Postfazione - Doppiozero

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Postfazione - Doppiozero
Postfazione
Commentare a distanza di anni ciò che si è scritto in passato ci avvicina più
di qualunque altra cosa a un ritorno dal regno dei morti. Assumiamo un falso
senso di superiorità sul nostro io precedente, quello che ha svolto tutto il lavoro. Rileggendo questi articoli riesumati dalle loro cartelline, quindi, cosa devo
aggiungere? Molto.
Negli ultimi dieci anni parecchie cose sono state sepolte come se non fossero mai successe. Le arti visive non progrediscono grazie alla buona memoria. E
New York è votata a un’amnesia radicale. Si può reinventare il passato mascherandolo come più ci conviene, se nessuno lo ricorda. Questa è l’originalità, quel
feticcio patentato dell’io.
Cosa è stato sepolto? Uno degli sforzi più lodevoli mai intrapresi dalla comunità artistica, ovvero la messa in discussione – concertata da tutta una generazione attraverso una matrice di stili, idee e movimenti più o meno abbozzati
– del contesto della sua attività. L’arte di un tempo era al servizio dell’illusione,
oggi è fatta di illusioni. Negli anni sessanta e settanta tentare di rinunciarci
era pericoloso e quasi intollerabile, perciò da allora ogni tentativo in questo senso è stato denigrato. Le illusioni sono tornate, le contraddizioni vengono tollerate, il mondo dell’arte è lì al suo posto e tutto va per il meglio.
Quando si interferisce con un settore economico o lo si sovverte, il suo sistema di valori va in tilt. Il modello economico che vige da cent’anni in Europa
e in America è un prodotto, filtrato dalle gallerie, offerto ai collezionisti e alle
istituzioni pubbliche, commentato sulle riviste in parte finanziate dalle gallerie, e poi convogliato verso il mondo accademico che stabilisce la “storia” certificando, come fanno le banche, il valore dei beni custoditi nel suo principale
deposito, il museo. La storia dell’arte, in fin dei conti, vale denaro. Pertanto noi
non abbiamo l’arte che meritiamo ma l’arte per cui paghiamo. Nessuno ha mai
osteggiato questo sistema di comodo, nemmeno il suo protagonista principale,
ovvero l’artista.
Il rapporto dell’artista d’avanguardia con il suo contesto sociale è intessuto di contraddizioni perché l’arte visiva ha un barattolo di latta attaccato alla
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coda. Fa delle cose. E, di contro, per citare Emerson, l’uomo monta in sella e
le porta in banca. Nel suo zigzagare dallo studio al museo le vicissitudini di
questo prodotto ogni tanto suscitano qualche commento, in genere con un vago retrogusto marxista. L’idealismo insito nel marxismo non attecchisce molto
sugli empiristi inveterati, categoria di cui faccio parte. Ogni sistema definisce
la natura umana in funzione dei propri obiettivi, ma ignorarne o mascherarne
gli aspetti più sordidi è l’attrattiva principale di qualsiasi ideologia, che cerca di
convincerci che siamo migliori di quanto non sia. Le diverse versioni del capitalismo riconoscono quantomeno il nostro egoismo di base, ed è questo il loro
punto di forza. Le commedie dell’ideologia e dell’oggetto (che si tratti di un’opera d’arte, di un televisore o di una lavatrice) si svolgono su un terreno in cui proliferano le solite false speranze, menzogne e megalomania.
In tutto questo, è ovvio, è coinvolta anche l’arte, di solito come spettatrice
innocente. Nessuno infatti è più innocente dell’intellettuale di professione, che
non ha mai dovuto decidere tra due mali e agli occhi del quale il compromesso
è un atto di disonore pubblico. È stata l’avanguardia a elaborare, nell’intento di
proteggersi, l’idea della portata mistica e redentrice del valore estetico, sociale e
morale della sua produzione. Questa idea è nata dalla fusione dei residui della
filosofia idealista con i programmi sociali idealisti agli esordi del modernismo.
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Probabilmente non c’è testo migliore per giustificare qualsiasi avanguardia, di
destra o di sinistra, futurista o surrealista, del Saggio sulla libertà di John Stuart
Mill. Collocare l’energia morale in un oggetto commerciabile, però, è come vendere indulgenze, e noi sappiamo bene quali riforme ciò ha provocato.
