Rudolf Nureyev - GianAngelo Pistoia

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Rudolf Nureyev - GianAngelo Pistoia
ph. Allan Warren
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© Concept & design: GianAngelo Pistoia • Photos: Peter Southwick/A.P. - Allan Warren - Silvia Lelli/Teatro alla Scala/A.P. - Isirphoto3 - Pat Hastings - GianAngelo Pistoia/A.P.
Rudolf Nureyev
“Era il dicembre del 1990. Mi ero attar­
dato nella sala prove della Scuola di Bal­
lo del Teatro alla Scala per perfezionare
alcuni esercizi quando si aprì una porta
e comparve Rudolf Nureyev, che era Mi­
lano per rimontare la sua coreografia del
balletto ‘Lo schiaccianoci’ di Cajkovskij.
Mi vide e mi chiese di fargli vedere quel­
lo che sapevo fare. Ero terrorizzato, im­
barazzato; per me Nureyev era un mito.
Debbo però avergli fatto una buona
impressione, poiché ho poi saputo che
mi aveva scelto per il ruolo di Tadzio in
‘Morte a Venezia’, balletto che avrebbe
danzato l’anno successivo all’Arena di
Verona. Purtroppo non potei ballare ac­
canto a Nureyev perché la Scala non me
lo permise. L’incontro con Rudolf per me
è stato una grande iniezione di fiducia, la
consapevolezza che stavo percorrendo,
tra mille sacrifici, la strada giusta. Avevo
quindici anni, ero impegnato con il Liceo
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e la Scuola di Ballo: il desiderio di mollare
tutto e tornare dalla mia famiglia era for­
te. Se non ci fosse stato quell’incontro,
forse, non sarei diventato ciò che sono
oggi. Prima di me altri grandi ballerini
hanno entusiasmato le platee di tutto il
mondo. Il mio maestro rimane comun­
que Rudolf Nureyev: oltre a essere sta­
to un grande ballerino, è stato anche un
coreografo che ha impresso una svolta
epocale alla danza dando dignità e im­
portanza ai ruoli maschili; con lui il bal­
letto non è più solo grazia e delicatezza,
ma diventa anche esaltazione della forza
e della potenza. Un regalo che ha fatto
a noi danzatori di oggi, valorizzando mai
come nessuno, né prima né dopo di lui
la danza maschile. Rudolf ha saputo va­
lorizzare anche il corpo di ballo; per por­
tare in scena le sue coreografie occorre
una compagnia di altissimo livello perché
con Nureyev non può barare, deve dare
il massimo. A coloro che mi considerano
l’erede di Nureyev dico solamente che lui
è il mio mito in assoluto. Rudolf ha ab­
battuto muri giganteschi, io in confronto
posso affermare, metaforicamente, di
aver socchiuso solamente una porta. Lui
è stato un sex simbol planetario e l’arti­
sta con l’indiscusso merito di aver fatto
conoscere il balletto al grande pubblico”.
Chi rammenta, con tono pacato e no­
stalgico i suoi esordi nel mondo della
danza ma soprattutto l’incontro crucia­
le della sua carriera artistica, quello con
Rudolf Nureyev, è Roberto Bolle, ‘étoile’
del Teatro alla Scala di Milano dal 2004
e ‘principal dancer’ dell’American Ballet
Theatre di New York dal 2009.
Ma chi era davvero Rudolf Nureyev, qua­
li sono state le tappe salienti della sua
carriera, e perché è diventato un mito?
Un realistico ritratto del ballerino russo lo
tratteggia la prestigiosa giornalista Sara
Zuccari che, in un articolo pubblicato da
un importante settimanale italiano, di Ru­
dolf Nureyev scrive: “Non è stato soltan­
to il più grande ballerino del Novecento,
ma anche l’artefice di una profonda tra­
sformazione della danza classica, sicché
oggi chiunque calchi un palcoscenico
non può dimenticare il segno da lui la­
sciato, con il quale deve inevitabilmente
confrontarsi. La morte di Rudolf Nureyev,
il 6 gennaio del 1993 a Parigi, ha creato
nel mondo della danza un vuoto immen­
so, che difficilmente sarà colmato.
