Che giorno è? - Produzioni dal Basso

Transcript

Che giorno è? - Produzioni dal Basso
GeneRazionale
Strumento di destabilizzazione di massa.
Di
Osvaldo Frasari
1
Prima parte
1.
Che poi quando uno scrive un romanzo dovrebbe innanzitutto presentare il
personaggio principale, diciamo così.
Ha una barba incolta e gira sempre col cappello. Andatura dinoccolata,
aria persa ovunque i suoi grandi piedi calpestino stradine di basalti
insofferenti, in centri storici addormentati o larghe e asfaltate arterie che
collegano la provincia alla grande città opprimente. Mammella dei
misantropi.
Sotto al braccio regge il bollettino gratuito che si pesca nei cesti di metallo
verdi, nelle anticamere d’attesa della metropolitana, dove l’aria è aspirata,
risucchiata via e, chissà per quale tubo di scappamento, condannata alla
libertà vigilata.
Gli occhi di un castano colato. Calvizie malamente nascosta. Un
atteggiamento menefreghista e anticonformista l’aiuta non poco. Conserva
addirittura un sentimento di fierezza, e ancor più blandamente nascosta è la
sua vanità.
Ha qualche ruga ai lati della bocca e per vezzo vi passa sopra l’indice
quando è assorto in qualche pensiero. Sì, sembra così, che da lontano poi
pare avere qualche mistero oscuro e permeato di saggezza a donargli
fascino.
Ma comunque questo non è il personaggio principale, in verità non è
affatto il personaggio, né sono io.
Io, d’altronde, ho smesso di scrivere romanzi.
Ora, poiché io devo aver a che fare con la noia del lettore, e ho bisogno
che legga quanto seguirà in questo libro, non è necessario affezionarsi ai
tipi che adopererò per sviscerare la natura dell’uomo e presentartela nel
miglior modo possibile affinché tutto questo possa avere un senso e che
non sia di mero intrattenimento, ecco. Adesso racconto un episodio giusto
per conversare un po’.
Da un po’ di tempo mi reco al bar di fianco. Il bar di fianco al posto in cui
mi metto buono buono a scrivere, e prendere un caffè.
Non faccio pause. Prendo il caffè solo per fumare. E poi scrivo
continuamente. Poco interessa. La storia è che quando chiedo il caffè alla
signorina dietro al banco, una straniera, una ragazza dell’est davvero molto
carina, succede che non mi serve la solita tazzina.
2
Alle mie spalle ci sono adulti di varia stazza e razza che discutono di
politica ma con quel modo leggero di fare gossip, più che altro. Parlano
come opinionisti sportivi dopo aver guardato le moviole per infervorarsi
sul fuorigioco senza dar peso al risultato.
Io li ignoro e loro mi guardano con sospetto e cattiveria. Ma penso che lo
facciano perché la ragazza mi serve il caffè in un bicchierino da liquore.
Tutto squadrato e lucente. Ci mette lo zucchero e manca solo che me lo
giri.
«Mi metti un po’ d’acqua?», non mi dà il tempo di domandarle.
Bevo l’acqua, il caffè e me ne vado ringraziando. Un giorno che stavo in
vena le chiesi di dov’era. Sorpresa. È russa. Cosa diavolo ci fai qui?
Iniziammo a parlare di Dostoevskij e mi confessò che li aveva letti tutti.
Poi ci dilungammo su Bulgakov, convenendo assieme che fosse
indispensabile. La ragazza si chiamava Natalia, ma qui in Italia il suo
nome era Natasha, il ché mi sembrava anche un po’ strano. Pensavo
potesse essere il contrario, e invece no. Insomma chiederle di più non si
poteva. Avevo appreso, tramite un giro di voci, che la tipa si concedeva a
chi di grazia le faceva dei regalini.
Mi sentii un po’ come Auerbach che si interroga su come sia possibile che
la Germania, patria della cultura europea e della filosofia, avesse generato
il nazismo.
«Ma sei impegnata? Tipo se ti chiedo di uscire, qualcuno s’incazza?», e lei
rideva. Io a quel punto davvero non sapevo come dirglielo.
Fatto sta che non puoi lavorare in un bar squallido e aver letto tutti i libri di
Dostoevskij e ti dai a questi bifolchi come l’ultima delle sgualdrine sulla
piazza. Quella santissima tazzina me la sono rivista davanti agli occhi in
più occasioni.
