Il ragazzo ei suoi occhi Siamo qui, davanti a noi c

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Il ragazzo ei suoi occhi Siamo qui, davanti a noi c
Il ragazzo e i suoi occhi
Siamo qui, davanti a noi c’è un futuro migliore. Lui mi guarda, mi
sfiora la ferita, ormai cicatrizzata, e abbassa lo sguardo. Vuole
nasconderlo, ma capisco lo stesso che è terrorizzato. Lo vedo dai suoi
occhi.
L’arrivo di un nuovo ragazzo aveva scombussolato la nostra vita di
giovani studentesse. Nei corridoi non si parlava d’altro, ma la
domanda principale era: “sarà carino?!”. A me non interessava molto
essendo la solita studentessa “secchiona” che passa le sue giornate sui
libri. Beh, almeno questo era quello che pensavano le mie compagne.
In realtà io ero convinta che per me non era ancora il momento di
pensare al “fidanzatino”, al “morosetto”, o in qualunque altro modo si
può chiamare: io volevo solo pensare a me e al mio futuro. Finalmente
arrivò il giorno del suo arrivo: era un ragazzo davvero carino,coi
capelli marroni scalati e la frangetta. Gli occhi, sul marrone, erano
estremamente chiari, certe volte sembravano evanescenti e, con una
luce particolare, acquistavano una serie di sfumature che li facevano
sembrare azzurri. Quello che non mi piacque fin da subito era il suo
modo di vestire: pantaloni a vita bassa, boxer fin troppo visibili,
maglietta a maniche corte anche in inverno ( che faceva venire freddo
anche solo a guardarlo) e l’immancabile cappello tenuto solo
appoggiato sulla testa per aumentare il volume del cranio. Insomma, il
solito look da ragazzo poco intelligente. La cosa, per me, più strana
era che molte delle mie compagne lo apprezzavano e lo consideravano
estremamente affascinante. Per fortuna i professori furono tutti
d’accordo con me e subito dopo la prima ora lo mandarono fuori dalla
classe. Quando vide che ero l’unica ragazza che non lo considerava
cominciò a importunarmi dicendomi che mi amava, che non poteva
vivere senza di me; al solo scopo di trovare un’altra seguace per le sue
imprese folli. Durante il viaggio di istruzione scoprii che non solo si
atteggiava da perfetto stupido, ma che lo era realmente. Avevamo una
mezz’oretta di tempo libero per visitare la città. Io e una mia
compagna avevamo deciso di girare per i mercatini per cercare
qualche souvenir da portare a casa e all’improvviso me lo sono trovato
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davanti con una sigaretta in bocca. Di questo non mi sono stupita, ma
qualche secondo dopo arrivarono altre due mie compagne di classe
con la stessa dipendenza. Appena ci videro ci offrirono queste loro
“puzzolenti fiale ammazza-neuroni” dicendoci che “fare un tiro non fa
male”. Ovviamente rifiutammo. Dopo qualche tempo questa epidemia
cominciò a diffondersi sempre di più perché tutte volevano
assomigliare a quel ragazzo affascinante. Molte mie compagne
smisero anche di studiare e presero a comportarsi come vere oche. Mi
dispiaceva per loro, ma benedicevo il cielo di avere tutto il cervello
intatto e di poter ancora ragionare. La mia visione di lui cambiò
durante un altro viaggio d’istruzione. Dovevamo fare un lavoro in
gruppi di tre persone e io “fortunatamente” finii con lui. L’altra nostra
compagna si sentiva male e fu riportata in albergo, così io fui costretta
a restare sola con quel tipo. All’inizio cercai di prenderla in modo
molto professionale e poco amichevole, ma poi vidi che non mi stava
ascoltando: che rabbia che mi fanno le persone quando non mi
ascoltano! Quella volta non mi arrabbiai perché, prima che io potessi
dire qualsiasi cosa, lui mi guardò negli occhi e, per la prima volta, vidi
un alone di tristezza che copriva il suo sguardo così penetrante.
All’improvviso mi disse: “tu mi odi?”. Rimasi imbambolata per
qualche istante prima di realizzare che era stato proprio lui a pormi
quella domanda, alla quale risposi con un ovvio:”no, perché?” “così”.
