Il WTO, il popolo di Seattle, i lavoratori dei paesi ricchi e lo sviluppo

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Il WTO, il popolo di Seattle, i lavoratori dei paesi ricchi e lo sviluppo
Il WTO, il popolo di Seattle, i lavoratori dei paesi ricchi e lo sviluppo di quelli poveri:
brevemente, i dilemmi della globalizzazione
di Marco Missaglia*
Come ci ricorda Dani Rodrik (economista dell’università di Harvard) in un articolo apparso
sul numero di marzo/aprile di Foreign Policy, un funzionario del Tesoro statunitense ha di recente
invitato il governo messicano a lottare più intensamente contro crimini e violenza “perché questi
inducono gli investitori stranieri a lasciare il paese”. Un simile avvertimento la dice lunga circa la
potenza del pensiero unico neo-liberista: la riduzione dei crimini e della violenza non costituisce un
obiettivo in sé, né un mezzo per migliorare la qualità della vita negli slums o quella dei campesinos,
ma è invece preordinata a soddisfare le aspettative degli investitori stranieri, a “rafforzare la
competitività nei mercati mondiali”, eccetera eccetera.
Dietro a questo rozzo rovesciamento delle priorità si trova un consenso generalizzato fra le
élites economiche e politiche – funzionari del WTO (World Trade Organisation), IMF
(International Monetary Fund), WB (World Bank), politici appartenenti a diversi schieramenti,
accademici, giornalisti – intorno alle virtù della globalizzazione, ovvero del progressivo
trasformarsi delle singole economie nazionali in un’unica, grande economia mondiale. Letto dal
punto di vista dei PVS (Paesi in Via di Sviluppo), questo consenso generalizzato è rassicurante: se
l’integrazione nel mercato mondiale non può che produrre benefici, allora è del tutto inutile
ingegnarsi ad immaginare strategie di sviluppo interne. Tutto quel che occorre fare è, molto più
semplicemente, eliminare gli ostacoli che separano l’economia nazionale dal resto del mondo:
abbattere i dazi doganali e le altre restrizioni alle importazioni di beni e servizi; eliminare i sussidi
pagati agli esportatori (così come le eventuali tasse che essi devono pagare sulle merci esportate);
liberalizzare i movimenti di capitale, ovvero lasciare che i risparmiatori dei paesi ricchi,
normalmente attraverso l’intermediazione dei fondi di investimento e dei fondi pensione, investano
le proprie ricchezze anche nell’economia nazionale; e allo stesso modo permettere che i
risparmiatori interni investano il loro danaro dove meglio credono, che sia la Svizzera o l’economia
nazionale non importa. Insomma, i dirigenti politici dei PVS si dovrebbero limitare ad un compito
negativo, a non ostacolare attraverso sciocche barriere legali e fiscali quel processo di integrazione
dell’economia mondiale che sta comunque avanzando, indipendentemente da ogni decisione
politica, grazie alla straordinaria riduzione dei costi di trasporto e di comunicazione che le nuove
tecnologie hanno reso possibile.
Quali sono le conseguenze della globalizzazione sui PVS? Sono davvero tutte positive come
il pensiero unico ci racconta? E quali le conseguenze sui lavoratori dei paesi avanzati? E’ legittimo
che essi temano un peggioramento delle loro condizioni materiali in virtù della concorrenza
esercitata dalle imprese operanti in contesti nei quali il costo del lavoro è più basso (e le condizioni
di lavoro peggiori)? Prima di cercare di rispondere a queste importantissime domande credo sia
utile soffermarsi brevemente sui fondamenti del punto di vista neo-liberista. Per esempio: perché il
libero commercio è preferibile alle restrizioni sulle importazioni (dazi doganali, sussidi alle o tasse
sulle esportazioni)? Perché esso permette a ciascun paese di specializzarsi nella produzione di quei
beni e servizi che per qualche ragione esso è relativamente “più bravo” di altri a produrre. Per
intendersi: se Italia e Kuwait fossero due economie autarchiche, essi non potrebbero scambiarsi –
come nella realtà avviene – prodotti ortofrutticoli (dall’Italia al Kuwait) contro petrolio (cioè
energia, dal Kuwait all’Italia). Il Kuwait dovrebbe produrre da sé, ad un costo immensamente
superiore a quello italiano, i prodotti ortofrutticoli che i consumatori domandano e, allo stesso
modo, l’Italia dovrebbe produrre da sé, ad un costo immensamente superiore a quello kuwaitiano,
l’energia necessaria alla vita delle famiglie e delle imprese. Tanto vale che l’Italia si specializzi nel
settore ortofrutticolo e il Kuwait in quello energetico e che, a produzioni avvenute, si dia luogo a
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Ricercatore in Economia Politica presso l’Università degli Studi di Pavia
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liberi scambi sul mercato internazionale: nel complesso i costi di produzione saranno inferiori, gli
italiani pagheranno meno l’energia, i kuwaitiani pagheranno meno frutta e verdure e, last but not
least, i governi non si saranno imbarcati in costose operazioni giuridico-fiscali-doganali necessarie
al pagamento e alla riscossione dei dazi. Questo ragionamento a sostegno della libertà commerciale
sembra inoppugnabile, ma vedremo dopo che si espone invece, nella teoria e soprattutto nei fatti, a
severe obiezioni.
