Maggio-Giugno - Circolo Athena

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Maggio-Giugno - Circolo Athena
Anno II - N° 3, maggio-giugno 2007
Per i o d ic o b im e s t r a l e d i cu l t u r a , s t o r ia e vi t a sa l e n ti n a ed i t o d a l Ci r co l o Ci t t a di n o “A t he n a ” - G a la ti n a
Anno II - N° 3. maggio-giugno 2007 - Autoriz. Trib. di Lecce n.931 del 19 giugno 2006 - Distribuzione gratuita
Il brigantaggio in Terra d’Otranto
Piaga sociale dell’Ottocento
Lu dittèriu
Il popolo quando parla
sentenzia
Emilia Bernardini Macor
La prima giornalista salentina
Sulla tomba di Achile Starace
Lu lampiunaru
Quando l’illuminazione pubblica
era a petrolio
L A S T A M PA A G A L A T I N A
Strumento di crescita culturale della città
SOMMARIO
Autori & Editori
L’ARTE DELLA STAMPA A GALATINA
di Maurizio NOCERA
Una finestra sul passato
LA CONGREGAZIONE DI CARITÀ
PRESIEDUTA DA ORAZIO CONGEDO
di Pietro CONGEDO
Personaggi salentini
LA PRIMA GIORNALISTA SALENTINA
di Zeffirino RIZZELLI
Terra noscia
LU DITTÈRIU
di Piero VINSPER
Historia Nostra
IL BRIGANTAGGIO
IN TERRA D’OTRANTO
di Valentina VANTAGGIATO
Usi e costumi salentini
LU LAMPIUNARU
di Emilio RUBINO
Associazioni e gruppi giovanili
RITRATTO DI... FAMIGLIA
di Valentina CHITTANO
L’uomo e il tempo
SULLA TOMBA DI ACHILLE STARACE
di Gianluca VIRGILIO
Sul filo della memoria
MOMENTI DI SVAGO
di Giuseppe ONESIMO
Mostre e rassegne
L’ARTE CONTEMPORANEA A GALATINA
di Mauro DE SICA
Eventi e spettacoli
SE UN CUORE SI FERMA
FACCIAMOLO RIPARTIRE
di Mariateresa MERICO
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Uguale Uguale Uguale Uguale Uguale
Torna lo zoccolio dei carrettieri.
Uguale Uguale tutto come ieri:
passa un uomo col fascio di sarmenti,
che odora di terriccio e di trinciato,
una ragazza bruna batte ai vetri
al suono rauco e lento del merciaio,
poi con l’ago appuntato sopra il petto
esce e parla di trine e di merletto,
del giorno delle nozze e del corredo;
c’è un vecchio che mordicchia la sua pipa
rantolando del tempo e della guerra
all’oste rubicondo che sbadiglia
cavalcando una sedia sgangherata;
sulla soglia un bambino succhia l’uva,
mentre una donna vende al forestiero
capelli di famiglia e morchia d’olio
per sei mollette e un piatto colorato;
pallido e nero il prete è sul sagrato.
Dorme il paese nel vespro autunnale
assorto nel torpore uguale, uguale,
che trasfigura volti, suoni e cose
sospesi in una fissità irreale.
E crisantemi sembrano le rose
sul balcone, cipresso il campanile;
ed il passato il presente il futuro
vedo nell’uomo che arriva cantando
e incolla il morto di giornata al muro.
Cosimo Corvaglia
Casarano
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COPERTINA: “Volto con mela bacata”
Tecnica mista di Franco Cudazzo
Redazione Il filo di Aracne
Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina, edito dal Circolo Cittadino “Athena”,
Corso Porta Luce, 69 - Galatina (Le). Tel. 0836.568220 - Mail: [email protected]
Autorizzazione del Tribunale di Lecce n. 931 del 19 giugno 2006. Distribuzione gratuita.
Direttore responsabile: Rossano Marra
Direttore: Rino Duma - Collaborazione artistica: Melanton - Segretario: Salvatore Chiffi
Marketing: Piero Duma, Tommaso Turco - Distribuzione: Giuseppe De Matteis
Redazione: Tonio Carcagnì, Piero Giannini, Mariateresa Merico, Maurizio Nocera, Pippi Onesimo, Piero Vinsper,
Gianluca Virgilio
Il filo di Aracne marzo-aprile 2007 3
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Il filo di aracne
marzo-aprile
Impaginazione
e grafica: Salvatore
Chiffi 2007
Stampa: Editrice Salentina - Via Ippolito De Maria,35 - 73013 Galatina73013 Galatina.
AUTORI & EDITORI
Nascita e sviluppo dell’industria tipografica galatinese
L’ A R T E D E L L A S TA M PA A G A L AT I N A
N
di Maurizio Nocera
on è sempre facile risalire alle
origini di un evento, soprattutto quando la documentazione storica si mostra tiranna. È il caso
della nascita e dello sviluppo della
stampa a Galatina. Tuttavia, una traccia sul terreno da cui partire per
orientarsi
sull’argomento ce l’ha
lasciata Amilcare Foscarini,
avvocato
e
grande appassionato di studi storici
di
Terra
d’Otranto. Egli, in
un corposo saggio
(“L’arte tipografica in
Terra d’Otranto”, in
«Rivista Storica Salentina», diretta da Pietro
Palumbo, 1912, pp. 193235), dopo un’agile introduzione sull’invenzione dell’arte
della stampa in Europa e in Italia,
ci dà notizia di come essa sia nata e si sia
sviluppata in Terra d’Otranto.
Di Galatina così scrive: «Anche a [Galatina], forse per
l’asprezza dei governi feudali, non vi allignarono mai Tipografie, nonostante questo luogo fosse stato culla di non
pochi personaggi eruditi e scrittori di fama, in guisa che
gli scrittori galatinesi, non potendo stampare in patria le
proprie opere, dovettero, farle imprimere o in Venezia o
altrove».
Così i libri degli Zimara, del Galatino (Pietro Colonna),
degli Arcudi, dei Megha e di altri non videro certo la luce
in Galatina.
Nel 1877 [se l’ultimo sette non è un refuso tipografico,
questa data va corretta in 1871, anno di fondazione] sorse
la Tipografia di Salvatore Mariano, dove nel 1892 Giovanni Pellegrino stampò i “Fiori o ritmi di letteratura popolare”; Vincenzo Luceri nel 1898 volle stampare una
“Memoria sull’Ospizio Celestino Galluccio”; e Giuseppe
Marra, nel 1903, pubblicò “Cassii Severi Vita Orationes Libelli”; Giuseppe Congedo uno studio “Per una scritta colonica del leccese cromogeno del bacillus mallei”.
Indi Ruggero Rizzelli impiantò, nel 1895, una Tipografia
cui volle dare il nome di quel dotto filosofo ed umanista
Pietro Colonna, detto il “Galatino”. Da essa uscirono nel
1895 i “Cenni storici di Galatina” dello stesso Rizzelli, e nel
1896, la “Monografia di Castro” del chiarissimo comm. Luigi
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Il filo di Aracne maggio-giugno 2007
Maggiulli, i “Cenni storici intorno al villaggio di Collepasso”,
di Giuseppe Manta e i “Tesori della Divina Commedia” di
Saverio Timo. Chiusa la Tipografia in
occasione della fondazione di un
giornale “La Provincia Cattolica”, il
Rizzelli la riaprì sotto il nome del
suo giornale nel 1905. In questo frattempo, cioè nel 1897, sorgeva la Tipografia Novella, di proprietà del dott.
P. Vernaleone, chiusa nel 1904, nella
quale nel 1912 P. Anastasia fece stampare i “Nuovi diritti dell’anima ovvero il
prezzo del dolore” e Umberto
Congedo una “Lettura per monaca”, e nel 1902 T. e C. Rubino
stampavano le “Note ed appunti
su Terra d’Otranto”, seguiti da una
breve monografia sull’antichissima
“Aletium”. Indi quella “Economica”
nel 1907, nella quale il menzionato
Luceri pubblicò un opuscolo di poche
pagine sugli “Indizi storici di un’antica
città sepolta presso la spiaggia di S. M. al
Bagno” e dove furono anche impressi,
nello stesso anno, un ricordo “Alla cara e venerata memoria di Giuseppe Manta patrizio soletano” e i “Carmi civili” di Francesco Zamboi
ed infine, nel 1911, la Tipografia Nuova del signor P. Vergine.
Tra gli illustri uomini galatinesi, il Foscarini
cita Arcudi e, sicuramente, egli si riferisce al più illustre figlio di quella famiglia, vale a dire il domenicano Alessandro Tommaso Arcudi (Galatina 1655 – Andrano 1718).
Un altro grande storico galatinese del secolo appena passato, Michele Montinari (Galatina 1888-1966), nella sua
“Storia di Galatina” (Editrice Salentina, Galatina 1972), curata dallo stesso Antonio Antonaci, nel capitolo relativo all’Industria e al Commercio, non trova modo di citare
alcuna azienda tipografica, nonostante che, al suo tempo,
in città operasse la tipografia di Salvatore Mariano & figli.
Antonio Antonaci trova il modo di scrivere anche dell’autore-tipografo Ruggero Rizzelli, fondatore nel 1895 di
una stamperia che – come dice il Foscarini – intitolò a Pietro Galatino. Antonaci cita questo fatto a proposito del
libro “Cenni storici di Galatina” dello stesso Rizzelli, stampato nel 1895 mentre, nelle differenti note sparse per l’intero libro del Montinaro, il curatore cita abbondantemente
un altro libro del Rizzelli, “Pagine di storia galatinese. Memorie”, opera stampata dalla sua stessa tipografia nel 1912
che, a quel tempo, aveva assunto una nuova intitolazione,
cioè quella di “Tipografia Economica”.
Neanche una parola viene scritta sull’attività della Tipografia “Nuova” del signor
P. Vergine, che il Foscarini ci dice essere
stata fondata nel 1911.
Qualcosa in più rispetto all’arte della
stampa a Galatina la ricavo dalla lettura
degli articoli e dei saggi scritti da Carlo
Caggia (1932-2006), che fu fondatore di
giornali e promotore culturale nel secondo
cinquantennio del secolo scorso.
In “Cronache fra due secoli: Lotte politiche e
sociali dal 1896 al 1909 in una città del Salento
attraverso la stampa socialista” (Congedo, Galatina 1976), Caggia ci dà più esatte notizie
dei giornali galatinesi «Il Salento» (18961899), «Lo Svegliarino» (1901-1902), «La
Leva» (1906-1909), tutti stampati in città. Da
lui ricavo la notizia che il giornale numero
unico “Il Sole dell’Avvenire”, datato Lecce 3
giugno 1900, è stampato a Galatina presso
la Tipografia “Novella”» (p. 89). A p. 93
delle
“Cronache”
dello stesso Caggia,
è riportato un clichè
con un volantino ai
piedi del quale chiaramente si legge il
luogo e la data di
stampa: «Galatina,
1901, Tip. Novella».
«Il Salento», la cui
prima testata (per
un solo numero) fu
«Il
Contadino»,
venne fondato e diretto da Paolo Vernaleone. Il primo
foglio di stampa
vide la luce non a
Galatina ma a Gallipoli (dove già si
stampava lo “Spartaco”) il 27 dicembre 1896 dalla Tipografia Gallipolina,
mentre solo il 3 gennaio 1897 iniziò le pubblicazioni a Galatina con la testata «Il Salento», giornale politico-letterario,
organo del Partito Socialista della Provincia di Lecce,
uscendo dalla macchina tipografica del palazzo (via Garibaldi) dello stesso direttore Paolo Vernaleone.
«La Leva», fondato nel 1905, viene stampato dalla Tipografia Economica, gerente responsabile Vincenzo Romano.
Interessante e molto utile è l’elenco di giornali e riviste
che Carlo Caggia, fece in un articolo pubblicato da «La
Voce di Galatina» (giugno 1999), e da lui ripreso e pubblicato nel suo libro “Scrittori sparsi di fine millennio” (Grafiche
Panico, Galatina 2000, pp. 124-127). Spesso Caggia cita solo
i giornali stampati, omettendo di citare lo stampatore.
Cosa che invece occorrerà completare. Questo l’elenco:
- 1884, «Lo Sbarbarino».
- 1896 -1899, «Il Salento» fondato e diretto da Paolo Vernaleone. Il primo numero esce con la testata de «Il Contadino».
- 1900 -1910, «La Provincia Cattolica di Terra d’Otranto».
- 1901-1902, «Lo Svegliarino».
a lato:
Carlo Caggia
direttore di “Partecipazione”
“Il corriere nuovo”
“Corriere”
al centro:
Zeffirino Rizzelli
ex-direttore de
“Il Galatino”
in basso:
Virgilio Contaldo
corrispondente della
“Gazzetta del Mezzogiorno”
per oltre 30 anni
- 1901, «La Civetta», fondata e diretta da
Ruggero Rizzelli e stampata presso la sua
tipografia, che ha già il nome di Economica.
- 1904, «L’Ago» e «Lo Spillone», due periodici satirici.
- 1904 -1906, «Il grido dei Liberi», fondato e diretto da
Carlo Mauro.
