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Scrittori Giunti
Marie NDiaye
Ladivine
Traduzione di
Antonella Conti
Titolo originale:
Ladivine
© Éditions Gallimard, Paris, 2013
L’autrice ringrazia il Centre National du Livre per il sostegno ricevuto.
Ladivine
di Marie NDiaye
«Scrittori Giunti»
www.giunti.it
© 2016 Giunti Editore S.p.A.
Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia
Piazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia
Prima edizione: settembre 2016
Tornava a essere Malinka non appena saliva sul treno, e la cosa
non le suscitava né piacere né disagio, poiché da molto tempo
aveva smesso di farci caso.
Ma lo sapeva, perché da quel momento non le riusciva più
di rispondere istintivamente al nome di Clarisse, le rare volte in
cui capitava che un conoscente, in viaggio sullo stesso treno, la
salutasse o la chiamasse con quel nome e la trovasse disorientata, inebetita e vagamente sorridente, creando una situazione
di imbarazzo reciproco da cui lei, un po’ intontita, non aveva
la prontezza di spirito di tirare fuori entrambi semplicemente
ricambiando, con un minimo di naturalezza, il buongiorno, il
come va.
Era stata proprio quella sua incapacità di rispondere al nome
di Clarisse a farle capire che lei era Malinka dal momento in cui
saliva sul treno per Bordeaux.
Sapeva che si sarebbe girata immediatamente se qualcuno
l’avesse chiamata così, se qualcuno, incontrando con lo sguardo il suo viso o riconoscendo da lontano la sua figura sottile,
la sua andatura sempre un po’ precaria, avesse esclamato: Ehi,
Malinka, buongiorno!
Non poteva succedere – ma era poi così sicuro?
In un periodo ormai lontano, in un’altra città, in un’altra
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regione, c’erano stati dei ragazzi e delle ragazze che l’avevano
chiamata Malinka perché non la conoscevano sotto altri nomi,
e d’altronde nemmeno lei se ne era ancora inventato uno.
Non era da escludere che, un bel giorno, una donna della sua
età l’avrebbe avvicinata per domandarle, con aria felicemente
sorpresa, se fosse proprio lei quella Malinka del suo passato,
conosciuta in quella scuola media e in quella città di cui lei,
Clarisse, aveva dimenticato perfino il nome, l’aspetto.
E Clarisse non si sarebbe potuta esimere dal sorridere, non
in modo vago ma con sicurezza e audacia, e non sarebbe apparsa né disorientata né inebetita, nonostante che lei, invece, non
avrebbe di certo riconosciuto la donna che affermava di averla
frequentata quando era Malinka.
Ma avrebbe riconosciuto il proprio nome e quella particolare
tendenza dell’ultima sillaba ad attardarsi nell’aria tracciando
una scia di promesse, di lieta attesa e di giovinezza intatta, e
per questo sulle prime non avrebbe visto motivo di far posto
all’imbarazzo fra lei e quella vecchia compagna di scuola della
quale non rammentava nulla, per questo si sarebbe sforzata
di dare al proprio volto un’espressione di contentezza simile
a quella dell’altra, prima di ricordarsi del pericolo che rappresentava per lei l’accettare di ridiventare Malinka, anche solo
occasionalmente.
Allora non osava pensare a ciò che sarebbe stato necessario
fare.
Voltare bruscamente le spalle a quella donna, sforzarsi di
sorridere fingendo di non capire era qualcosa che travalicava
di gran lunga le timide trasgressioni alle regole dell’educazione
e della cortesia concepibili da una Clarisse Rivière avvezza a
non sbilanciarsi mai.
Seduta in treno, gli occhi fissi al finestrino, alla spessa con6
sistenza e alle minuscole striature del vetro che il suo sguardo
non oltrepassava, tanto che le sarebbe stato difficile descrivere il
paesaggio attraversato la mattina in un senso, la sera nell’altro,
una volta al mese da anni e anni, tremava di apprensione all’idea
di doversi costruire un atteggiamento assennato nel caso in cui
qualcuno l’avesse chiamata Malinka.
