di Guido Ascari Nel summit di Lisbona la Comunità

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di Guido Ascari Nel summit di Lisbona la Comunità
CAPITALE UMANO E CRESCITA ECONOMICA
di Guido Ascari
Nel summit di Lisbona la Comunità Europea ha posto l’investimento in
capitale umano come una priorità nella strategia complessiva tesa ad
aumentare la crescita economica e la coesione sociale dell’Unione, con il
dichiarato scopo di fare dell’Unione la più competitiva e dinamica
economia
basata
sulla
conoscenza
(knowledge-based
economy).
Le
Conclusioni del summit raccomandano tutta una serie di misure volte a
promuovere lo sviluppo, l’adozione e l’uso di nuove tecnologie attraverso
un maggiore e più produttivo investimento in conoscenza, competenze e
infrastrutture. L’investimento nelle persone, ossia in capitale umano, è
considerato fattore sia cruciale per lo sviluppo delle nuove tecnologie sia
necessario per il loro utilizzo efficiente. La visione di consenso è che il
capitale umano sia una determinante fondamentale del livello di
produttività, sia aggregata sia individuale. Relativamente poche
occupazioni oggigiorno si limitano solo a compiti meccanici, mentre una
sempre maggiore frazione di lavori richiede capacità di rielaborare dati ed
informazioni, capacità comunicative e di problem-solving, di adattamento a
tecniche produttive che cambiano a ritmi più accelerati che in passato, e
l’applicazione di competenze specializzate in complessi processi
produttivi di beni e servizi sempre più sofisticati.
In questa breve nota1 si cercherà di illustrare se ed in che misura la
letteratura economica fornisca un sostegno scientifico, sia teorico sia
empirico, alle misure raccomandate nel rapporto conclusivo del summit di
Lisbona e nella visione di consenso. Per fare ciò, prima si preciserà il
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Qui ci baseremo principalmente su De la Fuente e Ciccone (2002) e Temple (2001). I dati citati
sono presi da questi due studi, qualora non sia citata fonte alternativa.
Capitale Umano e Crescita Economica
concetto di capitale umano dal punto di vista economico, successivamente
si analizzerà molto brevemente gli aspetti teorici, per concentrarsi poi
soprattutto sugli aspetti empirici. Nonostante si evidenzieranno alcune
problematiche, in generale si può concludere che la letteratura empirica
offra una giustificazione all’accento posto sul capitale umano come
possibile motore di crescita economica.
Il concetto di capitale umano copre molteplici aspetti e si può
genericamente definire come generato da tutti i diversi tipi di
investimento nelle persone, nel senso più esteso. Quindi, per esempio,
anche salute e nutrizione sono componenti importanti del capitale umano
soprattutto nei paesi sottosviluppati, in quanto carenze in questi aspetti
limitano la possibilità degli individui di svolgere attività produttive. Da
un punto di vista economico, l’aspetto fondamentale del capitale umano,
su cui ci si concentrerà, è l’accumulazione di capacità e competenze utili
per la produzione di beni e servizi, da parte della popolazione attraverso
l’educazione formale, il tirocinio e l’esperienza sul lavoro. Si tratta quindi,
in crescendo, di capacità generali (alfabetizzazione, nozioni quantitative di
base,
capacità
di
svolgere
ragionamenti
astratti),
specifiche
(funzionamento di particolari processi produttivi o software) e
competenze tecniche e scientifiche molto specialistiche.
