I Racconti del Cenacolo di Ares Cenacolo di Ares Edizioni

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I Racconti del Cenacolo di Ares Cenacolo di Ares Edizioni
I Racconti del Cenacolo di Ares
Cenacolo di Ares Edizioni
© Cenacolo di Ares Edizioni 2012-2013
Copertina: Alessandro Pusceddu
Prefazione di Martina Marongiu
www.cenacolodiares.com
Facebook: Cenacolo di Ares Edizioni
Carmine Frau
Incantatori
di
serpenti
Racconto lungo
Il Cenacolo di Ares
«Conservare zavorra,
è tutto lì il nocciolo della questione:
zavorre e sorrisi e mani strette
come quelle dei bambini all'asilo.»
Fabio Giardina
Prefazione
Prendete un barbiere di dodici anni alto
pressappoco così, e che sa tutto, ma
proprio tutto. Aggiungete un Gringo, uno
che è straniero in casa sua; poi prendete
uno Scrittore, uno che parla coi suoi
personaggi, e lasciate che i due diventino
amici. E infine, disegnate una vecchia
imbarcazione, che dondola in un porto e
odora di cannella, e datele un bel nome di
donna. A questo punto, senza che voi
facciate altro, arriva un’Egda, come in
ogni storia che si rispetti, capace di
portarti via a cercare qualcosa che
neppure esiste. E ti dimentichi di tutto,
ma proprio tutto.
Ci sono incanti capaci di durare una vita
intera. Persone, luoghi, possibilità, e alle
volte persino le storie. Ci stregano, così,
semplicemente capita. Ma non a tutti, e
mica sempre, sia ben chiaro. Capita
anche di accontentarsi o di fuggire, di
cercare o di reprimere. Capita di non
capire, di non capire affatto.
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In questo racconto, può capitare di non
capire. Capita, ma non è grave. Può
anche capitare di perdersi, e di ritrovarsi
ben oltre il confine segnato dalla pagina,
e di accorgersi un pelo in tempo del
tempo che stava per svanire. Da queste
parti si intrecciano parecchie cose rare,
apparentemente prive senso, radicate in
una sola notte di pioggia o sospinte dalla
folle corrente del mare. Ma altrettanto
raro è trovarsi da queste parti.
Ci sono, volendo, per i più meticolosi,
delle piste da seguire: alcune si
interrompono però, decadono (non fateci
troppo affidamento!); altre, vanno ben al
di là della neve che imprigiona e libera.
Ci sono i Grandi che giocano a fare i
Grandi, e ci sono i Piccoli nati già Grandi
e che,
per dire che giocano, fanno
terribilmente sul serio. Ci sono rocce,
nella Città delle Rocce. E ovviamente c’è
il porto. Tra chi resta e chi parte, chi
resta sta bene dove sta, dice. Chi parte,
forse, non tornerà mai. E se torna,
saranno ormai trascorsi dei secoli, secoli
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veri. E lo sa solo il tempo di che cosa sto
parlando.
A volte capita di sentirsi stranieri nella
propria terra. Basta anche solo il minimo
sospetto, per rimettere in dubbio tutto
quanto alla ricerca di nuove strade. La
fuga è amica di ogni speranza. E anche
quando si sa tutto, e non per scelta,
bensì per natura, può capitare di vivere
l’inaspettato, e di dimenticare ogni cosa.
Così, può capitare che leggendo questo
libro ci si dimentichi persino del suo
titolo.
L’incantatore di serpenti esiste o è frutto
di un inganno? Magari era tutta una
scusa…
Per voi, è davvero così importante?
In fondo… sta tutto nell’Incanto.
Martina Marongiu
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Il continuo infrangersi dell’acqua sulle
pietre del molo.
La legna delle barche ormeggiate
scricchiola e trema. Dondola.
Lontano brilla il faro. Alfiere del mondo
umano, primo bottone che regge insieme
la stoffa stropicciata e irregolare della
natura e quella invadente dell’umanità.
Faro che è tutto un ritornare, quando
accoglie a casa le barche sputate fuori
dall’inesplorato. Faro che è tutto un
viaggio, l’ultimo occhio vigile che puoi
fissare innamorato, prima di esplorare le
verità di un mondo – il tuo mondo – che
temi e non ha ancora confini certi.
Un porto è fatto di ritmi. Il tempo ci
suona sopra per gli affari suoi una
melodia fatta di ribollire, come l’acqua
intorno agli scafi antichi e che pulsa al
ritmo della luce di quell’immensa colonna.
Cala la notte sul porto e tutt’intorno è
silenzio senza colore. Stelle e silenzio,
silenzio prima della vita, del pianto di un
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bambino, degli affanni di un vecchio.
Natura oltre il cono di luce che arriva fino
a Vattelappesca, dovunque sia, e fa il giro
del mondo per ricominciare, costante,
dallo stesso punto, come avesse preso
dall’uomo il suo peggior difetto. Oppure il
suo miglior pregio.
La Città delle Rocce finisce in quella luce.
Oppure comincia.