Poi i suoi pensieri vagavano alla deriva, e poco a poco dimenticava il motivo del suo tremore, sebbene il tremore non
l’abbandonasse e lei, non sapendo come farlo cessare, finisse
confusamente per attribuirlo al movimento del treno che scandiva, sotto i piedi, nei muscoli, nella testa affaticata, il nome che
tanto amava e detestava, che le ispirava al tempo stesso paura e
compassione, Malinka, Malinka, Malinka.
Quando sua figlia Ladivine era ancora piccola, non sempre
era stato facile andare a Bordeaux così di nascosto, passarvi una
parte della giornata e poi tornare a casa abbastanza presto da
non suscitare sospetti in nessuno.
Ma ci era sempre riuscita.
Non ne era né fiera né turbata.
Aveva fatto quel che doveva fare, lo avrebbe fatto fino alla
morte dell’una o dell’altra, e per non rinunciarvi si era appellata
a tutte le risorse di cui disponeva e che sapeva limitate – d’intelligenza, di furbizia, di tattica.
A volte pensava di non avere nessuna di quelle capacità, o
di averle perdute col tempo, eppure era riuscita a mobilitare ciò
che non aveva per architettare una routine sicura e adeguata
alla situazione.
Ma non ne era né fiera né turbata.
Come un animale, faceva quel che doveva fare.
In proposito, non aveva opinioni, nessun sentimento, soltanto la convinzione ostinata, incrollabile, come innata, che in7
combesse su di lei la duplice responsabilità dell’azione e della
segretezza.
E quando, arrivata a Bordeaux, andava a piedi fino al quartiere Sainte-Croix, prendendo ogni volta le stesse strade e camminando sempre sullo stesso lato, non era tanto la necessità della segretezza, quanto il dovere imposto a se stessa di non cedere
mai che le impediva di prendere un taxi o, successivamente, il
tram, dove qualche viaggiatore abituale avrebbe potuto finire
per riconoscerla, rivolgerle la parola o chiederle dove stesse
andando, e a quel punto Clarisse Rivière, che in quella città
mentalmente era Malinka, essendo incapace di inventarsi una
scusa qualsiasi, non avrebbe potuto far altro che dire la verità.
«Vado a trovare mia madre» avrebbe risposto.
Era inconcepibile che potesse essere indotta a pronunciare
una simile frase.
Le sarebbe sembrato di fallire là dove il fallimento non poteva essere né perdonato né dimenticato né trasformato in semplice errore, nella missione stessa dell’intera sua vita che non
aveva altro senso, si diceva tanto evasiva quanto implacabile, se
non quello di nascondere a tutti che Clarisse Rivière si chiamava
Malinka e che la madre di Malinka non era morta.
Svoltava nella buia rue du Port, si fermava davanti all’edificio
dai muri neri, entrava con la sua chiave e lì, nell’umido vano
d’ingresso, apriva la porta dell’appartamento.
Sua madre, pur aspettandosi quella visita poiché Clarisse
Rivière andava a trovarla il primo martedì di ogni mese, la accoglieva sempre con la stessa esclamazione falsamente sorpresa,
permeata di un sarcasmo forzato:
«Toh, chi si vede, ecco mia figlia!».
E Clarisse Rivière aveva smesso ormai da un pezzo di rimanerci male, perché capiva che era il modo in cui sua madre,
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quella donna così limitata, esprimeva ciò che in fin dei conti
doveva essere senz’altro dell’affetto o addirittura della tenerezza
per lei, Malinka, che aveva, in un’altra vita, un altro nome che
sua madre ignorava.
La madre di Malinka non sapeva niente di Clarisse Rivière.
Ma non era così sprovveduta da ignorare di non sapere
niente. Fingeva di non avere il sospetto che sua figlia Malinka,
il primo martedì del mese, si fosse appena lasciata alle spalle
un’esistenza più strutturata e meno solitaria di quella che le
aveva approssimativamente raccontato molto tempo prima e
nella quale sembrava vivere e lavorare solo in modo fortuito,
con l’unico obiettivo di poter andare a trovare sua madre una
volta al mese.
