L`Oceano fra due patrie

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L`Oceano fra due patrie
L’Oceano fra due patrie
di Antonino Ronco
SPECIALE EMIGRANTI
Questa è la storia di un emigrante ligure
tra Ottocento e Novecento.
Partì, solo, all’età di dodici anni.
Descrisse l’invasione delle locuste
e i colpi di stato militari.
Rinunciò a un tranquillo avvenire
per non dividere la famiglia.
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SPECIALE EMIGRANTI
Questa piazza già
all’inizio del Novecento
era ombreggiata da file
di palme.
Alle pagine precedenti
I borgo medievale
di Balestrino in una
fotografia del 1860
trovata a Montevideo
all’inizio del Novecento.
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“A
ndrò verso il mare, verso i monti mai più”, disse Luigi a suo padre mentre tornava a casa dopo un periodo trascorso in una cascina sui monti di Garessio a
raccogliere castagne. Non ancora decenne era stato quello il suo primo lavoro
fuori dell’ambito familiare, esperienza cui molti ragazzi della sua età si adattavano per aiutare i genitori in quei tempi difficili. Non era certo un lavoro pesante, ma neanche una vacanza: tutto dipendeva dall’ambiente in cui uno capitava, dal vitto (castagne), dalla sistemazione notturna (di solito, il fienile); e tutto per pochi chili di castagne secche, che pure
apparivano preziose per quelle famiglie.
A questo spingeva la miseria che travagliava il Paese nella seconda metà dell’Ottocento, miseria determinata da un insieme di fattori negativi che andavano dal cambio della moneta
(per il passaggio della Repubblica di Genova al Re di Sardegna), alle nuove tasse, ai debiti
endemici per la crisi dell’agricoltura ed infine al catastrofico terremoto del febbraio 1887: i
sussidi decretati dal governo per i danneggiati dal sisma si erano trasformati in un pesante
balzello con la necessità del rimborso a rate semestrali di lire 4,40 che erano un peso enorme per chi non guadagnava un soldo in tutto il mese. La crisi era aggravata dalle cattive annate delle olive (si susseguirono ben sette anni senza un raccolto regolare) che col concorso di altri fattori aveva spinto molti proprietari ad abbattere gli oliveti (fiore all’occhiello
dell’agricoltura ligure) per il modesto valore della legna da ardere. Su questa situazione si
innestò come estrema risorsa l’emigrazione, favorita dallo sviluppo della navigazione transoceanica e, per la Liguria, anche dall’apertura della ferrovia costiera.
Per Luigi R. la via del mare era quella per Montevideo, dove già erano approdati parecchi
emigranti del paese di Balestrino, tra i quali Luigi P., il fratello di sua madre e padrino di battesimo, e il fratello di suo padre, Giovanni. Entrambi avevano attraversato l’Atlantico
quando ancora la principale forza motrice sulle rotte oceaniche era il vento.
Così nel 1891, a dodici anni, il piccolo balestrinese, un ragazzo gracile, con la licenza di terza elementare (il massimo allora per la scuola del borgo), al termine di una traversata autunnale del piroscafo “Orione”, della Navigazione Generale Italiana, sbarcò sulla riva sinistra del Rio de la Plata dopo un viaggio, su una nave con 1135 passeggeri, conclusosi dopo
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ventidue giorni, durante i quali il piccolo viaggiatore si era tanto inserito nella vita di bordo da non accorgersi di essere arrivato: rischiò di proseguire per Buenos Aires se un marinaio, che lo conosceva, non avesse provveduto a recuperarlo.
Lo zio materno, che il ragazzo chiamava Padrino, era ad attenderlo sulla terraferma e lo accolse con grande entusiasmo: avrebbe vissuto con lui, sua moglie e i suoi figli nella quinta
ai Pocitos, alla periferia di Montevideo. Luigi trascorse là il primo periodo in Uruguay, lavorando nei campi, né più né meno di quanto faceva a casa, cosciente che non era quella la
vita per cui aveva raggiunto il nuovo mondo. Ma un giorno ecco arrivare ai Pocitos lo zio
Giovanni che gli disse: “Tuo padre vuole che tu venga a stare un periodo da me, a La Paz”.
Lo zio Giovanni assomigliava a suo padre: era alto, stempiato, con gli occhi chiari e un bel
paio di baffi biondi. Portava un elegante panciotto con orologio d’oro e catena.
Era arrivato da La Paz, una nuova borgata a nord di Montevideo, con una giardiniera con
il tettuccio bianco. A La Paz lo zio Giovanni gestiva un almacen, cioè un negozio di commestibili e bevande, se non l’unico, il più importante del paese.