Poi accelerò il passo e ricominciò con il suo solito atteggiamento
fastidioso, tanto che pensai di aver sognato questo nostro piccolo
scambio di parole. Il problema fu che cominciai a pensarlo sempre,
non c’era niente che potevo fare senza avercelo in mente e ricordarmi
dei suoi misteriosi occhi: studiavo, e ogni volta che c’era un
personaggio maschile aveva la sua faccia, leggevo, e il protagonista
era lui e la protagonista io. Cominciai a leggere gialli in cui il
protagonista finiva male, ma allora lui diventava l’ispettore che
risolveva l’enigma, provai allora con i libri drammatici, ma mi
dispiaceva troppo vederlo finire male così smisi di leggere anche
quelli. Da quella volta non ci eravamo parlati più seriamente, ma mi
sembrava che qualcosa fosse cambiato, mi sembrava più gentile nei
miei confronti. La magia finì un giorno, quando io e una mia amica
stavamo andando a scuola e lo incontrammo con la sua combriccola di
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amici tutti ugualmente con poco cervello. Appena lo vidi mi scappò
un piccolo sorriso. Vidi i suoi amici che ridevano, ma non capivo
perché. Lui si avvicinò, mi prese per un braccio e mi scaraventò a
terra. Appena mi rialzai lo guardai negli occhi, non li avevo mai visti
così da vicino, ma prima di capire qualcosa la mia amica mi prese per
un braccio e corremmo via. Quel giorno non venne a scuola. Io
continuavo a pensare a quegli occhi, non erano normali, erano spenti.
Non venne a scuola neanche il giorno dopo. Ero davvero preoccupata,
anche se non riuscivo a capire come si poteva essere preoccupati per
una persona così orribile. Alla terza ora, finalmente, arrivarono sue
informazioni. Fu il prof di lettere a darci la notizia. Ci disse che era
stato ricoverato in ospedale in seguito a un collasso perché durante
una festa in discoteca aveva bevuto troppo. Tre ore dopo ero in
ospedale. La notizia mi aveva fatto stare malissimo e non avevo
trovato soluzione migliore che andarlo a trovare. Volevo vederlo.
Mentre mi stavo ancora chiedendo se avevo fatto bene ad essere lì, un
infermiere mi venne a chiamare e mi portò da lui. Appena lo vidi
rimasi colpita dal pallore della sua pelle e dalla solitudine del bianco
del suo letto. Lui mi guardò e mi sembrò di vedere un luccichio nei
suoi occhi, quasi di felicità, ma non riuscii a capire bene perché subito
si girò dall’altra parte. In quel momento ruppe il silenzio
chiedendomi: “perché sei qui?”. Il suo tono di rimprovero mi fece
rabbrividire e cominciai a balbettare: “ecco, io…io, volevo…sì,
insomma, sapere…”, non riuscì a finire la frase che lui si girò verso di
me e cominciò a urlarmi contro: “tu non devi sapere niente, non ti è
bastato quello che ti ho fatto ieri? Cosa devo fare affinchè tu sparisca
dalla mia vita?”. All’ udire le urla accorse un’infermiera che mi chiese
di andare via. Arrivata a casa mi stesi sul letto e, affondando la testa
nel cuscino, mi misi a piangere. La settimana dopo ci avvisarono che
lui era stato rilasciato dall’ospedale, ma che aveva deciso di cambiare
scuola. Nei giorni successivi non si parlava d’altro, ma dopo poco le
voci si calmarono e tutto tornò come prima. L’unica persona che
continuò a pensare ininterrottamente a quel ragazzo fui io. Per la
prima volta i miei voti cominciarono a calare, ma a me non
interessava, volevo solo rivedere quegli occhi stupendi. Un giorno,
appena uscita da scuola, vidi una figura svenuta a terra, mi avvicinai e
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scoprii che era lui. Subito presi il cellulare e chiamai il 118. Poco
dopo ero seduta nella sala d’attesa dell’ospedale. Una breve chiamata
ai miei genitori per avvisare che mi fermavo a scuola a studiare con
una mia compagna ed avevo avuto il pomeriggio libero. Due ore dopo
arrivò un infermiere che mi avvisò che tutto era a posto e che si era
trattato di un altro collasso. Mi chiesero anche se conoscevo il numero
di qualche suo parente, ma risposi di no. Ripensandoci mi venne in
mente che lui non ci aveva mai parlato della sua famiglia. Chiesi se
