il cretino biondo
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IL CRETINO BIONDO Quella del Cretino Biondo è una storia che, data la natura del protagonista, già ai tempi di Hammurabi e del suo famoso codice era di pubblico dominio. Poi, col passare dei secoli e dei millenni, le scenografie e le ambientazioni cambiarono fino ad arrivare ai giorni nostri, ma il contenuto restò sempre lo stesso. Del resto, a chiunque di noi capita quasi quotidianamente di imbattersi in un cretino. La variabile sta nel biondo, tratto tipicamente nordico e che assai restringe l’infinito insieme dei cretini. Il Cretino Biondo in questione, quello della nostra storia, abitava in una zona imprecisata del Nord Italia, scegliete voi quale, qualsiasi è perfetta come ambientazione. Si parla di quel tratto di Italia che alle elementari, ora scuola primaria come le primary school americane, si suole imparare con il nome di Pianura Padana e che, crescendo con l’età, si abbrevia in Padania. Ma anche di quelle zone montane e pedemontane che segnano il confine tra pianura e Alpi. Insomma, geograficamente parlando, si tratta di quell’ampia zona italiana che dal fiume Po arriva fino al confine con Svizzera e Austria, quell’ampia zona che, afosa d’estate, nebbiosa in autunno e gelida d’inverno, di certo all’estero non ci invidiano. Ma torniamo al nostro Cretino Biondo, il nostro simpatico eroe. Come molti di voi avranno già intuito, sulla sua testa crescevano folti capelli biondi, “gialli come il grano” gli ripeteva fin da piccolo sua madre. Molto fiero della sua capigliatura, il cretino biondo la ostentava con vanesia arroganza. E arrogante era anche il suo modo di vestire, di parlare, di porsi con gli altri, insomma, tutti lo detestavano, pur senza mai manifestarlo apertamente. Ma da dove proveniva tutta questa arroganza? Probabilmente la principale causa era da ricercarsi nella sua educazione. Il padre imprenditore e la madre fervente cattolica gli avevano insegnato due cose semplicissime: il primo che con il potere del denaro tutto e tutti erano a sua completa disposizione; la seconda che qualsiasi azione, virtuosa o spregevole, avesse compiuto, il perdono prima o poi l’avrebbe raggiunto, da secoli cattolicesimo e indulgenza camminavano a braccetto. Date le premesse era quindi inevitabile che quel bambino dai capelli gialli, dagli occhi azzurri e dal sorriso beato si evolvesse definitivamente in Cretino Biondo. Fu un processo costante e devastante, col passare degli anni l’antipatia nei suoi confronti cresceva a dismisura. Allo stesso tempo, però, anche la sua ricchezza cresceva a dismisura, e con essa il potere, impedendogli quindi di conoscere la parola umiltà. Molti di voi ora si staranno domandando perché, per descrivere una persona tanto mediocre, io non mi sia limitato a trascrivere il suo curriculum vitae. Molto semplice, il suo C.V. non fu mai scritto. Diplomato a fatica come geometra alla scuola paritaria statale, quelle dove si paga all’inizio del mese per ottenere prima insegnamento durante l’anno, poi un “happy end” estivo, non gli passò mai per l’anticamera del cervello l’università, il suo pensiero era fisso sull’azienda fondata da papà. Il quale fu ben concorde con la sua scelta, averlo sotto controllo impediva lo spargimento di guai molesti di cui era capace il figlio. Ora, dieci anni dopo l’avvento del Cretino Biondo, l’azienda era allo stesso livello del suo arrivo. Il padre lavorava, trovava e liquidava gli affari mentre il figlio guardava e “imparava”. E il sabato mattina, nell’ufficio dell’impresa, era reperibile solo l’anziano imprenditore. Poi, a venticinque anni, il Cretino Biondo fece quella che lui stesso definì una scelta