La casa dello zio e soprattutto il suo negozio cambiarono radicalmente la vita del piccolo
emigrato. Imparò le regole del commercio, il mestiere del commesso, perfezionò il suo spagnolo e familiarizzò con i primi rudimenti di una gestione commerciale, fece conoscenza
con i nomi e la qualità dei prodotti e imparò il valore delle diverse monete, soprattutto d’oro, che circolavano in quelle terre.
Negli ultimi anni dell’Ottocento una grave crisi investì anche l’Uruguay che perse l’aureola
di terra promessa: Luigi, che adesso scriveva con una calligrafia da contabile e seguiva le vicende del Paese, era in grado di tenere la famiglia aggiornata sulla sua vita e sull’ambiente
in cui lavorava. L’insieme delle sue lettere è uno specchio semplice ma fedele delle vicende
del tempo: “Cara Mamà, scrive il 10 marzo l897, voglio spiegarti il perché del mio lungo silenzio: dopo dieci giorni dalla mia ultima lettera è piombato su questa terra un castigo di
Iddio: sono venuti tanti grilli, che qui chiamano langoste, che quasi tutta questa Repubblica è restata coperta. Ho visto in alcuni posti che erano alte mezzo metro; insomma non si
poteva camminare: era una cosa spaventevole. Guardate che siamo arrivati agli estremi di
Incontri sulle strade
del “campo”.
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Riunione di soci
della Società Agricola
di Mutuo Soccorso
nel 1903.
Stampa commemorativa
della Società Agricola
Italo-Uruguaya
di Montevideo.
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serrare le porte che se ne entravano in casa ne mangiavano tutto. Se uno non vede non può
credere: tutta la campagna è stata come bruciata; guardate che a tutte le piante, in generale,
hanno mangiato frutto e foglie. Le hanno lasciate peggio che d’inverno: sono giunte all’estremo di mangiarsi anche il tronco. La maggior parte delle piante da frutto sono seccate.
Regna in generale una miseria spaventosa; al mio padrino (nella quinta dei Pocitos) hanno
dato una perdita di più di 5.000 franchi. Ora sono scomparse tutte, non ne resta più nessuna”.
Finito il biblico flagello delle locuste, ecco un’altra calamità abbattersi sull’Uruguay: la guerra civile e Luigi, diligente cronista, non si lascia sfuggire l’occasione; “La guerra è scoppiata
tra i due partiti: il Rosso e il Bianco. Il governo ha portato via tutta la gente: i paesi sono restati abbandonati, non si fa più niente. Dei cittadini, quelli che sono figli del paese sono
sotto le armi e gli altri se ne fuggono all’estero: in Italia, in Brasile, in Argentina”. Al quadro
della guerra civile aggiungerà in seguito altri particolari; il pronunciamiento avvenne di
notte ad opera di militari. Gli ufficiali fecero fasciare di paglia gli zoccoli dei cavalli e le ruote dei cannoni e si impadronirono di alcuni punti strategici per cui quando la gente, il mattino dopo, si accorse dell’accaduto, la città era in mano agli insorti. Luigi quel giorno era stato mandato dallo zio a Montevideo per dei pagamenti e si trovò nel tafferuglio della città in
guerra. Portava in mano una borsa con il denaro e, tra tanta gente che correva da una parte all’altra, uno sconosciuto tentò di strappargliela, ma l’aveva saldamente legata al polso per
cui lo strattone lo fece cadere, ma non perse il denaro.
Il 1897 fu un anno nero. Prima le locuste poi la guerra civile: la fuga della gente e l’abbandono di molte attività inflissero un colpo tremendo all’economia del Paese. Anche l’attività commerciale dello zio Giovanni R. ne risentì in modo preoccupante. In una lettera senza data ma sicuramente di quell’anno Luigi scrive al padre: “Lo zio mi ha abbassato lo stipendio a cinque scudi e, per i guasti, 4 pezzi al mese... Cosa volete che faccia, caro Padre:
anche lui non ne guadagna; la popolazione è diminuita, se ne sono andati via tutti: cinque
o sei mesi fa (nel negozio) facevamo 80-100 franchi al giorno, ora se ne fanno un giorno
per l’altro da 15 a 20”.