E perché, sempre secondo il punto di vista neo-liberista, i risparmiatori devono essere liberi
di impiegare la loro ricchezza dove meglio credono? Anche qui per apparentemente inconfutabili
ragioni di efficienza. Se, dico per dire, un’obbligazione “Scavolini” mi promette il 5% di
rendimento annuale ed invece il Fondo di Investimento “Argentina” mi garantisce il 7%, ciò
significa che il progetto reale di investimento (che so, l’impresa di acque minerali) che il mio
risparmio è destinato a finanziare in Argentina è un progetto più redditizio di quello che la Scavolini
propone all’attenzione dei risparmiatori e per il quale ne chiede il finanziamento. Può ben darsi che
le prospettive di profitto di un’impresa di acque minerali in Argentina siano migliori di quelle
lasciate intravedere dalla vendita di un nuovo modello di cucine. E allora, perché impedire che il
mio risparmio vada a finanziare i progetti reali che creano più ricchezza (e quindi più benessere,
occupazione e crescita)? Non è esattamente questa la funzione selettiva del mercato? Perché
finanziare la produzione di cucine che nessuno compra quando invece sarebbe possibile finanziare
un prodotto con migliori prospettive di mercato? Vedremo anche qui, nella teoria ma soprattutto nei
fatti, quali obiezioni si possono avanzare a questa impostazione neo-liberista.
Proviamo ora a ragionare criticamente sull’opzione liberoscambista. Nessuno nega che un
mondo di economie autarchiche (che per di più ricorda brutti tempi…) sia terribilmente meno
efficiente di un mondo di libero scambio ed integrazione internazionale, ma il punto non è questo. Il
punto è che una riforma come la liberalizzazione commerciale richiede una serie di riforme
complementari che qualsiasi funzionario del WTO o della WB prescrive ai dirigenti economici dei
PVS: una riforma fiscale, per compensare la riduzione del gettito derivante dall’abolizione dei dazi
con altre entrate fiscali; una riforma del sistema di protezione sociale, in modo che i lavoratori
espulsi dal processo produttivo (almeno nei settori ad alto valore aggiunto i prodotti dei paesi ricchi
sono più competitivi) siano compensati da una qualche garanzia di reddito; una riforma del mercato
del lavoro, per facilitare la mobilità dei lavoratori dai settori che la liberalizzazione commerciale
mette in crisi a quelli che ne risultano rafforzati; programmi di riqualificazione dei lavoratori; e via
riformando. Bene, queste riforme costano. Quanto costa mettere in piedi un nuovo sistema fiscale (e
lo stesso vale per nuovo sistema di protezione sociale), addestrare chi lo deve materialmente far
funzionare? Chi paga i programmi di riqualificazione dei lavoratori? Quando si riflette circa gli
effetti della globalizzazione sui PVS bisogna innanzitutto porsi domande come queste, ricordarsi
che in contesti relativamente poveri una scelta come la liberalizzazione commerciale pone subito,
direttamente, un’alternativa drammatica: dovrebbe il governo impiegare una frazione più elevata
delle sue (scarse) risorse per addestrare funzionari che amministrino il sistema fiscale e/o di
protezione sociale, anche se ciò significa poter spendere meno per la scuola secondaria o per
l’educazione primaria delle bambine? Ma non si dice ormai in ogni angolo del mondo che il segreto
dello sviluppo risiede nel capitale umano?