coraggiosa, ovvero scendere in politica. Date le sue caratteristiche caratteriali, l’ambiente che lo circondava e il suo livello di istruzione è quasi un insulto alla vostra intelligenza di lettori chiedervi di indovinare a quale partito si iscrisse. Da quel giorno il fazzoletto verde al taschino e l’arrogante fierezza della propria ignoranza non lo abbandonarono più, anzi, divennero qualità che lo portarono dapprima in consiglio comunale, poi provinciale fino al grande salto, il parlamento. Qui si distinse come coautore della legge contro l’immigrazione clandestina, si batté fino alla morte, chiaramente in modo figurato, affinché venisse riconosciuto nel codice penale, da lui simpaticamente ribattezzato con gli amici “codice del cazzo”, il reato di immigrazione clandestina. La sua ascesa pareva inarrestabile e tutti erano ormai convinti che grandi traguardi istituzionali lo attendessero. Fino alla tragica serata di domenica 19 agosto 2009. Guidava la sua Mercedes cabriolet 2200 HPRCSP full optional sulla provinciale che lo avrebbe riportato a casa, nella villetta costruita dal babbo accanto alla residenza paterna e in cui lui e la consorte passavano dolci momenti di vita coniugale e che di lì a qualche mese avrebbe anche conosciuto i piedini della figlia della coppia. Ma lui, felicemente sposato da ormai cinque anni, mai era riuscito a rinunciare alle giovanili abitudini e alle novità sessuali del suo bordello preferito, un appartamento del capoluogo gestito da una cinese, fantastica nel garantire anonimato ai clienti, ragazze bellissime sempre nuove e prezzi contenuti. Così, anche quella domenica, il Cretino Biondo al mattino si era recato a messa con la moglie incinta nella chiesa del paese, successivamente aveva pranzato in famiglia e per finire si era gustato, seduto sul divano, un per lui avvincente gran premio di F.1. Poi alle 17:00 era uscito, “A mangiare e guardare il posticipo di campionato con i colleghi” aveva spiegato baciando la moglie sulle labbra rifatte dal più rinomato e costoso, ma non per questo migliore, chirurgo estetico della zona. Le successive quattro ore erano state emozionanti come le montagne russe che aveva provato a Disneyworld. Prima una giovane cinesina poi un’esperta rumena, in realtà veniva dal Montenegro ma per lui chiunque avesse una leggera influenza di accento dell’est era rumeno, gli avevano fatto completamente dimenticare i mali della sua vita. E questo ricordava mentre, a 130 Km/h, affrontava l’asfalto reso viscido dal temporale che fino a un’ora prima si era scatenato sulla zona, rendendo con il ticchettio della pioggia sulle finestre ancora più romantico e poetico il suo doppio incontro amoroso. Quella strada alberata l’aveva percorsa circa un milione di volte ed ora, con la sicurezza e la spavalderia di un vero uomo che aveva fatto il proprio dovere, decise di osare. Le mani strette sul volante, lo sguardo fisso sulla pista, accelerò fino ai 150 Km/h. Nella sua testa andarono formandosi varie immagini, lui con la tuta rossa della Ferrari che trionfava, sorpasso dopo sorpasso, gran premio dopo gran premio, la stampa che si complimentava con lui, “Finalmente un grande pilota italiano” osannavano. Lui non poteva vedersi, ma un enorme sorriso gli solcava il volto a quelle immagini, si sentiva quello che era veramente, più forte degli altri. Era ormai arrivato a 160 Km/h e la sua sicurezza gli aveva fatto dimenticare che lì, tra quelle colline, molti animali si trovano a lottare per la sopravvivenza da generazioni, da molto prima della sua comparsa sulla terra. E così, inevitabilmente, all’uscita di una curva a sinistra un tasso, che aveva deciso che proprio in quel punto si trovavano