Un’altra preoccupazione, intanto, cominciava a turbare il giovane emigrato: con l’avvicinarsi dei diciannove anni, l’età della leva, Luigi avrebbe dovuto affrontare il problema del
servizio militare regolato allora, in Italia, da una legislazione assai severa. Coinvolto nell’ondata di patriottismo che in quegli anni, con la prima guerra d’Africa, aveva investito gli
italiani, anche all’estero, il ragazzo non era assolutamente contrario ad indossare la divisa;
scriveva infatti al padre: “Ho deciso che quando avrò 19 anni e mezzo me ne vengo in Pa-
tria con l’intenzione di fare il soldato: mi presento volontario prima del tiraggio (si estraeva un numero che decideva la posizione del coscritto) così quando verrà la chiamata se mi
tocca fare il servizio lo farò... Io il soldato lo faccio volentieri perché al medesimo tempo è
un’istruzione e una volta fatto sono libero di andare dove voglio; pertanto preparatevi a vedermi da qui a un anno”.
Ormai molto noto per la sua quotidiana presenza nel negozio dello zio, dove aveva assunto un ruolo importante, Luigi R., o semplicemente “don Luis” fuori dell’ambiente familiare e italiano, aveva conosciuto molte persone e contava parecchi amici per cui non gli mancavano giornate felici come quella che descrive in una lettera del 21 giugno e cioè per il Sud
America il solstizio d’inverno, ma anche il suo onomastico, giornata che fu invitato a trascorrere con la famiglia Bregante (originaria della provincia di Genova).
Evidentemente l’accoglienza riservatagli dai suoi ospiti lo commosse al punto che inviò
alla madre una lunga lettera in cui le chiede di scrivere, “di proprio pugno, per ringraziare il signor Filippo Bregante, la moglie, i figli e le figlie che mi trattano come un fratello...
Abbiamo passato, precisa, una giornata indimenticabile...: mi offrirono un pranzo cui partecipò tutta la famiglia, così eravamo in quattordici. Il menu: ravioli, buonissimi; carne
arrostita alla moda orientale tutta in un pezzo (parola illeggibile), noci, uva secca, fichi
secchi, amandole e nocciole. Abbiamo bevuto buon vino di uva pura, come quello che fate voialtri, vino che lo fece il signor Bregante in sua casa.
Sono stato con loro sino alle otto di notte”. L’invitato diciottenne conclude l’entusiastico racconto alla mamma, e
la cosa è assai significativa facendo il nome delle signorine Bregante: Natalia, Maria e Anita e aggiungendo, nell’ultimo lembo di foglio, in piccolo, “che mi stimano profondamente”.
Nel negozio dello zio “don Luis” sosteneva molti ruoli: serviva secondo i casi i clienti sia al banco dei commestibili sia
alla mescita, dove si presentavano bevitori sin dalle prime
ore del mattino, prima di andare al lavoro e non si accontentavano di birra o caña: qualcuno si lasciava tentare da bevande anche più pericolose come l’assenzio. A forza di assistere la sera alle partite di biliardo, ora per segnare i punti,
ora semplicemente per curiosità, divenne un bravissimo giocatore che, al caso, faceva volentieri “il quarto” con i migliori
Si festeggia
un battesimo
in una famiglia italiana
a Montevideo.
Stampa commemorativa
della Società Italiana
di Mutuo Soccorso
di La Paz.
La casa di Padrino
ai Pocitos.
SPECIALE EMIGRANTI
Le belle foto
documentavano
il successo dell’emigrato
agli occhi
dei compatrioti.
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e insegnava ai principianti. Ebbe come allievo anche un “patito” che, per farsi insegnare, lo
“pagava” in uova di cui era un grossista. Per la sua disponibilità come maestro di biliardo
riceveva anche doni preziosi: tra questi un poncho di vicuña, indumento di lana rarissima,
filata e tessuta sulle Ande.