Clarisse Rivière era consapevole che se sua madre fingeva di
cascarci, se non cercava di saperne di più, se addirittura, come le
era parso a volte, non voleva affatto essere informata, era perché
aveva capito e accettato le ragioni di quel segreto.
Che le avesse capite, d’accordo, ma perché e in che modo
avrebbe dovuto accettarle?
Ah, quanto a questo, quanto alla muta sottomissione di sua
madre a ciò che invece avrebbe dovuto indignarla, a Clarisse
Rivière non sarebbe bastata tutta la vita per essergliene riconoscente – di una riconoscenza offuscata dalla disperazione e dal
rancore – e tanto meno per espiarla.
Eppure sentiva il dovere di agire così.
Era qualcosa che non si poteva spiegare né giustificare né
assolvere.
A Clarisse Rivière non bastava che sua madre avesse capito
e che, nel dolore e nell’orribile amarezza di una simile, inconfessabile intuizione, fosse diventata una donna difficile, astiosa
e lunatica, spesso offensiva.
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L’ avrebbe voluta ancora più difficile, l’avrebbe voluta colma
d’odio e di sdegno.
Ma la cosa, quella cosa, non poteva essere detta.
Soltanto il malumore, l’aspro risentimento potevano renderne conto, e fino a un certo punto, ossia nella misura in cui
quelle manifestazioni di acredine non si avvicinavano troppo
alle parole che non dovevano essere dette.
Clarisse Rivière aveva a volte l’impressione che quelle parole,
se solo le avesse pronunciate, avrebbero ucciso entrambe – lei
perché ciò che aveva fatto, ciò che aveva sentito come un dovere
e un obbligo fare, non era scusabile, sua madre perché all’umiliazione di un simile trattamento si sarebbe aggiunta quella di
esserne consapevole e di averlo comunque tollerato, sia pure
con rabbia e risentimento.
Quelle parole le avrebbero uccise, pensava a volte Clarisse
Rivière. E se non fosse andata così, se fossero sopravvissute a
quelle parole, non avrebbero comunque potuto rivedersi mai più.
Questo era il timore più grande di Clarisse Rivière, essere
costretta a rinunciare alle sue visite, per quanto non riuscisse a
trarne che un piacere ambiguo, un’emozione piena di sofferenza
e di insoddisfazione.
Entrava nella stanza dove sua madre, in piedi vicino alla
finestra dalla quale aveva spiato lo stretto marciapiede su cui
l’aveva vista arrivare, nemmeno si sforzava più di fingere in
modo credibile la sorpresa.
La simulava in modo fiacco, senza convinzione, forse anche
con una stanchezza più generale verso qualsiasi tipo di messinscena, verso quella recita in cui erano coinvolte entrambe
per sempre.
Ogni volta Clarisse Rivière sentiva la vastità di quella stanchezza e, per un attimo, ne era preoccupata.
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Le capitava di pensare che, dopo aver attraversato nell’animo, ciascuna per proprio conto, quei molteplici strati di silenzi e
di vergogne che, anziché separarle, le avevano avviluppate l’una
all’altra, fossero ormai giunte a una forma di sincerità, per quanto la sincerità possa essere dotata degli orpelli della commedia.
Era come se, pensava talvolta, entrambe si vedessero distintamente attraverso le rispettive maschere, pur sapendo che non
se le sarebbero mai tolte.
Perché la verità nuda e cruda non avrebbe sopportato di
essere guardata.
«Toh, chi si vede, mia figlia!» sussurrava la madre di Malinka, e Clarisse Rivière non ci rimaneva più male, sorrideva di
un sorriso in due tempi che le veniva solo lì, tenero e prudente
insieme, ampio e all’improvviso trattenuto.
Dava un bacio a sua madre, che era piccola, minuta, ben proporzionata e, come lei, aveva un’ossatura sottile, spalle strette e
braccia lunghe e snelle, un viso dai tratti serrati, poco prominenti, di una graziosità perfetta e tuttavia discreta, appena visibile.
