Come mi è venuto il morbo della lettura.!

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Come mi è venuto il morbo della lettura.!
Come mi è venuta la lettura!
Alla scuola elementare Saint Joseph l’aula di monsieur Hurien dava sul cortile della ricreazione, il
cortile dei “grandi”. È stato lì che ho imparato davvero a leggere, ho appreso l’amore dei libri e
della lettura. Ad ogni fine lezione, un quarto d’ora prima di mezzogiorno, un quarto d’ora prima
delle cinque, il nostro maestro ci chiedeva di riporre le nostre cose. E la scolaresca assonnata o
chiassosa si trasformava allora in un alveare affaccendato: tutti si attivavano per riporre
quaderni,
matite, libri e lavagnette. Tutto entrava di nuovo nelle cartelle o nelle caselle dei banchi che si
richiudevano rumorosamente. Sui banchi inclinati non restavano più che il calamaio di porcellana
bianca nei buchi rotondi di destra e di sinistra. Docilmente tutti i bambini si cercavano una posa
per ascoltare meglio. Si aveva persino il permesso di far finta di dormire, con la testa fra le mani e
i gomiti sul banco. Rapidamente regnava il silenzio e poi non si sentiva più che lui. Mai, in altre
circostanze, la classe era così silenziosa. Neppure quando il direttore entrava per parlare col
maestro o l’ispettore si sistemava in fondo all’aula. Non si sentiva più niente: non un raschiare di
galoche sul parquet di legno, non un riso intempestivo, nessun tossicchiare, nessun oggetto cadere
a terra. La scolaresca agitata di solito dai mille rumori così comuni che non si sentivano più, che i
venticinque o trenta alunni non potevano impedirsi di fare, insieme di brusio e mormorio
ininterrotto: stridii sulle lavagnette, banchi che si chiudono rumorosamente, starnuti, ridarella e
bisbigli: «Ehi, mi presti la gomma?», richieste esplicite: «Maestro, non abbiamo più inchiostro» e
richieste urgenti: «Posso uscire?», tutto ciò, all’improvviso cessava. Non restava che il silenzio.
Come se, improvvisamente, il tempo si fermasse, come se il mondo facesse una pausa. Si sarebbe
potuto sentir volare una mosca. E le trenta teste allineate dietro i banchi vuoti tendevano
all’improvviso l’orecchio e guardavano il maestro.
Monsieur Hurien apriva allora un libro alla pagina indicata dal segnalibro, guardava i suoi
bambini, faceva un respiro profondo e cominciava a leggere nel punto in cui si era fermato
precedentemente. E, all’improvviso, l’atmosfera di tensione trattenuta, di suspense, che teneva il
gruppo col fiato sospeso, svaniva a poco a poco. Apparivano lentamente gli scenari campestri dei
villaggi dai tetti rossi del Périgord, la coste frastagliate della Normandia o della Bretagna e l’oceano
furioso, la dolce ondulazione di una campagna assopita, scenari sempre diversi di una geografia
viva in cui si muovevano i nostri eroi di allora: Diloy, girovago sui lunghi e tortuosi sentieri di una
Francia rurale, Jacquou, lo zotico, il Tulipano nero o ancora il Mouron rosso. Allora tutta la classe si
metteva a sognare e a viaggiare. Anche noi volevamo aiutare quei poveri bambini “senza famiglia”,
quei contadini sfruttati dai nobili proprietari o andare all’arrembaggio con Jean-Bart o Surcouf e
raggiungere la crociata dei bambini.
È stato monsieur Hurien a farci scoprire la lettura e i libri. È stato lui, per primo, a farci
viaggiare, agire, amare, appassionarci, scoprire, aver paura. Ci avrà insegnato la
geografia, la storia, la solidarietà, il bello e il brutto del mondo. Ci avrà insegnato ad ambientarci
nel mondo degli adulti, a ridere e a piangere. E a schierarci. Ora, quando prendo un libro, lo
guardo sempre con rispetto. So che ha un mucchio di cose da dirmi. Ne annuso l’inchiostro e tento
di indovinare ciò che vi è di essenziale. Sfoglio le pagine, mi impadronisco della quarta di
copertina, della prefazione o dell’introduzione. Lo tocco e l’odoro. In una biblioteca o in una
libreria potrei passarci ore, semplicemente per assaporarne l’atmosfera. Soltanto per l’odore dei
libri.