Le rocce abbracciano ruvide e fradice il
porto da entrambi i lati. Al centro, ogni
due anni, dondola lo scafo di un
mercantile. È blu come gli occhi di una
bella donna. Una lunga linea bianca lo
spacca longitudinalmente a metà, e il
bianco del cielo di agosto colora invece la
parte inferiore della chiglia. Galleggia e
tace sull’acqua.
Un marinaio, in piedi sul montacarichi, è
armato di pennello e di vernice. Rosso.
Traccia per l’ennesima volta i caratteri
sbiaditi dal sale, e strappa nuovamente
quello scafo alla Natura, per rifarne
umanità – più precisamente, donna –
amica degli uomini e grembo paziente. La
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chiamano Céline. Trasporta spezie dal
sud del Paese, taluni dicono, quelli che ci
sono stati, che il suo ponte profumi di
acqua di mare, e cannella.
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C’è un viavai di persone e cose al porto.
Una fiera, da queste parti, è tutta una
faccenda di terra battuta e di vento
tiepido che sparge odori tra i più vari. Un
minestrone.
Carne arrosto, spezie esotiche, sudore,
merda di cane, acqua stagnante, polvere
da sparo, stoffa scura, stoffa chiara,
capelli, acqua di colonia, sigari, denti
gialli, denti bianchi, fiori, strumenti e
bande musicali e tutto il resto.
Una goccia di sudore caldo cola dalla
tempia del primo clarinetto. Si schianta
per terra, lasciando il segno di un
minuscolo cratere di sabbia umida. Butta
il groppo in fondo alla gola.
Il maestro si gira e segna l’attacco.
Musica.
Le biciclette sono rovesciate sull’erba ai
bordi del piazzale. La Céline riposa
sull’acqua. È vuota, e le sue merci sono in
vendita da qualche parte. Non c’è
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nessuno dentro, ad eccezione del suo
comandante.
Lafayet, quello se ne sta sull’attenti, sul
ponte, si afferra il polso dietro la schiena,
osserva, come a ritracciare con lo
sguardo meticoloso l’orizzonte che ha
davanti. Nostalgico vero, di quelli che
vivono soltanto per ritornare.
Dopo aver ascoltato la musica della
banda, mi sono fermato alla prima
bancarella. Su un banco pieno di libri
usati, cerco una copertina. Niente di
preciso, mi limito a guardarle e a
giudicare tonalità, materiale, e poi il
titolo. Azzurro, carta rigida, “Strutture e
interventi in campo idrico”. C’è un pozzo
antico, fatto di pietre, in primo piano. A
matita. Comincia: “Il discorso degli
interventi in campo idrico, a grandissima
ragione, può essere considerato dagli
addetti come una risposta molto ampia ai
problemi di approvvigionamento, specie
se inserito all’interno del dibattito
tutt’altro che obsoleto della tecnica idricosofica di moda nel nuovo continente. Con
il presente lavoro…”
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Molto più interessante il suo vicino di
scaffale, verde, carta rigida, “Venti
ragioni per smettere di bere”, con un
bellissimo bicchiere largo sullo sfondo.
Mi incuriosisce un uomo al padiglione
artigianale, dall’altro lato dello spiazzo.
Indossa un cappello in vendita a pochi
spiccioli.
Il
mercante
ci
spera.
Vattelappesca
se
questa
volta
lo
comprano. Tira su i calzoni, stamattina la
moglie gli ha fatto trovare pronti quelli
azzurri, in cotone rigido, molto comodi
per lavorare al laboratorio del cuoio, e –
certo – anche al banco, se non fosse per
quel fastidioso dettaglio che sono larghi,
e quante volte glielo devo dire che sono
larghi: non posso mica andare in giro a
mostrare ai clienti le mutande, che cazzo.
Tira su alla buona le braghe, fino
all’ombelico,
o
poco
sotto,
senza
preoccuparsi della camicia che viene su
tutta stropicciata. Chiede permesso al
Gringo – concesso – e gli annoda il laccio
al mento. Gli calza a pennello eccetera,
dice, mentre si regge i pantaloni con la
mano sinistra. Sembra proprio fatto per
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lei, dice, proprio quando una musica
calda arriva di spalle, a folate insieme al
vento, e distrae il pistolero.
A lato delle giostre sta seduto un uomo,
per terra, con le gambe incrociate.
Indossa un bel copricapo rosso. È a torso
nudo, ha le spalle ossute cotte dal sole, e
soffia dentro uno strumento fatto di
canna dipinta e laccata, con una grossa
zucca sferica vicino al bocchino. I
ragazzini nel loro giro di giostra urlano e
ridono per i fatti loro. Un gabbiano spolpa
la carcassa di un topo.
Dentro la cassetta c’è qualche spicciolo.
Poca roba.
La cesta di vimini al suo fianco è ben
coperta. Ci sarà dentro un serpente
addormentato.
Gringo lascia cadere qualche moneta
generosa dentro la cassetta, una gira tre
volte su se stessa e si posa sul legno con
suono acuto. L’incantatore ripone il suo
strumento, alza lo sguardo, e ringrazia
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con un misurato cenno dei baffi grigi. Poi,
incomincia la nenia.