potevo vederlo, ma mi dissero che doveva riposare e di tornare il
giorno dopo. La mattina dopo a scuola non pensai ad altro. Non me la
presi neanche quando le mie compagne cominciarono a prendermi in
giro chiamandomi “testa di nuvola”. Alle 15:00 in punto, lo so perché
continuavo a guardare l’orologio, ero di nuovo davanti a quella
camera d’ospedale. Appena mi vide mi guardò negli occhi, poi
abbasso lo sguardo con fare remissivo. Senza guardarmi mi disse con
un tono abbattuto: “perché mi hai portato qui? Perché non mi hai
lasciato là?”. A sentire queste parole abbassai gli occhi e risposi con
un semplice: “io…”, ma lui riprese a parlare dicendomi: “perché sei
sempre così gentile con me? …io…non me lo merito…”. A sentire
quelle parole lo guardai in faccia e gli dissi con tutto il fiato che avevo
in gola: “non dire così, tu te lo meriti,io…”. A quel punto sussurro un
“grazie”. Poi si alzò dal letto, era terribile vederlo così debole, mi si
avvicinò, mi sfiorò una guancia e mi baciò. Tornò a letto e io dovetti
andarmene perché era finito l’orario di visita. Tornai a casa
chiedendomi se i miei piedi erano ancora attaccati a terra o se stavo
decisamente volando. Optai per la seconda. Sentivo ancora il calore
sulle mie labbra e speravo che questa sensazione avesse potuto durare
per sempre. Il giorno dopo a scuola venni ripresa varie volte e i
professori insistettero per mandarmi in infermeria perché sembrava
davvero strano questo mio comportamento. Dopo aver accertato che
non avevo la febbre, avvisarono i miei genitori che era un periodo in
cui non stavo molto bene. Risultato: una bella giornata chiusa in casa
con due genitori addosso che cercano di improvvisarsi consulenti per
risolvere i tuoi problemi come secondo loro è più giusto. Insomma,
una giornata terribile. Mi dispiaceva soprattutto non poter tornare
all’ospedale da lui. Alla fine risolsi il problema genitori dicendo loro
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che in quel periodo ero un po’ stanca, ma che mi sarei ripresa. Il
pomeriggio dopo andai all’ospedale. Arrivai di corsa davanti alla sua
camera, entrai e mi inginocchiai di fronte al suo letto. Ansimante
dissi:
“scusami,…non
potevo…,mi
dispiace,…ecco…”.
All’improvviso sentii una voce poco famigliare e alzai gli occhi: mi
ritrovai davanti un signore sulla cinquantina che mi guardava
perplesso. Chiesi scusa e me ne andai via velocemente. Che vergogna!
Scoprii che lui era stato rilasciato, ma io avevo bisogno di vederlo. La
mattina dopo, a scuola, mi informai sugli orari dei professori e scoprii
che alla quinta ora tutti gli insegnanti erano a far lezione nella diverse
classi. Arrivata a quel momento della mattinata chiesi alla prof di
andare in bagno, ma, appena fuori dalla classe, corsi in aula
professori: era vuota. Trovai subito il cassetto con le cartelle degli
studenti, in cui sono contenuti i dati fondamentali. Per fortuna c’era
ancora la sua. Segnai il suo indirizzo e tornai velocemente in classe:
mai il mio banco di scuola mi era sembrato più sicuro. Quel
pomeriggio mi assicurai che mamma e papa fossero lontani dai miei
progetti e, avutane la conferma, feci sapere loro che mi fermavo
ancora a scuola per studiare. Invece mi precipitai a quell’ indirizzo
scritto velocemente su un pezzo di carta. Arrivata ricontrollai il foglio
perché mi sembrava strano che un ragazzo che aveva tutto di marca
potesse vivere in un posto così misero. Guardai il cognome sulla porta
e anche quello mi confermò che era proprio la casa giusta. Suonai. Mi
aprì una ragazza molto alta, coi capelli arruffati e una sigaretta in
bocca. Indossava vestiti firmati, ma niente in lei sembrava combaciare
con il suo abbigliamento. Chiesi di lui, ma ero estremamente convinta
di aver sbagliato indirizzo. O almeno lo speravo fortemente. La strana
tipa urlò il suo nome e lui arrivò quasi subito. Appena mi vide si
spaventò. Corse dentro e tornò pronto per uscire. Guardò la ragazza e
le diede dei soldi, poi le disse di non dire niente di me a “quello”.
