Appunti su giustizia riparativa e mediazione penale
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Appunti su giustizia riparativa e mediazione penale
APPUNTI SU GIUSTIZIA RIPARATIVA E MEDIAZIONE PENALE Come ha efficacemente scritto il criminologo Silvio Ciappi (La nuova punitività. Gestione dei conflitti e governo dell’insicurezza, Rubettino, 2008), “il richiamo punitivo rappresenta un espediente simbolico teso ad aumentare la percezione di legalità e di sicurezza più che a combattere il crimine. La ricerca criminologica, infatti, non mostra una correlazione diretta tra uso della detenzione e diminuzione della criminalità e, più in generale, tra politiche repressive e diminuzione dei delitti”. Il che equivale a dire che la severità della pena è generalmente irrilevante ai fini del controllo della criminalità. Gherardo Colombo, nel suo libro del 2011 Il perdono responsabile, scrive: “Il problema si risolve riducendo la devianza, non aumentando la repressione”. Jacqueline Morineau, una delle più grandi esperte di mediazione penale, ne Lo spirito della mediazione: “La vendetta della società attraverso la retribuzione imposta dal sistema penale circoscrive il disordine senza però riuscire a eliminarlo. La punizione non può essere la giusta risposta o la sola risposta alla violenza”. _________________________ Assistiamo ad una crescente richiesta di giustizia e sicurezza da attuarsi attraverso l’irrogazione di una pena ad un tempo emendativa e vendicativa: si avverte quasi la necessità di annientare il reo, rendendolo invisibile in strutture chiuse ed invalicabili. Un tale sentimento ricorda la pratica medioevale segregativa della reclusio in monasterium, reclusione in monastero, con cui il condannato subiva una separazione rispetto al mondo esterno, lontano dagli occhi della collettività: il suo “corpo infetto” veniva isolato, fisicamente e simbolicamente, allontanato dalla società, dal mondo terreno, così come nell’esecuzione per l’impiccagione, in cui il condannato viene sollevato e, quindi, rimosso materialmente dal suolo, o come anche avveniva nell’antica Roma quando i rei venivano buttati nel Tevere, per allontanarne per sempre dalla città il loro corpo ormai contaminato. A partire dalla prima metà del XX secolo, si è affacciata la finalità risocializzativa, secondo cui la pena, oltre a punire (funzione retributiva), ed oltre a distogliere i consociati dal commettere reati (funzione deterrente) e a prevenire le possibili offese future dei rei (funzione di difesa sociale), deve offrire al condannato l’opportunità per rieducarsi alla vita socialmente integrata, favorendone il recupero sociale. Il concetto di rieducazione, tuttavia, non è facilmente conciliabile con il carcere. È proprio dalla crisi dell’ideologia risocializzativa che sono sorti filoni fondamentali del sistema di giustizia penale: ovvero riducendo l’area di intervento penale nella fase della previsione normativa (depenalizzazione), del giudizio (degiurisdizionalizzazione) e dell’esecuzione (decarcerizzazione). Fatta questa premessa, prima di delineare gli elementi essenziali del modello riparativo e, quindi, della mediazione penale, è importante approfondire due aspetti: il primo è legato alla prigione ed il secondo alla c.d. “scoperta della vittima”. In Sorvegliare e punire, criticandone la funzione correttiva e punitiva, il filosofo strutturalista Foucault definisce la prigione il “grande scacco della giustizia penale”, evidenziando le ragioni di quello che lui stesso chiama “il fallimento della prigione”. Le parole di F. appaiono attuali secondo le nuove interpretazioni della ricerca criminologica: • “Le prigioni non diminuiscono il tasso di criminalità: possiamo estenderle, modificarle, trasformarle, la quantità dei crimini e dei criminali rimane stabile, o, peggio ancora, aumenta” (non svolge funzioni di prevenzione generale); • “la detenzione provoca la recidiva; usciti di prigione, si hanno maggiori probabilità di prima di ritornarvi; i condannati sono, in proporzione considerevole, ex detenuti […] la pena scontata continua a seguirli con tutta una serie di marchi” (non serve a riabilitare le persone); • “la prigione non può evitare di fabbricare delinquenti”, per il tipo