Le note che fuoriescono sono molto
ripetitive e veloci. Con un gesto rapido,
dispone la cesta tra lui e il suo spettatore,
e poi la apre. Il dorso di un meraviglioso
animale si solleva di scatto. La corona
intorno al collo si apre come una
bellissima coppia di ali, ali squamate e
tutto quanto, e al suo interno sono
tracciate
delle
spirali.
La
danza
dell’animale è ora lenta, poi più
pericolosa con l’incalzare della musica.
Con uno scatto improvviso, il rettile
sinuoso cerca di afferrare le dita del
musicista. Va a vuoto.
Una, due, tre volte. L’uomo tiene una
nota più a lungo delle altre, e richiude
dentro
il
serpente
semplicemente
spingendo il coperchio della cesta
dolcemente contro l’animale. Poi dice:
«Sei uno straniero in casa tua, nei tuoi
occhi c’è una fuga perpetua».
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Egda ha la pelle bianca.
Bianchissima.
Gli occhi sono blu e risaltano in quel viso
bianco, così come le lentiggini rosse e i
capelli biondi. E i suoi maglioni. Ha una
voce delicata, anche perché parla sempre
molto poco, come volesse preservarla
dalla ruvidità del mondo.
Le piace la musica suonata al pianoforte,
e va matta per il profumo della cannella.
Quando sente la necessità inevitabile e
impellente di dover dire qualcosa, le sue
palpebre si stringono in una smorfia
appena percettibile e molto carina. Pare
concentrarsi su una pagina del destino
del mondo e da essa trarre una, sola, riga
perfetta.
Poi la dice.
Parla così poco che la gente pensa sia
straniera. E in effetti, in un certo senso, è
straniera.
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I genitori erano originari di uno di quei
paesi del nord Europa in cui avere la pelle
chiara come la luna d'inverno è cosa
comune. E pure le lentiggini non
mentono, anche se bisogna dire, a questo
punto della storia, che Egda è nata e ha
sempre vissuto a pochi chilometri dalla
bottega da Pwim. Con il punto e tutto
quanto.
Una notte pioveva. Ma così forte che
finiva il mondo. Aveva cominciato piano,
come tutte le cose che cominciano, e non
sanno ancora fare altro. Si sentivano
ancora
alcune
automobili
passare
sull’acqua, l’intensità aumentò graduale
ma inesorabile. Il boato dell’acqua prese
il posto del leggero ticchettio, la gente
chiudeva le imposte e si preoccupava
dentro la propria abitazione, che d’un
tratto non sembrava più così sicura. Notti
di quelle esistono solo per far piovere più
acqua possibile. In quella notte, Egda,
aveva sognato la neve.
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La mattina dopo, una mattina di quelle
che esistono solo ed esclusivamente dopo
una notte di pioggia, Egda entrò in una
bottega.
Quella bottega aveva un'insegna di legno
rossa e bianca che cigolava dondolando
appesa all'asta di ferro arrugginito, con
scritto sopra, a caratteri eleganti neri:
da
PWIM.
Con il punto e tutto quanto.
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Pwim taglia i capelli.
Non si è mai innamorato.
Gli piace il calcio e il rumore delle forbici
quando tagliano i capelli bagnati, i vestiti
rossi, e il suo amico immaginario: il
Lungo.
Ha dodici anni, e aveva entrambi i
genitori, italiani. La madre morì l’istante
esatto in cui lui venne al mondo. La
coincidenza l’ha sempre costretto a
sospettare con tristezza che lei fosse
morta di lui. Il padre, benedetto dalla
venuta di un figlio, veniva stesso tempo
colpito dal lutto per la moglie. Divenne
taciturno. Dipingeva. Riuscì a dedicare al
figlio un grande affetto, tutto quello che
gli era possibile. Anche la parte che non
poteva più riservare alla moglie.
Almeno, finché
all'anno scorso.
rimase
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in
vita.
Fino
A undici anni, tre mesi e quattordici giorni
dalla morte della moglie, venne meno.
Ora Pwim tira avanti facendo il barbiere,
e se la passa mica male, anche grazie ai
suoi amici. Ha dodici anni, sei mesi e
qualcosa.
La prima parola di Pwim è stata: “Grazie”.
L’aveva detta all’infermiera quando lo
afferrò per poi adagiarlo nell’incubatrice.
Lei indossava il camice azzurro a maniche
corte, col collo a “V” che scopre
completamente un ampio triangolo che
collega la testa al seno. La pelle era
abbronzata e raggrinzita, ma in modo
appena percettibile. Indossava pantofole
bucherellate.
Bianche:
standosene
appeso per le ascelle alla presa a due
mani dell’infermiera, Pwim le vedeva
spuntare fuori dai calzoni, laggiù.
Ha questo brutto vizio di sapere tutto,
senza aver mai imparato niente. Lo sa e
basta. Una di quelle doti innate.
La seconda parola di Pwim fu: “Ora”.
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La frase intera, per la cronaca, fu:
“Grazie, ora levati dalle palle, grazie”.
L'infermiera se la prese in modo tanto
personale che non avresti mai detto. Se
non altro, per il fatto che l'autore della
frase aveva sì e no qualche minuto di
vita.