le tassiche strisce pedonali, gli si parò davanti in tutti i suoi 17 kg. Prima che al cervello del Cretino Biondo arrivasse l’informazione di sicurezza sull’asfalto bagnato, l’istinto aveva già operato nel peggiore dei modi ordinando alla sua gamba destra di agire sul pedale del freno. L’ultimo pensiero del tasso fu se quell’enorme macchia nera che girava vorticosamente su sé stessa e che lo stava per travolgere fosse un’astronave di tassi alieni precipitata in mezzo alla strada, poi la portiera del passeggero lo colpì in pieno, scaraventandolo a una cinquantina di metri di distanza. Il Mercedes, nel frattempo, dopo cinque testacoda era miracolosamente tornato in carreggiata, ma un’altra curva attendeva quel bolide lanciato ora a 110 Km/h. Che fossero troppi, che a quella velocità non sarebbe riuscito a curvare, il Cretino Biondo lo capì immediatamente. L’ultimo pensiero del Cretino Biondo prima di uscire di strada, di saltare un fosso, di percorrere vari metri di boschetto e schiantarsi su un pioppo, fu che non aveva messo la cintura. Era una sua consuetudine, se anche gli sbirri lo fermavano gli bastava esibire il documento con nome e cognome e quelli lo lasciavano andare tra mille congratulazioni per il suo lavoro istituzionale. Quanto tempo dopo si svegliò non sapeva dirlo nemmeno lui. Un buio fitto lo circondava. Non riusciva a muoversi, la spalla destra era bloccata dal sedile del passeggero mentre la fiancata con la sua portiera gli bloccava quella sinistra. Poteva muovere solo la mano destra. Un dolore intensissimo gli trapanava la gamba destra. Del liquido sembrava colargli dalla coscia. Con la mano che riusciva a muovere tentò di toccare la ferita. “Sangue!” immaginò con ribrezzo e timore. Anche il labbro era umido e un passaggio di lingua confermò che il suo viso era insanguinato. A quel punto il dolore alla gamba divenne quasi insopportabile. Urlò. La sua voce che squarciava l’aria circostante lo fece accorgere che nulla funzionava nella sua macchina, nessuna luce era accesa. Di conseguenza calavano sensibilmente le probabilità di essere notato e soccorso da un automobilista di passaggio. Qualche lacrima sgorgò dai suoi occhi. Immobile, si sentiva le forze venire meno, secondo dopo secondo. “Non voglio morire” fu la sua disperata invocazione lì, incastrato in quell’abitacolo. Poi una luce rischiarò lo specchietto retrovisore centrale ancora miracolosamente integro, e con esso anche le sue speranze di salvezza. Gli occhi fissi sull’accessorio, invocò la solidarietà umana a sua salvatrice. Man mano che le luci si ingrandivano sullo specchio, man mano la sua speranza aumentava. Fino a quando le due palle di luce, al massimo del loro splendore, presero una strana traiettoria verso destra, affievolendosi fino a scomparire. Non l’avevano visto. Era sempre più solo e con sempre meno sangue in corpo, la ferita alla coscia aveva leso l’arteria femorale abbastanza da dissanguarlo in un’ora. “Sono sicuro che succederà – si lamentava il Cretino Biondo – morirò qui, dimenticato e solo. Io, che tanto ho dato a questa regione e tanto ancora potrei fare, verrò ucciso dal menefreghismo, dalla mancanza di solidarietà e dall’egoismo di cui è permeata questa terra”. E mentre il Cretino Biondo singhiozzava blaterando accuse infondate, a due km di distanza dall’incidente un vecchio fiorino bianco marciava, proprio nella sua direzione, a 60 Km/h, limite massimo concesso in quel tratto di strada. I due conducenti, due cugini immigrati irregolari del Bangladesh, non avevano alcuna intenzione di essere fermati da qualche pattuglia, un semplice controllo avrebbe rovinato loro la vita. Erano stanchi per la giornata di lavoro e loro unica