Mi spiego meglio. Possibile che quando entro in un posto c’è sempre
qualcuno che crede di aver riconosciuto chissà chi? Spesso mi sembra di
essere lo scorcio di un ricordo della vita altrui, ma perché? Non abbiamo
mica giocato nello stesso cortile da piccoli? Questa non mi conosce. Non
sa che faccio e chi frequento. Non ha idea di come la pensi e in quali
vergognose attività sono solito cimentarmi. E mi serve il caffè in una
tazzina da liquore, già zuccherato per giunta.
Di entrare tra le sue gambe certo m’interessava, ma insistevo più che altro
per soddisfare un desiderio che andava ben oltre il sesso. La mia vuota
esistenza si svolge in un quartiere di idioti. Analizzare con attenzione la
parola “idioti” prego.
3
Volevo vedere cosa avrebbero pensato di me questi rozzi che mi hanno
etichettato come “lo scrittore”, che poi dovrebbe coincidere con non so
quale incerta idea del tipo “intellettuale”, nel momento in cui mi sarei fatto
vedere in giro con questa tipa.
“Gli fa i regalini…”, avrebbero forse pensato.
Ma cosa vuole il fato? Che questa, come se avesse capito chissà cosa, che
magari volessi sposarla o fare l’amore con lei sotto le stelle e queste cose
qui, mi dice di no. Mi rifiuta. Non mi fa pagare il caffè e sospirando con
gli occhi lucidi dice «no» poi li cala subito e sciacqua la tazzina.
Ma porco cazzo!
Natasha sei una stronza.
2.
L’idiota è colui che è privo di qualcosa e specialmente idiota è colui che si
priva di se stesso. Ma d’altra parte, potremmo noi far affidamento su uno
con la barba incolta, cappello e che se ne va in giro sempre col giornale
sotto braccio e un’aria un po’ spaesata? Ebbene, bisognerebbe che ognuno
facesse i conti con l’idiota che si porta dentro. Nella maggior parte dei
casi, diciamo così, si è idioti, per paura di esserlo. Sto parlando del vestirsi
in un certo modo o di aggregarsi in qualche bar per poter essere
qualcos’altro. Abbiamo questa insana abitudine di evitarci che è
paradossale. Anche quando ci aggreghiamo, seguiamo le mode, e con
mode intendo anche modi di pensare, e inevitabilmente ci allontaniamo
l’uno dall’altro. Siamo estranei. Spaventosamente socievoli.
Non di rado mi vergogno per questa cosa. Ecco parlo di me perché solo di
me posso parlare con onestà e sicurezza. Il valore della comunicazione con
l’altro, d’altronde, è direttamente proporzionale al valore dei nostri
monologhi interiori. Ecco perché, molto spesso, l’idiota è incapace di
comunicare all’altro. Evita prima di tutto di comunicare con se stesso.
Gabriele, che è mio amico e arcangelo di mestiere, mi parlava di quanta
poca stima nutre nei confronti di chi ti dà ragione su ogni cosa anche se
non sa minimamente di cosa si tratti o peggio dentro di sé è in totale
disaccordo.
«Che razza di gente!», mi sbuffa in faccia con un’aria seccata e incredula.
«Stai calmo Gabrie’», lui, ad esempio, dà fin troppo valore alla
comunicazione con l’altro poiché è in totale sintonia col suo animo. Ma
non è un male, affatto. Forse lo è per gli altri.
4
«Che hanno in testa, cazzo, ma se ti chiedo se va bene ‘sta cosa non è che
mi devi assecondare, che poi, voglio dire, mica ti sto facendo capire che
voglio aver ragione… se ti fa schifo dimmelo… poi succede che…».
«Gabriele caro, questa nostra società non è fatta per le congetture mentali,
cosa diavolo dici? Perché tutto questo affanno? Per cosa?», si arrabbia
tantissimo quando lo prendo in giro per i suoi modi da filosofo d’altri
tempi. Lo chiamo Schiller e s’incazza come una troia.
«…E ja, sono serio, ma che palle, ti rendi conto che noi andiamo avanti a
pacchetti? Cioè i pacchetti confezionati di parole proprio… a ogni
pacchetto ne segue un altro e ci scambiamo l’aria invece che le idee, ma
che nervi!».