In realtà il motivo di quella rudezza è da
ricondurre sicuramente al fatto che la
prima cosa che Pwim vide del mondo, fu
il corpo senza vita della madre, immobile,
di un sonno apparentemente lieve ma
così eterno da farti quasi arrabbiare, sul
letto della clinica.
Le lenzuola erano rosa. Fuori, il sole era
velato dalla stoffa del caldo cielo estivo. Il
grano era già imballato da settimane e,
nei posti che contano, era appena finita
una grossa faccenda di guerra. Il mondo,
dicevano nei giornali, era pronto a
ripartire, ma in fondo, la verità è che non
si era mai fermato. Solo nella sala
dell’ospedale in cui ci troviamo, sembrava
non essersi mai neppure affacciato.
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Per quel motivo, nessuno si stupì, a parte
l’infermiera permalosa, quando la prima
frase di Pwim fu: “Grazie, ora levati dalle
palle, grazie”.
Attualmente, possiede una bottega con
l'insegna di legno. Per la precisione: “da
Pwim.”. Con il punto e tutto quanto.
In questo preciso istante, se ci si sporge
per guardare dal portone, sta tagliando i
capelli a un suo cliente, un signore coi
baffi
grigi
e
una
camicia
blu
profumatissima. Lo si capisce da tutto
quello sferragliare e ticchettare
e
pettinare eccetera. Il rumore delle lame
che in un colpo si abbracciano in una
stretta brillante, letale per i capelli lunghi,
e ha un ritmo piacevole. Ci si potrebbe
fischiettare un bel motivo sopra.
- …che poi non si addice alle persone per
bene: fare per la strada quel che ti capita
di fare in casa – ci pensò un secondo – e
pure con il pensare ci andrei attento. –
disse il cliente, precisando.
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- Sa, signor Hobbes, sono convinto che
ciascuno di noi sia contemporaneamente
molte persone. Una persona diversa a
seconda del momento che si trova a
vivere – disse Pwim, e con un balzo saltò
giù dalla cassa di legno per cambiare
pettine e forbici.
E via dicendo.
Come tutti possono vedere, Pwim taglia i
capelli montando sopra una vecchia cassa
rovesciata, con il logo di una nota marca
di Rum marchiato sul lato, poiché ancora
non arriva alla testa dei clienti.
- Ma sono cresciuto di due centimetri
questo mese.
Non ha mica bisogno di soldi. I pittori
hanno la puntuale capacità di diventare
ricchi e alla moda negli ambienti che
contano, una volta trapassati. Il padre di
Pwim, da morto, è riuscito ad accumulare
molto più di ciò che quel diploma di
ragioneria gli avrebbe mai permesso di
desiderare,
ai
tempi.
Per
cui,
sostanzialmente Pwim non è povero.
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Potrebbe starsene tutto il giorno a casa, o
che so, andare a scuola a far finta di
imparare.
È solo che tra tutto quello che sa fare
Pwim, e sicuro che sa fare tutto, gli dà un
piacere senza eguali tagliare i capelli alla
gente.
Il cliente che se ne sta seduto sotto le
sue forbici scintillanti, si fa vivo una
settimana sì e una no per capelli e baffi, e
sa benissimo che Pwim è un ragazzino
fuori dal comune. Lo sanno tutti.
- Pwim? – chiese con uno slancio che
lasciò poi in sospeso.
- Lo so signor Hobbes, lo so. Riporto a
sinistra e baffi corti ma non troppo.
- No, mica dicevo questo. Voglio dire,
Pwim, com’è che ci si sente quando sei
uno come te?
- Basso? – chiese il giovane barbiere,
segnalando una misura scarsa dal
pavimento col palmo della mano.
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- Ma no, dico, come ci si sente quando sei
speciale? Insomma, io darei qualsiasi
cosa per sapere le cose che sai tu.
- È una condanna. – disse Pwim.
- Una condanna?
- Una condanna. Insomma, io vorrei non
sapere. Tipo non sapere cosa dire. Vorrei
che ci fosse un mondo del quale poter
immaginare
qualcosa.
Fantasticare.
Dicono che quando ti svegli nessuno
debba toccarti i capelli, altrimenti può
rubare i tuoi sogni. È un po’ come se a
me succedesse ogni mattina. È la stessa
situazione di chi ha un viziaccio e non
riesce a liberarsene. La stessa cosa: vede
quanto gli succede ma non ci si oppone,
perché non riesce. Sapete, da qualche
parte visse uno scrittore. Quello da
sempre andava blaterando di mondi
assurdi, di pistoleri e di una certa
inflessione dialettale nell'anima, e delle
cattedrali e di varie altre faccende
complicate tipo quella del vecchio
orologiaio eccetera.
Beh, arrivò a
convincersi che il tutto esistesse davvero.
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Finisce male, finisce che se non stai
attento la linea che separa gli scogli del
tuo mondo da quelli del mondo vero si
assottiglia sempre di più, confondendoli e
ingoiandoli entrambi come mare in
burrasca. Un bel casino. Le onde si alzano
e il vento carica instancabile, e il faro
bianco in lontananza, unico punto di
riferimento sicuro, comincia a sparire
dietro la cortina di nebbia, e le piccole
gocce grigiastre e la risacca eccetera.