preoccupazione era tornare a casa per farsi una doccia. D’estate potevano lavarsi di più, usando l’acqua fredda non consumavano l’elettricità del boiler, cosa che faceva infuriare il padrone di casa. Il quale, un burbero qualsiasi del luogo, aveva affittato a quei dieci immigrati, tanti erano i membri delle due famiglie, un miniappartamento dove tre italiani sarebbero venuti alle mani dopo neanche cinque giorni di convivenza. Ma per loro era perfetto, affitto basso e abbastanza fuori mano da non dare troppo nell’occhio. Ci abitavano da oltre un anno, ma con l’arrivo di altri due bambini, uno per ciascuno dei cugini, sarebbero stati costretti ad un faticoso trasloco. Anche per il padrone di casa era perfetto. L’abitabilità di quel mini era per due persone, così aveva deciso di fare tutto a nero, niente contratto e niente tasse. Un’ottima fonte di reddito per un degno abitante del luogo. Una volta, un paio di mesi dopo l’inizio della loro “collaborazione”, in estate, si era recato dai cugini per controllare che non facessero troppi danni, lui li conosceva quelli lì, gli dài una mano e si prendono il braccio. Per non parlare del rispetto, non ne avevano per loro, bastava guardare come vivevano, come si poteva pretendere che ne avessero per le cose? Si era raccomandato la cura per la cucina, dei serramenti nuovi, di non usare troppa elettricità sennò un controllo poteva smascherarli. Si lamentò che il divano, quello dove dormivano tre dei cinque bambini, fosse quasi sfondato. Poi intascò l’affitto, e fu solo in quel momento che i due cugini notarono lo stravagante fazzoletto verde contenuto nel taschino della camicia a righe blu verticali, con le maniche corte e le ascelle pezzate. Solo qualche tempo dopo avrebbero conosciuto appieno il significato di quel simbolo, “paura del diverso”. Ora, quella domenica sera, stavano proprio tornando al loro miniappartamento. La stanchezza li avvolgeva e quasi non parlavano. Il cugino che guidava, e che noi chiameremo autista per distinguerlo dall’altro cugino, teneva il braccio sul finestrino completamente abbassato, il gomito fuori. Il pomeriggio era stato afoso e ora l’aria fresca si rivelava un toccasana. In più l’aria che circolava lo aiutava a sopportare il fumo della sigaretta che il cugino aspirava con grande piacere. Non poteva impedirgli di fumare, quel fiorino era di entrambi. Diede un’occhiata alle sue spalle, al carico. I bidoni di pittura bianca e gialla non si muovevano e l’indomani avrebbero finalmente finito il lavoro. Quella domenica mattina, alle cinque, si erano alzati, lavati, vestiti e partiti per V., un paese a duecento km da casa loro. Un ricco imprenditore (era il maggior importatore di W.C. chimici, quelli di plastica che tutti noi usiamo nelle manifestazioni pubbliche o ai concerti) aveva bisogno di una tinteggiatura alla casa. Qualcuno dei suoi amici, tutti più o meno legati al fazzoletto verde, gli avevano segnalato il nome di quei due cugini, “Sono bravi e costano poco” – gli avevano spiegato. A lui, persona semplice, non andava a genio che due arabi, per lui chiunque parlasse una lingua diversa e avesse la pelle leggermente più scura della sua era arabo, gli gironzolassero in giro per casa. Ma quando il cugino autista gli presentò il preventivo, il suo conto in banca e il portafogli soprassederono immediatamente su nazionalità, colore della pelle e coerenza, e il lavoro venne affidato ai due. Così, mentre guidava rispettoso dei limiti, il cugino autista rifletteva. Ora stavano meglio che in Bangladesh, avevano una casa, cibo, cure mediche all’occorrenza, supermercati per qualsiasi esigenza. In cambio, però, avevano dovuto sacrificare la libertà. Si chiedeva