di esistenza che si fa condurre ai detenuti. Sembra un ossimoro pensare che la prigione possa rieducare i detenuti attraverso l’imposizione di costrizioni violente: “il sentimento della ingiustizia che un prigioniero prova, è una delle cause che possono maggiormente rendere il suo carattere indomabile. Quando egli si vede esposto a sofferenze che la legge non ha ordinato e neppure previsto, entra in uno stato di collera abituale contro tutto ciò che lo circonda”. • La prigione favorisce e agevola l’organizzazione di gruppi delinquenziali, solidali tra loro, associati, pronti per le future complicità esterne. F. parla di “club antisociali”, nei quali si forma l’ “educazione” del delinquente; • Sorge, infine, una “delinquenza indiretta”: le difficili condizioni sociali ed economiche di un detenuto finirebbero per coinvolgere anche la sua famiglia, la moglie, i figli (abbandonati), etc. Il carcere è divenuto in prevalenza uno strumento di “detenzione sociale”, (il sociologo francese Wacquant nel 1999 parla di “stoccaggio dei rifiuti sociali”) di persone per le quali sono mancate o sono fallite efficaci soluzioni alternative: basti pensare che l’area della detenzione sociale è pari a circa i 2/3 dei detenuti (65%), di cui 25% sono tossicodipendenti, 36% sono immigrati, il resto sono persone in situazione di disagio sociale. Pensiamo, inoltre, alle condanne inflitte agli Stati Europei dalla Corte Europea dei Diritti Umani che, nel decennio 1998-2008, ha ritenuto che l’art. 4 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (che vieta dell’uso della tortura e della sottoposizione a trattamenti o punizioni inumani o degradanti) sia stato violato per motivi legati alle condizione di detenzione in 576 casi. Con riferimento al sovraffollamento, al 30 aprile 2012, secondo i dati ufficiali del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, i detenuti presenti negli istituti penitenziari italiani ammontano a 66.310, contro una capienza regolamentare di 45.756, pari ad un tasso medio di sovraffollamento del 150%. Incrociando i dati, sembrerebbe che il tasso di sovraffollamento eserciti un’influenza diretta sui suicidi in carcere: il maggior numero di suicidi si registra, infatti, nelle carceri dove il tasso di sovraffollamento è superiore alla media. Tra le difficoltà di poter riconnettere alla reclusione l’opportunità di rieducare il condannato, si pensi alle dinamiche anomale che a volte si innescano all’interno del carcere tra le guardie e i detenuti: ………… Ciononostante, la risposta che invariabilmente gli Stati hanno dato è sempre conforme: la riconferma della tecnica penitenziaria. Significativa è perciò l’espressione foucaultiana “Da un secolo e mezzo la prigione è sempre stata considerata come il rimedio di se stessa”. … L’estromissione della vittima è prerogativa comune a molte forme di controllo sociale della devianza, tant’è vero che il diritto penale moderno nasce con la “neutralizzazione della vittima”, ossia con l’assunzione da parte dello Stato del “monopolio della reazione” al reato e, quindi, anche della tutela “per procura” degli interessi di chi ne ha subito le conseguenze dannose. Ma cosa riceve la vittima dalla sofferenza del colpevole? Solo la soddisfazione del proprio istinto di vendetta. Nella genesi della giustizia ripartiva, l’altro aspetto rilevante è “la scoperta della vittima”. Con la nascita della vittimologia, la ricerca criminologica giunge alla valorizzazione della vittima di un atto criminoso e, dunque, alla sua realtà di sofferenza e disagio, alle conseguenze, umane e materiali, prodotte dal fatto criminoso. La nuova punitività va intesa non solo come una possibile risposta alternativa alla sanzione penale ma come la giustizia per la vittima. Con gli strumenti di restorative justice ci si discosta dalla risposta statuale alla devianza fondata in via esclusiva sull’afflittività della sanzione, per avvicinarsi sempre più a quella destinata a rimuovere il danno o ad attenuare o lenire la sofferenza che l’azione delittuosa provoca alle vittime. La definizione di giustizia riparativa è stata introdotta da Marshall nel 1998: si tratta di un processo nel quale tutte le parti che hanno un interesse ad affrontare gli effetti