio martello, del mio bullone, della sete e della morte.
Su di una stella, un pianeta, il mio, la Terra, c'era un piccolo principe da consolare!
Lo presi in braccio. Lo cullai. Gli dicevo:
"Il fiore che tu ami non è in pericolo...
Farò una museruola per la tua pecora...
e una corazza per il tuo fiore...
Io..."
Grazie
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