Nella regione dove la madre di Malinka era nata, dove Clarisse Rivière non era mai stata e mai sarebbe andata, ma di cui
aveva guardato fugacemente, con una sensazione di pesante disagio, qualche immagine su Internet, la gente aveva quegli stessi
lineamenti delicati, ben raccolti sul viso come per scrupolo di
coerenza, e quelle stesse lunghe braccia sottili, il cui spessore
quasi non variava dalle spalle ai polsi.
E il fatto che sua madre avesse ereditato le caratteristiche
fisiche di tutta una discendenza, che le avesse poi trasmesse a
sua figlia (i tratti, le braccia, la figura slanciata e, grazie a Dio,
nient’altro), aveva suscitato una rabbia devastante in Clarisse
Rivière, perché come si poteva passare inosservati in modo duraturo se si era così caratterizzati, come sostenere di non essere
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ciò che non si voleva essere, ciò che ognuno aveva pure il diritto
di non voler essere?
Ma anche la rabbia l’aveva abbandonata.
Durante tutti quegli anni, Clarisse Rivière non era mai stata
presa per un’altra.
Cosicché, con l’età, anche la rabbia l’aveva abbandonata.
Perché nessuno aveva mai stanato Malinka in Clarisse.
Sua madre abitava al pianterreno, un monolocale, in parte
pagato da Clarisse Rivière, che un’inferriata nera alla finestra
proteggeva da eventuali ladri.
Tenuta in modo impeccabile, spolverata e pulita tutti i giorni
con una smania, un’ansia maniacali, la stanza era zeppa di mobili e di vecchi oggetti male assortiti, e l’accozzaglia variopinta e
scintillante, il bizzarro accostamento in uno spazio così limitato
finivano per creare un effetto bislacco non cercato ma caloroso,
qualcosa al limite dell’assurdo dentro cui Clarisse Rivière, sia
pure con riluttanza, si trovava piuttosto a suo agio.
Si sedeva in una poltrona di velluto stampato dai braccioli
ricoperti di centrini di tulle, mentre sua madre rimaneva in
piedi, sulla difensiva, in una rigidità diffidente che non aveva
più ragione di essere, che era soltanto il retaggio di un antico
atteggiamento allora motivato dalle circostanze, quando Clarisse Rivière aveva tentato di sottrarsi al suo dovere, alla sua
missione – oh, faceva anche fatica a ricordarselo, aveva tentato
di non avere più niente a che fare con la madre di Malinka, e
non era stata affatto una bella cosa.
Sua madre sapeva che non doveva più temere di essere abbandonata, di essere rifuggita, e tuttavia ogni volta, nei primi
momenti che seguivano l’arrivo di Clarisse Rivière, le si parava
davanti in una postura vigile, fingendo di tener d’occhio quella
figlia che avrebbe di nuovo potuto tentare di dileguarsi, in real12
tà controllando se stessa nel suo rifiuto ostinato, ingiustificato
di lasciarsi andare, ben attenta a rappresentare per entrambe
l’immagine drammatica della dignità oltraggiata per sempre.
Non era necessario, pensava Clarisse Rivière, non era mai
stato necessario.
Come sua madre, sapeva che l’oltraggio era lì, intorno a loro,
nel semplice fatto che Malinka facesse visita a sua madre in
maniera clandestina perché così aveva deciso, e che non potesse
più revocare una decisione tanto scandalosa.
L’ oltraggio non poteva essere dimenticato e non era necessario manifestarlo con espressioni particolari o con un silenzio
che, nel tentativo di essere eloquente, lo appesantiva di un lirismo un po’ degradante.
Questo andava pensando Clarisse Rivière, e tuttavia sentiva
il proprio affetto farsi più intenso nel vedere la madre che si
impelagava nei suoi patetici tentativi di apparire più spavalda
di quanto non riuscisse a essere.