A prescindere dalle sue virtù eroiche, il concetto di avanguardia ha – oggi
ce ne rendiamo conto – non poche responsabilità. Il suo peculiare rapporto con
la borghesia (citato per la prima volta da Baudelaire nella prefazione al Salon
del 1846) è interdipendente e in fin dei conti farsesco. Il culto dell’originalità, la
determinazione del valore, l’economia della scarsità, della domanda e dell’offerta si applicano con singolare pregnanza alle arti visive, le uniche in cui la
morte dell’artista provochi un profondo scossone economico. La marginalità sociale dell’artista d’avanguardia e il lento spostamento della sua opera, simile a
un’imbarcazione senza equipaggio, verso i centri della ricchezza e del potere sono perfettamente in linea con il sistema economico dominante. Qualsiasi produzione di valore, infatti, implica in primo luogo che si dissoci il prodotto dal
produttore. Il programma sociale del modernismo, se così lo si può chiamare,
ha ignorato il suo contesto immediato per invocare grandi riforme sulla base
del fatto che parlava da una posizione privilegiata. (È la fallacia della “celebrità”: come chiedere a Babe Ruth delle soluzioni per la grande depressione.)
Oggi sappiamo che il produttore ha un controllo limitato sul contenuto della
propria arte. È la ricezione di quest’ultima che ne determina il contenuto, e quel
contenuto, come apprendiamo dai teorici revisionisti, è paurosamente retroat-
· Postfazione ·
tivo. Anzi, l’attribuzione retroattiva di un contenuto all’arte ormai è diventata
un’industria a domicilio. E anche un’attività cumulativa. Ciascuno deve fare
un abile uso del calzare per riuscire a infilare la sua piccola parte di contenuto.
Quanto a quello originale, se analizziamo la storia del modernismo esso non ha
un effetto ideologico di grande impatto. Il modernismo ha trasformato la percezione, ma la politica della percezione è ancora da scrivere. Negli anni sessanta e
settanta, quando la comunità artistica espresse il proprio dissenso sulla questione Vietnam e Cambogia, si impose una nuova visione: il sistema dell’arte
andava rimesso in discussione. È questo per me l’indicatore essenziale di ciò che
maldestramente – la morte è forse una post-vita? – viene chiamato postmodernismo nelle arti visive.
Fu qualcosa di radicale. A volte è più sicuro fare sproloqui su grandi temi politici che pulire a fondo la propria cucina. Il coraggio politico si misura dal grado
in cui la nostra posizione, se raggiunta in modo cauto, può nuocerci. Avviare il
processo politico a casa propria è molto meno agevole. Gli artisti americani del
dopoguerra, salvo qualche eccezione (per esempio Stuart Davis e David Smith),
non capivano granché del ruolo giocato dalla politica nell’accoglienza dell’arte.
Viceversa, non pochi artisti degli anni sessanta e settanta, in particolare la generazione minimalista/concettuale, lo coglievano benissimo. Ciò implicò una
curiosa trasposizione: l’analisi che l’arte conduceva su se stessa divenne, praticamente dall’oggi al domani, un’analisi del suo contesto sociale ed economico.
Diverse furono le cause di questo processo. Molti artisti erano irritati dal
pubblico di riferimento: sembrava insensibile a tutto tranne che alla questione della connoisseurship. E la sua voce era smorzata dal costoso circuito (galleria,
collezionista, casa d’aste, museo) attraverso cui l’arte era inevitabilmente offerta. L’evoluzione interna di quest’ultima iniziò a premere contro diversi limiti
convenzionali, sollecitando letture contestuali. Tutto ciò accadeva in un quadro sociale inquieto in cui proteste e formulazioni radicali erano all’ordine del
giorno. La situazione era potenzialmente rivoluzionaria. Com’era inevitabile,
quella quasi-rivoluzione fallì. Certe sue intuizioni e insegnamenti però sono
rimasti anche se, come accennavo prima, qualcuno ha un interesse personale
a farli cadere nell’oblio.