Il viaggio in Italia programmato nel 1897 fu poi effettuato tra il dicembre 1899 e il gennaio
1900. Luigi R., ventenne, rimase a Balestrino quasi due mesi suscitando la curiosità di quanti, nel paese, l’avevano conosciuto bambino. Ebbe visite, inviti con pranzi, compì sopralluoghi in terreni che balestrinesi emigrati mettevano in vendita. Ripartì a metà gennaio del 1900 con la convinzione di
ritornare, prima o poi, al suo borgo e nel cuore un grande
entusiasmo per i vecchi amici; ma neppure era indifferente
al richiamo di quella nuova patria di là dal mare. Il giorno
14, vigilia di San Mauro, festa tradizionale al paese dato che
segnava l’inizio del carnevale, lo accompagnarono alla stazione di Loano (con un’ora di cammino lungo il nuovo “stradone”), il fratello Giuseppe e le due sorelle Adele e Caterina, entrambe non ancora ventenni. A Genova, il giorno seguente, si imbarcò sul veterano “Orione” che in quella occasione fece cose da nastro azzurro, raggiungendo la riva del
Rio de la Plata in quindici giorni: una delle traversate più
veloci della sua lunga carriera. Per il nostro emigrato fu invece un viaggio pieno di malinconia e di sofferenze. Ne fece un dettagliato rendiconto ai genitori in una lettera da La
Paz del 13 febbraio”. Salito a bordo alle 11 dopo aver sentito la messa nell’Annunziata, mi è toccata la cuccetta N. 59,
una delle migliori, che se non fosse stato per questo chissà
se sarei giunto a Montevideo. Eravamo a bordo 500 passeggeri e si stava molto bene, però è successo che io in Genova avevo preso freddo e inoltre, lasciato il porto, sono stato in coperta sino a passare l’isola di Albenga, per contemplare la riviera. Sono andato a dormire verso le otto, ma al
mattino seguente mi sono alzato con febbre e un vomito
inarrestabile, che mi durò sette giorni. Alle otto del mattino del giorno 16 abbiamo passato il golfo del Leone, molto
in calma, e la sera alle quattro e mezza, l’ “Orione” entrava
maestoso nel porto di Barcellona, in Spagna. Partimmo da Barcellona il 17 mattina, con
100 passeggeri in più, però a me la febbre aumentava, come pure il vomito. Il 18, dopo
mezzogiorno passammo lo stretto di Gibilterra. Il 19, 20 e 21 per me sono stati i giorni più
critici: la febbre era aumentata a 39, e non mi reggevo in piedi. Vista la situazione ho chiamato il medico di bordo il quale mi ha dato tre cartine e sono stato meglio per la febbre,
quanto al resto ho sofferto ancora sino al giorno 22 in cui siamo giunti a San Vicenzo, isola di Capo Verde”.
La traversata dell’ Atlantico si svolse felicemente e sarebbero arrivati a Montevideo il 1° febbraio se nell’ultima parte del viaggio una fitta nebbia non avesse costretto il piroscafo a fermarsi per parecchie ore per cui il viaggio poté completarsi soltanto il 2 febbraio alle ore 11.
A La Paz, Luigi trovò la situazione generale ancora peggiorata, tanto che, il 1° di marzo,
scriveva al fratello: “Rispetto al Paese, caro Giuseppe, va molto male; per ora lavoro con lo
zio qui in La Paz, però possono passare due o tre mesi al massimo che andrò a lavorare in
Montevideo, ché lui si è impegnato, con tutti i suoi amici, per farmi avere un posto in un
grande negozio al fine di guadagnare molto di più di quanto lui può darmi, perchè qui tutto è paralizzato, non c’è gente e non si vende nulla”.
Nel luglio del 1900 Luigi R. infatti lasciò il negozio dello zio Giovanni per andare a lavora-
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re a Montevideo nel grande emporio “El Triunfo”, Almacen
de comestibles , Calle Rivera 229 (Entre Defensa y Municipio),
come precisava l’intestazione. Fu quella la seconda importante tappa della sua vita di emigrato. Il 18 agosto successivo ne dava notizia ai genitori: “Finalmente posso dirvi che
ho trovato il posto adatto per me: propriamente nel centro
della città. Tutte le domeniche dopo le 2 pm, ora in cui si
chiude, io me ne vado o dallo zio Luigi, o dalla zia Annunziata. Sono in un grande negozio con altri tre commessi”. Il
personale era ben pagato ma era tenuto a rispettare gli orari e il ritmo della casa. Si apriva alle sette e non c’era un rigoroso orario di chiusura: a mezzogiorno i commessi avevano mezz’ora per il pranzo che consumavano in due turni; per il cibo esisteva un contratto con un ristorante vicino
e all’ora stabilita arrivava un cameriere con un portavivande e i piatti del giorno. A due per volta sedevano in un grande retrobottega dove erano botti di vino italiano e spagnolo cui potevano attingere in giusta misura. L’ almacen, che
aveva anche un settore bevande, era frequentato sino a tarda sera. Gli ultimi clienti erano in genere i troperos che arrivavano con le mandrie di bovini per il mercato di Montevideo. Erano personaggi molto vistosi e rumorosi con vasti
ponchos colorati, cappellacci con sottogola e alte cinture di
cuoio crudo che servivano loro da portamonete. Come entravano nel locale, consegnavano
al banco la pistola e la cartuccera quindi mangiavano roba in vendita e si facevano il caffè a
modo loro: chiedevano un chilo di caffè macinato, lo ponevano in grandi colini sui quali
facevano cadere acqua bollente goccia a goccia; il prodotto di questa operazione, un liquido nero e denso, veniva poi diluito in misura diversa, secondo il gusto del consumatore,
con acqua calda. Molti di quegli avventori, bianchi o di colore, erano brasiliani, e al momento di pagare si toglievano la cintura e aperto il bottoncino terminale facevano scorrere
sul banco tutte le monete d’oro che conteneva, dicendo: “Si
paghi”.