«Schiller, sei uno Schiller, sei un idealista!».
«Ma vaffanculo!», alza il braccio per mandarmi lì, in un modo grazioso
che solo lui sa fare, io di buon grado, ci vado. Comunque è vero. Ha
ragione. Anche se certe volte parla come un alieno. Si capisce solo lui. Che
poi anche ‘sta storia del non capire è un fatto tutto da studiare. Molti ci
marciano sul fatto di non capire qualcosa, per non parlare di chi addirittura
se ne vanta. Gente pericolosissima. Questo è un periodaccio. La peste del
ventesimo secolo ha investito col suo olezzo nauseante gli albori del nuovo
millennio, ha insozzato di piscio e vomito questi dieci improduttivi e sterili
anni. Noi che siamo “artisti”, lettore, ben pesiamo che da tanta merda non
si possa uscire. Cazzate. Non è mai stato semplice fare arte. L’unico
paradosso di questa ridicola epoca è che anche chi non è un artista può
permettersi di fare arte. Per fino io pubblico libri. Ma questa è una
piccolezza che non smuove niente e nessuno. Certo a taluni, come a chi
scrive, a volte tocca i nervi, ma è comprensibile, siamo ancora uomini
dopotutto e stiamo appena cominciando a smettere, come nel mio caso, di
scrivere romanzi. È un periodaccio sì. I linguisti dicono che ora l’italiano è
nel pieno del suo sviluppo. Io sono d’accordo. Non date retta ai nostalgici
del “ma però non si può scrivere”, poveri. Credetemi questi non ne sanno
niente. Attenzione però, qui non si tratta di tanti Schiller della lingua
italiana, giammai! Gabriele ha formulato varie teorie circa quello che ho
appena detto. Mi ha promesso che poi me le renderà note. Che poi che ho
detto? Come la storia degli idioti, non sono che espedienti per non si sa
che cosa. La verità è che sono sconvolto e non voglio accettare ciò che
l’arcangelo mi sussurra all’orecchio come il peggiore dei demoni.
«Io penso che non ci sono uomini idioti. Voglio dire nessuno è idiota.
Preferisco pensare che ci sono gli uomini e le scimmie».
5
Porco cazzo ci va giù pesante!
Non vi dico chi sono gli uomini e chi le scimmie secondo il mio buon
amico. Dovete sapere, per perdonarlo, che lui è un cinico. È un periodaccio
di certo. Per dirvene una, nel frattempo che aspetto ‘sto coglione che
arrivi. Mi dice «andiamo?» una mattina. Solitamente la mattina andavamo
a drogarci di caffè e sigarette in qualche bar. Gabriele quella mattina aveva
due sedie nel bagagliaio della macchina, di quelle piegabili, sapete? Che si
portano in spiaggia d’estate. Quando si comporta così, so già che andrà a
finire male. È nervoso ma finge di divertirsi, io in queste occasioni lo
assecondo, primo perché lo adoro, e poi perché so che non mi annoierò.
Mi porta nei pressi di una scuola elementare, non molto lontano dal nostro
amabile quartiere, c’è un botto di gente e nella mia mente inizia a farsi
chiaro un pensiero. Che giorno è? Ma è domenica… che ci fa tutta questa
gente?
Le elezioni. Gabriele parcheggia la macchina e prende dal bagagliaio le
sedie. Poi con un fare tutto frettoloso che non mi dà il tempo di chiedergli
spiegazioni, avanza a grandi passi davanti a me per farsi seguire. Siamo
vicino all’entrata e finalmente capisco cosa succede e cos’ha intenzione di
fare. Si siede, ecco cosa fa. Proprio davanti alle persone che sfilano per
andare a votare. Io divertito lo imito. I vigili ci hanno già notato. Gabriele
è muto, con una faccia interessata osserva la fiumana di gente imbellettata
che si appresta a dare il prezioso contributo per migliorare la società.
«Mi scusi signore, il primo atto è già finito?», gli domando per fare il
cretino, ma lui non gioca. È silenzioso e osserva.
«Stronzo», mi dice a un certo punto. Ha da sempre rifiutato il mio nome,
per mezzo di strane teorie a me non molto chiare, e ogni volta mi chiama
in qualche modo diverso, io indovino che ce l’ha con me dall’intonazione.