se ne valeva la pena di barattare la libertà per la sopravvivenza. Già, perché loro due, e si voltò a guardare il cugino, lo sguardo fisso su un punto fuori dal finestrino e la sigaretta fra le labbra, in qualità di immigrati irregolari erano penalmente passibili di arresto. Un moto incontrollabile di odio cominciò a salirgli dallo stomaco, fino a fermarsi all’esofago e trasformarsi in lacrime di rabbia. - A cosa stai pensando? – domandò improvvisamente il cugino fumatore. - A quanto faccia schifo certa gente. Noi, io e te intendo, ora guidiamo su questa stradina di campagna, rispettiamo i limiti, impieghiamo due ore in più per tornare a casa, il tutto per evitare di incappare in qualche pattuglia. Eppure abbiamo lavorato dodici ore anche oggi, di domenica, il nostro animo dovrebbe essere rilassato e gratificato per aver compiuto il proprio dovere. E invece cos’abbiamo in cambio? Stanchezza, timore e la consapevolezza che domani sarà uguale ad oggi, sveglia alle cinque, duecento km, a lavorare presso gente che ci disprezza ma a cui facciamo comodo per risparmiare, che costruisce la propria fortuna politica insultandoci e giocando con l’ignorante paura del diverso. Come se dalle otto di mattina fino alle otto di sera il nostro status fosse regolare, salvo poi, nelle successive dodici ore, trasformarci in sanguinari delinquenti. - A pensarci bene loro ci guadagnano il doppio – rifletté il cugino fumatore – da un lato, sparando a zero contro di noi, noi immigrati intendo, guadagnano i voti ignoranti degli italiani che non si soffermano a ragionare sulla portata di certe affermazioni, dall’altro risparmiano sui lavori, sulla manodopera. Noi irregolari non possiamo permetterci la Partita Iva, non possiamo fatturare e così tutto al nero, per loro è una manna dal cielo. Finché ci manterranno al rango di schiavi non rappresenteremo mai un problema. Come dici tu, fino alle otto di sera andiamo a genio, poi dovremmo sparire per lasciare spazio solo a loro, alle loro donne capricciose e alle fiammanti e inutili fuoriserie. - Mi chiedevo, in conclusione, se è giusto sacrificare la nostra libertà per il bene delle nostre famiglie. - La famiglia è l’unica cosa che possediamo qui. Ma dobbiamo mantenere vivo l’odio dentro di noi, un giorno sarà necessario per la vendetta. Se fossero buona gente non avrei nulla contro di loro, ma la loro arroganza, la loro supponenza, la loro prepotenza, tutto ciò un giorno sarà punito. Vedrai, cugino, ci vendicheremo. Sai che soddisfazione? Ogni giorno ci penso, come credi possa trovare la forza per andare avanti, per sopportare? - Farsi trascinare dall’odio è sbagliato. - Non lo voglio io, lo vogliono loro. Chiedendo rispetto non mi sembra di chiedere troppo. Guardaci – disse allargando enfaticamente le braccia – viviamo in quella che gli autoctoni definiscono con orgoglio “terra di lavoratori”. E come tali viviamo. Dodici ore al giorno con i rulli in mano, anche di domenica, al primo giorno libero ci fiondiamo al centro commerciale per fare spese e spendere. Abbiamo la loro stessa vita, onoriamo la loro stessa terra, e ci trattano da diversi. Ma quando li facciamo risparmiare, quando li avvantaggiamo, ecco che non dicono più nulla, smettono di lamentarsi, si dimenticano la diversità. Eh no, non ci sto, cugino! Dovranno temerci, caro mio, fantastico sempre sulle loro facce quando ci vedranno, carichi dell’odio che loro stessi hanno alimentato, avanzare contro le loro case e le loro città per fargliela pagare. - Non farti trascinare dall’odio, cugino. - Non puoi dirmi che devo fare. - Dobbiamo avere pazienza, le cose si risolveranno, ne sono sicuro. Dobbiamo solo fare leva sui sentimenti delle persone più