- 1906 -1909, «La Leva».
- 1906, «La Scuola per la vita», mensile, 1906, stampato
presso la Tipografia Economica.
- 1908, «Vita Nuova», settimanale politico, amministrativo, commerciale, letterario (viene pubblicato la domenica) vide la luce a Galatina il 1 novembre 1908. Stampato
dalla Tipografia Mariano di Via G. Lillo, n. 67.
- 1909, «La Falce», giornale repubblicano valloniano.
- 1910, «Il Pensiero», fondato e diretto da Pietro De Marianis, stampato dal Tipografia Mariano, Via Lillo.
- 1913, «La Squilla», gerente responsabile Pietro Maffei,
stampato dalla Soc. Tip. Editoriale di Galatina.
- 1920, «Bandiera Rossa», organo della sezione socialista,
stampato dalla Tipografia Gizzi.
- Fine anni ’30, «Le Vesciche e gli Spilli», periodico umoristico a cura del Guf di Galatina.
- 1928, «Idomenea», numero unico umoristico diretto da
Eugenio Ratiglia, stampato dalla Tipografia Marra &
Lanza.
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- 1978 -1985, «Il Corriere Nuovo», diretto
da Carlo Caggia e Vincenzo Antonaci
- 1983, «Lu Presèpiu», rivista satirica diretta
da Carletto Gervasi.
- 1983, “Galatina Sport” edito dall’U. S. Galatina Pro Italia.
Galatina - Antica tipografia Mariano - Entrata da Arco Andriani
- 1945, «Antico e Nuovo», diretto da Enzo
Esposito.
- 1946, «Il Saggiatore», diretta da Giuseppe
Lucio Notaro
- 1946, «La Voce di Galatina», diretto da
Carlo Tundo, stampato dalla Tipografia Vergine.
- 1949, «Fiera-Oggi», numero unico della
Mostra-Mercato.
- 1953 -1958, «La Cuccuvàscia», rivista satirica.
- 1959-1973, «La Civetta», rivista satirica diretta da Piero De Paolis.
- 1966 -1968, «Il Nuovo Cittadino»
- 1968, «Il Galatino», diretto prima da Antonio Antonaci, quindi da Zeffirino Rizzelli,
ora da Rossano Marra.
- 1970, «La Racchietta», rivista satirica edita
dal Circolo Tennis di Galatina.
- 1971, «La Taranta», rivista satirica.
- 1973, «Partecipazione», diretto da Carlo
Caggia.
- 1974 -1976, «Il Corriere di Galatina», diretto
da Carlo Caggia.
- 1976, «Corriere del Levante», diretto da
Gino Di Napoli.
- 1978, «Incontri», organo del Centro Emigrati Rientrati.
Copertine di alcune
riviste satiriche
Il primo numero de “La Taranta”
- 1984, «La Taranta», rivista satirica diretta
da Gianni Vergine.
- 1984, “La Befana”, rivista satirica diretta da
Piero Vinsper.
- 1984 -1985, “Sportivissimo”, settimanale
edito dall’U. S. Galatina Pro Italia, diretto da
Salvatore Beccarisi;
- 1986-1989, «Il Gazzettino di Galatina”, mensile di cultura e sport edito dall’Inter Club “E.
Pellegrini” di Galatina e diretto da Pietro Catalano prima, Angelo Pasca poi.
- 1986 -1989, «Corriere», diretto da Carlo
Caggia.
- 1989, «L’Alternativa», numero unico della
sezione Pci “Carlo Mauro”.
- 1989 -1990, «La Provincia di Lecce», diretto
da Carlo Caggia.
- 1994, «La Città», diretto da Giancarlo Vallone.
- 1998, «Porta Nuova», periodico dei Democratici di Sinistra.
A questo elenco altre testate vanno aggiunge, a partire dal «Bollettino storico di Terra
d’Otranto», fondato e diretto da Giancarlo
Vallone. Per questo la ricerca è ancora tutta
aperta.
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Il filo di Aracne maggio-giugno 2007
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UNA FINESTRA SUL PASSATO
Breve storia del Conservatorio Femminile di Galatina
LA CONGREGAZIONE
DI CARITÀ
PRESIEDUTA DA
ORAZIO CONGEDO
di Pietro Congedo
P
Galatina - Casa di Orazio Congedo sull’omonima via
er avere un quadro completo dell’attività amministrativa esercitata dalla Congregazione di Carità
(C.d.C.) di Galatina durante la presidenza di Orazio Congedo, sarebbe necessario esaminare i verbali delle riunioni tenute dalla stessa nei primi
ventiquattro anni della sua esistenza.
Purtroppo sono stati rinvenuti soltanto i verbali
relativi al quadriennio 1863 - 1866 (v. Registro conservato nell’Archivio dell’Ospedale di Galatina
A.O.G.), i quali però contengono notizie abbastanza
significative ai fini dell’individuazione dei criteri
gestionali seguiti da detta Congregazione sia nei
primi quattro anni, che nei successivi due decenni.
La prima seduta ebbe luogo il 7 gennaio 1863 con
la partecipazione di Orazio Congedo (presidente),
Michele Astarita, Giacomo Baldari, Raffaele Baldari, Carlo Congedo, Celestino Galluccio, Luigi Papadia e Lazzaro Zappatore. Nel corso della
riunione furono eletti il segretario, il vice segretario
e il tesoriere, rispettivamente nelle persone di Celestino Galluccio, Carlo Congedo e Luigi Papadia.
Il successivo 22 gennaio fu approvato il consuntivo delle
spese relative “al regime interno condotto nel 1862 dalla Superiora (delle Figlie della Carità)”, che ammontavano a ducati
602,70 (pari a lire 2.571,48), di cui ducati 525,60 per vitto
alle orfanelle, 6,00 per vestiario a quattro anziane collaboratrici interne, 30,00 per candele usate nelle funzioni religiose, 5,00 per manutenzione dei sacri arredi, 6,00 per
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Il filo di Aracne maggio-giugno 2007
offerta al confessore delle orfane, 24,00 per salario all’inserviente e al sagrestano e 6,10 per spese funebri in occasione della morte di un’orfana.
Il totale delle analoghe spese sostenute nell’anno 1863 fu
di lire 2.545,48, cioè inferiore di 26,00 lire (v. delibera del 7
gennaio 1864), anche perché non era stata data alcuna offerta al confessore delle orfanelle, né c’erano state spese
funerarie.
Alla fine del 1864 la stessa Superiora presentò il seguente
elenco di spese, espresse in lire: 2.233,00 per vitto a ventiquattro orfanelle, 25,50 per vestiario a quattro anziane collaboratrici interne, 102,00 per salario all’inserviente e al
sagrestano, 127,50 per candele, 25,50 per la manutenzione
degli arredi sacri, 25,50 per offerta al confessore delle orfanelle e 25,50 per bagni marini ordinati dal medico a 10 orfane. Gli amministratori approvarono senza riserve i primi
cinque importi, ma ritennero ingiustificata l’offerta al confessore, in quanto già soppressa nel 1863; invece l’esito di
lire 25,50 per “bagni marini”, essendo “spesa di lusso” (ai
Teatrino dell’Istituto Immacolata
sensi del “rescritto ministeriale 13 marzo 1833”, concernente le medicine somministrate negli ospedali), fu autorizzato soltanto perché già avvenuto, “restando in futuro
vietati cotali bagni, fuor del caso di estrema necessità, che la medesima Congregazione di Carità si riserbava di far verificare”.
E’ evidente che tutte le suddette “spese interne”, effettuate
annualmente dalla Superiora, sono solo una componente
dell’economia dell’Orfanotrofio. Ma un quadro verosimilmente completo, sia
delle spese, che delle entrate
necessarie al funzionamento
dell’Istituto, lo si ha nel verbale
della seduta del 29 settembre
1864, che contiene i seguenti dati
relativi al bilancio preventivo per
l’anno 1865:
ENTRATE: lire (3.074,74 da affitti
+ 1.275,00 da oliveti amministrati direttamente + 480,76 da censi e canoni
+969,00 dal Comune + 717,48 da Rendita
Pubblica ) = lire 6.516,98;
USCITE: lire (97,75 spese di scrittoio e soldo
al segretario + 152,02 premio al tesoriere +1.036,87
per tributi fondiari + 2.978,40 vitto per ventiquattro orfanelle + 178,50 per medico, infermiere e medicinali
+255,00 per rimonda degli ulivi e provvista di legna da
fuoco + 212,50 per spese per liti + 93,50 per maritaggi
+480,25 spese per il culto + 136,00 per messe + 42,50 per
elemosine + 32,59 per tassa mano morta + 1.020,00 per
pensione delle Figlie della Carità ) = lire 6.970,88.
Si noti che le uscite superavano di lire 453,90 le entrate,
mentre fra queste ultime mancava un fondo di riserva.
Tale deficit poteva essere colmato ricorrendo ad un prestito, ma al momento (fine settembre 1864) si pensava che
forse nell’anno in corso i proventi degli oliveti avrebbero
superato l’importo di lire 1.275,00, previsto in bilancio. In
effetti la possibilità di produrre nel 1864 una buona quantità di olio sembrava quasi certa, poiché una stima effettuata a fine estate prevedeva la raccolta complessiva di 356
tomoli di olive, e precisamente 190 dal fondo “Margea”, 60
da ”Galatini grande”, 42 da “Crocifissello”, 40 “Geminiano”,
18 da “Galatini piccolo”, 3 da “Centopiedi”
ed altri 3 dal fondo “San Vito”.
Questo significava che la quantità
di olio prodotta avrebbe potuto essere superiore a 175 staia, delle
quali circa 30 erano annualmente
necessarie al consumo interno
dell’Orfanotrofio, mentre, vendendo le
rimanenti 145, al prezzo medio quotato nella piazza di Gallipoli, si sarebbe potuta ricavare una somma
superiore a lire 2.400. Ma in autunno le “continue e dirotte piogge”,
oltre ad avariare il prodotto, ne resero difficile la raccolta. Di conseguenza, mentre si riuscì a cedere per
95 staia d’olio i 190 tomoli di olive
stimati nel fondo “Margea”, che era
in altura, invece per tutti gli altri oliveti,
che erano in zone pianeggianti, andò
Nicchie
deserta la tentata vendita all’asta. PerSulla destra si
tanto, la C.d.C. riunitasi il 10 novembre
notano le ten1864, diede ai suoi membri l’incarico di
dine che garanricercare urgentemente acquirenti per le
tivano la privacy
olive, anche riducendone il prezzo, e, se
delle orfanelle.
le ricerche fossero riuscite vane, provvedere alla raccolta e macinatura delle
stesse a spese dell’Istituto.
Anche le due annate successive furono, purtroppo, disastrose per quanto riguarda la produzione di olio. Infatti la quantità complessiva di olive prodotte nel
1865 fu di appena 4 tomoli, mentre quelle
raccolte nel 1866, essendo bucate dalla
mosca olearia e precocemente cadute al suolo
reso fangoso dalle continue piogge, furono barattate per sole 73 staia
di olio.
Da quanto detto risulta evidente la notevole aleatorietà
Cuscini disegnati e
d e l l a produzione
realizzati dalle orfanelle
olearia.
Pertanto
quella degli oliveti non poteva essere considerata una rendita certa ai fini del funzionamento dell’Orfanotrofio.
I soprariportati elenchi delle “entrate” e delle “uscite” nel
settembre 1864 furono allegati ad un’istanza, che fu presentata al Consiglio Provinciale al fine di ottenere una riduzione dei tributi da pagare alla Provincia, per i quali il
R.D. 20 agosto 1864 prevedeva aumenti non sostenibili dall’Orfanotrofio. Purtroppo la richiesta non fu accolta e detti
tributi, che fino al 1864 ammontavano a lire 127,50, furono
portati nel 1865 a lire 581,62, subirono cioè una maggiorazione di lire 451,12, per pagare la quale la Congregazione
fu costretta a prelevare il relativo importo dal bilancio dell’
Ospedale, sotto forma di sussidio per l’Orfanotrofio.
Nell’autunno del 1866, per assicurare la provvista di
legna da ardere alla cucina dell’Istituto, fu effettuata la rimonda o potatura degli ulivi esistenti nei fondi “Margea”
e ”Palude del Monte”. Ciò comportò una spesa di lire 468,88,
DORMITORIO
Ingresso
A sinistra e a
destra si notano
le nicchie dove
erano sistemati i
letti delle orfanelle o delle
convittrici.
Il filo di Aracne maggio-giugno 2007
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mentre in bilancio era previsto a tal fine l’importo di lire
255,00. Mancando un fondo di riserva, sarebbe stato necessario ricorrere ad un prestito di lire 213,88, ma ciò fu
evitato, perché il presidente Orazio Congedo pagò “con suo
proprio denaro”.