È stato spesso definito un ‘genio della
danza’ e anche ‘l’erede naturale di Ni­
zinskij’, il grande danzatore russo degli
inizi del XX° secolo e innovatore della
coreografia. Nureyev, in effetti, esaltò la
figura del ballerino maschio, così come
aveva fatto Nizinskij mezzo secolo prima.
Nel balletto classico, l’uomo aveva un ri­
lievo secondario, rispetto alla ballerina; la
sua funzione era semplicemente quella
di esaltare la bravura della donna, facen­
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Margot Fonteyn e Rudolf Nureyev
dola volare più in alto possibile. Nureyev
non accettò questa differenza tra i ruo­
li, con lui la danza e la tecnica maschile
acquistarono una nuova e diversa fisio­
nomia, un’importanza pari, se non su­
periore, a quella della danza femminile.
Disse non a caso: “Ho sempre pensato
che ‘Pas de Deux’ volesse indicare danza per due”.
La sua storia ha dell’incredibile e sembra
quasi uscire da un romanzo ottocente­
sco, da una qualche fiaba del passato.
Nacque il 17 marzo del 1938 su un tre­
no della Transiberiana; già: proprio su un
treno della Transiberiana; quasi una pre­
monizione di quella che sarebbe stata
la sua vita futura, piena di viaggi in ogni
parte del mondo, da un teatro all’altro,
ovunque trovasse un pubblico in attesa
della sua esibizione. “Quando sarò morto, mi erigerete una statua: mi si vedrà
mentre mi alzo da una sedia con due valigie, pronto a partire. Quella sarà la storia della mia vita”. La madre Farida mise
al mondo il piccolo mentre era in viaggio
insieme alle tre figlie, da Ufa a Vladivo­
stok, dove lavorava il padre Chamet, mi­
litare di carriera. Così Rudolf era figlio di
genitori tartari: “Non so spiegare esattamente cosa significhi per me essere tartaro e non russo, ma sento la differenza
nelle mie vene. Il sangue tartaro scorre
più velocemente e, in qualche modo, è
sempre pronto a bollire. Siamo anche
più simpatici dei russi, più sensuali; siamo un curioso miscuglio di tenerezza e
di brutalità. I tartari sono più passionali,
più combattivi, modesti ma al contempo astuti come volpi; l’uomo tartaro è un
animale grazioso ma complesso, questo
è quello che sono io”.
La sua famiglia era povera; ciò che il bal­
lerino ricordava più precisamente della
propria infanzia era la fame. “Di quei tempi so una cosa sola, la fame generale, il
desiderio di mangiare qualcosa di diver-
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so da una patata. Magari non era così
tragico, visto che siamo sopravvissuti.
Ricordo anche un’altra cosa: la paura
dei lupi; io non li ho mai visti, ma tutti dicevano che giravano intorno alle case e
a volte mangiavano i bambini. Ciò serviva a non farci allontanare troppo, evidentemente”. Nureyev aveva una forte
ammirazione per la madre, donna forte,
intelligente, sempre pronta a sacrificarsi
per i figli, una grande lavoratrice. Fu lei
a portarlo a teatro per la prima volta, nel
1943, quando Rudolf aveva solo cinque
anni: “Pensai che tutto ciò che vedevo era magico. Diventerò un ballerino”.
Iniziò la scuola a sei anni in una classe
di danza folkloristica; a casa cantava e
ballava senza fermarsi. “Passavo molto
tempo ad ascoltare musica, mi distraeva, mi faceva sognare, e talvolta dimenticavo di fare i compiti, o li facevo male. In
casa mi dicevano: studia, non sognare,
vai avanti, non chiuderti in te stesso. È
la solita storia, sarà capitato anche a voi
perché i genitori non vi capivano”.