«A proposito delle grandi cose che accadono ai nostri giorni…», alza il
tono di proposito per farsi sentire, «guarda questo… modello primavera
estate… e quella, che gran culo la signora… belle anche le calze…
interessanti, allora Cesare Giulio, devi sapere che queste persone stanno
andando a votare, sai che significa?», mi domanda senza ovviamente
essere interessato alla mia risposta.
«Che si sentono importanti e quindi si vestono bene e sfilano».
«Sei una cretina! Vuol dire che stanno scegliendo il tale che dovrà
governare il nostro paese».
«Cosa c’è di sbagliato, Gabriè?», gli domando improvvisando un tono
serio.
6
«Assolutamente niente», ride, «mi scusi…», dice a un tipo che è appena
uscito dalla scuola, «…mi può dire per cortesia chi ha votato?», il tipo lo
guarda stranito e s’acciglia, io non riesco a trattenere una risata. A quel
punto si avvicinano i vigili.
«Voi avete già votato?», li anticipa Gabriele.
«Potete allontanarvi per cortesia?», ci chiede uno dei due tutto ingentilito.
«Io penso che non ne avete bisogno…», poi arriva il vecchio a fare i
rinforzi. Non dimenticherò mai quel momento.
«Giovanotto!», dice rivolto all’arcangelo, «cos’hai contro chi vota? Tu
pensi di essere migliore?».
Sì, il vecchio intellettuale quella mattina l’acchiappammo proprio noi. Uno
dei vigili si spazientì, non voleva arrivare a questo, lui, come me,
presentiva una scenata che stranamente non ci fu.
«Io niente, sono qui e osservo… è reato?».
«Figliolo, tu non voti, l’abbiamo capito tutti, posso chiederti solo una
cosa?».
«Ci mancherebbe…».
«Non ti senti in colpa?».
«Ma no, non sono mica un cattolico, io?», anche a quel punto, mi si
perdoni, non riuscii a non ridere.
Il tutore dell’ordine, quello spazientito, prende Gabriele per il braccio e
con un «basta così» ci invita ad allontanarci una seconda volta. Leviamo le
tende.
«Scimmie», dice serio.
Nel quartiere e dintorni si sa, che noi e quelli della nostra cricca, abbiamo
un pessimo rapporto con la normalità. Puttanate. La gente qui va a votare
perché sono stati promessi loro posti di lavoro e meschinità di questo tipo.
Si sappia. Io odio l’omertà e soprattutto non mi va di raccontarvi fesserie.
«Rossella… non ti buttare giù!», mi dice in macchina, appena svoltati in
un vico lontano dal luogo della vergogna, «anche tu non hai bisogno di
votare… tu poi che sei uno scrittore! Stai su, quando tutto manca puoi
arruolarti…», così terminò quell’avventura mattutina.
Non mi ci sono mai visto nelle vesti di un militare. Ultimamente sono tutti
militari. Se non sai che farne della tua vita, e sei riuscito a mala pena e con
fatica a prenderti uno straccio di diploma, non disperare, puoi sempre
arruolarti.
3.
7
Il concetto di normalità mi ha sempre turbato. Al di là di tutte quelle
sospiranti congetture numeriche adolescenziali, che ci fanno albergare
nell’ideale minoranza consolatoria, è il formale che mi sconcerta.
Un po’ come la questione della mescolanza di stili. Fatta con criterio,
spaziando dal tragico al comico, si può ottenere il realismo. Nel momento
in cui si ottiene il realismo senza ripercorrere certi passaggi che sembrano
di norma, pare che di realismo non si possa più parlare.
Ebbene, se si tratta di questo io non credo più nel realismo, e nemmeno
nella normalità!
Bando alle ciance. Quale madre non vorrebbe abortire sapendo di avere in
grembo uno Schiller?
La madre di Gabriele, ad esempio, fa delle ottime lasagne. Si, Gabriele si
nutre, proprio come noi.
Poco fa aspettavo in macchina Gabriele. Ero in presente. Un pasticcio
stilistico arrapante per me. Perché tempo addietro pianificammo un
viaggio. Che poi dire “pianificammo” è davvero una stupidaggine. Ci
dicemmo di partire. Metterci in macchina e andare. Arrivò Gabriele.
Arrivò anche Alessandro.
«Ci siamo ragazzi… che avete portato?», chiesi quando fummo riuniti su
sedili agonizzati.