La capacità di Luigi, di cui già aveva dato prova a La Paz, non
tardò a metterlo in luce. “Cara madre, scrisse qualche tempo dopo (la lettera è senza data), il mio padrone mi ha dato il permesso di andare alla scuola: un’ora al giorno, dalle
sette alle otto della mattina; vado dal professor Cozzolino
che è stato insegnante di greco e latino in Italia. Questo perché nel mese di marzo il mio padrone viene in Italia a passeggiare e lascia a me il compito di tenere i libri contabili. La
casa lavora con un capitale di 50 mila franchi e ha una contabilità difficilissima, suddivisa in 11 libri. Che vado alla
scuola sono due mesi e quando avrò finito (diede poi anche un esame ndr.) potrò occupare in Italia qualunque posto di scritturale in contabilità, perché adesso studio la tenuta dei libri in partita doppia. Per la scuola mi tocca pagare 20 lire al mese. Il padrone mi ha detto che quando lui ritorna, se ho fatto le cose come dovuto, mi darà una buona
gratificazione”.
Nell’almacen del Triunfo Luigi rimase circa un anno perchè nel febbraio 1901 lo zio lo mandò a chiamare e gli disse che voleva ritornasse a lavorare con lui: gli avrebbe af-
Gli emigrati
determinarono
il moltiplicarsi
degli studi fotografici
a Montevideo.
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SPECIALE EMIGRANTI
Lo Statuto della Società
Italiana di La Paz
nell’edizione del 1895.
Réclame su un listino
prezzi dell’almacen
“El Oriente”,
di Montevideo,
nel 1906. Il simbolo
della moneta è quello
del peso che valeva
lire 5,30.
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fidato la direzione del negozio con lo stesso stipendio
che aveva a Montevideo. Fu una soddisfazione morale che
fece piacere a Luigi: tornava a La Paz con una posizione di
prestigio, che aveva per lui anche il vantaggio di una maggiore autonomia, dato che lo zio gli concedeva la più ampia libertà. Ciò gli consentì di accettare incarichi dalla Società Italiana di Mutuo Soccorso, di cui era Socio Fondatore e nella quale aveva ricoperto anche la carica di Segretario contabile. Ma ciò che più lo allettava era poter conoscere altri aspetti della vita del Paese. Avendo l’almacen
de La Paz tra i clienti anche diversi rancheros, entrò in contatto con cumunità dell’interno che raggiungeva con la
giardiniera: viaggi che seppure non lunghi avevano sempre aspetti avventurosi come l’incontro con mandrie di
bovini selvatici lungo le ampie piste che menavano alla
città. Quando le scorgeva da lontano, segnalate da una nuvola di polvere, doveva portarsi a lato della carrera, fermare il cavallo e restare immobile sino a che la tropa non
fosse passata, preceduta da vecchi cavalli che ne regolavano il passo e sorvegliata dai troperos. Prese anche l’abitudine di andare a caccia: l’autorità concedeva il permesso di cacciare lungo le strade, ma bisognava poi ottenere
l’autorizzazione del proprietario di una delle tante estancias, che erano tenute vaste come province: allora poteva
cacciare i conigli selvatici che popolavano a centinaia la
bassa vegetazione. Provò anche l’emozione della pesca in fiumi affluenti del Plata come
il Santa Lucia. Andava con un amico esperto e a questi dovette se una domenica non finì annegato: avevano lanciato una lenza di robusta corda con piombi e ami opportunamente innescati e si erano seduti sulla riva a fare colazione. Luigi, per non tenere in mano la funicella, se l’era legata in cintura. Ad un tratto ecco una violenta tocca; subito afferra la lenza e si alza, ma non fa in tempo a slegarla che il pesce con tremendi strattoni,
lo trascina verso l’acqua e sarebbe forse annegato se l’amico non avesse prontamente tagliato la lenza.
Gli piaceva anche, talvolta, fermarsi a mangiare l’ asado nella inramada, presso qualche
rancho, bevendo il mate e ascoltando le lente, malinconiche canzoni che quella gente cantava accompagnadosi con la chitarra. Finì poi per comprarsi anche lui una chitarra e imparare gli accordi di accompagnamento di antiche saghe come La loca del Bequelò, o Il mendico argentino. Gli piaceva il grande cielo
che s’inarcava da est a ovest, da nord a sud, per 180 gradi
su quel mare d’erba, come una cupola di cristallo azzurro, sotto la quale il vento a volte soffiava da strappare gli
arbusti e volavano, come mostruosi aquiloni, dei ponchos
che per i loro colori si scoprivano provenienti da centinaia di chilometri di distanza.