Ecco, è così quando sai tutto. Hai
l'impressione che la gente con la quale
parli non capisca fino in fondo di che
diamine stai parlando. Quelli ti guardano
come se fossi il faro dietro le onde e le
gocce e la risacca e il vento, e piano
sparisci dalla loro vista. Le persone
evitano del tutto ciò che si scorge
appena.
- ... - ammutolì il cliente. Le forbici gelide
poggiate sul labbro superiore e pronte a
tracciare una perfetta linea di baffi. Forse
rifletteva.
- ... – rispose Pwim.
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- Accidenti, sai davvero tutto. – sentenziò
l’uomo.
Accidenti, sapeva davvero tutto.
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Vado matto per quei film sul vecchio
West. Le storie di pistoleros, polvere e
stranieri senza scrupoli né casa. Ho
sempre pensato che nel Lontano West, se
hai una giusta dose di fortuna e di palle,
viene fuori che diventi qualcuno.
Se ti interessa
ovviamente.
diventare
qualcuno,
L’uomo che ho conosciuto alla fiera della
Città delle Rocce diceva di parlare con un
vecchio sciamano, un incantatore di
serpenti, o qualcosa del genere, diceva. Il
problema è che io non ci avevo visto
nessuno a parte lui, che girava su se
stesso con un cappello da cowboy in testa
e mi sembrava tutto matto. Sconvolto, di
sicuro.
Ripeteva
una
cantilena
sull’essere
stranieri e sulla speranza, per questo gli
dissi:
- Gringo, ora calmati e poi mi spieghi
meglio.
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Si calmò, ma non mi spiegò niente che
fosse più chiaro di quella storia dello
sciamano. Un uomo veniva trafelato
verso di noi, teneva insieme calzoni e
camicia con la mano sinistra e con la
destra continuava a indicare qualcosa che
non c’era sopra la sua testa.
- Quello, signore, lo dovrebbe pagare. –
ansimò sputacchiando.
Ad ogni modo, col tempo diventammo
amici, io e quel ladro inconsapevole di
cappelli da cowboy, e presi il vizio di
chiamarlo Gringo.
A dirla tutta, ancora non ho idea di come
si chiami davvero. Forse me l’ha detto,
comunque.
Capita che talvolta alla Città delle Rocce
si sia un po' stranieri, e capita che in un
determinato periodo della sua vita,
Gringo, si comportasse esattamente da
gringo. Sapete? Quello che entra in città
a cavallo di un vecchio mulo grigio, con
un poncho e una Colt e nient’altro, e la
città lo sa, che quello è un gringo, e cerca
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di espellerlo al più presto come se fosse
un calcolo nei reni. Lui era, diciamo,
bloccato in questo stadio di non
appartenenza. Non so dirvi se fosse a
causa della storia della fiera, o se la
storia della fiera fosse una conseguenza
del suo stato d’animo.
Per quanto mi riguarda, che mi piacciono
i film sul vecchio West ve l’ho già detto.
Mi guadagno da vivere raccontando
storie, e spendo più di quanto dovrei in
una collezione di libri scelta solo per le
copertine. Non li ho mai letti, a essere
sinceri. Magari un giorno lo farò. Mi
piacciono, quelle copertine. La gente dice
che non puoi giudicare un libro dalla
copertina, benedetta saggezza popolare,
ma io lo faccio. Alla fiera presi il libro
“Venti ragioni per smettere di bere”,
insieme a un volume di seconda mano
sulla fine del mondo. In copertina c’era il
quadro del Viandante sul mare di nebbia.
Una volta mi sono innamorato e sono
finito sul ponte principale di una grossa
nave passeggeri. Può sembrare anche
una correlazione illogica, questo sì, ma
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era capitato che una premura si fosse
presa gioco delle mie gambe. Inspiegabile
premura, a conti fatti, ma necessaria.
Decisi di farmi di corsa mezza Città delle
Rocce. Non era una questione di chiedersi
il perché. A volte devi prendere e correre
senza farti domande, ché le risposte non
sono altro che vicoli ciechi e barriere
architettoniche. Devi solo cominciare a
correre, ecco tutto. Io lo feci per arrivare
al porto e salire su una nave in partenza,
con
l'idea
abbastanza
idiota
di
abbracciare una bellissima donna, e
dichiararle in modo affannoso e tutt'altro
che convincente il mio amore. La Céline
mi guardava silenziosa. Sarebbe presto
partita per il suo giro di commerci. Al suo
fianco era ormeggiata la nave passeggeri.
Un inferno di lamiere e parquet e amori
infranti.
- Nemmeno l’ombra, signore. Ora la
prego di liberare il ponte, o al limite
pagare
l’imbarco.
–
mi
disse
il
comandante della nave. Ne aveva viste,
di persone che cercavano altre persone.