che derivano dalla commissione di un reato (i cc.dd. stakeholders del conflitto, ovvero autore, vittima e comunità) si riuniscono per gestire collettivamente ed attivamente tali conseguenze, promuovendo un’attività di riparazione del danno causato dal reato. Il modello riparativo è volto a dare alla giustizia un “volto umano”, potenziandone il ruolo pedagogico affinché, attraverso il recupero della dimensione relazionale, gli autori di reato vengano rieducati ai sentimenti, alle emozioni, alle paure. Il reo non è più semplicemente il destinatario di una sanzione ma diventa soggetto attivo a cui, attraverso un processo di responsabilizzazione costruttiva, è chiesto di rimediare praticamente alle conseguenze del proprio agire, rimuovendone gli effetti negativi: “Al posto di un astratto debito con la società, da pagare attraverso l’espiazione della pena, l’autore di reato è in debito con la vittima, da saldare in modo concreto” (Zehr, 1990). Gli strumenti della giustizia ripartiva sono spesso diversi; tutti, comunque, dovrebbero incorporare tre elementi di base: 1. La riparazione, materiale e simbolica, del danno; 2. Il coinvolgimento diretto degli stakeholders; 3. La collaborazione della comunità di riferimento. La mediazione penale, o mediazione vittima-autore, è l’istituto cardine dell’impianto della giustizia riparativa, che si delinea come un incontro formale in cui un terzo imparziale tenta, mediante scambi tra le parti, di far confrontare i loro punti di vista e di trovare una soluzione soddisfacente del conflitto. In altre parole, al centro dell’interesse, ci sono i problemi dei partecipanti, i disagi, le sofferenze, le ingiustizie vissute, e questi, in un clima che non enfatizza diritti e doveri, vengono aiutati a capire l’origine del conflitto, a confrontare i propri punti di vista. Tutti hanno così la possibilità finalmente di esprimere i sentimenti e a trovare soluzioni, sostenute da forme di riparazione simbolica, prima ancora che materiale. Si tratta di una riappropriazione del conflitto tra le parti (c’è chi parla di “furto del conflitto” subito ad opera delle Istituzioni), attraverso cui si prova a riaprire una comunicazione interrotta dal reato tra reo e vittima, e di raggiungere un accordo soddisfacente rispetto agli effetti del conflitto che li oppone. Il mediatore, dunque, occupa un ruolo di estrema flessibilità: dovendo far leva sui vissuti delle parti, infatti, costituisce il tramite tra due culture differenti e, qualora riscontri uno sbilanciamento delle parti, è necessario che alteri la sua posizione di equidistanza, se questo serve a facilitare la comunicazione. Secondo Adolfo Ceretti, professore di criminologia a Milano, “Il mediatore non giudica, non emette sentenze, non condanna né assolve. Egli “si limita” a dirimere ogni contrasto “dall’interno”, attraverso una soluzione che proviene direttamente dai soggetti interessati e non da un soggetto esterno e superiore”. C’è da chiedersi, a questo punto, quali gli effetti benefici connessi alla mediazione: - anzitutto, effetti di ordine economico, quali abbassamento dei costi della giustizia e la deflazione del carico penale; - poi effetti di ordine psicologico-sociale: le vittime tendono a diminuire il loro senso astratto di paura nel confronto diretto con l’autore di reato; gli autori o rei, a loro volta, tendono a riconsiderare sé stessi in un’ottica di responsabilizzazione creativa, piuttosto che autopercepirsi come soggetti passivi destinatari di sanzioni inflitte. Si pensi ai lunghi ed estenuanti processi giudiziari dove la vittima reale scompare per far posto a interlocutori giudicati spesso non credibili e insensibili (giudici, pubblici ministeri, assistenti sociali). Da non sottovalutare la maggiore celerità: il passare di troppo tempo, difatti, comporta lo sviluppo di dinamiche psicologiche di rielaborazione e rimozione dei vissuti che rendono arduo ricucire un dialogo tra le parti. Questi sono gli obiettivi principali della mediazione: - il riconoscimento della vittima. La parte lesa deve potersi sentire dalla parte della ragione e deve poter riguadagnare il controllo sulla propria vita e sulle proprie emozioni, superando gradualmente i sentimenti di vendetta, di rancore