C`era una volta a Roma di Francesco Giannoccaro

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C`era una volta a Roma di Francesco Giannoccaro
C’era una volta a Roma
di Francesco Giannoccaro
Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna a Roma la prima opera che incontri, nella prima sala,
rappresenta un aeroplanino di un celeste tenue incastonato come uno scarabeo egizio su di una pista
d’atterraggio arabescata. Appartiene a Renato Mambor, come da didascalia. Più in là trovi un volto
tratteggiato su carta da imballaggio. È di Cesare Tacchi. Poi, ancora, oggetti della quotidianità
variamente assemblati a firma Claudio Cintoli. E via via opere di Ceroli, Angeli, Festa ed altri ancora. In
ordine sparso, senza manifesti apparentamenti. Spoglie spaesate nel chiaroscuro di una grande stanza o
inerpicate lungo le rampe di una scala. Con tanto di silenzio attorno.
Molti di questi artisti si sono congedati dalla vita e dall’arte precocemente. Su di essi si sono
accaniti l’apprezzamento postumo di frotte di critici e la ricerca famelica dei collezionisti, attingendo
talora dagli scantinati di qualche galleria giunta al capolinea. Artisti che hanno marcato un periodo
importante dell’arte in Italia, e a Roma in particolare, a cavallo degli anni Sessanta, proprio quelli del
tanto celebrato boom economico che spesso fece bum! La Roma dei palazzinari, la cui protervia
seppelliva, insieme alle macerie dei bombardamenti, anche gli ultimi prati, con i soldi dell’America ed
altri saltati fuori chissà come.
La Capitale di quel tempo, in realtà, ci viene tramandata come un puzzle di quartieri – alcuni dei
quali in via di creazione – ciascuno con una storia autonoma al margine dell’altra Storia che riesce ad
essere provinciale, come lo sanno essere solo le grandi città. La Roma artistica, poi, è messa bene: ci
sono gruppi attivi e consolidati e presenze isolate altrettanto consolidate. C’è, inoltre, una grande
solidarietà culturale trasversale, che va dal campo delle arti visive a quello della letteratura fino al
cinema. Una stagione da ricordare, senza dubbio.
A Piazza del Popolo, in quegli anni, si riuniscono giovani artisti talentuosi, quasi tutti squattrinati.
Il punto di riferimento artistico diventa subito la galleria ‘La Tartaruga’ diretta da quell’abile talent scout
che è Plinio De Martiis; vanno poi a bighellonare al Caffè Rosati, proprio lì sotto, dove puoi trovare
anche Moravia e la Maraini. Si scambiano idee e sogni, condividono spazi di lavoro e talvolta anche le
donne. Soggiacciono a gelosie e a qualche invidia, sperimentano anche l’amicizia.
Due schieramenti, o meglio terzetti (per scelta o per aggregazione generazionale) si delineano: da
una parte Angeli, Festa, Schifano – un po’ più avanti negli anni – dall’altra Lombardo, Mambor e
Tacchi che è come dire, vista l’epoca, Sarti, Burgnich e Facchetti. Annoveriamo poi Ceroli, demiurgo di
sculture lignee, il greco naturalizzato Kounellis, Mauri ed il pugliese di grandi potenzialità, ma di breve
vita, Pino Pascali. Un’unica donna, inoltre, in un gruppo caratterizzato da evidente maschilismo:
Giosetta Fioroni. Si fa vedere in giro anche quel dandy geniale dell’arte approdato a Roma che è Cy
Twombly. Alcuni di questi giovani saranno in seguito arruolati da Fabio Sargentini che ha da poco
ereditato la galleria ‘L’Attico’ dal padre Bruno.
Le collettive si susseguono e vedono rimescolati questi artisti come carte da gioco nelle mani del
croupier. I titoli e le date sono ormai patrimonio della storia dell’arte italiana contemporanea.
C’è una sorta di piano Marshall, distinto dall’altro più noto, non richiesto ma che dopo risulterà
altrettanto gradito e che vola oltreoceano sulle ali di progetti, suggestioni, immagini. Parla un verbo
nuovo e affascina perché fautore di novità scioccanti. Una generazione di giovani artisti, da noi, ne
viene conquistata.
Accade che tra il ’61 ed il ’62, in America, una serie di mostre rivela un gruppo di artisti i cui nomi
risultano ormai arcinoti anche al grande pubblico: Warhol, Lichtenstein, Dine, Rauschenberg,
Rosenquist. Essi danno vita alla Pop Art (letteralmente arte popolare o, se credete, arte di massa). Il
terreno di confronto è rappresentato dalla civiltà consumistica che avanza come un rullo compressore
con le sue regole ed i suoi simboli e che viene trasfigurata ed enfatizzata in grandi immagini di sicuro
effetto, nelle quali il ruolo dirompente del colore amplifica la teatralità dei soggetti. Questo modo
nuovo ed originalissimo di porgersi dell’arte ha un evidente effetto magnetico proprio tra gli artisti di
Piazza del Popolo. Non dimentichiamo, tra l’altro, che Robert Rauschenberg viene consacrato in Italia
dalla Biennale di Venezia del ’65.
I dettami della Pop se da un lato trovano da noi terreno fertile, dall’altro non vengono assorbiti
acriticamente. Tutt’altro. La sensibilità dei nostri artisti fa sì che quelle immagini vengano filtrate e
umanesizzate acquisendo un garbo tutto latino come di un moderno rinascimento. Troppo forte il
richiamo del passato, troppo ingombrante la presenza della Città Eterna!