Il padre lo voleva laureato, chimico o in­
gegnere; voleva un figlio che onorasse
la patria e ripagasse il governo con un
lavoro positivo; voleva che andasse a
caccia con lui e tutte le volte che lo ve­
deva ballare lo picchiava. La madre e la
sorella Rosa (che poi avrebbe frequen­
tato l’università e dava a Rudy i libri che
amava) tuttavia lo appoggiavano. I suoi
maestri si accorsero presto del suo ta­
lento e lo inserirono in alcuni spettacoli
della scuola. A undici anni fu scoperto da
Anna Udal’cova, già ballerina dei ‘Balle­
tes Russes’, di Djagilev, che insegnava in
quel periodo a Ufa ad un gruppo amato­
riale di bambini. La Udal’cova giocò, nel­
la vita di Nureyev, il ruolo della fata buona
e lo istruì con i primi rudimenti del balletto
classico.
Il giovane ballerino mirava al massimo,
ossia ad entrare nella prestigiosa scuola
del ‘Kirov’ (attuale teatro Mariinskij di San
Pietroburgo). Vi riuscì, in soli tre anni rag­
giunse il diploma e vinse contemporane­
amente il primo premio al concorso na­
zionale di balletto classico che si teneva
a Mosca in quell’anno (1958), danzando
il ‘Pas de Deux’ del ‘Corsaro’, come rap­
presentante del ‘Kirov’. Di quell’evento
… e i loro eredi Roberto Bolle e Alessandra Ferri
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news
Opéra di Parigi
esiste un filmato diffuso in tutto il mondo,
che documenta la nascita di una stella.
Negli anni trascorsi nella scuola del tea­
tro ‘Kirov’ fu fondamentale per lui l’inse­
gnamento ricevuto dal maestro Puskin,
il quale corresse i difetti d’impostazione
e la carenza di stile che gli avevano reso
difficile il primo periodo nella scuola. Nu­
reyev lo ricordava così: “Per me è stato
un padre, senza di lui avrei potuto fare
ben poco; gli giurai riconoscenza eterna
e l’averlo perduto, quando ho scelto di
restare in occidente, mi ha causato un
autentico dolore”. Puskin scoprì in lui la
dote rara dell’interprete e dell’attore, vide
in lui un danzatore capace di esprimer­
si non solo con il corpo ma anche con
l’anima. Per Nureyev, in effetti, la tecnica
non era altro che il supporto per una me­
ditazione sulle persone, sulla musica, sul
carattere. Egli non era un grande virtuo­
so, ma era un vero artista; con lui l’arte
della danza si unì all’arte della interpreta­
zione. Disse: “Io lavoro e ballo con le mie
energie mentali, i miei muscoli sono solo
un mezzo per esprimermi”.
Entrato nel corpo di ballo del ‘Kirov’,
come primo ballerino, suscitò subito
simpatia fra le ballerine, che lo preferiva­
no come partner ad altri colleghi poiché
dava fiducia e sicurezza, sapeva portare
bene la danzatrice. In particolare danzò
con Natalja Dudinskaja, che gli insegnò
il classicismo, la musicalità, il senso della
sospensione. I rapporti con il ‘Kirov’, tut­
tavia, s’incrinarono presto. Nureyev era
uno spirito indipendente e non poteva
accettare né sottostare alle regole ferree
di quell’ambiente; inoltre avvertiva il peso
di una situazione stantia, di chiusura ad
Teatro Mariinskij (ex teatro Kirov) a San Pietroburgo
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un mondo occidentale in cui, a differenza
della Russia, c’erano sperimentazioni nel
campo della danza classica e in quella
moderna. Nureyev era convinto di poter
migliorare tramite contatti e confronti con
il mondo esterno. “Ballavo poco al ‘Kirov’, tre o quattro volte al mese e sempre le stesse cose”. Così con le prime
tournées all’estero crebbe inevitabilmen­
te il suo desiderio di reagire, finché il 17
giugno del 1961, durante una tournée
del ‘Kirov’ a Parigi, Nureyev si decise a
restare in Occidente e chiese asilo politi­
co. Fuggi in questo modo dalla Russia e
gli fu concesso di tornarvi solo molti anni
dopo, nel 1987.