Una domanda resta senza risposta, e probabilmente non ne troverà mai
una: le reazioni dell’arte a questa situazione erano di ordine teleologico o politico? Se l’elemento chiave del discorso, tanto estetico quanto economico, è l’opera,
allora eliminiamola, perché no, e il sistema si richiuderà in un ultimo spasmo
attorno a un vuoto. Non c’è più nulla o quasi nulla da comprare, laddove “comprare”, è ovvio, è la parola sacra. Rendiamo l’arte difficile, ciò ne ritarderà l’assimilazione. Se l’arte vive attraverso la critica, facciamo un’arte più critica, trasformiamola in parole che rendano la critica stessa un’assurdità. E poi troviamo
persone che paghino per questo. Indaghiamo sul collezionista, sull’origine del
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suo conto in banca; sondiamo quello che Nancy Hanks era solita chiamare il
più grande nemico del museo: il consiglio di amministrazione. Analizziamo la
deriva affarista del museo, la maniera in cui il suo direttore – il rappresentante più perseguitato della borghesia – diventa uno zingaro in giacca e cravatta.
Studiamo il destino economico dell’arte, il protezionismo che circonda i
grandi investimenti. Osserviamo il funzionamento delle case d’asta in cui l’artista, finché è vivo, può assistere alla propria autenticazione senza tuttavia parteciparvi. Prendiamo atto delle contraddizioni insite nel luogo in cui le opere
vengono esposte e vendute. E notiamo l’autoselezione connaturata a questo sistema in cui l’arte dei musei è molto diversa da quella di cui parlava Cézanne
quando voleva rifare l’Impressionismo. Come il formalismo ha portato a un’arte fabbricata su ordinazione (e allo stesso modo il New Criticism ha finito per
generare i propri esemplari poetici), così i musei hanno promosso una sorta di
arte da museo – in questo senso, una vera e propria arte ufficiale – adatta allo
sguardo delle masse. Non sono certo di poter contrapporre a essa uno scenario
di buona arte alla deriva immune a questo processo. Il pensiero che dietro vi sia
molto più di quanto la nostra arroganza non ci permetta di vedere, però, resta
inquietante. E come spieghiamo la passione per l’effimero che ha cercato di anticipare il futuro? Prima di ogni altra cosa, ci veniva ricordato, dobbiamo essere
consapevoli dei modi arbitrari e manipolatori di assegnazione del valore.
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Di cosa si nutriva questa curiosa esplosione di idee? A parte il solito riferimento al socialismo blando, essa nasceva dal desiderio dei produttori di arte di
controllarne il contenuto? O forse era un tentativo di separarla dai consumatori? Uno dei suoi aspetti fu, nel corso degli anni settanta, il frantumarsi (intenzionale o meno) della tendenza dominante in una molteplicità di stili, movimenti e attività. Questo pluralismo risultava intollerabile ai puristi dell’estetica, la cui passione per la tendenza dominante favorisce tuttavia il marketing
– e non è la prima volta che l’idealismo estetico e il commercio si sovrappongono
perfettamente.
Il sistema mantiene anche la sicurezza di disporre sempre di un nuovo prodotto grazie a quell’imperativo particolare, proprio delle arti visive, che io chiamo “assegnazione di spazi riservati”. Molti artisti vengono identificati con il
momento culminante della loro attività e non sono autorizzati a distaccarsene.
Il presente prosegue la sua corsa, lasciandoli a gestire il loro investimento, da
tristi imperialisti del loro io estetico. Anche i cambiamenti sono vietati: sono
considerati un fallimento morale, a meno che la loro moralità non possa essere dimostrata in maniera convincente. Esclusi dal discorso contemporaneo,
questi artisti attendono aleatorie boccate d’ossigeno dal presente. L’originalità
è reificata, e così il suo creatore. La scena artistica di tutti i grandi centri è sempre una necropoli di stili e di artisti, un colombario visitato e studiato da critici,
storici e collezionisti.
· Postfazione ·
Per una clamorosa ironia, questa grande intuizione ha finito per portare,
negli anni ottanta, a una riconferma di tutto ciò che era stato messo a nudo e
spazzato via. Prodotto e consumo sono tornati con una sovrabbondanza di contenuti per coloro che ne avevano sentito la mancanza. Le nuove opere si difendono assumendo maschere diverse da cui trapela una rete sottile di allusioni
ironiche; il soggetto sfrutta se stesso e riappaiono alcuni dei paradossi del Pop,
spesso serviti da una critica che mette briosamente in discussione i fondamenti
dei giudizi di valore. Lo spazio espositivo è tornato a essere l’arena incontestata
del discorso. Ma è proprio questo, appunto il tema del libro. L’arte pericolosa e
inafferrabile del periodo che va dal 1964 al 1976, insieme ai suoi insegnamenti,
sta sprofondando lontano dal nostro sguardo: così vuole la cultura del nostro
tempo.
Brian O’Doherty
New York, 1986
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