e di sfiducia verso l’autorità che avrebbe dovuto tutelarla; - la riparazione dell’offesa, nella sua dimensione globale, ossia non solo sul piano meramente economico (cosa già prevista dagli obblighi restitutori e risarcitori degli artt. 185 c.p., 2043 e 2059 c.c.) ma anche e soprattutto sulla dimensione emozionale dell’offesa; - l’autoresponsabilizzazione del reo. La responsabilità, ogni volta che si parla di mediazione, non ha più a che fare con “l’essere responsabili di qualcosa e per qualcosa, ma va intesa come un percorso che conduce i soggetti in conflitto a essere responsabili verso – a rispondere l’uno verso l’altro” (A. Ceretti). - il rafforzamento degli standard morali collettivi. Dalla gestione comunicativa e condivisa del conflitto, dovrebbero emergere indicazioni concrete di comportamento per la collettività, in un’ottica pedagogica di prevenzione generale positiva e propositiva. - il contenimento dell’allarme sociale, ovvero un impatto significativo sulla percezione della sicurezza. Luigi Leone, Giustizia riparativa tra nuova punitività e mediazione penale, in Autorità conflitto e potere, Percorsi di empowerment, Longo, Panarello, Tarsia (a cura di), Sicania University Press 2012 __________________________ La mediazione è un nuovo sguardo, non più rivolto verso il passato, e cioè verso la colpa da giudicare e da punire, bensì verso il presente, al fine di trovarne il vero significato. Nel 1999 il Consiglio d’Europa ha emanato la raccomandazione (che, pertanto, non è vincolante) n. 19 sulla mediazione penale, in cui, tra l’altro, è scritto che le legislazioni nazionali dovrebbero facilitare la mediazione in ambito penale, che dovrebbero esistere contatti regolari tra l’autorità giudiziaria e il servizio di mediazione per sviluppare un comune modo di intendere e che gli Stati membri dovrebbero promuovere ricerche e valutazioni della mediazione penale. Anche l’ONU, con la Risoluzione (che, pertanto, non è vincolante) n. 12/2002, è intervenuta in tema di mediazione penale e di giustizia riparativa. È invece vincolante per gli Stati membri dell’Unione Europea la Decisione quadro 2001/220, il cui art. 10 stabilisce che “Ciascuno Stato membro provvede a promuovere la mediazione nell’ambito dei procedimento penali per i reati che esso ritiene idonei per questo tipo di misura”. In Italia si sono incontrate grosse resistenze legate principalmente al momento storico in cui logiche retributive sembrano guadagnare nuovamente forza; inoltre ci si scontra con il principio di obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost. Ci sono alcuni timidi modelli di applicazione concreta della mediazione, con specifico riferimento al processo penale minorile e alla competenza penale del G.d.p.: si tratta di riti che rispondono a logiche distinte e peculiari rispetto a quelle sottese al processo penale ordinario, incentrate, rispettivamente, sull’attenzione alla personalità del soggetto minorenne e sulla risoluzione di conflitti dettati da una microconflittualità in senso oggettivo. Si pensi all’art. 29, c. 4, del D. Lgs. 28 agosto 2000, n. 274 e, soprattutto, all’art. 35, il cui comma secondo assume grande rilievo: secondo la giurisprudenza, tale speciale causa di estinzione del reato non opera in presenza della sola dimostrazione, da parte dell’imputato, dell’avvenuta riparazione economica del danno cagionato alla vittima, attuato cioè solo mediante le restituzioni o il risarcimento ovvero l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato. Sottolineiamo questo aspetto importantissimo: è necessario che il giudice ritenga che tali attività riparatorie risultino in concreto idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione, in modo da assicurare comunque una valenza retributiva e di prevenzione speciale all’intervento giurisdizionale dinanzi a condotte di un certo grado di gravità e di pericolosità. Ciò sposta effettivamente l’attenzione da una pretesa meramente risarcitoria e quindi civilistica inerente al “quanto perduto o non guadagnato”, ovvero alla “restituitio in integrum”- ad una penalistica. Il quid pluris che il reo è tenuto a dare, per vedere estinto il reato commesso, ha una valenza squisitamente preventiva ed acquista il