Mambor è tra i protagonisti di quei fermenti. Sembra, tuttavia, che il suo itinerario artistico
obbedisca ad un progetto già in fieri, delineato per tappe. Compresa la pausa creativa di una decina
d’anni a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta.
La sua proposta è apparentemente semplice, non regolata da macchinosità. Apparentemente.
Attinge al repertorio delle immagini comuni, delle situazioni scontate, stratificate sullo sfondo della
quotidianità. Pur tuttavia queste nascono da un lungo e talora sofferto esercizio di osservazione e di
sedimentazione di gesti, occasioni, situazioni, che trovano nell’artista il loro ermeneuta. Al centro di
questo incrocio è la figura, o meglio, quello che serve e ne rimane, depurata da qualsiasi suggestione
personale. Ciò che conta è la sagoma, il profilo, l’orlo; il vuoto all’interno o il suo pieno. E inoltre, la
proiezione dell’ombra, secca, immutabile, buona per qualsivoglia punto di osservazione. Ogni anno di
quei Sessanta è caratterizzato, nell’opera di Mambor, da un logo: se il ’61 è l’anno dei ‘segnali stradali’, il
successivo è quello ‘degli uomini statistici’ e l’altro ancora l’anno dei ‘timbri’ che lascerà il posto nel
biennio ’64/’65 ai ‘ricalchi’. Le immagini vengono attinte, come già detto, dall’immaginario comune
(ecco la lezione della Pop): segnali stradali, periodici di enigmistica ecc.
Gli omini di Mambor sono emblemi di una iconografia nuda, attonita, elementare che, passando
attraverso successive altre esperienze quali la fotografia e la scenografia, approderà, alla ripresa
dell’attività artistica negli anni Novanta, a funzioni altrettanto elementari come il guardare, il pensare, il
circolare. Con una più definita caratterizzazione della sagoma e qualche compiacimento cromatico
perfino civettuolo. È come se la figura umana abbia percorso un suo iter evolutivo che l’ha portata,
lentamente, dall’homo erectus al sapiens al moderno ed infine all’odierno.
L’iconografia di Mambor non concede nulla al privato, a differenza di quanto avveniva per le
impronte su stoffa di Tacchi, né al pubblico, come per i Gesti tipici di Lombardo. Pure tra loro è
evidente una comune attenzione verso la figura, umana o, al più, umanizzata: quelle stesse immagini che
caratterizzeranno Il clima felice degli anni sessanta, dal titolo di una collettiva commemorativa voluta da
Plinio de Martiis, tra i primi a cogliere l’aria nuova portata da questi artisti e dai loro compagni di strada,
allora poco più che ventenni.
***
Abbiamo incontrato Mambor, qui a Monopoli, in una serata ventosa, lo scorso marzo,
all’inaugurazione della sua personale presso lo ‘Studio d’Arte Fedele’. Come il padrone di casa sia
approdato al nostro artista non è dato sapere; sappiamo che sono intercorsi incontri ed inviti reciproci,
ma la cosa non ci è chiara. Forse a Biagio – Fedele – piace tutto ciò che si muove nella capitale, senza
operare distinguo generazionali. Intanto gli va dato merito di aver tentato un recupero di uno scorcio
del centro storico tra i più degradati del barese. Eh sì, perché, oltre alla Galleria, Biagio ha risuscitato
anche l’attiguo e vecchio Bar Venezia condannato, com’era, all’oblio.
Ma per noi la serata aveva ben altro significato. Ci riportava alle chiacchierate di qualche tempo fa
col vecchio Francesco Pascali, orfano inconsolabile del figlio Pino, ed alla più recente con Cesare
Tacchi, attonito ed incredulo di fronte ad un suo vecchio quadro a casa nostra. Ci evocava, come in un
film, le tante mostre, le tante letture, non ultima quella della fidanzata di Mambor del tempo, Paola
Pitagora, autrice dell’efficace e suggestivo Fiato d’artista, un diario di quegli anni. Ci faceva sognare,
soprattutto, su quel fervore eccezionale, sulla forza creativa della giovinezza.
Vedevamo i visitatori interrogarsi su quei volti vuoti, su quelle sagome smagate mentre l’artista si
teneva in disparte, smarrito e poco partecipe. Avremmo voluto allora condurlo a salutare i suoi amici
lungo le pareti della nostra casa un po’ come a Piazza del Popolo, come un tempo, ma la serata era
troppo affollata e lui troppo stanco.
Goffredo Parise è stato assiduo frequentatore ed arguto osservatore degli artisti romani per via del
suo lungo sodalizio affettivo con Giosetta Fioroni. Nell’appendice al suo romanzo uscito postumo,
L’odore del sangue, così si congeda da quei giorni e, forse, dalla vita: «ci si trovava tutti proprio a Piazza
del Popolo dove, sopra Rosati, c’era una galleria d’arte, la più viva e la più giovane di Roma. Furono,
quello che si dice, i migliori anni della nostra vita. Ora, a Piazza del Popolo, a Via del Babuino, a Piazza
di Spagna, avvicinandomi allo studio vedevo e sentivo scomparso del tutto non soltanto quel mondo e
perfino quelle persone, come se fossero morte, e sostituite immediatamente da individui di altra specie».
C’era una volta a Roma, e adesso non c’è più.
NOTA. L’elenco delle mostre di Renato Mambor, personali o collettive, è sconfinato. Citarne solo
alcune, significherebbe far torto alle altre. Per una loro consultazione si rimanda pertanto all’altrettanto
vasta bibliografia sull’artista o al canale informatico.