Capitale umano e crescita economica: la teoria
La teoria della crescita tradizionale si basava essenzialmente sul
meccanismo di accumulazione del capitale fisico (macchinari e
infrastrutture). La “nuova” teoria della crescita ha invece posto l’accento
sull’importanza di considerare la conoscenza e le competenze incorporate
dalla forza lavoro, spostando così l’attenzione sull’accumulazione di
capitale umano. L’idea che queste teorie cercano di formalizzare è proprio
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Capitale Umano e Crescita Economica
quella che una forza lavoro più competente ed istruita incrementi la
produttività del lavoro e la capacità dell’economia di sviluppare ed
adottare le tecnologie più avanzate. Da un punto di vista teorico, il modo
più semplice per introdurre il capitale umano è quello di aggiungerlo
esplicitamente come un nuovo input in una funzione di produzione
aggregata, che fa dipendere il livello di reddito prodotto in aggregato
dalla quantità di capitale fisico utilizzato, dalla quantità di lavoro e dalla
produttività totale dei fattori (PTF) che dipende a sua volta dal grado di
progresso tecnico. Lucas (1988), riprendendo un lavoro precedente di
Uzawa (1965), sviluppa un modello di questo tipo dimostrando come in
stato stazionario, il livello di reddito pro capite dipenda dallo stock di
capitale umano aggregato. Una seconda possibilità, invece, è quella di
pensare che lo stock di capitale umano influisca sullo sviluppo di nuove
idee e nuove tecnologie. Formalmente, seguendo il contributo di Romer
(1990), alcuni autori hanno aggiunto al modello di crescita standard una
funzione che fa dipendere il progresso tecnico (ossia la PTF) dall’intensità
dell’investimento in ricerca e sviluppo e dallo stock di capitale umano. Il
risultato di stato stazionario è che ora lo stock di capitale umano influenza
il tasso di crescita del reddito pro capite. Ne deriva che un incremento
discreto dello stock di capitale umano aumenterà indefinitamente il tasso
di crescita dell’economia. Distinguiamo quindi fra effetto livello, più elevato
lo stock di capitale umano più elevato il livello del reddito pro capite, ed
effetto crescita, più elevato lo stock di capitale umano più elevato il tasso di
crescita del reddito pro capite.
L’introduzione del capitale umano nei modelli di crescita ha inoltre
portato alla comprensione di molti aspetti, che qui non possiamo
approfondire per ragioni di spazio, che riguardano: la mobilità
internazionale dei fattori (capitale e lavoro), la convergenza fra paesi
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poveri e paesi ricchi, la natura dell’investimento in capitale umano, il
legame fra crescita e fertilità, ed altri ancora. Un aspetto però importante
riguarda la presenza di esternalità dell’investimento in capitale umano,
ossia, un aumento del capitale umano di una singola persona porta effetti
benefici a tutta la collettività sotto diversi aspetti (Lucas (1988), Acemoglu
(1996)). Riconoscere l’esistenza di questi effetti esterni ha un importante
conseguenza: il beneficio privato dell’investimento in capitale umano è
minore del beneficio sociale. Gli incentivi privati all’investimento portano
quindi ad un sotto-investimento in capitale umano da un punto di vista
sociale.
In conclusione, i modelli della nuova teoria della crescita riconoscono il
capitale umano come un input importante non solo nella produzione di
beni e servizi, ma anche, se non soprattutto, nella capacità di un sistema
economico di sviluppare ed adottare idee e tecnologie innovative. Ne
deriva che queste forniscono una piena giustificazione a politiche centrate
sull’educazione come motore principale della crescita economica.
Capitale umano e crescita economica: l’evidenza empirica
Passo necessario affinché l’analisi teorica di cui sopra possa proporsi
guida sicura per le indicazioni di politica economica è che questa sia
supportata dai dati. Esiste una letteratura empirica sconfinata sulle
determinanti della crescita e qui non possiamo certo farne una rassegna
completa, mentre cercheremo di evidenziarne i principali risultati e i
maggiori problemi incontrati.