«Soldi», proruppe Alessandro.
«Niente», urlò l’arcangelo, imitando lo stesso tono del giovane appena
presentatovi, quasi come a voler sottolineare un’eguaglianza tra le due
cose che certo latitava.
«Io ci metto la macchina, direi che possiamo andare».
Non convinsi nessuno.
«Cesso, ma quella lì sul balcone è tua madre?».
Dunque.
Alessandro per rispettare la regola di Gabriele di non voler pronunciare il
mio nome, ricordo che in merito mi disse che avrei dovuto scegliere o di
avere un nome o di fare lo scrittore, che cosa strana, dicevo, ha
semplificato tutta la faccenda chiamandomi sempre allo stesso modo.
«Cesso».
«Sì Alessa’ è mia madre».
Ovviamente calò giù il finestrino e iniziò a urlare.
«Non si preoccupi signora, noi siamo ragazzi puliti, non usciamo mai
senza preservativi… anche se suo figlio non corre nessun rischio».
8
« La smetti stronzo?».
«Arrivederci signora… non stia in pensiero… si riguardi».
«Si riguardi? Ma che cosa?», mia madre rintanò quasi spaventata. Povera
donna.
«Gabrie’ mi conti questi per favore?», Alessandro passò una mazzetta di
soldi all’arcangelo che, senza fare domande e senza provare curiosità,
iniziò a contare con fare da certosino.
«Alessa’ ma dove li hai presi tutti ‘sti soldi?», chiesi.
«Guarda è una storia triste».
«Dai non fare il cretino».
«Ho venduto tutto. Ci siamo sciolti».
Gabriele smise di contare. Io frenai il respiro. Fuori si fermò un vecchietto
con la bici. Quest’ultimo fu casuale, ma cazzo fu una coincidenza troppo
bella, fatidica.
«Che dici?».
«Si raga’… è finita».
Alessandro ha una faccia da bravo ragazzo. Ora immaginate una faccia da
bravo ragazzo che assume un’espressione melodrammatica. Vi viene
voglia di prenderlo a schiaffi? Eh, sì però in quel momento non si poteva.
Dovevamo essere sensibili.
«E adesso?».
«Mi sono venduto chitarra, amplificatore, pedali, e mo’ sto pieno di
soldi?».
«Sono tanti!», proruppe Gabriele stimando il peso della mazzetta, «sai che
chitarra puoi comprarti con questi? Ah già… scusa».
Lo capii. Di solito noi si ragiona a chitarre per comprendere il valore del
denaro.
«Non sembri felice di aver venduto tutto…».
«Non lo sono».
«Ho un’idea!», si intromise nuovamente l’alato, «dato che bene o male
tutti e tre suoniamo, perché non formiamo una band?», colorì l’intera frase
con un tono di entusiasmo giovanile che non gli si addiceva affatto.
«No, questo implicherebbe scendere dalla macchina…».
«Eh bhè».
«No».
«Effettivamente non ci abbiamo mai pensato… strano».
«Non è così strano, Romeo…», mi richiamò l’arcangelo, «semplicemente
noi non ci guardiamo come musicisti, nel senso che se io penso a te o a
9
quest’altra faccia di cazzo, non penso che suonate, penso tipo alle
stronzate che facciamo tutto il giorno».
«È vero», sottolineò il neodisoccupato.
«Ma come mai vi siete sciolti, ce lo vuoi dire?».
«La gente si merita i karaoke».
Noi siamo cresciuti a pane e Nirvana. Di questi saccenti avanguardisti che
hanno bisogno di sborsare fior fior di quattrini per ascoltare band jazz
davvero fuori luogo solo per spararsi le pose ne abbiamo le palle piene.
Ebbene, non bisogna piangersi addosso e fare la vittima. Dico chi sono i
colpevoli, poi non sta a me decidere. Per quel che mi riguarda, li ho già
uccisi tutti.
«Il Korova Milk Bar sta per chiudere!», disse Alessandro. La notizia ci
sconvolse, benché sapevamo che alla fine sarebbe andata a finire così.
Il mezzogiorno è Londra. Ci sono band indipendenti, di ogni genere, a
buttare. La scena musicale underground è viva, è nuova e pulsa. Il
mediterraneo è un ventre gravido di band emergenti, band che stanno lì lì
per emergere, band che si sono rassegnati a ‘sta storia di emergere, e che
fanno ottima musica. Il problema a quanto pare è storico, antropologico.
