Bijan Zarmandili I demoni del deserto

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Bijan Zarmandili I demoni del deserto
Bijan Zarmandili
I demoni del deserto
nottetempo
A Silvia e Samad
C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha
gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese.
L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha
il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena
di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula
senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi
piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti
e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal
paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è cosí
forte che egli non può piú chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge
le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti
a lui al cielo. Ciò che chiamiamo progresso, è questa
tempesta.
Walter Benjamin, Angelus Novus
Il vecchio e la ragazza camminano discosti l’uno
dall’altra. Lei qualche passo indietro, lui assorto e distante, come fosse l’unico superstite sulla terra dopo
il finimondo. Impossibile individuare da dove siano
partiti o la loro destinazione: semplicemente sono su
quella strada e camminano, insieme e separati.
Di tanto in tanto passa un camion e presto se ne
perde traccia nel tramonto, che regna in attesa dell’oscurità della sera: uno strano, superbo cielo a cui il
vecchio non bada.
Poi la ragazza d’improvviso si siede a terra e il vecchio non sente piú il suo passo dietro di sé. Si gira e la
vede guardare in su: il cielo è spaccato in due e ciascuna parte esibisce colori fastosi e contorni indefiniti.
Presto però il residuo di quel sole sfolgorante sparisce
dall’orizzonte.
Il vecchio torna indietro e si siede accanto a lei.
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1. L’incontro
Sono seduto per terra accanto a mia nipote. Siamo
in viaggio da giorni. Abbiamo camminato e talvolta
qualche camion di passaggio ci ha caricati. Mia nipote
appare piú piccola dei suoi tredici anni, compiuti il
26 novembre, a un mese esatto dal terremoto. Porta
un vestito di lana leggera di colore blu, su cui sono
stampati piccoli fiori rossi e gialli. Un cappotto piú
corto del vestito la protegge dal freddo dell’inverno.
Le sue calze bianche sono sporche e anche le scarpe
sono coperte di polvere e fango. Un pettinino di plastica verde spunta dal fazzoletto che le copre i capelli
nerissimi.
Le gambe sono magre e i suoi passi hanno un ritmo
incerto, come se d’improvviso si dovessero fermare.
Anch’io sono vestito d’inverno: una vecchia giacca
marrone su un paio di pantaloni grigi. Porto un cappello di lana, ho i baffi grigi e la barba incolta. Non ho
ancora compiuto settant’anni.
Siamo partiti da Bam diretti, senza saperlo, a Sud,
verso il Golfo.
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Passa una vecchia Peykan e si ferma a due passi da
noi. Il guidatore fa marcia indietro e, quando ci raggiunge, ci chiede se vogliamo un passaggio: “Io sono
diretto a Jiroft. Se vi fa comodo, salite che mi fate
compagnia”.
Mi alzo e prendo per mano mia nipote, insieme
saliamo a bordo. Sono seduto accanto al guidatore e
lei, stretta a me, guarda fuori dal finestrino. Partiamo
nell’oscurità della sera. L’autista della Peykan ha voglia di ammazzare il tempo, di chiacchierare: forse si
stava annoiando e aveva paura che il sonno lo cogliesse di sorpresa.
“Faccio tutti i mesi questa strada. Vado a Kirman a
trovare mia figlia. È sposata con il figlio di Hagi Hassan: lo conoscete? Ha una pasticceria, quella grande,
all’imbocco del bazar. Vende di tutto, anche zafferano, pistacchi e cardamomo. Queste cose le vendo
anch’io a Jiroft, ma da noi ci sono pure i campi che
producono le merci che vendiamo direttamente. Cosí,
una volta al mese, porto al mio consuocero quello che
gli serve per il suo negozio. Siamo quasi soci e mia
figlia è contenta di vedermi spesso”.
Ascolto senza replicare. Sono abituato a comportarmi con cortesia e meccanicamente ogni tanto mi
giro verso l’autista per fargli vedere che lo sto ascoltando, ma ho la testa altrove.