Nel quadriennio 1863 -1866 la C.d.C. si occupò frequentemente dell’ampliamento e della manutenzione dell’edificio dell’Orfanotrofio, infatti:
- il 12 febbraio 1863 autorizzò la Superiora delle Figlie
delle Carità a costruire, a proprie spese, nel cortile dell’Istituto, un salone al piano terra e un altro al primo piano; invece la costruzione dei “cessi a fianco dei due saloni terreno e
soprano” comportò una spesa di lire 433,63 a totale carico
dell’Istituto, deliberata il 13 ottobre 1864;
- il 24 dicembre 1863 approvò la spesa di lire 396,27 destinata alla costruzione nel cortile di un locale idoneo sia
per situarvi accanto al pozzo le “pile” per lavare i panni, sia
per costruirvi un “novello focolare per rendere meno penose le
operazioni del bucato”;
- una tettoia, situata sulla terrazza del salone a primo
piano, che “prospetta col lato lungo ad Est in su la pubblica
via”, era stata costruita “su archi che arrecavano notevole
spinta alla parte superiore dell’edificio”, perciò ne decise la demolizione, che costò lire 18,75 e successivamente fu spesa
la somma di lire 316,37 per riparare con tiranti di ferro i
locali che, a causa della suddetta tettoia, avevano manifestato lesioni nella muratura (v. delibera 11 gennaio 1866);
- sia per proteggere dall’umidità i solai dei locali riparati,
sia per “non far mancare allo Stabilimento un locale aerato per
sciorinare panni al coperto”, il 19 agosto 1866 deliberò la costruzione di una nuova tettoia, sostenuta da “cavalletti in
travature di legno”, nello stesso posto in cui c’era stata
quella demolita.
Nella seconda metà del XIX secolo l’aleatorietà delle produzioni agricole e il degrado cui andavano incontro i poderi dati in affitto inducevano gli amministratori di enti
Galatina - Istituto Immacolata - Atrio interno
C.d.C. di Galatina, infatti tra l’agosto e il settembre del
1866 furono da essa richieste alla Deputazione Provinciale
le autorizzazioni per l’alienazione dei fondi “Calcara del
Monte” (al prezzo di lire 3.941,25), “Tabelluccia”
(al prezzo di lire 510) e “Pigno del Rosario” (al
prezzo di lire 2.446,75).
Dette somme, insieme all’importo di lire
922,25, derivante dalle affrancazioni di censi e
canoni concesse a debitori dell’Orfanotrofio, furono tutte convertite in Rendita iscritta nel Gran
Libro del Debito Pubblico.
Da una copia del “Questionario generale per l’inchiesta amministrativa sulle Opere Pie”, compilato
nel 1884 (conservato in A.O.G.), si apprende che
nel decennio 1875 -1884 dalla vendita di altri
fondi rustici fu ricavato l’importo complessivo
di lire 82.236,00, che fu anch’esso investito in
Rendita Pubblica.
Da quanto sopraesposto si evince che Orazio
Congedo, oltre a provvedere col proprio denaro
ad emergenti necessità sia dell’Ospedale (v. la
donazione finalizzata al mantenimento di 5 posti
letto per malati cronici), che dell’Orfanotrofio (v.
la donazione della rendita destinata al sostentaIstituto Immacolata - Particolare dell’atrio interno
mento di tre orfanelle), fu anche amministratore
assistenziali a vendere all’asta le proprietà degli stessi per attento e di grande umanità, poiché cercò sempre di migliorare le rendite dei due Enti ed ebbe costantemente cura
poi investire il ricavato in titoli di Stato.
Operando in questo modo si potevano aver annual- di alleviare i disagi degli infermi e delle povere orfanelle
mente rendite certe, che, almeno nell’immediato, erano più (v. i provvedimenti adottati per rendere meno penose le
■
vantaggiose. A tale criterio amministrativo ricorse anche operazioni del bucato).
Il filo di Aracne maggio-giugno 2007
11
PERSONAGGI SALENTINI
La cronaca mondana, alla fine dell’Ottocento, con le “note giornalistiche” di Emilia Bernardini
Macor promuove moda, commercio, cultura secondo uno studio di Annalisa Pellegrino pubblicato dalla “Congedo Editore”
L A P R I M A G I O R N A L I S TA S A L E N T I N A
L
di Zeffirino Rizzelli
inizialmente con pseudonimi.
a Gazzetta del Mezzogiorno
In Terra d’Otranto tutto questo
celebra i suoi centoventi anni
movimento non tarda a farsi sentire:
di vita pubblicando, ogni meril 22 maggio 1881 fa la sua prima
coledì, un articolo che ne ricostruisce
comparsa la “Gazzetta delle Puglie”
la storia. Un cappelletto che precede
che, nel dicembre 1882, nella rubrica
ogni articolo ricorda che il giornale
“Chiacchiere Settimanali”, dichiara
è nato dalla fusione di due precedi avvalersi della “collaborazione di
denti testate: “Corriere delle Puglie”
valenti scrittrici”.
e “Gazzetta di Puglia”. Questa preciNel 1890 nasce “Il Corriere Merisazione e l’interessante ricerca di
dionale”, organo della corrente libeAnnalisa Pellegrino mi spingono a
rale, diretto dall’avvocato Nicola
ricordare la posizione che nell’OttoBernardini che a partire dal 1896
cento aveva il giornalismo nella Profonda e dirige “La Provincia di
vincia di Lecce, allora comprensiva
Lecce” nel quale istituisce una rudei territori che oggi costituiscono le
brica fissa destinata al tema della
province di Taranto e Brindisi.
moda femminile e la affida ad una
I giornali pubblicati in tutta la Pudonna, a Emilia Bernardini Macor
glia, nella seconda metà dell’Otto(Lecce, 1865-1926).
cento, sono trentasei di cui ventidue
A raccontarci l’interessante vinella provincia di Lecce (1). Vi è,
cenda e a ricostruire la personalità
quindi, in Terra d’Otranto, una vivadella Macor è Annalisa Pellegrino
cità culturale
Emilia Bernardini Macor
con una ricerca che investe tutto il
ed un
dibattito politico notevoli mondo femminile a partire dalla seconda metà dell’800 (2)
perché sui quei giornali i e che mette in evidenza il cambiamento del ruolo che la
più noti studiosi condu- società affida alla donna al sorgere dell’Unità d’Italia.
La borghesia italiana, proprio verso la seconda metà
cono le loro “battaglie”.
Sono gli anni in cui na- dell’800, cessa di essere costituita soltanto da coloro che
scono a Milano i primi dispongono di proprietà, hanno un reddito o rientrano nel
giornali femminili. Edo- campo dei capitalisti d’industria e approda al livello cultuardo Sonzogno fonda nel rale. Dice la Pellegrino “non si dovrebbe parlare più di
1864 il primo giornale fem- ‘classe borghese’, ma di diverse borghesie : una borghesia
minile di moda, “Novità”, di burocrati, di professionisti, di accademici e solo in tono
nel 1866, il “Tesoro delle fa- minore di operatori economici” (3).
Il compito di dimostrare lo “status” raggiunto viene afmiglie”, “La moderna ricamatrice”, il “Monitore delle fidato alla donna che, “con la ricchezza degli abiti, gioielli
sarte”. Nel 1865 Ferdinando e ornamenti vari”, ma anche con la casa ben arredata e il
Garbini pubblica “Bazar” e numero di persone addette ai lavori domestici deve dimo“Monitore della moda”. strare il ruolo e l’importanza raggiunti dal marito, diveNel 1877 Emilio Treves dà nuto “Gentiluomo”.
La donna diventa così “Signora” e deve porre cura al
alle stampe “La Moda” e,
successivamente, “Mar- proprio modo di vestire e di vivere, deve praticamente segherita”, “L’eleganza” e guire la “moda”.
Per questo “La Provincia di Lecce”, a partire dal 18 giu“Eco della moda”.
Attraverso questi gior- gno 1899, apre una finestra sul mondo della moda con la
nali fanno il loro in- rubrica “Cronaca mondana” e, dal 1902, istituisce una rugresso nel giornalismo brica fissa, “Farfalle erranti”, destinata alla moda dei cole donne: M. Antonietta stumi e dei comportamenti delle “signore”.
Emilia Macor firma le due rubriche: quella della “CroTorriani, Virginia Treves
Tedeschi, Anna Radium naca mondana” con lo pseudonimo “Ermacora”; con il
“Abito da visita”
Zuccari, Matilde Serao, Eve- proprio nome, fino al 1926, quella delle “Farfalle erranti”.
fine XIX - inizio XX sec.
lina Cattermole, che firmano
Entrambe le rubriche offrono “… veri e propri consigli di
12
Il filo di Aracne maggio-giugno 2007
moda vestimentaria per le signore della ‘buona’ società
leccese ...” ma non mancano i consigli sui comportamenti:
“La vera missione della donna”, “Il giorno per ricevere”,
“Ricchezza e buon gusto”, “Teatro e cappelli”. Sono presenti anche interventi sui temi in discussione in quegli
anni: “Pro e contro il divorzio”, “La donna e il voto”, ecc.
Lo scopo della ricerca della Pellegrino è proprio “la vicenda umana e giornalistica” (4) di Emilia Macor, moglie
dell’avvocato Nicola Bernardini, figlia della torinese Caterina Ruffo e del veneto Carlo Macor, e dotata di una cultura eccezionale per le donne del suo tempo.
Le notizie biografiche della Macor sono scarse, afferma
l’autrice che, però, riesce ugualmente a tracciarne un profilo di tutto rispetto. La cultura della Macor nasce da un
misto di studio e di esperienze. Il padre, ingegnere, “fervente mazziniano”, nonostante la condanna all’esilio inflittagli dall’Austria, ha contatti con Mazzini, Quadrio,
Garibaldi, la porta con sè in Siria, Turchia, Romania, e in
varie città europee e orientali, e le offre la possibilità di conoscere varie lingue straniere tra le quali, certamente l’inglese e il francese.
Oltre al viaggiare
concede alla figlia,
cosa rara per il
tempo, la libertà di
compiere scelte autonome e impegnative
che le consentono di
sviluppare
quelle
doti eccezionali che
emergono nel suo descrivere moda, costumi e riti della
società contemporanea, e che la portano
ad essere considerata
“la prima giornalista
salentina” (5).
È possibile, dalle
sue note, ricostruire il
quadro della “sociabilità salentina, soffermandosi sugli
spettacoli della Filodrammatica, sulle rappresentazioni
teatrali al teatro ‘Paisiello’, sulla lirica al teatro ‘Politeama’,
sui balli, soprattutto durante il Carnevale e la Pasqua, nei
saloni delle famiglie della nobiltà o della ‘buona’ borghesia
cittadina (i Magliola Palmieri, i Falco, i Gorgoni, i Marcucci, i Massa, i Bernardini-Marrese, i Tafuri, i Galluccio,
ecc.), sui matrimoni e… anche sulle ‘toilettes’ del momento” .
Attraverso questa attività giornalistica la Macor acquista
un importante ruolo nel mondo culturale del capoluogo
salentino. Si deve a lei “il decollo musicale del tenore ‘di
grazia’ Tito Schipa… organizzando… nel 1907… il cui ricavato aveva consentito al giovanissimo tenore di continuare a studiare a Milano” (6). Le sue note mondane
“costituiscono una ulteriore testimonianza di come tra
Nord e Sud si sviluppi un processo di omologazione sia
delle strategie editoriali che del modello femminile” (7).
Lecce, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento,
è già nota per la presenza di importanti sarte, modiste, di
laboratori artigianali per la produzione di merletti e ricami
che assorbono manodopera femminile. Questa presenza è
diffusa in tutta la provincia di Terra d’Otranto e (8) nume-
rose sono le inserzioni
pubblicitarie che compaiono sui giornali e
reclamizzano “nastri
di tutte le tinte…
splendidi merletti …
ricchissimi velluti di
seta… pellicce per
donna e per uomo”. (9)
Nel capitolo che la
Pellegrino dedica a
questo aspetto delle
note di cronaca della
Macor
compaiono
tanti nomi di ditte che
tra la fine dell’Ottocento e il Novecento
aprono i loro negozi, tra cui i
Costa, gli Andretta, i Lazzaretti o inviano i
loro “rappresentanti” a Lecce
(10).
Sono tante le notizie che emergono
dalle note della Macor e
che la Pellegrino “rac“Abito da sera”
conta” con particolare
fine XIX - inizio XX sec.
attenzione ad un filo logico di comprensione, uno stile linguistico snello e privo di
terminologie da “addetti ai lavori”.
Il libro della Pellegrino chiude con una “Appendice” articolata in cinque parti: l’elenco delle note di cronaca della
Macor su “La Provincia di Lecce”; alcune tra le più interessanti di dette note; la riproduzione fotostatica di pagine
del giornale; esempi di pubblicità; foto d’epoca.
Ed è veramente piacevole leggere i testi redatti dalla
Macor nella rubrica “Farfalle erranti” e incontrare una
prosa capace di rispettare sintassi, grammatica, ortografia
e valore semantico delle parole.