Il tipo meridionale è distruttivo. La sovrappopolazione di artisti, in
contaminazione crescente con i più “dagli occhi sordi” o con gli
“arricciatori di naso” contribuisce allo sfacelo. Specialmente la categoria
dei falliti, quelli che hanno imparato a memoria la canzoncina “il mondo
non è ancora pronto per le nostre cose”, o ancora peggio “quest’epoca…
bla bla bla… siamo nati in un periodo sbagliato”.
Il Korova Milk Bar, sì, proprio quello di Arancia meccanica, era appunto
un locale molto particolare dove si esibivano band locali e di tanto in tanto
ci facevano qualche puntatina anche band di altre regioni d’Italia,
addirittura qualche straniero. Non pagavi l’ingresso e prendevi birra a poco
prezzo. Nonostante questi allettanti vantaggi, la contea non approvava e
disprezzava sempre con quel piglio di ottuso meridionalismo. Non ho
ancora capito a che pro. L’andazzo deperiva e di conseguenza le band si
scoraggiavano. Le motivazioni Alessandro non ce le aveva date, ma per
noi, dato il suo parlare, comparivano abbastanza chiare. Evidente era
anche il fatto che nell’aria si respirava una certa stanchezza. I musicisti e i
gestori dei locali ne avevano ben donde e loro come noi, convenivano che
era davvero un periodaccio. Anche lì è accaduto questo. Nel meridione, al
di qua del discutibilissimo luogo comune della cordialità a tarallucci e
10
vino, c’è una particolare predisposizione alla distruzione piuttosto che alla
creazione. Nel campo artistico. Deprimente. Ci sono, ad esempio, le caste.
E cioè non vai avanti se sei valido. Puoi essere anche il padre eterno in
persona incarnato nell’arte, ma vai avanti solo a conoscenze. Ci sono le
loggette. Devi essere l’amico di amici. Devi andare a votare solo a chi ti
promette un posto di lavoro.
Noi tre, che siamo puri e siamo fieri di esserlo, di conseguenza e con molto
piacere, pisciamo in mano a questi miserabili.
Li chiamiamo artisti, per carità, chi vorrebbe mai togliere loro questo
strameritatissimo titolo?! Ma comunque sia, ci pisciamo in mano.
Le loggette poi, non portano davvero a niente.
Si tratta di circuiti chiusi limitati e inconcludenti e servono per
consolatorie autocelebrazioni. Idolatrare se stessi come pratica autoerotica.
Il Korova Milk Bar era un paradiso artificiale per bevitori d’assenzio mai
esistiti.
4.
Aria calda. Voglia di nutrirsi dell’altro, di denudarsi. Perché al Korova ci
si spogliava. Si mischiavano anime smarrite alla ricerca di strade che
molto spesso portavano dentro se stessi. In quei luoghi in cui ci si arriva
solo mettendo da parte l’apparenza e mostrando all’altro non più l’abito,
ma la pelle. Onoravamo il posto della nostra presenza ogni sacrosanta sera.
Fuori non c’era niente, e noi sapevamo bene che per andare da qualche
parte sul serio, non occorrevano pieni di benzina e chilometri da macinare
per sbarcare in qualche localino alla moda pieno di barbie liceali e
soldatini rasati con occhiali da sole anche di notte.
Bastava aprire quella porta. Fare cenno al mecenate dietro al bancone, un
uomo di trent’anni e passa che non ci faceva mai pagare il primo e l’ultimo
giro. Dare uno sguardo alla locandina per vedere di cosa ci saremmo beati
e poi essere, essere lì, esserci. Comunicare con le persone senza dover
ricorrere a stratagemmi linguistici o a funzioni fàtiche, perché tutti quelli
che entravano in quel posto sapevano che non c’era bisogno di presentarsi
e stringersi le mani, annusare l’aria per stimare le condizioni atmosferiche.
Storditi e barcollanti uscivamo in orari impossibili, e andavamo a dormire
nei letti, a rintanare nelle nostre case, con la bocca impastata di birra e
fumo e col cervello leggero, svuotato a sufficienza per raccogliere al
meglio gli ultimi doni del buon Morfeo.
11
Il mattino seguente avevamo difficoltà a uscire fuori dalla spirale onirica.