Dopo mi prese per un braccio e mi portò via. Ci fermammo in un
parco seduti su una panchina. I bambini intorno a noi giocavano felici.
Lui guardava in basso e, prima di guardarmi, disse: “ non venire più, ti
prego,…”. Cercai di cambiare discorso chiedendogli chi fosse quella
strana ragazza. Mi disse che era sua sorella. A questo punto ammetto
che tirai un sospiro di sollievo. Poi mi chiese perché non ero andata a
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trovarlo in ospedale. Gli spiegai la situazione e lui mi rispose
annuendo. Finimmo di parlare. Lui mi prese il braccio mi strinse a sè.
Chiusi gli occhi per godermi quel momento. Rimanemmo così per un
periodo di tempo che non saprei definire. All’improvviso squillò il suo
telefono, lui rispose in tono sgarbato, poi mi guardò e mi spiegò che
doveva tornare a casa. Insistetti per accompagnarlo. Durante il tragitto
lui mi guardò e mi disse: “cos’hai provato quando,…ecco,…ti ho
baciato,…?” “leggerezza”, risposi. Mi guardò negli occhi, sapevo che
stava per esserci un altro momento magico: lui si avvicinò a me e mi
baciò. Decidemmo di ritrovarci il giorno dopo nello stesso parco.
Cominciammo a incontrarci tutti i pomeriggi in quel luogo, ma,
quando era ora di tornare a casa, insisteva sempre per non farsi
accompagnare. Notai che anche le domande sulla sua famiglia lo
facevano chiudere in se stesso. Non mi sembrò una cosa strana: molti
adolescenti non hanno una buona visione dei genitori. Conobbi anche
sua sorella minore, una dolce bambina di cinque anni coi capelli ricci
e gli occhi azzurri. E’ stupefacente quanto somigli al fratello. Mi
piaceva portarla al parco e vedere le facce buffe che il fratello faceva
per farla ridere. La soprannominai “Buz” per il suo grande amore per
la natura e soprattutto le sue “dolci” api. E’ davvero assurdo vederla
correre dietro a quegli insetti per studiarne il comportamento. Ha pure
un quaderno su cui segna i suoi appunti. Così, mentre lei si dedicava
ai suoi studi, noi potevamo stare un po’ soli. Un giorno, poco dopo
che loro se n’erano andati, stavo per tornare a casa, quando notai sulla
panchina la sua giacca. Decisi di riportagliela e mi avviai verso casa
sua. Arrivata suonai e subito lui mi aprì. Appena mi vide mi fece
segno di andarmene, ma io non capì. All’improvviso uscì un uomo
che faticava a tenersi in piedi e mi fece segno di entrare. In quel
momento arrivò anche la sorella del ragazzo dagli occhi magici e
prese da dietro lo strano signore, cercando di riportarlo dentro.