■
NOTE
1)
cfr. Nicola Vacca, Giornali e giornalisti salentini,
Lecce, Editrice Salentina, 1940; Donato Valli, Cento anni
di vita letteraria nel Salento (1860-1960), Lecce, Edizioni
Milella, 1985
2)
cfr. Annalisa Pellegrino, “Emilia Bernardini
Macor, cronista di moda e costume”, Galatina, “M. Congedo Editore”, 2006
3)
Cfr. Idem, pag. 14 nota 5
4)
Cfr. Idem, pag. 31, nota 48
5)
Cfr. Idem, pag. 34
6)
Cfr. Idem, pag. 38
7)
Cfr. Idem, pag. 49
8)
Cfr. Idem, pag. 83
9)
Cfr. Idem, pagg. 93-95
10)
Cfr. Idem, pagg. 98-102
Il filo di Aracne maggio-giugno 2007
13
terra noscia
terra noscia
terra noscia
Lu dit tèri u
Esempio tangibile della saggezza popolare
Il popolo, quando parla, sentenzia
di Piero Vinsper
D
ittèriu deriva dal vocabolo greco δηκτήριον (leggi
diktìrion), che significa cosa mordente, acre, pungente, acuta, mordace. D’altra parte, quando il popolo si esprime, pur nella sua semplicità di linguaggio,
conserva sempre la primitiva grandezza di manifestazione
di pensiero. Infatti giudica, sentenzia, però non lo fa mai a
vanvera; e lo dimostra cu llu dittèriu, con il proverbio, che,
traendo origine da probatum verbum, “non è altro che la parola sanzionata da una lunghissima serie di prove”.
Ebbene, parleremo ora del numero “tre” presente nei
proverbi galatinesi. Ce ne sono circa una trentina, da
un’accurata indagine condotta sul “campo”.
Omne trinum perfectum est dicevano i nostri antenati; e
tutti sanno quale significato abbia il numero “tre” in
Dante. Il nostro popolo, invece, abituato alla filosofia spicciola, prende in considerazione il numero “tre” non solo
inteso come espressione di perfezione, ma anche di completezza. Ed ecco che ci troviamo di fronte ad una simpatica fioritura di proverbi, che, ancora una volta, sono
esempi tangibili della saggezza popolare.
Tthre su’ li suttili: ‘i monaci, ‘i prèvati e ci nu ttene fili
– (Tre sono gli avari: i monaci, i preti e chi non ha figli).
Questa categoria di uomini, pur avendo la possibilità di
spendere, tende sempre ad un risparmio eccessivo, smodato e insensato, sottoponendosi a irragionevoli privazioni. Il popolo, allora, a buon ragione, definisce questi
individui suttili, avari, perché, non avendo una famiglia a
cui badare per il sostentamento, sono portati più di tutti
verso questo sistema di vita; sono soli al mondo e perciò
hanno terrore della solitudine, della miseria e della vecchiaia.
Tthre su’ li vangali: ‘u ‘Ntoni, ‘u Mìnacu e lu Pascali –
(Tre sono gli stupidi: Antonio, Domenico e Pasquale). Con
il termine vangale, che in dialetto vale “dente molare”, la
nostra gente definisce quella persona che non sa prendere
una decisione, che se ne sta impalata, che è credulona, imbambolata e stupida. E i tre personaggi citati nel proverbio
dovevano essere di tale risma. Lo dimostra anche l’espressione “quantu si’ Pascali”, per significare la cretinaggine e
la fessagginità di una persona.
Tthre su’ li putenti: ‘u papa, ‘u rre e ci nu ttene nienti –
(Tre sono i potenti: il papa, il re e chi non ha niente). Qui
il popolo accosta il nullatenente al papa e al re, che sono
degli uomini molto potenti; nessuno può sollevare un dito
14
Il filo di Aracne maggio-giugno 2007
contro di loro e nessuno può far valere alcun diritto nei
confronti di chi non possiede niente e versa in assoluta miseria.
Poti ‘ssire svergugnatu de tthre manère: de mamma, de
soru e dde mujere – (Puoi uscire svergognato di tre maniere: di madre, di sorella e di moglie). “Chi dice donna
dice danno” ammonisce un’altra sentenza. Di conseguenza
uno può provare vergogna del comportamento della
madre, della sorella e della moglie, a patto che queste abbiamo commesso qualcosa che urti con la morale.
Dopu tthre troni vene l’acqua, dopu tthre pìrate vene la
cacca. – (Dopo tre tuoni vien giù l’acqua, dopo tre scorregge arriva la cacca). I nostri contadini, forti della loro
esperienza, sostengono che, dopo tre tuoni consecutivi,
scenda giù la pioggia; nello stesso modo, dopo tre scorregge, si deve correre subito in bagno ad evacuare.
A volte avviene, però, che il numero “tre”, nei dittèri, accompagni la lettera “C”; a tal proposito abbiamo due proverbi.
Tthre su’ le “C” ca fùttenu li vecchi: catarru, caduta e
cacareddhra – (Tre sono le “C” che fregano i vecchi: catarro, caduta e cacarella). Il più delle volte le persone anziane sono affette da bronchite che provoca il catarro e
perciò sono destinate ad una brutta fine. Allo stesso risultato portano la caduta e la dissenteria; infatti la caduta può
determinare una rottura delle ossa e si sa che nei vecchi la
possibilità di calcificazione è minima; la dissenteria, invece, provoca la disidratazione dell’organismo con conseguenze disastrosissime.
Quàrdate de ‘ste tthre “C”: cagnatu, cumpare e crussupinu – (Guardati da queste tre “C”: cognato, compare e cugino). Nei cognati, nei compari e nei cugini, non bisogna,
peccando di ingenuità, riporre tutta la nostra fiducia. Vuoi
l’occasione, vuoi la vicinanza, vuoi o non vuoi il continuo
frequentarsi possono essere, spesso, causa d’inganni e di
adulteri.
terr
ra noscia
terra noscia
terra noscia
Tthre cose fùttenu lu villanu: lu mercatu, la cridenza e lu
chiuvire chianu chianu – (Tre cose fottono il contadino:
l’acquistare merce a basso costo, la credenza e il piover
piano piano). Il contadino, in passato, è stato sempre il bersaglio dei soprusi degli scaltri. Crede di risparmiare e compra ciò che gli viene offerto a buon mercato, non
considerando di essere spesso vittima di imbroglioni e di
furfanti. L’annata va male, le calamità atmosferiche danneggiano il raccolto ed è costretto ad aver credito e non sa
poi a che prezzo dovrà estinguere questo debito. Si reca in
campagna a lavorare e, all’improvviso, scende giù una
pioggerellina sottile; pensa che subito smetta di piovere e
continua a lavorare; così facendo, però, finisce con l’inzupparsi di pioggia e le conseguenze si faranno ben presto
sentire.
Un altro proverbio analogo al precedente è questo: Tthre cose fùttenu lu villanu: l’acqua piu
piu, lu làssame stare e lu fazza Ddiu –
(Tre cose fregano il contadino: l’acqua pio pio, il “lasciami stare” e il
“sia fatta la volontà di Dio”). La
pioggia che scende lunga ed
impalpabile, sempre uguale,
il popolo la chiama “acqua
piu piu”, quasi fosse pigolata, ma che poi finisce con il
bagnare più degli acquazzoni. Il “làssame stare” è il
mostrarsi in condizioni di
apatia e di svogliatezza
verso ogni cosa; “lu fazza
Ddiu” è l’invito alla cristiana
terra noscia
terra noscia
sopportazione e sottomissione; esprime, cioè, il tema della
rassegnazione e del perdono.
Tthre cose ti nnudacanu lu core: le meddhre, li cutugni e
le parole – (Tre cose ti creano un nodo in gola: le nespole,
le mele cotogne e le parole). Il popolo chiama meddhre le
nespole nostrane, che non devono confondersi con quelle
del Giappone, di colore giallo; queste, invece, hanno un
colore verdognolo, quando ai primi di ottobre si raccolgono; poi si mettono nella paglia a maturare e diventano di
un bel marrone scuro. Infatti si dice: Cu llu tiempu e cu lla
pàja se mmatùranu le nèspule – (Con il tempo e con la paglia maturano le nespole). Sorvolo sul significato morale.
E poi ancora: Quandu viditi nèspule chiangiti, ca viddhru
è l’ùrtimu fruttu de l’estate – (Quando vedete nespole
piangete, perché quello è l’ultimo frutto dell’estate).
Ebbene, quando si mangiano le meddhre, è difficile mandarle giù data la loro polpa pastosa;
perciò si nnùdaca, cioè si sente come un
nodo alla gola. La stessa cosa accade
con le mele cotogne. Le parole, al
contrario, sono molto più nnudacuse delle une e delle altre,
specialmente se dette, a torto
o a ragione, per calunniare,
per offendere, per dir male
o per rimproverare una
persona. E’ molto difficile
ingoiarle, mandarle giù,
perchè non solo ti creano
un nodo alla gola, ma anche
ti opprimono il cuore e ti
fanno star male.
■
Il filo di Aracne maggio-giugno 2007
15
te
HISTORIA NOSTRA
I L B R I G A N TAG G I O I N T E R R A D ’ O
Valentina Vantaggiato
La crisi scaturita dopo l’unificazione d’Italia ha portato
del “brigantaggio”, fenomeno che ha lasciato segni pro
C
La brigantessa Michelina De Cesare
on la proclamazione ufficiale del Regno d’Italia nel
1861 e con la conseguente annessione del Mezzogiorno allo Stato unitario, iniziò un periodo di forte
squilibrio nei rapporti fra lo Stato e la società italiana, la
quale, per gran parte, viveva al di
fuori della cerchia dello Stato
stesso. L’unità era stata compiuta
solo parzialmente.
La nuova Italia aveva preso
posto fra le maggiori unità politiche d’Europa, ma era ancora oppressa da molti problemi interni
che ponevano un limite alla
sua potenza di stato
tra gli stati.
Precedentemente all’Unità,
nel primo periodo
dell’evoluzione economico–sociale del Sud,
il “brigantaggio” aveva
già preso piede in coincidenza di crisi periodiche, e con esse era destinato
a sparire, fenomeno locale in
una società agraria povera.
Nel 1860, tuttavia, tutto fu
molto diverso. La crisi dell’unifica
zione, difatti, traBrigante Ciucciariello
sformò questo fenomeno in banditismo sociale vero e proprio, conferendogli caratteri peculiari anche sotto il profilo
politico. “Nell’Italia meridionale il banditismo sociale si
avvicinò a una rivoluzione di massa e a una guerra di liberazione guidata da banditi sociali” (ID.).
I "briganti" sono stati oggetto di studio da parte di numerosi storici, ma le considerazioni finali che essi ci hanno
fornito sono discordi. C’è chi afferma che questi uomini
avevano l’animo nobile, che rubavano ai ricchi per dare ai
poveri e che donarono un certo fascino alla società del
tempo. Altre tesi, tuttavia, sono concordi nell’affermare
che costoro furono solo esseri assetati di sangue, pezzenti
che vagavano con l’unico scopo di saccheggiare, uccidere,
spinti da credi illegittimi e dalla volontà di sfuggire alle
leve militari.
Domenico De Rossi si adoperò molto in questo senso,
fornendo, grazie alle sue ricerche, una precisa documentazione sull’argomento e arrivando alla conclusione che “è
vero che i briganti non fecero mai epoca, né s’imposero con
gesta leggendarie, ma arricchirono quel quadro mai abbastanza chiaro dei primi tormentati anni della nostra unificazione”.
Nel panorama del Mezzogiorno il brigantaggio salentino, per espansione, densità e durata, occupò un posto secondario. Questo spiega perché la provincia di Lecce non
venne compresa fra quelle che furono dichiarate, il 20
maggio del 1863, “invase dal brigantaggio”.
Ciò nonostante, anche in Terra d’Otranto, queste vicissitudini, che paralizzarono l’ascesa del Mezzogiorno, non
mancarono di produrre gravi effetti, procurando forti preoccupazioni al nuovo governo.
Scoppiato dapprima nella Basilicata, il fenoA voi,
meno si estese, poi, a quasi tutte le province
del Salento.
“nuovi briga
Numerose furono le bande che operarono in
Salento” riv
questo territorio, lasciando, chi più e chi meno,
un accorato
tracce indelebili nella storia della nostra terra:
quelle di Francesco Ronaldo, detto “il Catamettete da p
lano”, di Francesco Paolo Valerio, detto “il Cal’egoismo p
valcante”, di Antonio Locaso, detto “lu
lasciare spa
Capraru”, di Quintino Venneri, detto “Macchiorru” ed altre ancora. Molti usavano un
una mentali
nome d’arte per farsi riconoscere, appellativi
pulita.
che spesso derivavano da una loro caratteriAmate la vo
stica fisica o comportamentale che rendeva il
nome stesso alquanto curioso.
non infierite
Tra il 1861 e il 1863, la Puglia vide gang di
non razziate
briganti attraversare i suoi altipiani, le sue pianon distrug
nure, le sue città e i suoi piccoli villaggi di contadini. “A volte conquistarono interi paesi e chi
ed essa vi a
si opponeva loro, fossero soldati italiani, guarvolta
die nazionali o sindaci, assessori e borghesi,
veniva ucciso senza pietà;
cadaveri mutilati e teste
mozzate venivano esposte
per impressionare la popolazione” - scrive lo storico
Nicola Antonacci.