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“Mi chiamo Mashdi Ali, ma sono anche hagi 1.
Sono stato due anni fa in pellegrinaggio alla Mecca,
insieme a me c’era anche la madre dei miei figli. Sa
com’è, alla nostra età e quando conti qualcosa nella tua moschea –­a Jiroft mi conoscono tutti –, non
puoi rimandare troppo a lungo i tuoi doveri religiosi. Cosí ho detto alla madre dei miei figli: ‘È giunta
l’ora che paghiamo il nostro debito nei confronti di
Allah,’ e siamo partiti per la Mecca”.
Mi sento in dovere di presentarmi a mia volta, ma lo
faccio senza convinzione, quasi sforzandomi: “Sono
Agha Soltani, insegno… insegnavo alla scuola di
Bam”.
“La bambina è sua figlia?”
“No, è mia nipote, è figlia di mio figlio. Si chiama
Hakimè. Parla poco. Veramente non parla da un po’
di tempo. La deve scusare se non l’ha salutato. Non
è una bambina maleducata: non è loquace, non parla
volentieri”.
Mashdi Ali fa un cenno con la mano, per dire che
non gli importa, che non si è offeso. Non mostra alcuna curiosità di sapere perché non parla. E neppure
particolare interesse per me: “Ah, è un maestro, uno
che insegna, che Allah ti protegga,” dice quasi di malavoglia, dandomi del tu.
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Nella religione islamica, viene conferito il titolo di hagi a chi
abbia compiuto il pellegrinaggio rituale alla Mecca.
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Mashdi Ali è talmente concentrato su se stesso, sul
suo commercio, sulla figlia e sulla devozione della
moglie verso Allah che non sente le strane parole che
pronuncia Hakimè. Sembra che rida, ma può essere
anche un pianto. Poi tenta una parola, qualcosa di simile a khun, sangue. Ma le vocali si confondono e solo
io capisco cosa intende dire.
Mashdi Ali è un uomo corpulento e la sua pancia
tocca il volante. I vestiti larghi e la camicia bianca abbottonata fino al collo sono piuttosto consunti e da
come porta il cappello di lana si capisce che è completamente calvo. I tratti marcati, la barba da buon
musulmano tenuta corta e una vistosa vecchia cicatrice da vaiolo sulla guancia sinistra rendono il suo volto
ancora piú grossolano.
“Ora che ci penso, c’è stato un terremoto dalle vostri parti, lí a Bam. Voi venite da Bam?” Finalmente
Mashdi Ali esce dall’immenso amore che prova per se
stesso, per le proprie agiate condizioni di vita e parla
per un istante di qualcosa che non lo riguarda direttamente.
Rispondo di sí senza alcuna enfasi e quasi di sfuggita, convinto che la conversazione sul terremoto a Bam
non avrà alcun seguito. Poco dopo dal cofano della
Peykan comincia a uscire un leggero fumo e il vapore
copre il parabrezza della macchina.
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“È il radiatore. È il radiatore e tocca aggiungere
l’acqua. Succede sempre dopo un po’ di chilometri,
ma non è nulla di grave: porto sempre con me una
tanica piena,” dice Mashdi Ali e rallenta la corsa per
fermarsi sul ciglio della strada. Scende dalla macchina
e apre il cofano. Il fumo è aumentato e lui tira fuori
dalla tasca dei pantaloni un grande fazzoletto lercio
e, allontanando la testa, tenta di svitare il tappo del
radiatore. Ci riesce dopo un po’ e ne schizza fuori dell’acqua bollente che bagna il fazzoletto. Lascia
uscire l’acqua per alcuni minuti e, quando il radiatore
sembra essersi svuotato, gira intorno alla macchina e
dal bagagliaio prende una tanica e riempie di nuovo
d’acqua il radiatore. Poi, con un’occhiata soddisfatta
mi fa capire che, come aveva previsto, non c’era da
preoccuparsi. Prima di risalire a bordo, fa un cenno
con la mano verso i pantaloni per dire che ha bisogno di urinare. Si allontana dalla strada e lo vediamo
da lontano trafficare con la patta. Quando torna, ha
ancora i pantaloni slacciati e la pancia pronunciata ha
spinto fuori un lembo bagnato delle lunghe mutande
di lana.