Perché la madre di Clarisse Rivière era solo una povera donna che si sarebbe volentieri accontentata delle piccole gioie di
un’esistenza comune, una donna alla quale non si poteva rimproverare l’incapacità di eseguire con esattezza i gesti appropriati sul palcoscenico dove la figlia l’aveva costretta a salire.
Perfino lei, Clarisse Rivière, ogni tanto aveva vacillato.
Le era capitato di scoppiare a piangere, seduta nella sua
poltrona, con singhiozzi improvvisi e violenti apparentemente
provocati da un qualche alterco con la madre ma che, in realtà,
avevano come unica origine una brutale levata di scudi della
sua coscienza.
Come si fa a vivere così?, si chiedeva all’improvviso. Non
avrebbe dovuto essere tutto diverso?
Ma la sua volontà antica, indomabile, ottusa, si risollevava
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sempre, perfino tra le lacrime, per farle capire che le cose erano
come dovevano essere, [andavano come dovevano andare] e
tanta era la fiducia che animava quella volontà cieca, insensata,
quell’indomabile determinazione della sua gioventù, che Clarisse Rivière non fu mai sfiorata dalla paura che una qualche
forma di cedimento la inducesse a rinunciare.
In quegli istanti, a perdere precisione erano soltanto i gesti.
Vedeva se stessa singhiozzante nella poltrona e si sentiva
mediocre, si sentiva una donnina facile alle pose drammatiche
come sua madre, ma per lei non c’erano scuse.
Poi le passava tutto. Dimenticava quelle debolezze.
Le restava soltanto il ricordo un po’ stupito della tenacia che
la dominava e che lei per niente al mondo avrebbe tradito. Cosa
avesse smosso quella potenza nel profondo di se stessa, finiva
col dimenticarlo.
Ogni primo martedì del mese la madre di Malinka riceveva il
denaro sufficiente per fare la spesa fino alla visita successiva
della figlia e, dato che aveva una passione particolare per gli
oggetti e le sorprese, anche un piccolo dono, un flaconcino di
acqua di colonia, un bruciaprofumi, uno strofinaccio di puro
lino, perché Clarisse Rivière, che si dava una gran pena a cercare
tutte quelle cose, non poteva risolversi a portarle soltanto una
fredda busta di banconote.
Si mettevano a tavola nella minuscola cucina e mangiavano
quello che sua madre aveva preparato il giorno prima, del vitello
alla marengo o uno sformato di patate e carne oppure del cavolo
farcito di anatra confit, ed era soltanto sua madre che parlava
delle cose che aveva fatto in quel mese e delle poche persone che
aveva incontrato al circolo delle vecchie signore del quartiere,
perché Clarisse Rivière non poteva dire niente della propria vita
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e sua madre non poteva domandarle niente, anche se ormai non
era più un peso tra loro.
C’era stato un tempo in cui la madre di Malinka, finito il
suo racconto, assumeva un’aria un po’ stralunata e, a bocca
semiaperta, fissava con uno sguardo sconsolato, supplichevole
e al tempo stesso rassegnato, senza speranza, il volto di Clarisse
Rivière, il quale subito diventava così freddo, così duro che sua
madre abbassava gli occhi.
Un silenzio denso e doloroso piombava allora nella stanza,
finché la madre di Malinka non ricominciava con un’altra storia, una qualsiasi, un’inezia già raccontata, e il volto di Clarisse
Rivière ritornava a poco a poco quello di prima, il bel volto
dolce, tenero, distante che la madre di Malinka conosceva e
amava e i cui tratti erano simili ai propri.
Sua madre non si lasciava più prendere da quelle tentazioni,
quelle inutili aspettative fuori luogo.
Erano ormai rare le volte in cui alzava gli occhi verso il volto
fine, appena un po’ sciupato di Clarisse Rivière, sapendo che
adesso vi avrebbe sempre trovato quella bontà liscia e distante
e riservata che mancava al proprio volto afflitto, corrugato dalla
tensione.
Non chiedeva più niente, non si aspettava niente.