La figura più caratterizo alla nascita nel Mezzogiorno zante fu senza dubbio quella
ofondi nella società del tempo. di Giuseppe Valente, chiamato “brigante letterato”
per la sua spiccata capacità
dialettica e stilistica; fu, infatti, uno dei pochi briganti
a non essere analfabeta. Egli
redigeva personalmente le
missive che poi inviava alle
famiglie più ricche per estorcere loro denaro. La sua
banda ebbe un’attività impressionante. Tra il settembre e il dicembre del 1862
riuscì a perpetrare “83 reati
fra omicidi, rapine, estorsioni, sequestri di persona,
incendi, furti di bestiame, resistenza e tentati omicidi a
componenti della forza pubblica” (D. De Rossi).
Il capobanda Sacchitiello
Il Valente fu arrestato il 21
e i suoi scagnozzi
dicembre dello stesso anno e
consegnato alla Guardia Nazionale. Altri componenti della
sua banda vennero catturati e tutti furono condannati all’ergastolo.
Tra i fuorilegge se ne distinse anche un altro, e non certo
per merito: Riccardo
Colasuonno, meglio conosciuto come “Ciucciariello”. Originario di
Andria, fu uno dei briganti più tristemente famosi, vista la sua innata
violenza che palesava a
destra e a
manca. Nella
sua vita egli
anti del
commise
volgo
delitti
e
atrocità di
o appello:
ogni genere
parte
e solo a sen- Il brigante Quintino Venneri
per
tir pronunciare il suo nome la gente rabbrividiva. Riccardo era un latitante costretto
azio ad
perennemente a nascondersi e a spostarsi da
ità nuova,
un posto all’altro per non farsi stanare dalle autorità competenti che erano sulle sue tracce da
molto tempo. Finalmente, il 15 novembre 1865,
ostra terra,
e su di essa, dopo anni di tentativi falliti, “Ciucciariello” fu
arrestato.
ela,
La stampa del tempo, dai giornali più importanti
ai fogli di provincia, considerando il briggetela
gantaggio come un pericoloso ostacolo al
amerà a sua consolidamento del nuovo ordine costituito, lo
attaccò violentemente, incoraggiando il go-
OT R A N TO
verno ad adoperare ogni mezzo
per combatterlo e
debellarlo.
Fu dichiarato lo
stato di guerra e
furono
inviate
truppe bene addestrate nei luoghi in
questione. “Chiunque fosse stato trovato in possesso di
armi o sospettato
di complicità con i
briganti, rischiava
la fucilazione immediata”, afferma
l’Antonacci.
Accanto ai provConflitto a fuoco tra
vedimenti legislabriganti e bersaglieri
tivi, vennero presi
provvedimenti militari, che si articolarono in vere e proprie operazioni tattiche contro i malviventi. Queste disposizioni ebbero scrupolosa esecuzione da parte delle
autorità della Provincia, le quali, allo stesso scopo, presero
altre personali iniziative. L’operazione ebbe successo perché presto tutti i capibanda furono catturati e condannati
a morte. Gli altri briganti, spaesati per l’arresto dei loro
boss, si dispersero nelle campagne e di loro non si seppe
più nulla.
Le ultime rappresaglie si verificarono nella zona del
Capo di Leuca, dove il brigantaggio era ormai ridotto a
volgare delinquenza. Dopo il 1865, reazione e brigantaggio
nel Salento potevano considerarsi solo un triste ricordo.
“Spuntano ai pali ancora
le teste dei briganti, e la caverna,
l’oasi verde della triste speranza,
lindo conserva un guanciale di pietra.
Ma nei sentieri non si torna indietro…”.
Il poeta Rocco Scotellaro, con questi versi, ha voluto immortalare la figura dei briganti e la loro presenza in nessun
posto e in ogni dove. Uomini e fantasmi allo stesso tempo,
in una terra che a volte si faceva portavoce del loro pensiero e altre volte inorridiva al solo sentirli nominare.
Il brigantaggio fu soltanto il primo dei grandi problemi
che la nuova Italia dovette affrontare nelle province meridionali. Solo il primo di una lunga serie che ha portato alla
costituzione della complessa “questione meridionale”,
oggi, purtroppo, ancora non del tutto risolta.
I briganti di oggi non sono certamente migliori di quelli
di ieri e, ugualmente, creano disordine in quell’ordine,
seppur precario, che il Sud si è duramente conquistato nel
corso dei secoli.
Ed è proprio a questi ultimi che rivolgo un accorato appello, a voi “briganti” del nuovo millennio: non infierite
su una terra che merita di essere ricordata per le sue numerose bellezze e per i suoi valori genuini… e non per i suoi
lati bui.
A voi, “nuovi” Valente, chiedo di mettere da parte l’egoismo per lasciar spazio ad una mentalità nuova, pulita.
Amate la vostra terra, non razziatela, non distruggetela,
ed essa vi amerà a sua volta, perché è solo questo che
vuole. Non chiede altro che un po’ di rispetto.
■
Il filo di Aracne maggio-giugno 2007
17
USI E COSTUMI SALENTINI
Quando l’illuminazione pubblica era a petrolio
LU L A M P I U NA RU
A
di Emilio Rubino
ll’inizio del secolo scorso la pubblica illuminazione
di Nardò era costituita da lampade a petrolio. Erano
dei grossi lampioni, con supporto di ferro infissi sui
muri e con una campana di vetro che li ricopriva e li preservava. Vi era incorporato un serbatoio di rilevante capacità,
al fine di evitare che durante la notte si consumasse il carburante e si restasse al buio più completo. Vi era anche una
sostanziosa “carzittella”, rappresentata da una strisciolina
di stoffa cotonata che pescava nel petrolio e che, per capillarità, restava umida anche nella parte superiore, in modo
che la fiammella diffondesse con continuità la luce.
E così, ogni sera, all’imbrunire, si vedeva girare per le
principali vie cittadine un uomo che, armato di scala, di un
recipiente col petrolio, con lo stoppino in mano ed i fiammiferi in tasca, compiva la benefica opera di accendere tutti i
lumi della Città.
Lu lampiunaru
Immaginiamoci come la gente, che era costretta a circolare di sera (si usciva di casa solo nei casi di estrema necessità), aspettasse il “lampiunaru” che, instancabile, reggeva
la scala sulle spalle, fermandosi ogni cento metri, poggiandola attentamente al muro
in modo da evitare rovinose cadute, versando poi
nel lampione una quantità
di petrolio sufficiente per
l’intera nottata ed accendendo la “carzittella” che,
prima rossastra, poi sempre più vivida, effondeva
una benefica e rassicurante
luce.
Egli provvedeva anche a
pulire il vetro sporco di fuliggine per consentire un’illuminazione più splendente.
Spesso accadeva, infatti,
che durante la notte, la
Antica lucerna a olio
fiammella dei vari lampioni diventasse sempre più fioca e le vie restassero quasi
al buio per l’annerirsi della campana.
I lampioni utilizzati in tutte le vie di Nardò pare che fossero all’incirca 130, ma è impossibile documentarlo con certezza. La zona illuminata dell’antica città di Nardò era
quella che noi oggi vediamo rinchiusa entro le vecchie
mura. Il numero di lampioni doveva essere perciò rilevante
e non si discostava di molto da quello su indicato. Comunque, c’è da pensare, che solo le vie importanti e centrali potessero godere di questo servizio indispensabile.
Immaginate cosa doveva avvenire in quelle vie sprovviste
di lampioni, nelle quali ci si spostava nel buio più completo,
o, peggio ancora, quando nella città non vi era alcuna forma
di illuminazione notturna. Il viandante poteva imbattersi
18
Il filo di Aracne maggio-giugno 2007
Lampionaio del 1800
in gente di malaffare, pronta ad aggredire e malmenare,
senza che potesse individuare gli aggressori. In alcuni casi,
non per malvezzo, ma perché mancava la rete fognante, all’ignaro passante poteva cadere di bel bello sulla testa il
contenuto, non certo profumato, di una vaso da notte, allora
da tutti ellenicamente denominato “càntaru”.
Liti e zuffe
Certamente, per ovviare a questi gravi inconvenienti, che
non mancavano di provocare spesso imprecazioni innominabili, litigi a non finire e, più d’una volta, zuffe violente e
generalizzate, dovette intervenire l’Avvocato Fiscale, il Governatore della Città, il quale – come ci racconta il neritino
Giovan Battista Biscazzo nel suo “Libro d’annali de successi
accatuti nella Città di Nardò” – il 22 maggio 1652 “fe ordine
che nessuna persona cammini di notte senza lume in mano, sotto
pena di docati sei”.
Insomma, se un cittadino si azzardava a camminare nel
buio della notte, senza avere con sé un lume, poteva benissimo incontrare uno screanzato (alla finestra), pronto a rovesciargli in testa della “cacca” e, ahilui, essere fermato da
un solerte gendarme (in strada), che gli affibbiava, come se
non bastasse, una salata multa.
Era il colmo!
Perciò, sic stantibus rebus, si doveva necessariamente reggere una lanterna a petrolio. Coloro che non potevano permettersi questo lusso dovevano arrabattarsi con una
lucerna ad olio, la cui fiammella, fioca e tremula, doveva
essere protetta mettendoci una mano davanti, in modo che
non si spegnesse.
La presenza, quindi, del “lampiunaru”, che trascinava con
sé la scala ed una lattina di rame col becco allungato e ricurvo in modo da facilitare il travaso di petrolio nel lam-
pione, doveva certamente essere attesa e benedetta da tutti pioni coi “lampiunari” smisero la
loro attività. Vi provvide nel 1909
i neritini.
Salvatore Gallo che, avvalendosi
Frangiscu De Cupertinis
Ci è stato fatto anche il nome dell’ultimo “lampiunaru” delle ultime scoperte della scienza
e della tecnica, ebbe ad
di Nardò, certo Frangiscu De Cupertinis.
impiantare una Centrale
Perciò, ci siamo messi alla ricerca di
elettrica in un locale
qualche suo rampollo e, aiutati dalla dea
posto alla “Porta ti lu
bendata, abbiamo scovato uno dei dieci
Pepe”, quasi all’imbocco,
figli, Giggi (e non Gigi, come verrebbe di
sulla sinistra, della via
pensare), ex parrucchiere prima ed ex
che mena alla Stazione
impiegato dell’Acquedotto Pugliese poi,
Antico lampione
Città.
il quale ci ha “illuminati” un po’ sulla fiFrangiscu De Cupertinis, il “lampiunaru” di
gura di Frangiscu, il “lampiunaru” di
Nardò, sarebbe rimasto disoccupato ed, invece,
Nardò.
anche stavolta, chissà, forse per la longa manus
Frutto di un’avventura d’amore che
della sconosciuta madre, fu sistemato nella Cenuno spagnolo aveva intessuto con una
trale Elettrica. Non sappiamo, però, con quale inragazza neritina (pure allora succedecarico. Egli in tal modo, non perdette l’abitudine
vano di queste cose!), Frangiscu nacque
di accendere la luce, senza petrolio questa volta,
in Nardò nel 1870 e, poiché la ragazza
Lume a petrolio
ma manovrando semplicemente qualche levetta
madre doveva restare sconosciuta, il piccolo fu consegnato a Peppu “lu tamburraru”, suonatore di e con energia “pulita”.
Era nel fior fiore dell’età, 35 anni, con tanti figli da fare
tamburo, nonno di Giggi De Cupertinis, che con la moglie
ancora e quando, nel 1911, tutto l’impianto fu ceduto a don
Ottorino Vaglio, Frangiscu passò sotto il nuovo padrone,
finché nel 1927, cessata la gestione Vaglio, il nostro “ex lampiunaru”, ricevuta una congrua buonuscita, fu costretto ad
andare in pensione. Morì nel 1948, all’età di 78 anni, come
uno sconosciuto.
Che volete?! Sic transit… lux mundi!
Per i posteri solo questo piccolo indimenticabile ricordo. ■
Lucerna in bronzo
allevò amorevolmente il piccolo ed al quale fu dato il nome
di Francesco.
Ignaro che un lontano giorno il suo nome sarebbe assurto – come noi ora stiamo facendo – alla ribalta della cronaca giornalistica salentina, Frangiscu un bel giorno si
ritrovò, non sappiamo come, ad avere l’incombenza di accendere tutte le sere i lampioni della pubblica illuminazione cittadina. L’incarico gli fu dato dagli Amministratori
Comunali (ci fu, per caso, il fattivo intervento della sconosciuta madre?) e, per l’opera da lui prestata, ogni mese veniva a percepire dal Comune la somma di lire 300. Dieci
lire al giorno non erano molte, non certamente sufficienti
a consentirgli di mettere al mondo ben dieci figli, tutti da
campare con una quota pro-capite familiare giornaliera di
830 centesimi. Di certo, al mantenimento della numerosa
famiglia dovette contribuire anche la moglie, Peppina la
“tingitàra”, di professione tingitrice di stoffe e tessuti vari.
Nella somma percepita da Frangiscu era conglobata certamente la “trasferta” che egli quotidianamente era costretto a compiere, non sappiamo con quale mezzo,
bicicletta o biroccio, in Santa Maria e Santa Caterina per
accendere anche lì, nelle nostre due marine, 4-5 lampioni
che vi erano in ognuna delle due località (mentre in Porto
Cesareo, altra frazione della Nardò di allora, era interessato un altro lampionaio). Il costo del petrolio era a carico
del Comune.