Evidenza su dati microeconomici
Le ricerche in questo campo tipicamente studiano il legame fra
educazione e produttività attraverso dati sui livelli di salario, usato come
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proxy della produttività. L’approccio standard è di spiegare differenze nei
livelli salariali tra gli individui stimando regressioni dove le variabili
esplicative includono il livello di educazione raggiunto o gli anni di scuola
formale, l’età, gli anni di esperienza e molte altre caratteristiche dei singoli
individui. L’evidenza empirica che i livelli di salario siano positivamente
associati agli anni di istruzione formale è robusta e indiscutibile. Inoltre il
legame fra istruzione e salari individuali diventa più forte in tempi di
rapidi cambiamenti tecnologici, come negli ultimi anni. Le equazioni di
regressione, inoltre, permettono di stimare il tasso di rendimento privato
dell’investimento in educazione. Questo varia a seconda del periodi e del
paese in considerazione, e stime su dati OCSE lo pongono fra il 5 ed 15%.
La stima del rendimento dell’investimento in capitale umano per la media
UE è del 6,5%, e le medie per paese variano dal 4,5% al 10%, con i paesi
scandinavi e l’Italia che presentano il rendimento più basso, mentre
Irlanda e Regno Unito quello più alto. Se i lavoratori sono pagati il loro
prodotto marginale, il differenziale salariale dovuto ai diversi livelli di
istruzione ci può dire qualcosa anche circa l’effetto dell’istruzione sulla
produttività del lavoro. Il mercato del lavoro, però, è lontano dall’essere
un mercato perfettamente competitivo e, specialmente nell’Europa
continentale, sia la struttura dei salari è compressa fra le varie
competenze, sia le imprese molto probabilmente si appropriano di parte
dei rendimenti dell’istruzione. Tenuto conto di questo, De la Fuente e
Ciccone (2002) stimano per 14 paesi UE un tasso di rendimento privato
medio più elevato tra il 6,5% ed il 9%.
Un aspetto importante riguarda gli effetti esterni sociali generati
dall’investimento individuale in capitale umano. In generale, un
incremento del capitale umano in aggregato aumenta l’incentivo
all’investimento individuale in capitale umano, il tasso di attività e di
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disoccupazione, diminuisce la disuguaglianza dei redditi, diminuisce il
tasso di criminalità, migliora la condizione di salute, aumenta la coesione
sociale e aumenta il tasso di democratizzazione, rendendo i cittadini più
informati ed attivi. Queste esternalità positive determinano una differenza
fra tasso di rendimento privato e tasso di rendimento sociale
dell’investimento in capitale umano. Il tasso di rendimento sociale
dovrebbe tener conto di tutti i costi sociali (e non solo quelli individuali) e
di tutti i benefici sociali (e non solo quelli individuali) dell’investimento in
capitale umano. Sfortunatamente i benefici sociali di cui sopra sono molto
difficili da quantificare, anche se è lecito presumere che il tasso di
rendimento sociale sia superiore a quello privato. Ciò determina quindi un
sotto-investimento privato dal punto di vista sociale e la necessità di
incentivare, mediante intervento statale, l’accumulazione privata di
capitale umano.
In conclusione, gli studi microeconomici mostrano che il tasso di
rendimento in capitale umano sembra piuttosto elevato anche in confronto
con investimenti alternativi, sia da un punto di vista individuale che
sociale.2
Evidenza su dati macroeconomici
Mentre i dati microeconomici su singoli individui consentono di
calcolare il rendimento dell’investimento in capitale umano ed investigare
il legame di quest’ultimo con la produttività ed il salario, l’analisi dei dati
macroeconomici vuole evidenziare e quantificare il ruolo del capitale
2
Bisogna segnalare che vi sono una serie di problemi tecnici in queste stime, che suggeriscono di
prendere questi numeri con le dovute cautele, pur essendo comunque sicuramente indicativi. Dal
punto di vista della stima, i maggiori problemi sono dovuti a problemi di misurazione e di variabili
omesse (abilità innata). Un secondo problema riguarda invece il fatto che il capitale umano sia
approssimato solamente con gli anni di istruzione formale. Questa è una misurazione sicuramente
imperfetta dato che, come detto, il capitale umano è un concetto più composito, che dovrebbe tener
conto, per esempio, anche dell’addestramento sul lavoro e della qualità dell’istruzione.