Perfino la sua agitazione non era altro che uno strascico dei
tempi andati, quando ancora moriva dalla voglia di sapere che
vita facesse sua figlia Malinka, quando disperava di venirne a
conoscenza ma ancora non riusciva ad ammettere che non lo
avrebbe mai saputo.
Ormai Clarisse Rivière aveva l’impressione che sua madre
non volesse più sapere niente, che fosse troppo tardi, che l’equilibro infine trovato nel silenzio e nell’incertezza ne sarebbe
stato incrinato, a fronte di un beneficio alquanto dubbio.
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In effetti, poiché sua madre non aveva idea dell’esistenza di
Richard o di Ladivine, a cosa sarebbe servito, adesso, vedere
in fotografia i loro volti adulti di estranei che non sapevano
niente di lei?
Non le sarebbero sembrati, quei volti sorridenti, quei volti
che si offrivano alla vita senza preoccuparsi minimamente di
lei, la madre di Malinka, e che erano felici nell’ignoranza della sua esistenza, non le sarebbero sembrati ostili, opprimenti,
nell’evidenza della loro contentezza?
Sua madre serviva il caffè, poi diceva: Vado a vestirmi, intendendo che sarebbe andata a togliersi i jeans e la felpa che
portava in casa per infilarsi i pantaloni di poliestere beige e
la camicetta a fiori o a quadri che metteva soltanto per uscire,
trasformando così la donna giovane che ancora sembrava essere, con le sue membra sottili e diritte ben fasciate dal cotone
slavato, in una signora di una certa età, dall’aspetto invecchiato,
modesto, proletario.
E più passavano gli anni, più pareva accentuarsi il divario
tra l’aria giovanile che conservava, immutabile, fra le pareti di
casa, e l’aspetto antiquato e dimesso che assumeva quando si
preparava per uscire, come se fosse stato necessario che la verità della vecchiaia e del disagio esplodesse da qualche parte,
pensava Clarisse Rivière, in mancanza della verità essenziale,
quella della sua stessa vita.
Poi uscivano insieme a fare una passeggiata per le strade
del quartiere di Sainte-Croix, immancabilmente lungo lo stesso
percorso.
Se per caso incontravano qualche conoscente, la madre di
Malinka si fermava un po’ sostenuta, un po’ solenne, simile
a una regina che sia stata lievemente importunata, il tempo
indispensabile per un breve scambio di frasi fatte durante il
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quale l’altra non riusciva, nonostante l’abitudine, a non lanciare
sguardi furtivi e curiosi verso una Clarisse Rivière immobile e
fredda, sapendo, quella vicina, quella compagna di briscola, che
si trattava della figlia, sebbene non le fosse mai stata presentata,
e istintivamente rispettosa del tacito divieto di fare domande
o perfino di accorgersi che accanto alla madre c’era una donna
silenziosa dalla pelle bianca.
Così la madre di Malinka portava a spasso quella figlia come
fosse l’oggetto del suo disonore, un disonore talmente grande
che nemmeno lo sguardo poteva soffermarvisi, e soltanto Clarisse Rivière sapeva che sua madre, invece, era sempre stata
incondizionatamente fiera di lei e che era lei, Clarisse Rivière,
a offrire il braccio all’oggetto della propria vergogna.
Tornavano nel piccolo appartamento che già dal primo pomeriggio era stato abbandonato da qualsiasi forma di luce.
La madre di Malinka si lanciava allora nella preparazione
di un dolce complicato – una crostata, dei pasticcini, una torta
– che non sarebbe mai stato pronto prima che Clarisse Rivière
ripartisse, eppure, nonostante lo sapesse e fingesse di credere
che sua figlia si sarebbe portato via quel dessert, fingesse di
credere che sua figlia sarebbe stata contenta di presentarlo in
tavola una volta arrivata a casa, dove probabilmente vivevano (e
lei, la madre, l’aveva forse subodorato pur non sapendo niente,
pur ignorando quali e quante fossero le persone che condividevano la vita di sua figlia) degli esseri umani che non erano al
corrente della sua esistenza, qualcuno a cui bisognava mentire
sulla provenienza di quel dolce, faceva finta di crederci.