Un bel giorno, poi, giunse la corrente elettrica ed i lam-
M° Fabiola Chiffi
Il filo di Aracne maggio-giugno 2007
19
RITRATTO DI… FAMIGLIA
ASSOCIAZIONI E GRUPPI GIOVANILI
di Valentina Chittano
Troppi credono ancora che parlare
di parrocchia significhi fare sfoggio di
un bigottismo asfissiante, sipario di litanie recitate meccanicamente o di rosari sgranati davanti alla statua di un
20
Il filo di Aracne maggio-giugno 2007
“
chiale, senza distinzione. In questo
modo il confronto cresce e si anima
non solo mentre si è seSAN SEBASTIANO DI GALATINA:
duti in cerchio con una
pagina del Vangelo in
NON SOLO UNA CHIESA,
mano, ma anche, e soMA UN GRUPPO PARROCCHIALE
prattutto, mentre si parla,
VARIO ED UNITO.
si canta e si balla sulle
GIOVANI E ADULTI ALL’INSEGNA
note di quei messaggi imDELLA CONDIVISIONE
portanti e concreti di cui
sono intrisi gli spettacoli
glia che al suo interno conta tante sfac- musicali di cui piccoli e grandi si sono
cettature ed una varietà eccezionale di resi protagonisti da qualche anno a
modi di essere, ognuno dei quali questa parte.
Giuseppe, figlio di Giacobbe, venprovvede a rendere unico il momento
duto dai fratelli e simbolo indiscusso
della condivisione.
Tra le numerose realtà parrocchiali di perdono; Francesco, il santo poveche Galatina offre, c’è rello di Assisi, amante incondizionato
quella di S. Sebastiano, del creato; Madre Teresa, la piccola
dalla fisionomia certa- suora dal cuore immenso; Mosè, cremente sui generis, e non dente fino in fondo nella legge divina:
perché dimostri una ogni personaggio, passato tra le mani,
particolare qualità. la voce e i piedi del gruppo di S. SebaAnzi. Nel cammino spi- stiano, ha aiutato i ragazzi e gli adulti
rituale propriamente a lavorare insieme in armonia, per
detto, ad esempio, il portare sul palco ciò che già nella quogruppo dei giovani fa tidianità ha fatto e continua a far parte
fatica a seguire un ca- della loro vita. La musica ha fatto da
lendario ben definito, collante, spingendo quindicenni e
con incontri fatti di letture, preghiere quarantenni ad interagire tra loro con
e silenzi. Ma spreme la sua vitalità una commovente semplicità che ha
fino all’osso e si adopera al meglio per superato ogni tipo di barriera; costrinpoter coinvolgere chiunque faccia gendo ventenni e trentenni a litigare
parte della grande famiglia parroc- per incomprensioni inevitabili e a vosanto. L’altare di una chiesa è invece
la mensa di una vera e propria fami-
“
C
ome una tela ricca di colori, di
quelle che mischiano il verde
con il viola, l’azzurro con il
marrone, il bianco con il nero. Uno di
quei quadri il cui soggetto appare incomprensibile, quasi astratto, ma che
una voce esperta valuta milioni di
euro, sulla base di ciò che esprime. E
allora, mentre le striature di verde iniziano a sembrarti nate per accarezzare
quella pennellata di viola, ti accorgi
che quei colori non sono altro che persone, diverse tra loro per età, per carattere, per esperienza, ma capaci di
armonizzarsi insieme sotto la guida
della mano di un pittore più grande di
loro.
lersi poi più bene di prima; invitando
mamme e papà ad assaporare il clima
gioviale del gruppo, mentre attendevano che il figlio finisse le prove.
Il teatro si può forse oggi considerare la nostra cartina al tornasole (la
prima persona plurale è d’obbligo
perché anch’io godo del privilegio di
far parte della parrocchia di S. Sebastiano). Ha rappresentato una svolta,
il filo di Arianna che ci ha permesso
di trovare la strada per una collaborazione che potesse tenere insieme tutti
i volti della parrocchia, da quelli imberbi a quelli maturi. Chi da tempo si
rimbocca le maniche per portare
avanti discorsi di solidarietà fuori e
dentro le mura della chiesa, ha colto
al volo l’idea del musical (che sette
anni fa sembrava un azzardo) e si è
dato da fare per usarla nel miglior
modo possibile, per trasmettere un
messaggio di fratellanza, coinvolgendo i bambini del catechismo, le ragazze del coro, i numerosi gruppi di
preghiera e confronto, gli scout, tutti
nel segno dell’unità.
I corridoi della parrocchia brulicano
sempre di voci durante tutto il giorno
e, perché no, qualche volta anche di
notte. Quando il sole è ormai tramontato da tempo ed è tutto buio, nella
zona retrostante della chiesa, lì dove
nel pomeriggio si svolge l’attività catechistica, si può scorgere dai vetri
una porta socchiusa ed una luce. Se si
fa attenzione si può sentire qualcuno
che parla ed il ticchettio di una pallina. Sono i giovani. Hanno fatto della
parrocchia anche un sano ritrovo serale per due chiacchiere, un po’ di
relax, una partita a ping-pong o a burraco, una pizza. Si parla di come si è
svolta la giornata, si progettano viaggi
insieme, si alternano discorsi impegnati a barzellette ed imitazioni. Enrica, “la piccola di casa”, verace e
passionale con i suoi vent’anni, sfoggia le sue nuove qualità di giocoliere,
facendo roteare in aria dei cerchi.
Elena ed Eleonora, sorelle dalla diversa sensibilità
ma entrambe calamite per il resto del
gruppo, si fanno a
volte desiderare
ma, quando ci
sono, riempiono la
stanza con la loro
affabilità. Roberta,
dopo un intenso
periodo di studio,
va nella “saletta”
per sfogare le sue
risate rumorose e
coinvolgenti. Federica non si stacca
mai dal suo premuroso Cristian, ma
trova sempre il modo di raccontare
come ha realizzato una nuova ricetta
culinaria. Anna si lascia allegramente
canzonare e si ritrova meravigliata di
come sia facile stare in compagnia
degli altri nella spensieratezza, nonostante la differenza di quattro o cinque anni di età. Totò, Luca, Stefano,
Tommaso: ultimi esempi di bravi ragazzi, sempre gentili e disponibili, con
il pallone sempre in testa, e tra i piedi.
E poi Lucia, sempre indaffarata ma
sempre partecipe, cultrice del riposino
pomeridiano; Sara, con i suoi mille
pensieri e le ansie, Francesca, Mirko,
Palmalisa… Tante storie diverse, tanti
caratteri diversi ma tutti legati dall’interesse comune dello stare insieme.
E intanto il gruppo diviene sempre più coeso ed
ogni occasione è buona per
interagire. Si esce insieme
nel fine settimana, si gioca
a calcetto in collaudate
squadre miste, si organizzano delle feste. Poi si ritorna in chiesa a preparare
i canti della domenica, ad
inventare un bel presepe
per Natale, a sistemare l’altare della deposizione per il
giovedì santo. A vivere la
parrocchia.
Il tempo passa e molti visi si rinnovano, alcuni spariscono, ne arrivano
di nuovi. Qualcuno che credevi dovesse rimanere ragazzino a vita si
sposa e diventa papà; giovani
mamme, da sempre componenti della
grande famiglia parrocchiale, non
smettono di andare alle prove del
coro. I loro figli, quando ancora erano
nel ventre materno, hanno ascoltato
tutte le melodie di ogni musical realizzato ed hanno partecipato a tante
riunioni, quasi ad abituarsi pian piano
ai ritmi ai quali in futuro si sarebbero
volentieri aggregati. Si passa con facilità dal festeggiare i diciotto anni di
Chiara o Desirèe a preparare un
grande party per le nozze d’argento
di Luciano e Dolores; dal battesimo
della piccola Letizia alla laurea di Fabiola. Sempre tutti insieme, sempre
rendendo partecipe anche don Aldo
di ogni avvenimento. E più di una
volta gli ambienti parrocchiali fanno
da sfondo al taglio della torta e alle
foto ricordo.
Come in ogni famiglia che si rispetti, spesso capita di allontanarsi,
e non fisicamente, o almeno non
solo. Una telefonata non fatta, una
parola non detta o detta fuori posto,
possono creare degli attriti ma allo
stesso tempo spingere ad un confronto che spesso, dopo le lacrime,
unisce in modo profondo.
L’esperienza ha insegnato a tutti la
sublime arte della comprensione. C’è
forse qualcuno che non l’ha ancora
appresa bene o qualche episodio che
non consente una rapida rappacificazione, ma tra uno screzio ed un sorriso, siamo ancora tutti lì, tra le mura
di S. Sebastiano, piccoli e grandi, a dimostrare che per divertirsi non c’è bisogno della discoteca, che per passare
un momento di svago non è necessario obbligatoriamente mettersi in macchina e andare lontano. Siamo ancora
tutti lì, a mischiare i colori di quel quadro armonioso. E vero...
■
Foto pagina accanto:
- Chiesa di San Sebastiano Martire,
sede dell’associazione.
- Un momento del musical “Madre Teresa” (26 giugno 2006).
Foto sopra:
- Il coro parrocchiale insieme a don
Aldo e a mons. Donato Negro.
- Piccoli, giovani e adulti pronti per la
prima del musical “Madre Teresa”.
Il filo di Aracne maggio-giugno 2007
21
L’UOMO E IL TEMPO
SULLA TOMBA DI
ACHILLE STARACE
di Gianluca Virgilio
M
i chiedo per quale segreta ragione un mattino della
scorsa estate mi sia recato
sulla tomba di Achille Starace. Sapevo
che era stato sepolto nel cimitero del
piccolo paese di Sannicola, dove era
nato cinquantasei anni prima, e meditavo da tempo una visita. Semplice
curiosità accompagnata con un po’ di
snobismo? Il sepolcro di un uomo che
in vita ha
rico-
perto
incarichi
Achille Starace
d’importanza ed ha avuto molto potere può
provocare in qualcuno, anche a distanza di molti anni dalla morte, simili sentimenti.
Starace fu, durante il fascismo, uno
degli uomini più potenti d’Italia,
prima di cadere in disgrazia e fare la
fame per le strade di Milano fino ad
essere fucilato dai partigiani ed esposto al pubblico ludibrio in Piazzale
Loreto. Io allora ero solo in mente dei,
ma so che da queste parti la morte di
Starace non lasciò indifferente molta
gente tra coloro che negli anni trenta
avevano ottenuto da lui abbondanti
concessioni di tabacco, grazie alle
quali si erano arricchiti non poco. Era
il tempo della riconversione di molti
terreni a cui veniva strappata la vigna,
al posto della quale si piantava il più
redditizio tabacco. In ciascuno dei nostri paesi è sempre ben visibile la fab22
Il filo di Aracne maggio-giugno 2007
Benito Mussolini e Achille Starace
brica di tabacco, una grande costruzione, spesso a due, tre piani, in stile
fascista, razionale, squadrata, un contenitore in livida pietra leccese scuritasi col tempo, ora ridotto, se non è
stato ristrutturato, a edificio fatiscente. Dentro questo contenitore le
donne lavoravano il tabacco raccolto
nelle campagne intorno ai paesi, sorvegliate da attente maestre che leggevano loro i Promessi Sposi, come mi
raccontava mia madre, che nella fabbrica di Corigliano d’Otranto aveva
lavorato per un po’ di tempo quand’era ragazza, apprendendovi la storia di Renzo e Lucia, senza che le
mettessero i contributi – a mezzo secolo di distanza ancora se ne ricordava -.
Pensavo a queste cose percorrendo
in moto i quindici chilometri che separano Galatina da Sannicola. Per andare a Sannicola, occorre prendere la
strada per Aradeo, passando da
Noha. La Noha-Aradeo è un rettilineo
di pochi chilometri lungo il quale la
segnaletica consiglia di procedere con
cautela perché a destra e a sinistra
della carreggiata è tutto un susseguirsi di piccole abitazioni di campagna e c’è il rischio che da un momento
all’altro qualche imprudente si immetta da una viuzza laterale sulla
strada principale senza dare la precedenza. Ad Aradeo bisogna prendere
la circonvallazione che gira intorno al
paese e porta a Neviano. Qui, all’altezza della ferrovia, bisogna piegare a
destra e poi subito a sinistra; si imbocca così un’altra strada, lunga non
più di cinque-sei chilometri, che attraversa un bosco di olivi, interrotto da
un grande frantoio di pietra, oltre il
quale si giunge a Sannicola. Il cimitero
del paese si trova lungo la via che
porta sulla superstrada per Lecce,
poco fuori dall’abitato, a sinistra.
- Dov’è la tomba di Achille Starace?
- Segua quel viale, poi svolti a destra:
la seconda tomba a sinistra è quella di
Achille Starace.