Quest’ultimo, spaventato, si agitò e la scaraventò a terra. D’impulso
entrai e andai in soccorso di quella povera adolescente, senza ascoltare
le urla di lui che mi incitava di andarmene. Quel signore, vedendomi
andare verso di lui, si spaventò e afferrò un vaso di fiori cercando di
colpirmi. Non ci riuscì al primo colpo, ma al secondo sì. Beh, non che
io mi ricordi quello che sia successo dopo quel primo colpo, so solo
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che mi risvegliai in una camera d’ospedale con la testa fasciata e un
mazzo di fiori sul comodino. La prima persona che vidi fu mia
mamma. Mi spaventai al pensiero che avesse scoperto tutto. Per
fortuna era all’oscuro degli ultimi fatti successi alla figlia, sapeva solo
che l’avevano chiamata nel tardo pomeriggio e le avevano detto che io
ero stata ricoverata in ospedale. Per lei ero stata portata qui da un
ragazzo che aveva detto di avermi trovata a terra svenuta mentre
tornava al parco a riprendersi la giacca che aveva dimenticato, dovevo
essere inciampata su un sasso ed essere atterrata su un vaso. Capii che
voleva proteggere quel signore. Passammo un pomeriggio madrefiglia, ma devo dire che quella volta non mi dispiacque affatto. Lui
arrivò verso sera. Appena lo vide mia mamma mi guardò severa e
volle subito sapere tutto di lui. Fui costretta a presentarglielo e a dirle
che eravamo, come dire, “amici speciali”. Dopo avergli fatto
un’accurata radiografia se ne andò salutandomi appena. Ma mia
mamma è così, oppressiva fino al midollo. Sapevo già che il giorno
dopo mi avrebbe aspettato il terzo grado, ma non mi interessava, ora
volevo solo pensare a lui. Eravamo nuovamente soli. Mi disse che il
pomeriggio dopo avrebbe portato anche Buz. Gli chiesi chi fosse
quell’uomo. Mi spiegò che era suo padre e che tutte le sere tornava a
casa ubriaco, o almeno dalla morte della loro madre. Dopo mi
abbracciò e rimanemmo in silenzio. Amo i nostri momenti di silenzio,
ma in quel momento non riuscii a godermelo, perché il mio pensiero
era a quella orribile situazione che opprimeva lui e Buz. Finito l’orario
di visita fu costretto andarsene. Prima, però gli presi la mano, lo
guardai e gli dissi: “devi raccontarla a qualcuno la situazione di tuo
padre. Non può continuare così, può essere pericoloso”. Lui mi
rispose: “lo so, ma non voglio che me lo portino via, dopo tutto è
l’unica persona che ci resta”. Rimasi sola. Per fortuna questo non fu
un peso perché avevo un sacco di materiale su cui ragionare. Volevo
aiutarlo, ma, anche dopo un’intera notte di ragionamento (non riuscivo
a dormire perché avevo male alla testa e mia mamma non voleva
farmi dare farmaci), ero al punto di partenza. La mattina dopo mi
vennero a trovare sia mamma che papà. Fu un inferno. Le loro
domande non finivano più, ma dopo un po’ riuscii a calmare la
situazione e ad evitare domande troppo compromettenti. Insomma, fui
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costretta a dire loro ulteriori bugie, ma alla fine tutto era risolto. Nel
pomeriggio vennero anche lui e Buz. Quanto fui felice di rivederla!
Continuò a farmi domande per tutto il tempo su qualsiasi cosa. Mi
faceva ridere. Dopo quel giorno i miei genitori furono più tranquilli,
non parlammo più di quell’argomento e quindi, anche in ospedale
riuscirono a farmi stare bene. Dopo un mese finalmente mi fecero
uscire. Dopo quell’avvenimento i miei genitori evitarono di farmi
uscire troppo spesso. Quando ero da sola, pensavo sempre a lui che
era alle prese con quel “fantasma nell’armadio” che si portava dietro
da tanto tempo e mi dispiaceva perché, dopotutto, lui è il mio “amico
speciale”. Non era più come prima, io non ero più la stessa di prima.
Avevo paura di lui, o avevo paura per lui. Quanto ci incontravamo nel
nostro parco ero distaccata, lo sapevo, ma non riuscivo a non esserlo.