Anche la liberalizzazione dei movimenti del capitale finanziario – la libertà di impiegare i
propri risparmi dove meglio si crede – è una riforma costosa. Torniamo all’esempio precedente. Se
decido di impiegare i miei risparmi nel Fondo di Investimento “Argentina” non è solo perché esso è
a priori potenzialmente più redditizio, ma anche perché sono convinto che a scadenza il danaro
investito mi sarà effettivamente restituito (oppure perché sono convinto che, qualora decidessi di
liquidare l’investimento prima della scadenza, esiste un mercato secondario funzionante dove sia
possibile vendere il titolo in questione), per la qual cosa occorre che l’istituzione cui è stato prestato
(una banca, per esempio) non lo utilizzi per finalità sciagurate. Ecco allora che anche alla
liberalizzazione finanziaria si devono di norma accompagnare riforme complementari: una
regolamentazione prudenziale dell’attività degli operatori finanziari, standard di trasparenza
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contabile e fiscale, attività di supervisione sugli stessi operatori finanziari, e così via. Ancora una
volta: quanto costano queste riforme? Quante risorse il loro finanziamento sottrae a investimenti
alternativi più orientati allo sviluppo economico ed umano (istruzione e sanità, per esempio)? Non
voglio affatto sostenere che le riforme complementari necessarie all’integrazione nell’economia
mondiale siano inutili o dannose, né che l’integrazione stessa non sia un obiettivo da perseguire;
semplicemente faccio notare che in contesti poveri, dove le risorse sono per definizione più scarse,
non sono queste le scelte prioritarie. Non è un caso che a queste politiche, applicate in molti PVS
sotto la bandiera del cosiddetto “aggiustamento strutturale”, si sia accompagnato almeno nella fase
iniziale (anni, non giorni) un peggioramento delle condizioni di vita delle popolazioni. Gli anni ’80,
per l’appunto gli anni dell’aggiustamento strutturale per eccellenza, sono ora da tutti conosciuti
come “il decennio perduto per lo sviluppo”.
Gli apologeti delle virtù neo-liberiste normalmente non negano che le riforme
complementari all’integrazione economica internazionale siano nel breve periodo molto costose per
i PVS, ma, sostengono, si tratta di un sacrificio necessario a produrre esiti di lungo periodo
certamente desiderabili: più crescita, più sviluppo, ecc. E’ vero? Se guardiamo ai casi di successo
nella storia dello sviluppo degli ultimi 30 anni (Hong Kong, Singapore, Taiwan, Corea del Sud, e
poi Indonesia, Malesia, Tailandia, senza contare i segni di vigoroso sviluppo che si registrano oggi
in India ma soprattutto in Cina) ci accorgiamo che i paesi protagonisti di queste storie hanno tutti –
e sia pure secondo le loro proprie specificità – messo in atto strategie di graduale integrazione
nell’economia mondiale: prima hanno sviluppato la loro base industriale servendosi
intelligentemente di strumenti di politica economica oggi considerati eterodossi e, soprattutto, per lo
più vietati dal WTO e/o “sconsigliati” dall’IMF (barriere tariffarie e non tariffarie per proteggersi
dalle importazioni, proprietà pubblica di significativi segmenti industriali e bancari, controlli sui
movimenti di capitale in entrata e in uscita, sussidi alle esportazioni, ecc.); poi, una volta
consolidato un apparato produttivo degno di questo nome, si sono progressivamente mossi verso la
liberalizzazione delle importazioni, alimentando attraverso gli stimoli che la concorrenza
internazionale certamente produce la continuazione e il rafforzamento del processo di sviluppo. Il
fatto grave, tanto sul piano economico quanto su quello politico, è che oggi quegli strumenti
“eterodossi” non possono sostanzialmente essere più impiegati dai dirigenti economici dei PVS,
invitati come dicevamo a passare direttamente alla fase finale di questo processo, la liberalizzazione
dei mercati. Si capisce bene che si tratta non soltanto di un abbaglio economico, ma anche di una
seria limitazione di democrazia, giacché in questo modo si sottraggono ad interi paesi strumenti
importanti per scegliersi il proprio destino.