Il guardiano del cimitero, evidentemente già allenato a fornire questa indicazione, non poteva essere più
preciso. Infatti, percorso un corridoio
tra un sordo frinire di cicale attaccate
in cima alle tombe su cui quegli animaletti disegnavano tante macchiette
scure, eccomi davanti a una piccola
cappella intitolata proprio ad Achille
Starace, come si legge in alto sopra la
porta d’ingresso. La scritta è fatta con
caratteri in ferro da ognuno dei quali
cola sul muro un filo di ruggine. Così
pure è arrugginita la porta in ferro
battuto – vi è istoriato un Cristo che
trascina la croce - chiusa da una catena, assicurata a sua volta con un lucchetto, m a i n m o d o t a l e d a
consentirne al visitatore l’apertura per
pochi centimetri, quanto basta a cacciare lo sguardo, non la testa, all’interno e vedere che cosa contiene. A
destra è ben visibile il loculo di
Achille Starace fu Luigi, 18-8-1889 –
29-4-1945. Davanti a me, su una specie
di altare in marmo, ci sono alcune fotografie, raffiguranti lo stesso Starace
in divisa militare e la moglie Ines
Massari con la figlia Fanny (sepolte
nei loculi soprastanti quello di Starace), un bambino (o bambina?) e altre
donne che non riconosco, una foto di
gruppo scattata durante qualche festeggiamento pubblico in onore di
Starace – si vede benissimo uno striscione con su scritto VIVA STARACE
- una coccarda tricolore, un vaso da
fiori vuoto e, in un angolo, per terra,
gli attrezzi per fare pulizia nella cappella: una scopa, un secchio, uno
straccio, una paletta. Lo stato di semiabbandono è palese e risulta ancor
più evidente per la presenza di una
pianta grassa del tutto secca, coperta
di polvere.
Perché ero andato in quel luogo?
Perché avevo voluto visitare la tomba
di Achille Starace? La mia educazione,
sin da bambino, è stata sempre improntata al culto della Resistenza (con
la R maiuscola), mio padre non mi ha
parlato d’altro che di uomini che combattevano contro il fascismo, che il fascismo era il male, il male assoluto;
Starace, se non fosse stato una macchietta, se non avesse favorito tanti
agricoltori della zona, sarebbe stato
anche lui l’incarnazione del male, il
nemico da combattere, l’uomo cattivo.
Sotto il sole di luglio, fermo davanti
alla sua tomba, ho rivisto nell’immaginazione il cadavere di Starace a
Piazzale Loreto, tra la folla che lo
riempie di calci e sputi, l’uomo nella
polvere ridotto a un ammasso di
carne incapace di opporre resistenza.
La famiglia avrà negoziato col CNL la
restituzione del cadavere. Chissà con
quale mezzo, un’auto, un treno, un
aereo privato o militare, le spoglie di
Starace sono giunte da Piazzale Loreto fin qui, nel cimitero di Sannicola,
in provincia di Lecce, a mille chilometri di distanza, nell’estrema periferia
Cimitero di Sannicola
Tomba del gerarca fascista
sapevolezza che i fatti del potere riducono gli uomini a bestie selvagge in
lotta tra loro, prima che il tempo li
seppellisca tutti, vincitori e vinti, per
sempre. Quel mattino d’estate, mi
sono sentito libero di non dichiararmi
favorevole o contrario, di non giudicare il bene e il male della storia, il lodevole e il biasimevole degli uomini,
limitandomi a sostare
davanti alla tomba di
un uomo che ora riposa in pace insieme ai
suoi cari. Visitare la
tomba di Achille Starace non era poi così
diverso che visitare la
tomba di un perfetto
sconosciuto, davanti
alla quale si rimane indifferenti, senza alcun
obbligo morale. Così il
presente risulta purifiSannicola - Villa Starace
cato e il passato libero
storica, per una damnatio memoriae o dal pregiudizio e dalla retorica. Prima
per una laudatio funebris, ma per ri- di andar via, mi sono detto che non a
prendere possesso di una memoria fi- molti è nota la tomba di Achille Stanalmente pacificata, disposta al race nel cimitero di Sannicola, e forse
passato come al presente con la con- è giusto che così sia.
■
italiana, un posto giusto per dimenticare un cadavere vilipeso! Ma io, perché mi ero recato in quel cimitero?
Piano piano stavo capendo che una
parte della mia educazione passava
anche dalla tomba di Achille Starace;
che non ero lì per rievocare, per compiangere, per recriminare o per pregare, non ero lì per una rivisitazione
Il filo di Aracne maggio-giugno 2007
23
I racconti della “Vadea”
SUL FILO DELLA MEMORIA
’estate, nella casa colonica di Chicco, era anche la stagione delle grandi “visite“: ai primi di luglio arrivava lu cconzalimbi (artigiano che riparava i
recipienti di terracotta utilizzati per la salsa e per lu
sthrattu, salsa condensata di pomodoro essiccata al sole);
poi veniva il turno de lu pethrujaru (venditore ambulante
di petrolio sfuso per le provviste invernali ) ed infine si
presentava lu cconzambrelli (artigiano che riparava le stecche di ferro degli ombrelli).
Era un racconto ricco di particolari
quello col quale, qualche tempo fa,
Chicco mi descriveva la visita de lu
cconzalimbi, un ometto simpatico,
molto loquace ed abile nel suo mestiere, con folti baffi bianchi e radi
capelli brizzolati.
Portava con sé, a tracolla, una
cassetta di legno rettangolare,
lunga appena un metro e larga
circa cinquanta centimetri, dove
erano custoditi gli attrezzi di lavoro: lu thrapanaturu, na matassa de
fierru filatu, nu vasettu de cagge
Lu cconzalimbi
curata (calce viva), unu de ci- Terracotta di A. Duma
mentu e nna pinza.
Lu thrapanaturu era un arnese costruito con due assi di
legno innestate a croce greca, una piatta con al centro un
foro attraverso il quale scorreva l’altra tonda, che presentava all’estremità inferiore un rigonfiamento a forma di
trottola con una punta di ferro, mentre dalla parte superiore era legata con una cordicella ai due lati dell’asse
piatta: in questo modo una leggera pressione della mano le
imprimeva dei movimenti rotatori e a stantuffo, consentendo alla punta di ferro di penetrare nella terracotta.
Appena arrivato, si sedeva su llu pazzulu (sedile grezzo
di pietra leccese), posto accanto al limbatale (soglia della
porta d’ingresso) e pazientemente aspettava che sua
madre recuperasse na capasa (grosso recipiente panciuto a
“
Galatina - Masseria San Giuseppe
collo basso e stretto con coperchio e due manici, adatto per
conservare i fichi secchi, le friselle o i biscotti), nu limbone
(catino di grosse dimensioni con un beccuccio laterale a
cinque centimetri dalla base, usato
Si praticava
per fare lu còfinu - il bucato-), nu
il baratto,
perchè il denaro ‘rsulu e nu testu (boccale a collo
stretto con due manici e teglia
contante era
in mano a pochi tonda): tutti recipienti di terracotta
più o meno lesionati, ccantunati nella
privilegiati,
ramesa (messi da parte e custoditi
come ieri,
nella costruzione rurale, annessa
come oggi,
alla casa colonica).
come domani,
Chicco si accovacciava di fronte a
come sempre
lui e in silenzio assisteva, affascinato, alle operazioni di riparazione.
Col thrapanaturu, abilmente manovrato, venivano effettuate longitudinalmente alla lesione due serie di fori, equidistanti fra loro circa un centimetro; fra quelli posti a
cavallo della lesione faceva passare un filo di ferro che
stringeva accuratamente con la pinza; poi otturava i buchi
con calce viva ed infine intonacava la lesione, solo dall’esterno, con uno strato sottile di cemento.
Alla fine come compenso, per tacita intesa con sua
madre, riceveva na francata (manciata) di legumi - cìciari,
pasuli, fave, pisieddhri - (ceci, fagioli, fave, piselli), appena
ventulati (separati controvento dalle scorie leggere) cu llu
sciàtacu (setaccio) e ancora stesi al sole su sacchi di juta,
perché, ben secchi e cucìvuli (di facile cottura), non sviluppassero d’inverno la sgradita presenza del mamone (insetto
parassita dei legumi).
Verso la fine d’agosto faceva visita lu pethrujaru con una
lattina di petrolio legata sul portabagagli della sua vecchia
bicicletta e con una borsetta di cuoio bisunta, appesa alla
canna e contenente delle lunghe e candide fettucce di cotone (le carzettelle); dopo la provvista, il rituale del compenso era quasi lo stesso con l’alternativa a volte, data la
stagione, di qualche manescia de foje (fascio di verdura fresca).
“
L
di Pippi Onesimo
Foto di Giovanni Onesimo
M O M E N T I D I S VA G O
Il filo di Aracne maggio-giugno 2007
25
Foto di Giovanni Onesimo
Foto di Giovanni Onesimo
Si praticava, inconsapevolmente, l’antico, nobile, leale e cuscinetti d’acciaio rinvenuti fra i rottami d’aereo abbanonesto sistema del baratto, che consentiva alla povera gente donati nei pressi di Torrepinta (Fido usava, per bere acqua,
un elmetto tedesco, lì rinvenuto, capodi sopravvivere, non dispovolto come bacinella).
nendo di denaro contante,
Le gare si svolgevano, a rotta di
che era prevalentemente
collo, fra il passaggio a livello e la sanelle mani di pochi privileluta de la còrnula sulla strada per Lecce
giati, come ancora oggi,
(il primo dosso sul quale una volta
come ieri, come domani,
svettava un albero di carrube).
come sempre.
Oppure il passatempo ripiegava sul
Settembre era invece il
volo di variopinti aquiloni (‘e cumete)
mese de lu cconzambrelli, per
con tanto di coda e orecchini, costruiti
il quale, poveretto, non c’era
con cannette, filo di spago, colla di faquasi mai lavoro (la famiglia
rina e fogli di giornali, perché la carta
di Chicco possedeva solo
colorata de lu Tore Marianu, (nota tipodue ombrelli); ma alla fine
grafia con annessa cartoleria dei F.lli
anche lui non andava via a
Mariano, che fino a pochi anni fa svolmani vuote… sua madre era
“Lu sciàtacu”, un tipo di setaccio
geva la sua attività sotta lla Gilli -Arco
fatta così!
Ma l’estate consentiva, anche se di rado, qualche mo- Andriani-, dove c’era stata la sede della istituzione fascista
mento di svago; per un paio di domeniche poteva andare della G.I.L.) non era accessibile alle tasche di Chicco e dei
al mare con i suoi genitori a Santa Maria al Bagno (località suoi amici.
Gli aquiloni volavano, portando in alto pensieri e sogni
balneare - Frazione di Nardò).
Consumava le altre in interminabili partite di pallone segreti con alterne capriole ed improvvise piroette, in un
sull’aia della Masseria di San Giuseppe, o a rretu a lli Ban- cielo terso, trasparente e… senza ostacoli, come è ancora
chini sullu frìcciu (sul piazzale, allora senza aiuole ed in oggi… ma non si sa fino a quando, perché anche da noi
”l’ansiosa, maniacale straterra battuta ricoperto di breccia, della Chiesa di San Biavaganza della pala eolica”
gio), oppure sull’incrocio dietro il Cavallino Bianco, vicino
comincia piano piano ad
alle case degli impiegati (Via Grassi, angolo Via Trieste).
espandersi come un virus
Ma qui difficilmente Chicco e i suoi amici riuscivano a
fra gli amministratori coportare a termine una partita, perché, sistematicamente, lu
munali, i quali stentano a
Dellagiorgia (una guardia municipale, certamente solleciconvincersi che l’energia
tata dai residenti che non riuscivano a riposare, perché le
alternativa, comunque
partite si svolgevano durante lu schiaccu), li disperdeva in
necessaria ed inevitabile,
un attimo, sequestrando il pallone.
non è solo l’eolico.
Pantaleo Albanese (lu Capucuardia), dopo una paternale
Poi ricorda che solo
blandamente minacciosa, ma comprensiva, restituiva loro il
qualche anno più tardi
pallone (senza elevare alcuna contramenzione, come simpaottenne il permesso di
ticamente scritto da una guardia in un rapporto al Comanandare al mare, di domedante), dietro promessa che sarebbero andati a giocare da
nica, con gli amici… in biqualche altra parte (ma dove?).
cicletta.
Poi li invitava, serio e pensieroso, a non dare più fastidio
L’andata era allegra,
a llu Corpu de Cuardia, perché disponeva di poche guardie,
piacevole e divertente; il
le quali avevano tante cose più serie e più importanti cui
soggiorno al mare lo era
pensare (è certo che cambiano i tempi, cambiano gli uoLa capasa
altrettanto: al ritorno comini, cambiano gli amministratori…
L’ansiosa
ma i problemi per la Polizia Munici- minciavano i problemi: prima di tutto la fame (un panino,
stravaganza
pale rimangono e sono sempre gli anche se imbottito di mortadella, non era sufficiente per
della
tutto il giorno), poi la salita di Santa Maria (buona parte si
stessi!).
pala eolica
Le partite più intense, però, erano percorreva a piedi).
si espande
Quando poi, verso l’imbrunire, una volta superata la citquelle disputate sulla Masseria, percome un virus
ché, quasi sempre, poteva giocare tadina di Galatone, imboccavano la strada per Galatina,
fra gli
scalzo (raramente con qualche paio subito “se rrendìanu” (entravano abusivamente) in qualche
amministratori di scarpette di ginnastica Superga, vigneto con alberi di fico, per ritemprare la pancia e lo…
comunali
quelle comprate per le lezioni di spirito, mentre un cane inviperito ringhiava senza tregua
Educazione fisica e calzate, di nasco- insieme al suo padrone, che, brandendo un bastone, li costo, solo per le partite importanti) e perché c’era sempre stringeva alla fuga.