Si era già completamente dimenticato di Bam e del
terremoto. Forse non aveva neppure capito che io e
mia nipote eravamo terremotati.
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2. La sosta
Da lontano si vede una tenue luce che illumina appena un edificio di due piani.
“È la sala da tè di Hosseini, uno che conosco, dove
mi fermo a mangiare tutte le volte che faccio questa
strada. Avete fame?”
Faccio un cenno con la testa per dire di sí e guardo
Hakimè: sembra addormentata.
La Peykan si ferma davanti alla sala da tè e anche
Hakimè si sveglia.
Hosseini ci serve subito il tè e riceve l’ordine di
preparare tre panini con la carne pestata con ceci e
patate. Io resto in silenzio, mentre Mashdi Ali chiacchiera con l’autista di un camion che si è fermato per
riposare e sta bevendo il suo tè.
Arriva il cibo e Mashdi Ali valuta rapidamente quale sia il panino piú grande e comincia a mangiare.
Io ne metto un altro davanti ad Hakimè e anche lei
mangia, a piccoli morsi, esitando e guardandomi per
essere sicura che il panino sia suo. Mangio anch’io.
Chiedo un altro bicchiere di tè.
Nel frattempo Mashdi Ali sta raccontando a Hos18
seini qualcosa su sua figlia a Kirman e sul negozio del
consuocero. Il padrone della sala da tè sembra particolarmente interessato al racconto e vuol sapere nel
dettaglio quale merce vende, quanto è grande il negozio e quanti clienti passano ogni giorno dalla sua
bottega. E Mashdi Ali, soddisfatto, quasi euforico,
descrive ogni angolo della pasticceria del ricco consuocero e fa capire che anche lui partecipa ai profitti
di quel commercio, essendo suo socio in affari.
Mashdi Ali si è dimenticato di me e di mia nipote.
Hakimè ha finito di mangiare il panino. Ogni tanto
chiude gli occhi ed emette degli impercettibili lamenti, forse ha sonno e io mi guardo intorno per trovarle
una sistemazione comoda dove poter dormire.
“Non ci sarebbero un paio di materassi e di coperte? Vorrei sapere se è possibile dormire questa notte
qui da qualche parte, magari lí, in alto dove ci sono i
samovar. Non subito, aspettiamo che tutti siano usciti
e che abbia spento i samovar,” mi rivolgo con voce
ferma a Hosseini interrompendo la sua conversazione
con Mashdi Ali.
“Certo. Avverto mio figlio di portare le coperte e i
materassi, ma deve aspettare ancora un po’, non piú
di una mezz’oretta. Ormai hanno finito di mangiare
tutti. Anche lui,” rivolgendosi all’autista del camion,
“dorme qualche ora qui da me”.
Mashdi Ali sembra contrariato, non vuole fare il re19
sto del viaggio da solo e forse teme di addormentarsi
mentre guida. Potrebbe trattarsi però di avarizia, dato
che dovrebbe sborsare un supplemento per pernottare. Si alza e guarda Hosseini come chi intende chiedere il conto della cena, ma si volta anche verso di me
per capire le mie intenzioni. “Ma no, lei è stato cosí
gentile a prenderci con sé e darci un passaggio fin qui.
Mi conceda l’onore di offrirle questa modesta cena.
Vada pure e che Allah la protegga. La ringrazio infinitamente,” dico io, ma lui finge di non capire il sarcasmo con cui gli ho rivolto quelle frasi cerimoniose.