Me ne stavo buono buono in un angolo, una sera al Korova, sprofondato in
un divanetto e perso nei miei pensieri, quando mi si avvicina una tipa con
due grandi occhi colati e un sorrisetto tutto miele.
“ Ehi…” attira la mia attenzione avvicinandosi con circospezione “ …ho
letto il tuo libro…”.
Le sorrido.
“ L’ho trovato un po’ pesante sai…” è di una naturalezza spaventosa.
“ Effettivamente è un po’ contorto…”
“ No…ho detto pesante”
“ Se vuoi ti rimborso!” Le rispondo prima di ridere e strizzare l’occhio.
“ No…io non volevo parlare di questo comunque…ho un po’
vergogna…volevo darti una cosa…”
Guarda la mia faccia sorpresa e arrossisce.
“ Ti sembrerò presuntuosa ma leggendo il tuo libro ho capito che tipo di
persona sei…non fraintendermi, può darsi che mi sbagli…comunque sia
questo è per te…prendilo come un ringraziamento”
È un astuccio amici.
“ Perché credi di dovermi ringraziare?”
“ Da piccola avevo un sogno e adesso non ce l’ho più…”
Inizio a sentire un odore familiare nell’aria e a presentire.
Apro l’astuccio e dentro c’è una penna che mi dice di dover continuare a
scrivere. La ragazza ha guardato dentro quel libro che scrissi un po’ di
tempo fa. C’ha guardato bene dentro e probabilmente ha visto un po’ di lei
tramite me.
I suoi grandi occhi sono tristi.
“ Posso sapere come ti chiami?” Le domando quando si alza per
allontanarsi.
“ Adriana.”
Sfilo la penna dall’astuccio e quell’odore si fa più intenso.
È un caffè servito in un bicchierino da liquore tutto squadrato, già
zuccherato.
Poi la sua schiena inghiottita da una chiazza d’anime nell’antro
ondeggiante del Korova.
Seguì una sigaretta per il mio palato ben disposto.
Al Korova si poteva fumare, altro bel vantaggio.
“ Sono tremiladuecentosettantacinque euro!”
“ Pensavo fossero di più…”
12
“ Che vuoi era comunque roba usata…”
Eravamo rimasti in silenzio a contemplare l’arcangelo che s’era
improvvisato contabile, e senza accorgercene, s’era fatto buio.
“ Dove volete andare?” Domandò Alessandro.
“ Aspetta un po’…” Adesso interruppi io.
“ Che ha fatto il Napoli?” Chiese rivolto poi a Gabriele, mentre mi passava
la borsa con dentro il mio taccuino. Aveva notato la folgorazione che
m’aveva attraversato gli occhi e sapeva che avevo bisogno di scrivere.
Qui il caffè era stato già servito, prematuramente.
“ Ha vinto.”
“ Sta facendo un bel campionato il Napoli…”
Tremiladuecentosettantacinque volte hanno bussato in vano, mani leggere,
su porte d’avorio sbarrate, con arroganti sentinelle a far la guardia.
Abbiamo spiato dal buco della serratura, il mare che vi si cela, agitato
come un cuore corrotto dall’ansia che pulsa e schiumeggia sotto il petto
rubandoci sogni e sospiri.
Da qui sentiamo spifferi di quel vento che c’è stato negato.
Accarezzano l’iride e pungendo lievemente c’avvolgono di fremiti.
Noi, imperterriti, continuiamo a bussare.
Infilai la penna nell’astuccio. Adriana. Passai il taccuino ad Alessandro
che ripose tutto in borsa.
“ Era anche ora…cioè non dico la Champions però adesso un bel sesto,
quinto posto ci starebbe bene!”
Uno “speriamo” sospirante si lanciò dal trampolino delle nostre lingue.
“ Ragazzi, per capire bene dove vogliamo andare…” iniziò Gabriele, “
dobbiamo capire da cosa vogliamo fuggire…”
“ Faremo mattina…” Aggiunse Alessandro.
Fu dato a me quel compito.
Mi guardarono aspettando che iniziassi a parlare e nei loro occhi c’era
proprio quella curiosità di sapere con quali parole avessi iniziato a scrivere
col fiato le ragioni per cui dovevamo andarcene.
Ebbene le ragioni cominciano proprio da qui.
13