Nel dicembre del 1901 il fratello Giuseppe fu chiamato alle
armi e nel l903, congedato, presi i debiti accordi, arrivò a
Montevideo. Come programmato, per il primo periodo di
ambientamento, andò a vivere in casa dello zio alla quinta
dei Pocitos. Luigi intanto andava maturando i suoi progetti: con l’arrivo del fratello ritenne fosse giunto il momento
di avviare un’attività indipendente che sola poteva permet-
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tergli di coronare, in breve tempo, il suo sogno di tornare
in patria con un avvenire abbastanza sicuro. “Insieme abbiamo deciso di mettere su un negozio nostro, scrisse al
padre, per cui nei primi giorni di maggio (1905) mi sono
recato a parlare con il padrone di una casa grande di commercio che mi stima molto e gli ho esposto la mia idea chiedendo se era disposto ad aiutarmi, al che mi ha risposto subito di sì aggiungendo che il primo negozio che gli capitava me lo avrebbe comprato. Difatti il 14 maggio mi ha mandato a chiamare per dirmi che il negozio lo aveva trovato e
che quello che ci mancava per il pagamento, ce lo avrebbe
messo lui. Così il giorno 23 abbiamo fatto il compromesso
e il giorno 29 abbiamo preso possesso del locale che è in Calle 18 de Julio n. 676, Esquina Gaboto, dove dovrete, d’ora
in poi, indirizzarmi le lettere. Calcolo che il costo del negozio ammonterà a lire 10.000 e speriamo, se Iddio ci aiuta,
di lavorare”. Luigi e Giuseppe battezzarono il negozio Almacen de Comestibiles y Bébidas “El Oriente” (telefono La
Uruguaya n. 80, Cordon.); presero un alloggio insieme, vicino al negozio, poi comprarono una giardiniera per il recapito delle ordinazioni. Il locale era ampio, con scaffalature sino al soffitto, un banco-mescita di metallo, un vasto
assortimento di generi alimentari e bevande delle migliori
marche, scelta in cui Luigi aveva messo a frutto le esperienze fatte nel ramo negli anni precedenti. Già i due fratelli fantasticavano su quanto tempo li divideva dal ritorno a Balestrino quando a turbare le previsioni giunse la notizia che le due sorelle maggiori erano partite da Genova per Montevideo con il piroscafo “Les Alpes”. Quel colpo di testa rattristò Luigi, che si era sempre dichiarato contrario a quel progetto che avrebbe lasciato soli i genitori con Paolina e Francesco poco più che decenni; non solo, anche preoccupato per la sorte
di molte ragazze giunte a Montevideo senza i genitori. Ma ormai era tardi per recriminare
e, saggio e responsabile come era di natura, decise di accettare il fatto compiuto senza rammarico e preparare alle amate sorelle una festosa accoglienza.
Dell’arrivo delle due ragazze sul Plata ci resta una ampia e commovente documentazione: Luigi fa la cronaca dell’incontro in mare con “Les Alpes”, mentre le due sorelle, ciascuna per conto proprio, narrano il viaggio e l’accoglienza a Montevideo. Scrive Luigi:
“Cari Genitori, ...il 2 febbraio (1906) un mio amico impiegato nella posta mi avvisò che
il piroscafo sarebbe arrivato al porto verso le 5 di sera, dopo 24 giorni di angustioso viaggio: pertanto, verso le ore 4 dopo mezzogiorno, sono andato alla dogana e mi sono imbarcato sul primo vaporino che è partito per andare ad incontrarlo. Appena usciti dal
porto abbiamo scorto sul profondo orizzonte il vapore francese e con una mezz’ora di
navigazione lo abbiamo raggiunto. Tutta la coperta era gremita di facce che fissavano il
vaporetto. Io fissavo quel gran mucchio di gente ma le sorelle non le vedevo; ma ben presto sento una voce che mi chiama col nome che sempre avete usato voi genitori: era uno
di Balestrino che mi riconobbe e che provvide ad avvertirle dato che erano andate una a
preparare la valigia, l’altra a pettinarsi. Difatti sono subito arrivate in coperta. Pensate
cari genitori che momento quando ci siamo visti a pochi metri di distanza. Dopo pochi
minuti ero a bordo... Alle 8 e mezza di sera mettevamo piede sulla terra di Montevideo
e alle 9 siamo arrivati nel negozio, dove c’è stato un altro commovente incontro con il
fratello”.
Ed ecco il racconto della sorella Caterina: “Cari genitori il nostro viaggio è stato molto bello:
i marinai dicevano che non si era mai visto un mare così tranquillo; soltanto in due giorni si
videro venirci addosso delle montagne d’acqua che il bastimento s’ inclinava tanto che qua-
Gli Statuti della Società
Agricola nell’edizione
del 1906.