solidali, quelle che… Ma non finì la frase, il cugino fumatore lo zittì con un deciso gesto della mano. - Rallenta, hai sentito? - No, stavo parlan… - Sssh. Guardati intorno. Anzi, accosta e ascolta, ho sentito qualcosa. Ci volle meno di un minuto. I sensi dei due cugini, sopiti da anni di vita civilmente europea, avevano perso reattività, col passare degli anni l’inutilizzo li aveva costretti nella soffitta cerebrale. Ma in quel momento, l’auto spenta sul ciglio della strada, riemergevano in tutto il loro splendore. Il cugino autista udì un rumore rauco, una voce. - Avevi ragione – disse – di là. - L’ho visto – annunciò l’altro. Con gli occhi già abituati alla totale oscurità del bosco presero a dirigersi verso quella che fino a qualche minuto prima doveva essere un’auto. Era, quella, la Mercedes del Cretino Biondo. Il quale, ora anche pallido oltre che biondo, aveva deciso di usare le ultime forze per gridare aiuto e chiamare soccorso. Pareva aver funzionato. Un auto di passaggio, dalla sagoma sullo specchietto gli sembrava un furgoncino, aveva prima rallentato per poi accostare, e i due occupanti ne erano scesi. Aveva urlato di nuovo, il cuore in tumulto, e i due, udita la disperata invocazione, si erano mossi velocemente nella sua direzione. “Dio, ti ringrazio” era stata, già dimentico della solidarietà tanto invocata in precedenza, la sua lode all’Altissimo. Ma un groppo di sorpresa e timore gli avvinghiò le già messe male viscere quando i due cugini, nei pressi dell’auto, non poterono trattenere un’espressione, ovviamente in lingua originale bengalese, di meraviglia e disgusto alla vista della macchina accartocciata e del viso insanguinato del suo occupante. “Oddio sono arabi!” pensò nella sua sconfinata ignoranza il Cretino Biondo. Per lui gli stranieri si dividevano in due categorie: quella dei negri, facilmente riconoscibile, e gli arabi, ovvero tutti coloro che non rientravano nella prima categoria. Questi qui, rifletteva il Cretino Biondo, dovevano appartenere alla seconda categoria. - Stia tranquillo – lo esortavano intanto i due, in italiano. - Chiamate la polizia, aiuto, vi prego – riuscì a dire sottovoce il ferito. A quelle parole i due cugini si bloccarono. Erano scesi dalla macchina mossi dall’istinto, ma ora quelle parole li riportavano alla realtà. Se avessero chiamato la polizia avrebbero sì salvato una vita, ma la loro sarebbe rimasta fottuta. Che fare? Quell’attimo di silenzio fu sufficiente al Cretino Biondo per intuire il motivo della perplessità dei due. - Non vi denuncerò, vi prego, chiamate qualcuno. - Dobbiamo farlo – disse il cugino autista estraendo il cellulare. - Sei impazzito? – lo bloccò l’altro – Sarà la nostra fine. Dammi qua. E col cellulare in mano fece un po’ di luce all’interno dell’abitacolo, poi sul viso del Cretino Biondo. Che riprese ad implorare: - Vi prego, sto morendo, chiamate qualcuno. Poi, improvvisamente, si bloccò. Il tipo con il telefono in mano non spostava la luce dal suo viso, anzi, la avvicinava sempre più, e, notò il Cretino Biondo, sulla sua faccia di arabo andava comparendo un soddisfattissimo sorriso. Capì immediatamente. - L’hai riconosciuto? – domandò nel frattempo il cugino fumatore al cugino autista – hai visto chi è? È la risposta ai nostri crucci di prima. Il cugino autista si fece sotto e con la luce non ebbe difficoltà a riconoscere il tipo che l’altro giorno, al telegiornale, aveva fatto piangere i suoi bambini asserendo che per i figli degli immigrati le vacanze estive risultavano dannose perché erano liberi di andare a rubare tutto il giorno. - E ora che facciamo? – domandò allarmato. - Lo lasciamo qui, cazzi suoi – fu la lapidaria risposta del cugino