Anche lui se ne accorse, ma, quando provò a chiedermi informazioni,
gli risposi che non era successo niente. Anche Buz se ne accorse e
nell’ultimo periodo cominciò ad essere violenta. Un giorno all’asilo
picchiò così tanto un bambino che gli fece uscire sangue da naso. Quel
giorno capii che la storia tra me e suo fratello era l’unica cosa in cui
riusciva ancora a sperare e, ora che le cose tra noi non andavano tanto
bene, la nostra tristezza ricadeva anche su di lei. Così decisi di parlare
a lui della mia paura. Appena glielo dissi mi abbracciò forte e…si
mise a piangere. Non l’avevo mai visto piangere. Anzi, non avrei mai
pensato che un ragazzo così forte potesse piangere. Abbracciati in
quel parco mi sembrava che non potesse esistere nessun altro
all’infuori di noi. All’improvviso cominciò a parlare sussurrandomi
all’orecchio: “è sempre così,…tutte mi lasciano per paura di lui,…ma
io non sono lui,…”. Non avrei mai voluto sentirgli dire queste parole.
Io mi aspettavo che lui mi abbracciasse e mi dicesse da vero
supereroe: “stai tranquilla, mia cara, ora ci sono io qui. Non
permetterò che tu abbia paura di questo”. Questo suo modo di
comportarsi mi aveva preso alla sprovvista. Passarono almeno due
minuti di silenzio (che a me sembrarono tre ore) prima che io potessi
rispondergli. Gli dissi: “Ehi, io non ti voglio lasciare. Anzi, non avrei
mai potuto mai immaginare di poter star bene con una persona come
lo sono con te”. Mi guardò con due occhi bagnati e mi disse: “allora
non mi lasciare mai”. Dopo quel giorno la situazione si sistemò un
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po’, anche se, quando cercavo di convincerlo di far qualcosa per
aiutare suo papà, lui abbassava lo sguardo e taceva. Nell’ultimo
periodo era anche peggiorato. Aveva delle occhiaie tremende ed era
sempre scortese. Con me cercava di non arrabbiarsi per qualunque
motivo, ma spesso non ci riusciva. Quando gli chiedevo informazioni
mi rispondeva sempre sgarbatamente. Una sera mi chiamò. Risposi
subito. Mi disse che suo papà aveva fatto un incidente mentre era
ubriaco e che era stato ricoverato d’urgenza. Per fortuna i miei
genitori erano momentaneamente usciti, così presi l’occasione per
uscire di nascosto. Lasciai loro un bigliettino sul tavolo con su scritto:
“scusatemi ma sono uscita. È urgente. Per favore non cercatemi che
sto bene”. Sapevo che non mi avrebbero ascoltata e che si sarebbero
infuriati, ma non avevo scelta. A quell’ora la stazione era quasi vuota
e le poche persone che c’erano avevano uno sguardo estremamente
losco. Ero terribilmente a disagio, ma sapevo che oramai non potevo
più tornare indietro. Appena arrivò il treno gli corsi dentro. Non
riuscii a sedermi, ero troppo agitata. Scesa dal mezzo mi misi a correre
fino all’ospedale. Lui era nella nostra solita sala d’attesa. Appena mi
vide mi corse incontro, mi abbracciò e si mise a piangere. Anche
quella volta mi prese alla sprovvista. Avevo sempre visto gli uomini
come la parte forte della specie umana che devono proteggere le
donne, ovvero la parte debole e quelle che solitamente piangono. In
quel momento era tutto diverso. Guardai nella sala e vidi che c’era
anche Buz che dormiva con la testa appoggiata sulla sedia. Quando lui
si calmò un po’ mi feci spiegare la situazione. Mi disse che suo padre,
per il suo stato di ubriachezza, era stato licenziato. Questo aveva
prodotto in lui un peggioramento tale che molte volte non riusciva a
tornare neanche a casa e si addormentava davanti al bar. Il problema
era che tutti i giorni doveva cambiare luogo perché non sempre
riusciva a pagare e veniva sbattuto fuori. Così i figli dovevano
cercarlo tutta la notte per riportarlo a casa. In più aveva lasciato debiti
ovunque. Poco dopo arrivò sua sorella maggiore e ci disse che tutto si
era sistemato e per fortuna loro papà era ancora vivo. In quel