Per queste ragioni le proteste anti-globalizzazione del cosiddetto “popolo di Seattle”, per
quanto eterogenee nelle loro rivendicazioni, costituiscono un segnale politico importante. Perché
intuiscono la debolezza economica e la pericolosità democratica di un processo di globalizzazione
lasciato correre troppo velocemente. Se per “governo della globalizzazione” si intende – come
spesso succede anche a sinistra – la semplice necessità delle riforme complementari di cui abbiamo
discusso in precedenza, ebbene si incappa in una svista dal sapore fastidiosamente egoistico: non si
vuole lasciare ai PVS il tempo che i paesi oggi avanzati, i quali con pochissime eccezioni si sono
sviluppati tutti dietro solide barriere protettive (smantellandole progressivamente nel corso del
processo di sviluppo), seppero concedersi con generosità.
Se occorre in qualche modo rallentare il processo di liberalizzazione economica per i PVS,
si può dire lo stesso per i paesi ricchi (tra cui l’Italia)? E’ vero, e qui tocchiamo un tema centrale per
il futuro del sindacato, che le tensioni sul mercato del lavoro – disoccupazione, incremento del gap
salariale fra lavoratori qualificati e lavoratori generici, più in generale “insicurezza” – sono
imputabili alle importazioni a basso costo dai PVS, responsabili perciò di aver peggiorato le
condizioni socio-economiche specialmente dei lavoratori a bassa qualifica dei paesi OCSE? Questo
fenomeno esiste e, benché non abbia ancora raggiunto livelli quantitativamente significativi (di
100$ di acquisti effettuati nei paesi OCSE, circa 3,5$ riguardano merci prodotte nei PVS), esso è
certamente in espansione (nel 1970 la cifra corrispondente era pari a 0,4$) e, con il progressivo
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smantellamento delle barriere commerciali che ancora ci proteggono dalle importazioni dei PVS (si
pensi al caso dell’accordo Multifibre e al processo di allargamento a Est dell’Unione Europea),
destinato ad espandersi ulteriormente. Che fare, allora? Come impedire che dai guadagni di
efficienza generati da un’economia mondiale più aperta agli scambi internazionali vengano esclusi i
lavoratori a bassa qualifica, vuoi perché perdono il lavoro (Europa) vuoi perché vedono ridursi il
loro salario relativo (USA)? Verrebbe la tentazione di rispondere così: bisogna studiare, bisogna che
non ci siano più lavoratori “a bassa qualifica”. Che occorra studiare è ovvio, ma questo tipo di
risposta è molto debole per almeno due ragioni. Primo, perché come ha detto Giuliano Amato di
fronte ad alcuni dirigenti sindacali “mi auguro che i figli dei genitori di oggi siano tutti ingegneri
elettronici. Ma se non sarà così quale tutela avranno”? Secondo, perché che la qualifica dei
lavoratori sia alta o bassa è un fatto relativo, non assoluto, e dunque esisteranno sempre lavoratori a
bassa (più bassa) qualifica. Che fare, allora?
La risposta dei conservatori è semplicissima: flessibilità, flessibilità e basta. Ora, è
probabilmente vero che una completa flessibilità del salario serva nel medio periodo ad impedire
che i lavoratori a bassa qualifica perdano il lavoro a causa delle importazioni dai PVS di merci per
la cui produzione è richiesto l’uso intensivo proprio di questo tipo di lavoratori (si pensi al caso
paradigmatico del settore tessile); ma ciò avverrebbe perché questi lavoratori, espulsi dal settore che
ha subito la concorrenza delle importazioni a basso costo, verrebbero riassorbiti ad un salario
inferiore (flessibilità, appunto) negli altri settori dell’economia. La salvaguardia dell’occupazione si
potrebbe così ottenere al prezzo di una accresciuta disuguaglianza dei redditi. E’ la soluzione
americana: ci stiamo?
La risposta di altri settori sociali – di fatto trasversali ai diversi schieramenti politici – è di
carattere difensivo. Le importazioni a basso costo dai PVS sono tali (a basso costo) perché nei PVS
non vengono rispettati standard di lavoro che del lavoro assicurino la decenza (uso del lavoro
minorile, orari di lavoro insostenibili, mancanza di una legislazione sul salario minimo, ecc.). Il
discorso sugli standard di lavoro è delicatissimo e complesso, sul piano etico e storico ancor prima
che su quello economico. Qui mi limito a osservare, fermandomi al piano strettamente economico,
che l’imposizione di standard di lavoro più “occidentali” ai PVS non sarebbe probabilmente
risolutiva, né per i lavoratori a bassa qualifica dei paesi ricchi né per gli sfruttati dei paesi poveri.