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umano
nella
crescita
economica
aggregata.
La
letteratura
sulle
determinanti della crescita economica è vastissima ed il capitale umano,
soprattutto negli ultimi anni, grazie alle nuove teorie della crescita, è stato
uno dei punti centrali dell’analisi empirica. Possiamo distinguere due
filoni: la contabilità della crescita (growth accounting) e le regressioni di
crescita.
La contabilità della crescita essenzialmente divide la crescita del reddito
in una parte che può essere spiegata dalla crescita degli input e un residuo
che cattura variazioni di efficienza e nel progresso tecnico. Nello spiegare
la crescita del reddito, le variazioni dei fattori sono pesate secondo il loro
prodotto marginale che è approssimato dalla loro remunerazione di
mercato. Questo principio può essere esteso ad un qualsiasi numero di
input, che, qualora i dati siano disponibili, possono essere disaggregati
ulteriormente (esempio: la forza lavoro può essere divisa nelle varie
categorie di lavoratori per misurare l’impatto sulla crescita delle singole
categorie). Un famoso lavoro (Mankiw et al. (1992)), utilizzando dati sulla
partecipazione alla scuola secondaria come proxy per lo stock di capitale
umano in un esteso campione di paesi, concluse, da un tradizionale
esercizio di contabilità della crescita, che lavoro, capitale fisico e capitale
umano contribuiscono circa per un terzo ciascuno al tasso di crescita del
reddito pro capite. Un altro interessante articolo (Young (1995)) applica
questo metodo alla più spettacolare esperienza di crescita economica degli
ultimi decenni, ossia quella delle “Tigri asiatiche”: Hong Kong, Singapore,
Corea del Sud e Taiwan. A parte il rallentamento dovuto alla crisi di fine
anni ’90, tra il 1966 ed il 1990, il reddito pro capite in questi paesi saliva al
ritmo del 7% all’anno (per dare un termine di confronto in USA del 2%):
nel corso di una generazione il reddito reale pro capite è aumentato di
cinque volte, fondamentalmente trasformando le Tigri da paesi poveri a
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paesi ricchi. Mentre molti commentatori sostenevano che questo miracolo
economico fosse incompatibile con la teoria economica della crescita a
meno di supporre un incredibile aumento della PTF, il lavoro di Young
mostra come la crescita di questi paesi sia attribuibile in larga misura a
forti aumenti dei fattori di produzione (lavoro, capitale fisico e capitale
umano). Per quanto concerne ciò di cui qui ci occupiamo, tra il 1966 ed il
1990 la percentuale di popolazione in età lavorativa con almeno un
diploma di scuola media superiore è cresciuta dal 27% al 71% in Hong
Kong, dal 16% al 66% in Singapore, dal 26,5% al 75% in Corea del Sud e
dal 26% al 68% in Taiwan.
Molto più estesa ed influente è la letteratura sulle regressioni di crescita.
In una prima ondata di lavori, strettamente legata al nome del noto
economista Robert Barro dell’Università di Harvard, i ricercatori
regrediscono il tasso di crescita del reddito pro capite contro variabili di
controllo e il livello iniziale di capitale umano (approssimato da una
qualche misura per il livello di educazione iniziale). La sottostante idea è
che lo stock iniziale di capitale umano possa influenzare la crescita in vari
modi, in particolare attraverso l’adozione e l’imitazione di tecnologie
importate, e che l’accumulazione di capitale umano sia comunque lenta
(più lenta di quella di capitale fisico) e a forte intensità di capitale umano
stesso. Tipicamente questi lavori trovano che l’effetto sulla crescita del
livello iniziale di educazione è notevole e significativo da un punto di
vista statistico. Particolarmente interessante da questo punto di vista il
lavoro di Barro (1999) che sia disaggrega sia cerca di valutare la qualità del
capitale umano. Barro conclude che:
1)
la crescita è positivamente correlata al livello iniziale della media
degli anni d’istruzione maschile a livello di media superiore o più
elevato, mentre la scuola primaria non ha effetto sulla crescita;
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questo suggerisce un ruolo importante della diffusione delle
tecnologie innovative.