A Sarrant, piccolo villaggio del Gers, la libreria-tartineria ci fa mangiare nel bel mezzo dei libri. E
non libri qualsiasi. Tutti scelti con amore dai proprietari. Grandi amanti dei libri. Si chiama «dei libri
e noi»! Allora è un piacere moltiplicato per dieci avere sotto gli occhi solo opere di qualità. Non libri
commerciali. No, libri scritti con passione, con piacere, pubblicati da persone che credono nel loro
mestiere, piccoli editori o collane di grandi marche. Disposti per genere intorno ai tavoli dove ci
servono per mezzogiorno delle tartine coperte da prodotti della terra dei contadini del posto.
Innaffiandole con un vino paesano, ci si concede appena il tempo di degustare quando
all’improvviso i nostri occhi agganciano un titolo che chiama alla lettura. E il mangiare aspetterà!
Occorre assolutamente, subito, che io sappia cosa ci vuol dire quel libro.
Dopo monsieur Hurien, ho cominciato a leggere. Ho scoperto a casa di un amico tutta la serie di
Tintin. Mai avrei sperato di poter guardare tanti colori in albi di fumetti la cui storia, i cui
personaggi, la cui atmosfera mi facevano dimenticare di colpo le levatacce, le mattinate grigie, la
scuola troppo noiosa, il tempo piovoso, le cartelle da trascinarsi dietro, le zuffe nel cortile della
ricreazione e i giorni che non finivano mai. Prima di poter, il fine settimana o la sera, ritrovare
finalmente i miei eroi. A dodici anni, ricordo, leggevo la notte sotto le coperte o alla luce dei
lampioni della strada. Ho esaurito subito tutti i titoli della collana «segni di orme». All’epoca ero
entrato negli scout, di giorno vivevo con le uscite «natura», i campeggi, e di notte vivevo
attraverso i libri. Ma in collegio non c’ero che per procura. Non c’ero che per interposizione dei miei
eroi: più presenti del professore di latino, di greco o d’algebra. E mischiavo allegramente gli intrighi
dei miei libri al ronzio inodore della vita quotidiana. Naturalmente non ne trassi alcun profitto nei
risultati scolastici. Ma non m’importava perché, anche punito con ore di studio in più la domenica,
avevo imparato ad evadere con i miei eroi del momento. Credevano che stessi imparando qualche
poesia di La Fontane facendo trenta volte il giro del chiostro, ma io ero in lotta con i pirati al largo
di Gibuti.
Un giorno il mio migliore amico mi ha preso in giro perché leggevo ancora i libri d’avventura e
della biblioteca verde: «Biggles, agente segreto» o «I compagni della Loue» … Allora ho riflettuto
e sono passato come lui ai libri tascabili. Gliene ho voluto, ma non mi sono pentito. Mi piacevano
molto le copertine colorate e mi piaceva poter portarli con me dovunque. Tanto Stendhal che
Camus, Kipling che Saint Exupéry, Koestler che Hemingway e tutti gli altri russi, inglesi o
americani, i loro libri non occupavano molto spazio. Allora li ho letti. Ho imparato a conoscere il
mondo e l’amore, le passioni e la politica. Ho viaggiato molto con Conrad, Stevenson e Henri de
Monfreid, che mi ha fatto scoprire mio padre. E non mi sono fermato più. Leggo sempre molto ma
ricordo pochissimo. A tal punto che sono capace di rileggere un libro già letto e di accorgermene
solo a metà libro. Allora si accende un barlume nella mia mente e, improvvisamente, esclamo:
«ma io l’ho già letto questo libro»! Eppure lo finisco. Ah! Se un giorno potessi scrivere al mio
maestro, monsieur Hurien, per dirgli tutto il bene che mi ha fatto!
Tugdual DE CACQUERAY
Testi scritti nel laboratorio «scrivere la propria vita» a Duravel dal 2 al 6 ottobre 2006