Ma non solo: cercavano valigie, animali,
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armi, gioielli, carte, destini, fortune, stelle
comete. Qualche volta, persone. Sapeva
che c’era poco da fare in quei casi. Il fatto
è questo: il più delle volte le persone non
vogliono essere cercate. Vogliono essere
trovate. Qualche volta puoi anche aver
sbagliato nave. Per questo non le trovi.
Ma il più delle volte hai sbagliato persona.
Per questo non la trovi.
Io pensavo di aver chiaramente sbagliato
nave.
- La vita è anche fatta di navi sbagliate. –
dicevo quando ne parlavamo.
- Già. Per questo non l’hai trovata, vero?
concluse Gringo con un tono sarcastico il
mio
ragionamento,
mescolando
un
soffritto di olio, cipolla e pancetta succosa
sotto un fuoco allegro.
E poi, ci sono rocce, alla Città delle
Rocce.
C'è anche un sacco d'acqua.
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Il mare.
Dalla casa di Gringo, in centro, si vede il
mare, e pure i gabbiani che volano a
cerchi concentrici sopra i comignoli
arrugginiti, e giureresti di sentire il
profumo del muggine arrostito che i
camini sputano in cielo.
C'è il vecchio faro bianco e viola sul lato
orientale della costa. Lo guardo sempre in
momenti
come
quello
della
nave
sbagliata. Lo facevo anche da piccolo,
quando mi andava di scappare via di
casa. Io mi ci nascondevo, al faro.
Qualcuno si costruiva un rifugio, qualcuno
si nascondeva al centro di un campo
pieno zeppo di cespugli: tra i rami
impolverati c’era e ci sarà sempre un po’
di spazio per un bambino qualsiasi e i
suoi desideri migliori, fatti con le gambe
incrociate e un broncio così. Io, andavo al
faro.
Ora è dismesso, a causa delle innovazioni
nel campo della navigazione. Venne
declassato ad attrazione turistica, e la
sua gloriosa banda orizzontale rossa
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venne ridipinta di viola. I marinai
raccontavano che quando lo si vede dal
mare, la banda colorata sparisce per un
meraviglioso incantesimo ottico. Per
questo motivo alcuni giurano di averlo
visto
staccarsi
prodigiosamente
dal
terreno e librarsi nell’aria.
- Come un cazzo di squalo, o
vattelappesca come. – diceva sempre un
vecchio pescatore, Samuèl Cerneau,
europeo con la barbetta a chiazze e la
pelle rossa corrosa dal sale. Lo trovate
sempre al molo, tra le dodici e le
ventuno, a bestemmiare contro i giovani
pescatori pieni zeppi di tecnologia e pesce
fresco.
Il faro.
Quando fa brutto, riesci a vedere solo la
sua luce intensa e ritmata. Quando fa
bruttissimo, sparisce dietro il boato del
mare in tempesta e del vento disperato.
- C'è da dire che quando fa bruttissimo
l'ultima cosa di cui devi preoccuparti è il
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faro. – sottolineava Cerneau – Faresti
bene a tenere le palle all’asciutto.
- E a bagnare la gola. gli faceva
sempre eco qualche avventore ubriacone
della locanda.
Quando fa bello, però, il mare alla Città
delle Rocce è un grosso sospiro di sollievo
blu, e il vento profuma di fiori viola delle
jacarande, la luna ci si specchia e si trova
più bella che mai.
La fregatura, in giorni come quelli, è che
speranza
e
odio
sono
sentimenti
complementari. Gatto e Volpe, si direbbe.
Uno si trova a consolare l’amico che si è
lanciato a perdifiato sulla nave sbagliata,
e un istante dopo, decide che il mondo è
troppo piccolo. Che la speranza è una
pelle troppo stretta e tu ci sei cresciuto
dentro fino a strapparla, e a strapparti.
Gringo. Le parole di quell’incantatore,
quello della fiera, gli si piantarono in
mente come unico pensiero che fosse
capace di formulare. Maceravano là
dentro per mesi. Lotta perpetua aveva
38
detto, straniero, casa. Non è chiaro se
quello sciamano ci fosse sul serio, su
quella terra. Ma non importa.
Pensieri che maceravano in testa. In
poche settimane la sua inquietudine si
acuì.
Pensavo
l’avrebbe
elaborata,
bisogna lasciare lo spazio necessario in
questi casi.
La pelle… il vestito era troppo stretto e
stava cominciando a lacerarsi.
Straap!
Se proprio vuoi, il tempo rattoppa gli
strappi più semplici. Cura tutte le ferite
che devi far rimarginare. Per le altre non
ci sono troppe questioni. Restano aperte.
E quello, il tempo, passa dall'altra parte
dello schieramento, lotta contro di te e
diventa il parametro con il quale misurare
i fallimenti, gli investimenti sbagliati, gli
errori imperdonabili. Roba che ci si
sbagliano vite intere, volendo.
Altro che navi.
Strap.
39
Ce l’aveva negli occhi da sempre,
quell’inquietudine, per questo il suo
nomignolo prese piede facilmente, e tutti
lo chiamavano così, scordandosi il vero
nome.
Alle volte sei capace di vivere da
sconosciuto a casa tua, ma quando non
reggi, è allora che lo strappo è
irreparabile.