che, nervoso, aveva acceso una sigaretta. - No! Non potete fare questo. - Proprio tu lo dici – esclamò in una boccata di fumo il ragazzo – tu che, se noi ci ammaliamo, vorresti che il medico facesse la spia, denunciandoci. - Siamo esseri umani, è nostro dovere aiutarci. A quelle parole anche il cugino autista ebbe un conato d’odio. - Meriteresti di restare qui, forse potresti imparare il significato della parola solidarietà. - Se lo aiutiamo – disse il fumatore appoggiando una mano sul braccio del cugino – non solo ci denuncerà, ma appena sarà in forze tornerà a lanciare strali contro di noi. Dammi retta, lasciamolo qui e facciamo finta che nulla di tutto questo sia successo. - Vi prego, vi prego, vi prego… le forze mi stanno abbandonando. Io capisco che possiate avercela con me, ma fa solo parte del gioco della politica, io non vi farei mai del male. - L’hai già fatto – disse il cugino autista – hai già fatto del male a mio cugino perché in lui l’odio ha preso il sopravvento sulla solidarietà. Nella sua poca lucidità il Cretino Biondo capì che l’unico a cui potersi rivolgere era l’ultimo che aveva parlato. - Hai ragione, ma ti prometto che se mi salvi cambierò. - E come posso crederti dopo tutto ciò che hai fatto e detto in questi anni? - Le persone cambiano. - Solo quelle intelligenti hanno questa capacità. A queste parole il Cretino Biondo cambiò tattica. - Vi farò avere un permesso di soggiorno, a tutta la vostra famiglia. Il cugino fumatore non ci vide più. - Allora per salvarti la vita andresti contro i tuoi princìpi? Contro la tua coerenza? Contro il tuo credo? Tradiresti i tuoi compagni e tutti gli ignoranti che ti votano? Mi fai schifo e io ho preso la mia decisione. Io ti lascio qui, tanto più che ogni secondo che passa aumenta la probabilità di essere notati, cugino. Ma l’altro stava pensando alla proposta, il permesso di soggiorno li avrebbe fatti salire nella scala gerarchica sociale. - Credimi – lo incalzava il Cretino Biondo – io mantengo le promesse. - Lo abbiamo visto in politica – osservò sarcastico l’autista – hai promesso che saremmo diventati schiavi e l’hai fatto. - Ma voi due siete brave persone, me ne sono reso conto. - Tu vuoi la guerra – intervenne il cugino fumatore gettando la sigaretta nel sottobosco umido – e guerra avrai. Lasciamolo qui, andiamocene. Guarda – disse poi indicando la strada – è comparsa una luce . Due fari d’automobile andavano infatti avvicinandosi. - Vi prego, siamo uomini, almeno fra noi dobbiamo aiutarci – supplicò il Cretino Biondo, la fiducia che andava affievolendosi. Capiva da solo che quei due, in fondo, non avevano tutti i torti. - L’uomo è un animale sociale proprio perché possiede il dono della solidarietà – osservò il cugino autista – quando questa viene meno ci avviciniamo agli animali. E quando gli animali vogliono affermare le proprie idee usano la violenza e scatenano le guerre. Tu, con le tue parole e i tuoi comportamenti, vuoi scatenare una guerra. Rispondimi, se io ora ti salvassi, la guerra cesserebbe? Avresti la forza per cambiare le tue idee? - Sì, sì, ma salvatemi. - E i miei bambini, a scuola, sarebbero trattati come i vostri figli? Sarebbe loro garantito l’ingresso in piscina senza doccia obbligatoria prima dell’entrata? - Sì, sì. - E rinunceresti alle tue idee di chiusura per aiutare chi è in difficoltà come lo sei tu ora? - Sì, ti dico,sì, ma chiama qualcuno, non ho più forze ormai. Il cugino autista si guardò intorno. I fari erano sempre più vicini, ancora qualche minuto e il loro fiorino sarebbe stato notato e qualcuno si sarebbe fermato. Suo cugino si era già allontanato. Aveva preso la sua decisione. Improvvisamente gli ritornò in mente il pianto