2)
La crescita non è correlata con il livello d’istruzione femminile sia
inferiore sia superiore; questo suggerisce uno sfruttamento
inefficiente delle capacità delle donne da parte del mercato del
lavoro in molti paesi, attraverso una bassa partecipazione di
queste al mondo del lavoro.
3)
Dati sui risultati di test sugli studenti, standardizzati e comparabili
a livello internazionale, sono utilizzati come proxy per misurare la
qualità dell’istruzione nei vari paesi. Risultati dei test su materie
scientifiche
hanno
una
particolarmente
forte
e
positiva
correlazione con la crescita (molto meno i test di lettura). Inoltre, la
media degli anni d’istruzione (che misurano la quantità di capitale
umano) rimangono significativi e positivamente correlati con la
crescita anche quando i risultati dei test scientifici (che misurano la
qualità del capitale umano) sono introdotti nella regressione.
Una seconda ondata di lavori invece osserva che, se esiste un legame fra
capitale umano e produttività, ci dovremmo aspettare anche una
correlazione positiva fra il tasso di crescita del reddito pro capite e
variazioni nel livello medio di educazione raggiunto. Quindi la letteratura si
è rivolta verso regressioni che legavano il tasso di crescita a variazioni
negli anni di istruzione (e non al livello iniziale). Con grande sorpresa
degli stessi ricercatori generalmente questo tipo di regressioni esibiscono
una correlazione molto debole e non significativa. Benhabib and Spiegel
(1994), per esempio, trovano una relazione positiva e statisticamente
significativa per il terzo di paesi più ricchi del campione, ma non per il
campione nel complesso.
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Infine, una terza ondata di ricerche dimostra come questi ultimi lavori
siano frutto soprattutto di una bassa qualità dei dati usati. De la Fuente e
Domenech (2000) elaborano un nuovo e più affidabile data set per la
media degli anni di istruzione nei paesi OCSE e smentiscono i risultati
precedenti trovando una forte correlazione positiva tra variazioni nel
reddito pro capite e variazioni nella media degli anni d’istruzione. Sulla
base di questi dati Bassanini e Scarpetta (2001) stimano un’elasticità di 0,6
del reddito pro capite in risposta ad un anno addizionale di istruzione. Ciò
implica che, alla media campionaria di dieci anni di scuola in media, un
ulteriore incremento di un anno della media degli anni di scuola
aumenterebbe il reddito pro capite del 6%. Questo effetto è simile a quello
trovato sulla produttività in base ai dati micoroeconomici individuali. De
la Fuente e Ciccone (2002), distinguono, come da teoria, un effetto livello e
un effetto crescita e stimano che un anno addizionale di media degli anni
di istruzione aumenta il livello della produttività aggregata del 5% (effetto
livello) e di un altro 5% nel lungo periodo, per l’effetto che l’incrementato
capitale umano ha sulla PTF, ossia sullo sviluppo ed adozione di nuove
tecnologie (effetto crescita). Inoltre, per un “tipico” paese OCSE,
l’accumulazione di capitale umano spiega il 22% della crescita nel periodo
1960-1990 e lo stock di capitale umano spiega il 45% del differenziale di
produttività rispetto alla media del campione dei paesi OCSE nel 1990.
Approssimativamente due terzi di questi numeri riflettono l’effetto diretto
degli anni di istruzione, mentre il rimanente un terzo è dovuto al
contributo del capitale umano allo sviluppo tecnologico.
Conclusioni
Da quanto sopra riportato, possiamo concludere che misure volte ad
aumentare la quantità e la qualità di capitale umano dovrebbero essere
una parte importante di una politica orientata alla crescita. A giudicare dai
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contenuti della Legge Finanziaria oggi in discussione in parlamento non
sembra questa essere un’idea condivisa dall’attuale Governo.