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SPECIALE EMIGRANTI
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si gli alberi toccavano l’acqua. Questo “Les Alpes” ha fatto molte fermate: a Marsiglia, Valencia, Las Palmas e Santos. Comunque dopo ventiquattro giorni di viaggio siamo arrivati in
questo desiderato Montevideo e non mi sembrava vero. Quando si vedeva già terra, siamo
scese nelle cuccette a pettinarci, ma abbiamo sentito che il vapore cambiava il movimento
delle macchine; siamo salite subito in coperta ed ecco un vaporino che ci veniva incontro da
lontano e si avvicinò al bastimento e su quello c’era già nostro fratello che da molti giorni ci
apettava. E subito è salito a bordo, e si è incaricato di tutto ché noialtre non abbiamo più dovuto pensare a niente: mi pare proprio di essere di nuovo sotto un altro padre... Appena arrivate ci hanno portate in casa loro; hanno un negozio che non si può descrivere e a noi
sembrava di essere arrivate in paradiso, ché là c’era d’ogni cosa da mangiare e da bere: vendono ogni genere che uno può immaginare e c’è una confusione (di clienti) che non possono nemmeno andare a mangiare uno alla volta; devo dirvi che sono più i denari che passano nelle loro mani in un giorno che tutti i nostri guadagni di un anno. Adesso siamo in casa dello zio Luigi P. e mi sembra impossibile di essere così lontano”.
Seguirono giorni meravigliosi. Luigi decise che, contrariamente a quanto aveva pensato in
un primo tempo, tutti, fratelli e sorelle, avrebbero vissuto insieme nell’alloggio accanto al
negozio; in attesa che anche le sorelle trovassero un lavoro da svolgere in casa, o presso qualche laboratorio di confezioni, dopo essersi esercitate sulla macchina da cucire che aveva già
comperato. L’evento più memorabile di quel periodo si ebbe la sera del Giovedì Santo quando Luigi portò la sorella minore al teatro Politeama a vedere La Passione di Cristo. Dopo
aver enumerato le otto scene di quella sacra rappresentazione nella lettera del 30 aprile 1906,
Luigi aggiunge: “Quei fatti apparivano tanto al vero che tutti quelli che erano a teatro, nel
numero di duemila persone, quasi tutti piangevano; la sorella Caterina mi ha detto che era
talmente impressionata che non sapeva più se era in questo mondo o nell’altro”.
Urgeva intanto prendere la decisione che Luigi ponderava da quando le sue sorelle erano
sbarcate a Montevideo. Non accettava l’idea che il padre, la madre e i due figli minori restassero a Balestrino e gli altri quattro, già grandi, in Uruguay. Scrisse al padre in termini perentori: “O tutti in Italia o tutti in America”. La questione fu dibattuta a lungo nel corso
dell’ anno, ma a dicembre, di fronte alla irremovibile posizione del padre di voler continuare
a vivere nel suo borgo, Luigi prese le decisioni cui si era preparato da tempo. Vendette il negozio, liquidò tutte le pendenze e alla metà di gennaio si imbarcò con il fratello e le sorelle
sul piroscafo “Umbria”, entrato in servizio nel 1902, una delle navi costruite per il trasporto degli emigranti ma anche con cabine di prima e seconda classe. Fu un viaggio felice, quattro giovani tra i venti e i trent’anni, guidati unicamente dall’amore per la famiglia e con nel
cuore forse un proprio sogno segreto e alle spalle qualche segreto rimpianto.
A Balestrino, Luigi si occupò per prima cosa di costruire una casa nuova e lo fece a tempo di primato: una casa che, a quel tempo, risultò la più moderna del paese. Vi misero
tavola, la prima volta, il 29 di agosto 1907, giorno della Madonna della Guardia. Durante la Grande Guerra, Luigi fu richiamato alle armi e inviato al fronte. Tornato a casa, nel
1918, riprese la sua attività, che portò avanti sin quasi al secondo conflitto mondiale. Con
il ’45 e l’avvento della Repubblica, alle prime elezioni amministrative, Luigi R. venne eletto sindaco di Balestrino e fu proprio in quel ruolo che per l’ultima volta ebbe occasione
di valersi delle sue esperienze americane: un giorno, negli anni Cinquanta, per ragioni
d’ufficio, si trovò a trattare una questione amministrativa con un alto funzionario del
Consiglio provinciale. Dopo un primo esame del problema, si trattava ora di decidere tra
la proposta del sindaco e quella del funzionario. Andarono a colazione: era una giornata autunnale, burrascosa; uscendo dal ristorante pioveva. Si rifugiarono in un caffè: c’erano dei tavoli da biliardo, gioco di cui il funzionario era un appassionato: “Signor sindaco, lei sa giocare a biliardo?” chiese. “Sapevo, una volta”, rispose il sindaco. “Vogliamo
far scegliere la nostra soluzione al caso, con la stecca?”, propose scherzosamente il funzionario. “La mia stecca è molto tarlata”, osservò il sindaco. “Intanto finirà il temporale!” insistette l’altro.