…STRAP!
Gringo sparì.
Evaporato.
Casa sua cominciava a riempirsi di
polvere.
Le
finestre
serrate
non
lasciavano entrare il sole primaverile che
scaldava rocce e gabbiani.
Una mattina me ne stavo col naso dentro
la storia in bianco e nero di un regista
innamorato
del
suo
personaggio
femminile. Ci aveva un bel culo e il fisico
da diva degli anni Venti, la bella. Squillò il
telefono.
Un
numero
sconosciuto.
Chiamava me, quello stronzo, come se
40
nulla fosse
eccetera.
successo.
Senza
spiegare
- Alla buon'ora. Testa di cazzo.
- Ho avuto da fare.
- Già.
- Senti. Ho pensato molto, in questi mesi.
- Almeno quello.
- Almeno quello. Ho pensato molto e mi
sono chiesto: perché mi chiamate Gringo?
Perché Straniero?
- Beh, a parte il fatto che ormai nessuno
ti chiama più. Alla Città delle Rocce o sei
un cittadino oppure sei un gringo. Tipo il
vecchio Clint. E indovina che cosa sei tu?
- Appunto. Sono uno straniero. Nei nomi
è segnato più destino di quanto si possa
credere, amico mio.
- ...
- Ho fatto questo ragionamento, tempo
fa, e ho deciso di cercare il mio posto.
41
Uno deve cercare il suo posto, a un certo
punto, no? Insomma, se sono uno
straniero qui dentro, significa che,
semplicemente, questa non è casa mia. disse esattamente così, al telefono:
questa, non, è, casa, mia. Al telefono uno
si aspetta di sentire frasi fatte, cliché,
proverbi e al limite insulti, ma non frasi
così – come quel meteorologo –
continuava, mentre sentivo in sottofondo
rumori imprecisati di traffico e vento –
che viveva in un posto in cui non poteva
essere felice e
Lo interruppi - uno deve cercare il suo
posto,
chiaro.
Il
meteorologo,
va
benissimo, ma che c'entra ora?, stavo
scrivendo un racconto. E alla fine quello si
suicida, ricordi?
Davvero?
Poveraccio.
Senti,
quell’incantatore, alla fiera, io l’ho visto
davvero quella sera. La lotta col serpente
mi aveva ipnotizzato, come un sogno ad
occhi aperti, o forse era la musica. Ma
non importa mica tanto, sai? È tutto un
fatto di cosa siamo noi, di come vogliamo
sporcare il mondo con la nostra
42
esistenza.
Il
piattume
mi
sta
avvelenando. Non devi preoccuparti
troppo per me, sto correndo verso me
stesso e mi vedo chiaramente. – si
mangiava le parole – Devo… devo trovare
il mio posto. Ecco. Devo… dobbiamo
trovare il posto giusto oppure… anzi.
Oppure, saremo costretti a vivere senza
magia, vittime di un buio informe,
dell'ombra, di niente. È una cosa che ho
io in testa, forse. Cerca di capirmi.
Dovresti farlo anche tu. Cerca il tuo
posto.
- Il mio posto? Ma sto bene qui, quando è
primavera e le strade si ricoprono di
petali viola, dove diavolo lo trovo un
posto così? D'accordo, devi, dobbiamo,
trovare il posto e tutto quanto, ma ora
comincio a preoccuparmi. Quasi preferivo
quando ti davo per morto.
- Ti racconterò. Ora devo riagganciare.
- Vieni a trovarmi. Ne parlia...
43
Gringo aveva riagganciato subito dopo il
suo “ devo riagganciare”. Cosa che rese
piuttosto inutile il mio invito.
Fissai il vuoto con il ricevitore ancora
all'orecchio per lunghissimi minuti.
La verità bella e buona è che se la dava a
gambe.
Pensavo
che
fosse
un
atteggiamento
irresponsabile.
Da
sciocchi. Avrei voluto saperne di più, ma,
da quel momento, non avrei mai più
rivisto Gringo.
Venni a sapere successivamente che
visse accampato per alcune settimane
dentro il Faro.
44
6
Una mattina di quelle col sole ingenuo.
Aveva piovuto, la notte prima, e sui vetri
tremava incerta ancora qualche goccia. Il
temporale aveva lavato i mal di testa e
ripulito le strade. L'umidità macchiava i
palazzi in ombra e, a chiazze, la terra
sulle strade, fino a colare giù in rigagnoli,
come tutto l’amore non ricambiato del
mondo. Qualcuno aveva lasciato sul
davanzale una pentola, ci avrebbe poi
cucinato la pasta o lavato i pavimenti. Le
piante verdi del corso,
rinfrescate le
foglie, si erano tenute un po’ di pioggia e
l’avrebbero rilasciata sui
ragazzini
scocciatori. O nel vento.
In una mattina di quelle, una ragazza
entrò nella bottega “Da Pwim.” Con il
punto eccetera.
Si sedette su una poltroncina, come
fanno quelli che aspettano il proprio
turno.
Dai
diffusori
della
bottega
fuoriusciva una musica famosa. La stufa
di ghisa era antica e lucida.