dei suoi bambini alle sconsiderate parole di quel tipo imprigionato nell’abitacolo. I bambini sono il nostro futuro, pensò, più infelici saranno ora e più grande sarà la loro rabbia da adulti. Suo cugino aveva ragione, quei tipi col fazzoletto verde volevano la guerra, e lui ora c’era dentro fino al collo. Ripensò alle sue stesse parole di prima, in macchina. - Sbrigati, andiamo – lo esortò il cugino. Si voltò verso il Cretino Biondo, gli pose una mano sulla testa. - Ho deciso – disse allungando il braccio verso la portiera e appoggiandovisi. - Grazie, grazie davvero, me ne ricorderò – rispose con un sorriso il Cretino Biondo. Salvo poi richiuderlo alle parole che seguirono. - Ti lascerò qui anch’io, la gente come te non merita la solidarietà mia né di altri. Se guerra hai voluto, se odio hai voluto coltivare nel mio animo, se trasformarmi in un animale hai voluto, ebbene, così sia. Addio. Gettò un’ultima occhiata al ferito e fu costretto a dare ragione a suo cugino. L’espressione di sconforto e di rassegnazione che per un attimo attraversò il volto insanguinato del Cretino Biondo gli diedero una impagabile soddisfazione. - Siete dei figli di puttana! – urlò poi il corpo imprigionato – Abbiamo ragione noi, siete degli animali senza cuore. Ma il cugino autista non ci cascò, e non rispose. Avviarono il fiorino appena in tempo perché la macchina in arrivo alle loro spalle non notasse nulla di strano. E anch’essa tirò dritto. Dopo cinque minuti di riflessione e silenzio, il cugino autista finalmente parlò. - Non sono fiero di quello che abbiamo fatto – disse. - Abbiamo preso la scelta giusta, quando mai ci potrà capitare un’occasione simile? - Ma nessuno saprà mai ciò che è successo, abbiamo commesso un omicidio fine a sé stesso. - Quel tipo avrà il tempo per pensare alle conseguenze delle sue azioni. Io, per quanto mi riguarda, sono soddisfatto. Il cugino autista non rispose, riprese le sue riflessioni e continuò a guidare. Suo cugino era come quel tipo che avevano lasciato dentro la macchina, un soldato, un soldato di una guerra stupida combattuta da gente ancora più stupida dei generali. Quello che avevano appena ucciso, perché per lui per quanto involontario ciò che avevano appena compiuto rimaneva un omicidio, era un generale. Ma la vera gente da istruire, si disse, non sono quelli, ma le persone come il loro padrone di casa, le persone semplici che, per paura, per ignoranza, per viltà, gettano l’intelligenza nel cesso accontentandosi di vivere come viene loro ordinato dalla tivù, dai giornali, dalle riviste, dalle consuetudini. Questa è una guerra stupida, dove i poveri perderanno sempre. Perché in guerra non vince nessuno. Si voltò verso il cugino, che gli sorrise, un sorriso di estremo appagamento. Ma lui non era soddisfatto, perché sapeva che entrambi avevano perso. Lui, personalmente, aveva perso nel momento in cui aveva ceduto alla soddisfazione di vedere l’odio e il terrore della morte nel volto del Cretino Biondo. E non era stata una scelta coraggiosa, anzi, l’indomani lui avrebbe avuto un peso in più sul cuore e i colleghi del Cretino Biondo avrebbero ripreso a lanciare le solite invettive contro di loro. La sua conclusione fu che lui non era un buon soldato, per combattere le guerre degli ideali ci vogliono guerrieri che non cedano alla tentazione della vendetta, che non cadano in preda all’odio, che sempre siano in grado di decidere con la ragione, tutte cose che quella sera a lui erano sfuggite di mano, una dopo l’altra. Ma, quella sera, tutti, indistintamente, avevano perso. Per l’ennesima volta nella storia dell’umanità, l’ignoranza, e di conseguenza la paura, avevano prevalso sulla civiltà e sulla ragione.