I paesi OCSE spendono circa il 6% del loro reddito complessivo per
l’educazione pubblica o privata, ossia un ammontare complessivo che si
aggira attorno alla una cifra non certo irrisoria di 1550 miliardi di dollari
ogni anno.3 È troppo o troppo poco? Analizzando i paesi dell’UE, De la
Fuente e Ciccone (2002) suggeriscono che da un lato un moderato
incremento nell’investimento in capitale umano è auspicabile, ma
dall’altro un aumento dei sussidi all’istruzione post scuola dell’obbligo
non sia probabilmente necessario. Infatti, abbiamo visto che l’investimento
in capitale umano ha un tasso di rendimento privato elevato, comparabile
con quello in capitale fisico o investimenti alternativi a disposizione degli
individui. Qualora si tengano in considerazione gli effetti esterni di detto
investimento, questo è oggi quindi particolarmente attraente da un punto
di vista sociale e un suo incremento è dunque auspicabile. Ciononostante,
la misura più consona a questo scopo probabilmente non è un aumento
dei sussidi generali all’istruzione. Infatti, data l’appetibilità privata
dell’investimento in capitale umano, gli incentivi privati per questo
investimento sono probabilmente adeguati e non vanno distorti
ulteriormente. La domanda è perché allora le persone non investano di
più in capitale umano o, dal punto di vista delle politiche, come
incentivare le persone ad incrementare il loro stock di capitale umano. A
questo scopo piuttosto che misure volte a diminuire ulteriormente le basse
tasse scolastiche e universitarie, che implicano un elevato sussidio a
gruppi privilegiati di persone e sono quindi regressive di natura,
sembrerebbe più opportuno un approccio basato su più alte tasse
scolastiche/universitarie e sussidi mirati sia in base al merito sia al livello
3
Vedi Temple (2001).
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di reddito familiare, accompagnate da forti incentivi e facilitazioni a
prestiti d’onore, in modo da facilitare l’accesso all’istruzione superiore ai
ceti meno abbienti, che sono oggi quelli più facilmente esclusi soprattutto
per vincoli di liquidità. Inoltre, fondi pubblici addizionali andrebbero
sicuramente rivolti a migliorare la qualità dell’educazione (rapporto
studenti/docenti, diminuire il tasso di abbandono, ecc.) e ad incentivare la
formazione continua degli adulti.4
Un’ultima notazione riguarda i paesi meno sviluppati. Spesso
l’investimento in istruzione (soprattutto primaria, in questo caso) è stata
vista come la panacea della crescita e quindi spesso alla base delle misure
auspicate da organizzazioni come la Banca Mondiale. Il saggio di Easterly
(2001) è un’utile lettura che aiuta a vedere le cose nella giusta prospettiva.
Nessun paese è mai diventato ricco con una popolazione completamente
illetterata o senza alcuna capacità tecnica. Nello stesso tempo in molti
paesi si è migliorato di molto l’accesso all’istruzione primaria senza che
questo portasse a nessun aumento della crescita economica. Mancavano i
corretti incentivi individuali per mettere a frutto il proprio capitale
umano, in modo che la maggiore istruzione si trasformasse in
investimento nel futuro degli individui e nella crescita. Perché ciò sia
possibile, altre politiche complementari all’educazione sono necessarie. “I
think that learning under the right circumstances is a very good thing, but
administrative targets for enrollment rates and overwrought rhetoric from
international commissions do not in themselves create the incentive to
grow. Education is another magic formula that failed us on the quest for
growth” (Easterly, 2001, p. 84).
4
Si veda Blöndal et al. (2002) per il calcolo dei tassi di rendimento privato e sociale
dell’educazione non obbligatoria nei maggiori paesi OCSE e per un approfondimento di questi
temi legati agli incentivi e all’equità.
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