Coraggiosamente aveva voluto restare a
Parigi, dove tra l’altro sempre nel 1961
aveva ricevuto il ‘premio Nizinskij’ dal­
la ‘Université de la Danse’. “Non avevo
niente con me, solo pochi spiccioli in
tasca, nient’altro e nessuna offerta di
lavoro; potevo contare solo sul mio corpo. Non avevo altro che il mio corpo e
il talento che mi era stato riconosciuto
da tanti”. Il primo ad accoglierlo in una
compagnia fu Raymondo de Larrain, di­
rettore del ‘Grand Ballet du Marquis de
Cuevas’; una delle ‘étoiles’ era Rosel­
la Hightower, che poi raccontò: “Egli ci
diede una nuova visione della danza, ci
trasmise una specie di scarica elettrica.
Dopo il suo arrivo tutto ciò che facevamo
sembrava datato, vecchio. Capii che per
il balletto stava iniziando una nuova era”.
Nureyev poco dopo si trasferì in Dani­
marca, da Erik Bruhn, suo modello e suo
idolo, il ‘danseur noble’ più ammirato del
mondo del balletto. Voleva conoscerlo
per arricchirsi, per crescere e così ac­
cadde. In Danimarca Nureyev lavorò con
Vera Volkova, che acuì in lui il senso del
bello e gli insegnò a trasformare la sua
atleticità, il suo virtuosismo, in un ele­
mento di superiore bellezza. Rudolf capì
l’importanza di essere al di sopra degli
stili. “Se dovessi definire me stesso direi che Nureyev è un grande stilista, che
sa trovare lo stile giusto in ogni balletto:
una cifra interpretativa che resti impressa
nella memoria … Altri forse hanno una
tecnica acrobatica maggiore della mia o
sono più belli: ma credo che sia molto
più importante saper usare i propri difetti,
i propri limiti per fare dell’arte”.
Subito dopo fu invitato a Londra da
Margot Fonteyn, vera stella della danza
inglese, Nureyev accettò e nacque la
coppia di artisti più illustre della seconda
metà del XX° secolo. La collaborazione
con Margot Fonteyn era una delle cose
di cui Nureyev andava più fiero: “Ballare è
come percorrere insieme lo stesso sentiero, la cosa più importante è il modo
in cui si balla, ma quando si balla con la
Fonteyn c’è un unico obiettivo e una sola
visione delle cose, non c’è niente che ci
divida”. Margot aveva vent’anni di più di
Rudolf e l’incontro con lui le diede il co­
raggio e il desiderio di proseguire. Dan­
zarono insieme ‘Giselle’ e quello spet­
tacolo passò alla storia come uno degli
eventi più memorabili dei nostri tempi;
insieme trovarono un accordo su mille
particolari da rifinire. Tra i due nacque un
legame profondo, che li tenne uniti sulla
scena per molti anni. Per loro fu creato
dal coreografo Frederik Ashton un bal­
letto, ‘Marguerite and Armand’, ispirato
alla ‘Signora delle Camelie’ di A. Dumas
e costruito sul loro temperamento, sulla
loro sensibilità, sulla loro intelligenza. Di­
venne un trionfo.
Margot così parlava di Nureyev: “Non ho
mai incontrato un professionista simile;
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Copertina della rivista ‘Dance Magazine’
pretendeva la massima pre­
cisione anche dagli altri. Certe
sue osservazioni erano forse
sgradevoli ma azzeccatissime;
mi obbligava con dolcezza a
ripensare al mio repertorio”.
L’intervento di Nureyev sul re­
pertorio fu in effetti determi­
nante per il futuro della danza.
Si può dire che egli tolse tutto
ciò che era vecchio e non ave­
va più per lui ragion d’essere
(trucchi pesanti, parrucche,
gesti di maniera privi ormai
di significato) ma soprattutto
che egli entrò nella psicologia
dei personaggi, dando ad essi
un ruolo nuovo. Tutto questo
si accentuò quando Nureyev
iniziò a dedicarsi alla coreo­
grafia: rilesse i classici e ne
diede le sue versioni, ancora
oggi riprese e utilizzate in molti
teatri del mondo, in particolare
all’Opéra di Parigi, di cui egli fu
direttore del balletto dal 1983
al 1990.