momento il mio cellulare squillò. Risposi, sapendo già cosa mi
aspettava. Mia mamma, appena le dissi che ero all’ospedale, arrivò
subito portandosi dietro papà. Appena arrivarono fummo costretti a
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spiegare loro la situazione e a svelare tutte le mie recenti bugie. Per
fortuna non la presero male, anzi, ospitarono tutti i tre sfortunati
fratelli a casa nostra a riposarsi. Lui accettò e si decise di portare
anche la piccolina, sua sorella maggiore decise di rimanere lì. A casa,
ovviamente, misero lui in un posto estremamente lontano dal mio e ci
vietarono di vederci. Ma cosa volevo, dopotutto sono genitori. Buz
dormì accanto a me. È una piccolina così dolce. Però mi dispiaceva
avere mentito a loro, anche se non potevo dire loro tutta la verità onde
evitare di farli preoccupare troppo. Avrebbero rovinato tutto. Il
mattino dopo, per farmi perdonare, mi svegliai presto e decisi di
preparare un’enorme torta. Cosa c’è di meglio di un dolce per rendere
più dolce la giornata? Mentre stavo impastando sentii dei passi
scendere le scale. Mi affacciai e vidi che era lui. Si sedette accanto a
me senza parlare. Lo guardai e vidi che aveva due occhi stanchi e
preoccupati. Capii che non aveva dormito tanto. Come al solito fu lui
a rompere il silenzio:“Che ne sarà ora di me e Buz? Rinchiuderanno
mio padre, e noi dove finiremo?”. Lo guardai, mi avvicinai a lui e lo
abbracciai. Gli chiesi se voleva aiutarmi e lui accettò. La torta venne
una meraviglia e aiutò mamma e papà a perdonarmi. Nei giorni
successivi lui e la piccolina rimasero con noi, “perché non si può stare
in una casa vuota.”. Sentirlo dire da mia mamma mi fece un effetto
strano. Un giorno papà torno a casa dicendo di aver pagato tutto i
debiti del padre di lui. Mi meravigliai dei miei genitori e, anche se non
mi parlavano ancora, sapevo che mi avevano già perdonato.
Rivedemmo sua sorella maggiore solo alla sentenza finale del giudice.
Quel giorno c’eravamo tutti. Io e i miei genitori seduti sulle panche,
lui e le sue sorelle di fronte al giudice e loro padre dalla parte opposta.
Buz continuava a curiosare in giro, così dopo poco l’affidarono a noi.
Io non ero mai stata ad una sentenza giuridica e ne sapevo pochissimo.
Quando entrò il giudice cominciai a fare domande ininterrottamente.
Mi sentivo un po’ stupida a non capire quello che stava succedendo.
Per fortuna il giudice parlò chiaramente. Disse che il padre, per la
morte della moglie e per il licenziamento, non sarebbe andato in
prigione, ma avrebbe dovuto stare per un periodo indeterminato in un
istituto per tossico-dipendenti e che avrebbe potuto vedere i figli una
volta alla settimana. Il ragazzo dagli occhi speciali abbassò lo sguardo,
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gli dispiaceva non poter vedere tanto spesso suo padre perché gli
voleva molto bene. Il giudice decretò che i due figli minorenni, ovvero
lui e Buz, sarebbero stati accolti da una famiglia dove avrebbero
vissuto finchè il padre non avrebbe nuovamente potuto prendersi cura
di loro. Sua sorella disse che aveva trovato lavoro e che si sarebbe
trasferita all’estero. Tutto questo ci riconduce, finalmente, all’inizio
della nostra storia, quando io e lui siamo davanti alla sua nuova casa.
Buz è già andata a vivere con la nuova famiglia. Lui ha deciso di
aspettare un po’. Ma ora non può più aspettare. All’improvviso sento
una voce famigliare e alzo lo sguardo: è Buz che ci corre incontro
urlando. Ha in mano un pony rosa e ce lo mostra felice, dicendoci che
gliel’hanno regalato. Poi prende la mano del fratello e gli dice: “dai,
vieni, qui è tutto bellissimo”. Questo lo solleva un po’. Mi guarda
ancora, mi stringe la mano e abbozza un sorriso, poi guarda sua sorella
e finalmente, entriamo.
Fine
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