SPECIALE EMIGRANTI
La sala era vuota, il tavolo verde offriva una vista riposante. Giocarono e, come evocati dal
rumore delle biglie, Luigi vide intorno a sé gli eucalipti di La Paz, le réclame alle pareti
dell’Almacen, gli parve di sentire le voci dei troperos che bevevano il caffè. Quando ebbero finito la partita, il funzionario strinse la mano al vincitore e, stupito, disse: “Ma dove
ha imparato a giocare a biliardo?!”. “Dottore”, rispose il sindaco, “ho imparato nella mia
seconda patria, dove adesso non siamo in autunno ma in primavera!”.
Lettere, documenti, illustrazioni: archivio dell’Autore.
LA CANZONE DELL’EMIGRANTE*
Come agnello abbandonata,
come tortora smarrita,
come pianta inaridita
starò mesta notte e dì.
Già le vele son spiegate,
queto è il mar placido il vento:
già ognor chiamar mi sento:
addio cara che martir.
Mesta, afflitta e sconsolata
andrò al porto notte e giorno
attendendo al tuo ritorno,
ma chissà se più vivrò.
Seguiranno i dì noiosi
e noiosa ancor la vita,
per si barbara partita
credi pur ch’io morirò.
Li udirai i miei lamenti
come tromba in campo armato,
ripetendo il nome amato
del mio bene che partì.
Mesta, afflitta e sconsolata
al dolor che in petto...
sol per poco ti abbandono,
quanto prima tornerò.
Nel partir da te mio bene
sento il cuor spezzarsi in seno
e non posso far di meno
di non pianger dal dolor.
Vanni dunque, il Ciel ti guidi,
segui dunque il tuo cammino,
il mio barbaro destino
notte e dì lo piangerò.
Chi non piange al pianto mio,
chi non teme al mio dolore
la pietà non ha nel cuore
e nel petto il cuor non ha.
Piangerai ben l’indomani,
sfogherai le tue querelle
.....................................................
da te lungi io resterò.
Piangerebbe un cuor di smalto
una rupe, un duro scoglio
e tu, ingrato, al mio cordoglio
non dai segno di pietà.
Ma la tua tiranna sorte
vuol ch’io parta e t’abbandoni,
né mi valgon le ragioni:
mi comanda il genitor.
Là tra i venti e le procelle,
nella selva e sulle arene,
con l’immagin del mio bene
solitario parlerò.
Ma se parti ..................................
se mi lasci un sol momento,
del più barbaro tormento
io la vittima sarò.
.....................................................
già la nave è preparata,
l’altra gente è già imbarcata
manch’io solo per partir.
Vegnirà quel dì sereno
che sarem congiunti accanto
e verrà cangiato il pianto
in un lieto .................................
Ricostruita da una trascrizione (frettolosa) del testo
quale lo si cantava a Balestrino alla fine dell’Ottocento.
* Questa canzone di cui non conosciamo il titolo originale era
certamente assai diffusa alla fine
dell’Ottocento. La copia manoscritta che qui si è cercato di risostruire è stata trovata a Balestrino e si può pensare che le sedici strofe, che la compongono
(potevano essere in origine anche di più e non esattamente in
quest’ordine) furono probabilmente raccolte udendole cantare
da un cantastorie girovago (o meglio da una coppia, dato che si alternano strofe al maschile e strofe al femminile) se non addirittura da giovani del paese che l’avevano forse imparata altrove.
Questo influsso locale sembra
confermato dalla presenza di termini dialettali come il “vegniran”
dell’ultima quartina e dal fatto
che, di questa canzone, parla,
come di richiamo alla memoria
del suo borgo, un emigrato balestrinese in una lettera da Montevideo, lettera scritta nei primissimi anni del Novecento. Anche l’ipotesi che sia stata trascritta dalla viva voce pare suggerita
dal fatto che verso la fine la grafia si fa più affrettata e incompleta come succede quando una
mano non allenata vuole fermare le parole di uno che canta. Il
testo che qui viene proposto presenta lacune e piccoli compromessi tra la lettera dell’originale
e una accettabile interpetazione.
A.R.
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