Rudolf Nureyev, ballò in tutto il mondo,
con moltissime partners, lavorò con i
migliori coreografi a lui contemporanei,
cimentandosi anche nella danza moder­
na, in nuove sperimentazioni (George
Balanchine, Roland Petit, Martha Gra­
ham, Maurice Béjart, Glen Tetley, …),
sempre con gran successo. Si accostò
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anche al cinema, interpretando ‘Valenti­
no’ nell’omonimo film di Ken Russell ed
ebbe persino qualche esperienza come
direttore d’orchestra. Sulla sua vita pri­
vata si ebbero sempre poche notizie,
ma era giusto così. “Consideratemi per
quello che sono, un ballerino; non è lecito entrare nel privato di un artista; l’uomo
Copertina del libro ‘Rudolf Nureyev. Biografia di un ribelle’
ci penserà Dio a giudicarlo”.
Avrebbe voluto morire sul­
la scena, ma non ci riuscì: la
malattia nel 1993 lo portò via
con sé. Negli ultimi anni ama­
va rifugiarsi nell’isola di Li Galli
davanti Positano, da lui ac­
quistata. “La danza è tutta la
mia vita. Esiste in me una predisposizione, uno spirito che
non tutti hanno. Devo portare
fino in fondo questo destino;
intrapresa questa via non si
può tornare indietro. È la mia
condanna, forse, ma anche la
mia felicità. Se mi chiedessero
quando smetterò di danzare,
risponderei: quando smetterò
di vivere”.
Ballerino sublime (con Ni­
zinskij, il più grande del No­
vecento), coreografo, av­
venturiero, dandy, lavoratore
instancabile, a vent’anni dalla
sua scomparsa Rudolf Nu­
reyev continua a esercitare un
fascino cui è difficile sottrarsi.
In questa ricorrenza molti mass media
lo hanno omaggiato. Fra tutti, un libro
merita di essere citato. Sto parlando di
‘Rudolf Nureyev. Biografia di un ribelle’
di Bertrand Meyer-Stabley (Edizioni Lin­
dau – euro 18,00), giunto alla seconda
ristampa. Questa biografia, documenta­
ta e appassionante, riporta alla luce molti
episodi inediti della vicenda esistenziale
e artistica di Rudolf Nureyev ed è un rico­
noscimento al suo genio e al suo corag­
gio. Dalla lettura della biografia si evince
– come già ricordato da Sara Zuccari nel
suo coinvolgente articolo per ‘l’Espres­
so’– che la vita di Rudolf Nureyev as­
somiglia a un romanzo, in cui bellezza,
talento, ribellione, nostalgia e solitudine
si intrecciano inesorabilmente: dalla na­
scita su un vagone della Transiberiana
nelle steppe russe nel 1938, al rocam­
bolesco e fortunoso passaggio all’Ovest
nel 1961, dal sodalizio professionale e
sentimentale con la più celebre ‘étoile’
del tempo, Margot Fonteyn, alle innume­
revoli relazioni omosessuali con famosi
artisti (il ballerino danese Erik Bruhn, gli
attori Anthony Perkins e Jean-Claude
Brialy, il compositore Leonard Bernstein,
…) e con sconosciuti incontrati nei bar
gay e nelle saune delle grandi città, dal
successo travolgente sui palcoscenici di
tutto il mondo al ruolo di protagonista nel
‘Valentino’ di Ken Russell, fino all’incarico
di direttore della danza all’Opéra di Pari­
gi, alle performance come direttore d’or­
chestra, alla morte, avvenuta per aids nel
1993. Quello di Bertrand Meyer-Stabley
è certamente un libro da acquistare, da
leggere tutto d’un fiato, da consigliare ad
amici e conoscenti e da riporre infine con
cura nella propria libreria.
GianAngelo Pistoia
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