Infatti, l’imposizione di tali standard farebbe crescere il costo del lavoro nei paesi poveri ma, data
l’enorme differenza “di partenza” dei livelli salariali tra paesi ricchi e paesi poveri, ciò non
basterebbe ad impedire che le merci prodotte da questi ultimi utilizzando intensivamente lavoro a
bassa qualifica siano comunque più competitive di quelle prodotte nei paesi ricchi, dove perciò i
lavoratori a bassa qualifica continuerebbero a perdere il lavoro e/o a subire un taglio della loro
retribuzione reale. D’altra parte, l’aumento del costo del lavoro nei paesi poveri rischierebbe di
ridurne le esportazioni, la produzione e l’occupazione (accrescendo così la necessità di mandare a
lavorare i bambini).
La risposta tradizionale della sinistra è un’altra. I salari reali dei lavoratori a bassa qualifica
vanno preservati; se ciò, unitamente alle importazioni dai PVS, li espelle dal mercato del lavoro,
ebbene si riconosca loro un sussidio di disoccupazione, accompagnato dalle cosiddette politiche
attive del lavoro. Diciamo per semplicità che questa è la soluzione “europea”, appena adottata per
esempio dal governo francese sulla spinta dei recenti processi di ristrutturazione industriale messi in
atto in quel paese da alcuni colossi multinazionali.
Esiste a mio giudizio una risposta più efficiente dei sussidi di disoccupazione, un modo
diverso di incaricare (giustamente) la fiscalità generale del compito di attutire gli effetti negativi che
il processo di globalizzazione produce sugli strati sociali più deboli. Con una formula potremmo
dire così: flessibilità (regolata, of course) più sussidi per l’occupazione di manodopera a bassa
qualifica. Una maggior flessibilità del salario unitamente a sussidi che rendano più conveniente
l’impiego di lavoro a bassa qualifica avrebbe due significativi vantaggi rispetto ai semplici sussidi
di disoccupazione. Primo, l’economia produrrebbe un output addizionale per il fatto che non ci si
limita a redistribuire fette di una data torta attraverso i sussidi di disoccupazione, ma si impiegano
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lavoratori a bassa qualifica, altrimenti disoccupati, per produrre nuove fette di torta. Secondo, un
simile mix di politiche economiche renderebbe anche un favore ai PVS. Infatti l’incremento del
reddito dei paesi ricchi (le nuove fette di torta, appunto) sosterrebbe la domanda anche dei beni
prodotti dai PVS, i quali naturalmente ne trarrebbero beneficio. A sinistra una volta si diceva
“trade, not aid” (commercio, non aiuti): mi pare che questo possa essere un modo corretto di
impostare le relazioni economiche con i PVS. Tengo a precisare tuttavia che vi sono alcuni casi nei
quali i sussidi di disoccupazione vanno comunque mantenuti, per esempio a favore di chi –
tipicamente per ragioni anagrafiche – difficilmente può essere reinserito nel mondo del lavoro.
Per concludere: consentire ai PVS di aprire più lentamente le loro frontiere alle importazioni
di merci dai paesi ricchi, consentire loro di governare più gradualmente la liberalizzazione dei
movimenti di capitale; non lasciare che nei paesi ricchi, dietro alla maschera delle preoccupazioni
umanitarie, si radichino interessi protezionistici, lottare perché chi nei paesi ricchi – tipicamente i
lavoratori a bassa qualifica – rischia di essere danneggiato dalla globalizzazione sia aiutato
attraverso politiche economicamente efficienti (flessibilità regolata più sussidi all’occupazione) e,
laddove necessario, da sistemi di solidarietà sociale (sussidi di disoccupazione). Infine, difesa della
centralità dell’istruzione pubblica permanente. A mio personale giudizio devono essere queste le
linee essenziali che, nella costruzione di un ordine mondiale più giusto, una sinistra moderna (cioè
internazionalista) deve perseguire.
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