Da molto tempo Clarisse Rivière aveva smesso di combattere.
Si sedeva nella poltrona di velluto e, tranquilla, indifferente,
quasi apatica, seguiva con lo sguardo sua madre che si muove17
va nervosamente nella piccola cucina, rovistava nei pensili alla
ricerca di ingredienti e stoviglie.
E lei, Clarisse Rivière, la guardava senza vederla, tranquilla,
indifferente, immobile nella poltrona di velluto come se la vecchia fosse stata lei, placidamente immersa nei freddi, generici
pensieri che le volteggiavano per la mente.
Pensava che non le sarebbe stato difficile arrivare a casa con
un dolce preparato da sua madre, perché né Richard né Ladivine, non essendo per natura curiosi o diffidenti, le avrebbero
chiesto spiegazioni.
Ma non lo avrebbe fatto, pensava.
Piuttosto avrebbe buttato via il dolce, alla stazione.
La madre di Malinka non doveva insinuarsi in nessun modo nella vita di Clarisse Rivière e soltanto lei, Clarisse Rivière,
poteva permettersi di mangiare il cibo che preparava, il dolce
alle lacrime, i biscotti impastati di rabbia.
Soltanto lei, Clarisse Rivière, perché l’amarezza la trafiggeva
senza espandersi in lei.
Così lasciava che i suoi crudeli, futili pensieri le svolazzassero per la mente come uccelli starnazzanti, e sua madre non
poteva sentirli, indaffarata com’era, non poteva sentire niente.
Sua madre parlottava, commentava i propri gesti e, via via
che passava il tempo e si avvicinava l’ora della partenza, si
lanciava meccanicamente in un discorso sempre uguale che,
molto tempo prima, aveva avuto la funzione di attirare la pietà
di sua figlia Malinka sulla propria sorte, e la pietà non era mai
arrivata ma le parole rimanevano le stesse, declamate senza
passione né speranza, come per mantenersi fedele a quella
donna di prima, la madre di Malinka che aveva creduto di
poter smuovere sua figlia e il cui ricordo doveva essere mantenuto, rispettato.
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Oh, la pietà era arrivata, pensava Clarisse Rivière, e c’era
ancora, vibrante e dolorosa come sempre dal primo momento
in cui rivedeva sua madre.
Ma la pietà non riusciva a imporsi, sopraffatta dalla volontà.
Clarisse Rivière si alzava di scatto, facendo sobbalzare sua
madre.
Poi afferrava la borsa e, tutte le volte, se ne andava all’improvviso, dopo aver dato un bacio veloce a sua madre e lasciandola con le mani imbrattate di burro o di farina, e niente
avrebbe potuto impedire a Clarisse Rivière di andar via, ma,
per delicatezza, si comportava come se avesse dovuto combattere con se stessa per non correre il rischio di essere intenerita,
mentre invece, nel momento stesso in cui lasciava quella stanza
soffocante, si sentiva sollevata, quasi felice, ringiovanita da un
piacere acre, impaziente.
La visita successiva, un mese dopo, le appariva così lontana
da diventare quasi ipotetica e, sebbene in realtà avrebbe sofferto
molto se non avesse mai più rivisto sua madre, questa eventualità era presente in lei come un sogno seducente che la riempiva
di una gioia selvaggia, vertiginosa.
Perché avrebbe potuto anche decidere di non tornare più,
avrebbe potuto alleggerire la sua vita del peso dell’esistenza
clandestina di sua madre senza che nessuno lo venisse a sapere
o glielo rimproverasse.
Si precipitava per strada, quasi correndo, inebriata, e avrebbe
voluto gridare mentre il sangue le batteva alle tempie.
Le sembrava di essersi appena sottratta al pericolo e che ancora una volta Clarisse Rivière sfuggiva alla madre di Malinka
prima che quest’ultima fosse riuscita a cambiare condizione e
a diventare, per essere stata lei stessa poco vigile, la madre di
Clarisse Rivière.
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