Una volta a casa, dopo una necessaria, sbrigativa sciacdisponibile un pallone di cuoio, che cortesemente mettevano a disposizione i figli del padrone, a condizione che quata nel pilacci (recipiente di pietra leccese riempito di
giocassero prima loro e poi, se c’era posto in squadra, acqua, riscaldata dal sole) ed una cena veloce, quasi al
buio, andava subito a letto, perché già incombeva l’inanche gli altri.
Quando mancava il pallone, insieme con gli amici faceva cubo della sveglia, prima dell’alba, per la raccolta del talunghe corse con pattini, costruiti con due assi di legno bacco.
snodabili per mezzo di una cerniera di ferro e con robusti
Ma Chicco sognava solo il mare.
■
“
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Il filo di Aracne maggio-giugno 2007
MOSTRE E RASSEGNE
In pochi anni l’associazione A&A Art&Ars Gallery ha realizzato interessanti mostre
L’arte contemporanea a Galatina
A Palazzo Micheli, recentemente ristrutturato, sono state proposte le opere di giovani
artisti emergenti come Pasquale Pitardi, Adalgisa Romano, Massimiliano Manieri,
Fabrizio Fontana. Il tutto sotto l’attenta regia di Luigi Rigliaco ed Angela Serafino
P
di Mauro De Sica.
arlare di arte contemporanea in una piccola cittadina testi a cura di M. Ampolo e M. Manieri. Un estratto di quedel Sud Italia è compito arduo e laborioso che, oltre sto lavoro è presentato a Milano, alcuni mesi più tardi,
nella galleria “Spazio Lattuada”.
all’impegno, richiede soprattutto coraggio.
A giugno del 2006, Luigi Rigliaco e Antonio Gorgoni deIn due anni l’associazione culturale A&A Art&Ars Gallery di Galatina, nata per diffondere e promuovere l’arte cidono di affidare ad Angela Serafino la cura della mostra
contemporanea è diventata un punto di riferimento per dedicata ad Ezechiele Leandro, celebre artista di San Cesatutti gli appassionati del Salento (che non sono pochi). Gra- rio di Lecce scomparso nel 1981, al quale viene dedicato il
zie ad alcune iniziative d’avanguardia e ad ampio respiro, primo vero catalogo ragionato, realizzato con il contributo
proponendo giovani artisti che utilizzano tecniche innovative ed affrontano temi importanti ed attuali, lo
staff organizzativo di A&A si è guadagnato la stima degli artisti, riuscendo a mettersi in luce presso
curatori, critici, galleristi ed istituzioni.
La maggior parte delle iniziative si
svolgono all’interno della sede dell’associazione in Via Orsini, 10 e
negli ampi spazi di Palazzo Micheli,
gentilmente messo a disposizione da
Luigi Micheli e Clemy Gorgoni, proprietari dell’immobile.
Tutto ha inizio con la mostra curata
da Luigi Rigliaco, dedicata a Pasquale Pitardi, artista di Galatina che
da anni lavora sulle varie possibilità
che offre il colore, proponendo opere
di grandi dimensioni che hanno letteralmente “invaso” la piccola galleria. Lo stesso autore ha poi utilizzato
i muri di Palazzo Micheli per trasformarli in meravigliose installazioni.
In seguito, sempre a cura di Luigi
Rigliaco, l’artista-designer Adalgisa
Romano ha proposto la sua prima
mostra intitolata ART&DESIGN. In
quest’occasione nasce la collaborazione con due artisti che accompagneranno tutto il percorso creativo di
Adalgisa Romano. Si tratta di Marta
Ampolo e Massimiliano Manieri, con
i quali, grazie all’ausilio del filmaker
Andrea Federico, viene realizzata
una performance dal vivo, arricchita
dalla presentazione di un video intiAdalgisa Romano - Life box
tolato “Cercai di divenir tronco”, con
Il filo di Aracne maggio-giugno 2007
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dell’istituto di credito CREDEM. Per
la prima volta vengono aperte al pubblico le sale poste a piano terra di Palazzo Micheli. Questa memorabile
mostra, inaugurata dal sindaco Sandra Antonica e visitata da centinaia
di persone, mette in risalto la professionalità degli organizzatori, che da
questo momento trovano maggiori
stimoli per organizzare altre iniziative.
Pochi mesi più tardi, dopo il doveroso omaggio all’artista scomparso,
lo staff di A&A, si rimette in gioco ritornando a proporre arte contemporanea. Con la mostra IN/S di
Adalgisa Romano, a cura di Angela
Serafino, si evidenziano le sue originali e geniali capacità artistiche. Lo
Galatina - Palazzo Micheli - Sede delle Mostre
spettatore può ammirare alcuni dei
suoi lavori fotografici ed un video
della Pinacoteca, in occasione del Festival Arte di Parabita.
realizzato con l’ausilio dei compagni di viaggio, Marta La prima esposizione “Interno Notte - Esterno Notte, l’Eco
Ampolo e Massimiliano Manieri. Il supporto tecnico è cu- delle Veneri” mette in evidenza le capacità creative di un
rato da Mario Rugge per la musica, Andrea Federico per le gruppo di artisti, tra i quali Adalgisa Romano, Raffaele
riprese ed il montaggio, grazie anche all’ausilio di Marino Puce, Giuseppe Rizzo, Claudio Capone e Enza Mastria.
Tundo in veste di assistente.
L’anno seguente sono selezionati quattro giovani artisti saLa serietà e la competenza dell’Associazione è notata lentini (Marzia Quarta, Antongiuse Sanasi, Alessandra
dall’Amministrazione del comune di Parabita, che com- Abruzzese e Fabrizio Fontana) che prendono parte a “Comissiona per due anni consecutivi, una mostra all’interno struzione Corale - pratiche di Arte Contemporanea”, entrambe
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Serafini
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Il filo di Aracne maggio-giugno 2007
“viaggiatori” ed una serie di stimoli che si trasformeranno ben presto in nuove idee e nuovi
progetti.
Ultimo evento inaugurato, mentre andiamo
in stampa, è la mostra “Jioka come puoi“ di Fabrizio Fontana a cura di Angela Serafino, presentata all’interno di Palazzo Micheli . Durante
il vernissage i 150 invitati hanno potuto assistere ad una performance dello stesso Fontana
e di Adalgisa Romano.
Per contattare l’associazione A&A Art&Ars
Gallery: 0836.565.009 e-mail: [email protected]; sito internet: www.aeagallery.it
■
Central Park - Adalgisa Romano IN/S a New York
curate da Angela Serafino e coordinate da Luigi Rigliaco.
Nel frattempo il gruppo ormai consolidato ribattezzato
IN/S PROJECT (Adalgisa Romano, Marta Ampolo, Massimiliano Manieri, Angela Serafino, Luigi Rigliaco e Antonio Gorgoni) continua a produrre progetti e idee e decide,
nel mese di novembre 2006, di proporsi in una mostra collettiva al CVB SPACE di New York. Quest’esaltante esperienza nel cuore di Chelsea, quartiere noto agli addetti al
settore per via dell’altissima concentrazione di gallerie
d’arte tra la più rinomate al mondo (Sperone, Paula Cooper, Miller), ha lasciato una traccia indelebile nel cuore dei
Fabrizio Fontana - Candy - Tecnica mista
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EVENTI E SPETTACOLI
Serata di beneficenza a sostegno del progetto di defibrillazione precoce.
SE UN CUORE SI FERMA,
FACCIAMOLO RIPARTIRE
Secondo saggio semiserio di musica leggera e non promossa dalla Associazione Cuore
S
di Mariateresa Merico
abato 26 maggio a Galatina, nella splendida cornice
del chiostro del Palazzo della Cultura, i cittadini galatinesi, pronti ad offrire solidarietà, hanno assistito
ad uno spettacolo di musica leggera (e non) abbastanza
singolare.
Questa speciale ed originale serata è stata voluta fortemente dall’Associazione Cuore di Galatina con il proposito
di raccogliere fondi a sostegno del progetto di defibrillazione precoce sul territorio.
Infatti, come spiega il dr. Marcello Costantini, Presidente
dell’Associazione, e primario del reparto di Cardiologia
dell’Ospedale Santa Caterina Novella di Galatina, ogni
anno più di una persona su mille va incontro alla morte
improvvisa a causa di un’aritmia cardiaca, la fibrillazione
ventricolare.
A causa di quest’aritmia, il cuore smette di pompare sangue nel sistema circolatorio e, se non s’interviene entro pochissimi minuti, sopraggiunge la morte.
In molti casi la morte potrebbe essere evitata se al cuore
in fibrillazione ventricolare fosse applicata immediatamente una scarica elettrica, ciò permetterebbe al muscolo
cardiaco di riprendere a battere e di ricominciare a pompare sangue.
Generalmente, in presenza di una persona con sospetto
d’arresto cardiaco si chiama immediatamente il 118, che
costituisce sicuramente un gran progresso nell’emergenza;
a volte, però, quest’intervento non basta, perchè i tempi
d’arrivo di un’ambulanza superano i pochi istanti disponibili per salvare una vita.
Allora, che fare?
L’Associazione Cuore, composta da un gruppo di medici, infermieri, persone “laiche”, già operante sul territorio galatinese da alcuni anni, ha un suo progetto che
sicuramente aiuterebbe a ridurre i casi di morte per fibrillazione ventricolare.
Questo progetto, che ha coinvolto negli anni l’Amministrazione Comunale, la Fidelpol, la Protezione Civile, la
Polizia Municipale e altri soggetti della società civile, prevede l’organizzazione di una rete capillare d’apparecchi
portatili in grado di defibrillare un cuore in arresto cardiaco ove occorra; inoltre il progetto prevede anche la formazione di un gruppo di potenziali soccorritori in grado di
utilizzare queste apparecchiature con decisione e tempestività.
A Galatina, continua nella sua spiegazione il dott. M. Costantini, grazie al progetto si è riusciti ad ottenere cinque
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Il filo di Aracne maggio-giugno 2007
defibrillatori che sono stati assegnati a forze in grado di
“presidiare” il territorio con mezzi mobili ed è stato addestrato personale della polizia privata, della polizia municipale e della protezione civile. Tuttavia, ciò che è stato fatto
certamente non può bastare!
Bisognerebbe, infatti, dotare di defibrillatori “fissi” tutti
i luoghi molto frequentati e a “rischio” d’eventi: palestre,
supermercati, scuole, condomini, mercati, ecc. e addestrare
all’uso del defibrillatore parte del personale che lavora o
vive in questi luoghi.
Ecco il sogno dell’Associazione Cuore: porre le basi perchè gran parte della popolazione galatinese contribuisca
alla realizzazione di questo progetto e partecipi così alla
catena della sopravvivenza!
Lo scopo principale, quindi, della serata-spettacolo è
stato proprio quello di sensibilizzare la cittadinanza e invitarla a partecipare alla realizzazione di questo grande
“sogno”, dimostrando così senso civico, responsabilità e
solidarietà.
Alla serata di beneficenza sono intervenuti il Sindaco di
Galatina, dott. Sandra Antonica, l’assessore alla Cultura,
dott. Cosimo Montagna, Maria Rosaria Romano, assessore
ai Servizi Sociali, ed Enzo del Coco, consigliere comunale
delegato alla Sanità, che con i loro interventi hanno voluto
partecipare il loro sostegno alla realizzazione del progetto
e hanno dato il via alla raccolta di fondi.
Il dott. M. Costantini e il dott. G. Diurisi, primario del
Pronto Soccorso dell’Ospedale di Galatina, hanno illustrato l’importanza vitale del progetto. A sorpresa, poi, gli
operatori della Protezione Civile hanno simulato su un
manichino un intervento con il defibrillatore precoce.
Si è passati, quindi, allo spettacolo vero e proprio.
Sul palco, illuminato da luci multicolore, si sono avvicendati “speciali” artisti che hanno allietato i convenuti
con uno spettacolo musicale gradevolissimo, cimentandosi
in vari pezzi di musica leggera e non.
Le star della serata sono state: Marcello Costantino, Ilaria
Panico, il pianista M. Ippolito, i ragazzi della scuola Yamaka, diretta dal maestro Stefano Marra, e il Coro della
Basilica di Santa Caterina;
C’è stato spazio anche per la poesia, grazie a Marco Graziuso.
La manifestazione si è conclusa sulle note di “Vagabondo”, celebre canzone dei Nomadi, cantata dai membri
del comitato organizzatore della serata e con un “arrivederci al prossimo anno”.
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