valore di atto simbolico nei confronti della vittima e della società. In ambito minorile, gli artt. 9, 27 e 28 D.P.R. 448/1988 prevedono risposte alternative alla sanzione penale. In effetti le tecniche di mediazione-conciliazione ben si prestano ad un utilizzo in un ambito penale-processuale: si pensi all’attenzione per l’esigenza di promuovere responsabilizzazione e maturazione del minore-reo quali finalità “pedagogiche” della giustizia minorile; il proposito di ridurre al minimo l’ingresso del minore nel circuito penale. In questo senso le strategie di mediazione-riparazione, possono sostituire “lo stratagemma indulgenziale” con una “strategia responsabilizzativa”. La procedura di cui all’art. 9 soddisfa l’esigenza della tempestività della risposta alla situazione di disagio che il conflitto ha creato, attraverso un’attività preliminare sia per una più adeguata valutazione della personalità del minore sia per un’applicazione meno burocratizzata delle decisioni giudiziarie. L’art. 27 attribuisce al pubblico ministero, qualora il fatto illecito sia di tenue offensività e sia stato posto in essere in via del tutto occasionale, il potere di chiedere la pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere nel caso in cui l'ulteriore corso del procedimento può pregiudicare le esigenze educative del minorenne. L’art. 28 consente che il processo venga sospeso ed il minorenne venga messo alla prova per un certo periodo, durante il quale egli è sottoposto a peculiari prescrizioni impartite dal giudice e volte a riparare le conseguenze dannose del reato, nonché a promuovere la conciliazione con la persona offesa dall'atto criminoso; decorso tale periodo, il giudice dichiara estinto il reato nel caso in cui la prova ha avuto esito positivo. Nella prassi, le mediazioni sono state avviate soprattutto per i reati contro la persona (ingiurie, minacce, oltraggi, risse, lesioni, e i reati sessuali meno gravi, commessi tra soggetti che si conoscevano) e contro la proprietà (furti, danneggiamenti), tutti casi nei quali i crimini avevano recato un danno diretto alla vittima, anche non patrimoniale. Le sedi in cui sono attivi gli Uffici di mediazione riferiscono esiti largamente positivi dei procedimenti (fra il 50 ed il 90%). L’art. 555, 3° co., c.p.p. rende obbligatorio un tentativo di conciliazione, ma non più da parte del pubblico ministero (come prevedeva l’art. 564, abrogato), ma dal giudice che, come il mediatore, riveste una posizione di terzietà tale da garantirne la neutralità rispetto alle parti in conflitto. Per sganciarsi dalla pratica dell’applicazione sistematica della pena è necessario abbandonare l’idea che l’inflizione della sofferenza serva a costruire e mantenere la società. Ciò equivale ad una vera rivoluzione che, secondo Colombo, “consiste nel sostituire il riferimento ultimo delle relazioni umane: gratuità invece di onerosità, solidarietà invece di individualismo, inclusione invece di esclusione”. Il mediatore occupa un ruolo centrale e di estrema flessibilità: accoglie i vissuti delle parti; fa da tramite, spesso, tra culture diverse; deve riequilibrare gli eventuali squilibri di potere. All’interno dell’incontro di mediazione penale, infatti, si crea uno spazio e un tempo in cui è possibile coltivare un confronto tra gli antagonisti che attraverso l’intervento del mediatore o di un gruppo di mediatori acquisisce “un senso” orientato ad un riconoscimento della dignità propria, dell’altro e ad una relazione sociale. Il dialogo tra il reo e la vittima conduce entrambi ad uno scambio di sofferenze, di emozioni, di affetti e di sentimenti che possono portare ad un nuovo livello di riconoscimento e di condivisione di sé stessi, dell’altro e della collettività. Questo recupero della relazione può permettere una “ricucitura dello strappo” che avviene dando maggior risalto alle conseguenze emozionali del reato senza o non esclusivamente attraverso la cd monetizzazione dell’offesa, la quale ritiene che il denaro possa costituire un equivalente fungibile al danno subito. Così si attua e si rinsalda la sicurezza della comunità attraverso la partecipazione attiva dei cittadini. A CURA DI FRANCESCA PANARELLO, GIUDICE DI PACE E MEDIATRICE DEI CONFLITTI