Resiste un poco, ma al mio secondo invito di lasciar
perdere, accetta l’offerta e saluta a lungo e calorosamente Hosseini, e con un “buona permanenza e che
Allah vi protegga” saluta anche me. Poco dopo si sente il rumore del motore della Peykan che si allontana
e si perde nella notte.
La sala da tè è satura dell’odore di tabacco dei narghilè e delle sigarette che i clienti hanno fumato dalle
prime luci dell’alba fino al tramonto. L’aria pesante
copre l’aroma che le teiere sui samovar hanno diffuso
nell’ambiente.
Hosseini, mentre aspetta l’uscita degli ultimi clienti, mi racconta che si alza presto la mattina e scende
dal piano di sopra, dove abita con la moglie e i tre
figli. Mette pezzi di carbone ardente nel fornello dei
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samovar, riempie d’acqua i serbatoi, mentre il figlio
maggiore porta le scatole di tè dal retro del locale per
rifornire le teiere, pulisce i tre lunghi tavoli allineati
contro le pareti e passa uno straccio sulle panche dietro ai tavoli, poi spazza il pavimento e getta manciate
d’acqua perché non si sollevi la polvere quando arriveranno i clienti. Su un lato rialzato del locale sono
sistemati i samovar, i vassoi, i bicchieri, i piatti e le posate. Alcuni scaffali sono riservati alle ciotole piene di
zollette di zucchero, al pane e ai piatti da portata colmi di formaggio di capra. Nel frattempo – prosegue a
raccontare – sua moglie nella cucina sul retro prepara
i fornelli per cuocere carne di pecora insieme a ceci,
patate, un bel po’ di odori e di pepe nero. Poi pesta
tutto e lascia che si raffreddi. Il pane arriva quando i
samovar cominciano a bollire e Hosseini versa già i
primi due bicchieri di tè della giornata per sé e per il
figlio maggiore.
Immagino la giornata del padrone della sala da tè
mentre suo figlio porta i materassi e le coperte. Io mi
preparo per la preghiera della sera, Hakimè appoggia la testa, semiaddormentata, sulla panca seduti alla
quale abbiamo mangiato.
“Grazie per l’ospitalità, posi pure tutto da una parte, ci penserò io a sistemare,” dico al figlio di Hosseini
e vedo che anche l’autista del camion, che dormirà
nel locale, si sta lavando per prepararsi alla preghiera.
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Prima di orientarmi in direzione della Mecca e iniziare la cerimonia serale per la gloria di Allah, prendo
i due materassi e li sistemo nella parte alta del locale e
chiedo all’autista del camion dove preferisce dormire.
“Ci penso io, non si preoccupi per me, metta a dormire intanto la ragazzina che sembra sfinita”.
Prende un materasso e lo stende sotto la finestra
affacciata su un giardino di palme da dattero che raggiunge i piedi della collina.
Sistemata Hakimè nel suo letto di fortuna, decido di
uscire dal locale per pregare all’aperto. Scelgo un piccolo spiazzo prima dell’inizio del palmeto e mi metto
in direzione della Mecca. Ripeto meccanicamente alcuni versi del Corano e con la mente torno ai margini
del deserto dove tutti i giorni all’alba e al tramonto mi
recavo per pregare.
Finisco la preghiera. Che Allah mi perdoni: da decenni tutti i giorni, tre volte al giorno, recito il mio
namaz e prego l’Onnipotente. Ma non so il significato esatto delle parole arabe che rivolgo ad Allah. È
ormai un’abitudine, un dovere che devo assolvere,
perché questa è stata la mia educazione e sono anni
ormai che non rifletto piú sulla mia fede. Ho la testa vuota e sono ancora piú smarrito di quando ho
iniziato a pregare. Ho la sensazione che tutte le mie
parole in arabo rivolte ad Allah, imparate a memoria
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da bambino, non siano servite a nulla. Sconsolato
mi metto seduto su un sasso ai piedi di una palma e
guardo i grappoli di datteri illuminati dalla luna.
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