45
Pwim, fino ad allora, aveva tagliato
soltanto capelli maschili. Baffi, al limite.
Ma pur sempre maschili.
Singolare che non ci fossero clienti in quel
momento, e la ragazza si era seduta lo
stesso come per attendere il suo turno,
forse
per
un
eccesso
di
buona
educazione.
E però, da quel momento, la vita dei due
ragazzini sarebbe cambiata.
- Prego, è libero. – disse Pwim,
sventolando una stoffa bianca. La ragazza
non rispose.
- Sarebbe il tuo turno – disse lui, tirando
poi su con il naso.
Egda fece un respiro un poco più
profondo degli altri, si guardò intorno per
un secondo, forse due, poi sorrise
appena.
- Ah, ma io non sono venuta per tagliare i
capelli.
- Ah, no?
46
- No.
Presa tra tutte le ipotesi, possibili e non,
questa era davvero una delle poche cose
che Pwim non avrebbe mai indovinato.
Osservavano un punto, davanti a loro,
come
se
soltanto
loro
capissero
l'importanza, e le coordinate. Senza dire
nulla.
C’erano capelli sul pavimento. I prodotti
erano sul ripiano di pietra antica, tutti in
mostra, e in ordine d’altezza. Su un
panno bianco le forbici di svariate misure
e con le lame più strane. C’era quella per
sfoltire le punte e quella per i lavori di
precisione. Pwim amava rifinire l’arco
dietro l’orecchio. La prendeva seriamente,
quella curva che sfumava poi poco sopra
le spalle. Lo specchio davanti alle
poltrone era pulito e sdoppiava l’intera
bottega.
Facevano dondolare al tempo del pezzo in
radio le loro gambe, e nessuno dei due
ancora toccava il pavimento quando
sedeva su quelle poltroncine.
47
Accadde in quel momento, sul pavimento
pieno di ciocche di capelli tagliati, neri,
grigi, biondi eccetera. Fu su quel preciso
pavimento pieno di capelli, al ritmo di
quattro gambe dodicenni che oscillavano
nell'aria, che Pwim chiese a Egda.
- E che sei venuta a fare?
- Voglio vedere l'Incantatore di serpenti.
48
7
Un giorno, era Aprile o giù di lì, ricevetti
un plico. Conteneva una lettera datata 12
marzo.
12 Marzo.
Caro amico,
siamo tutti vivi, ma quando possiamo
dire, con totale certezza, di vivere sul
serio? È una domanda che si infrange sui
miei pensieri come il nostro amico mare
fa sulla Città delle Rocce.
Quando ne parlavo, nessuno ci credeva,
ma io l’ho visto. L’ho visto davvero,
quell’uomo, mentre suonava un flauto
esotico in faccia a un serpente dal veleno
mortale. Quando ci siamo conosciuti,
ricordi? Nemmeno tu hai mai dato corda
al mio racconto.
Posso svelarti da dove sto scrivendo
perché, quando riceverai le mie parole,
non conterà più. Chissà se mi stai ancora
cercando. Chissà se interessa a qualcuno,
in realtà. Quando sei uno straniero non
49
manchi a nessuno, se sparisci. Mi sono
procurato un telefono, qualche giorno fa,
e ho provato a dirtelo, ma non ci sono
riuscito. Non riesco a dire le cose.
Ora lo faccio: mi trovo al Faro.
O meglio: quando leggerai la lettera
probabilmente non ci sarò più, qua
dentro. È un bel posto. Si vede il mare
come se fosse il giardino di casa. Non
riuscivo più a dormirci, nella mia. Ho
dormito poche ore nell’ultima settimana.
Il mio corpo si ribellava e marciva nel
buio di quelle mura. Dalla finestra, di
notte, si vedeva il mare. Una grossa
pozzanghera nera sotto la luce della luna.
Lo ascoltavo spesso, ho sempre avuto
l’impressione che il mare dica qualcosa a
chiunque sia disposto a starlo a sentire.
Non era vero! Non mi diceva un cazzo di
niente. Come ogni cosa di questa città
ammuffita.
Ho deciso di andare ad ascoltare il più
vicino possibile. Una mattina mi trovavo
al molo. Era una giornata tiepida: l’acqua
faceva dondolare il legno delle barche e
50
scoppiettava calma sotto di esso. Quella
mattina l’ho visto. Il faro. Era più bello
che mai. Il sasso che mi schiaccia
continuamente il petto, da qui, è molto
più leggero.
Da qualche ora ho preso una decisione
che, probabilmente, cambierà la mia vita.
Ho già parlato con il comandante Lafayet:
mi ha trovato un lavoro alla Céline. Mi
occuperò di caricare e scaricare le casse,
vitto, alloggio e viaggio inclusi. Si parte
presto.
Siamo vivi, questo lo possiamo dire. Ma
quando ci renderemo conto di vivere sul
serio? Ho deciso di scoprire la risposta a
questa domanda. Voglio trovare la mia
vera casa.
Firmato: Gringo, quello che è straniero a
casa sua.
C’era scritto proprio così. Quello che è
straniero a casa sua.
51
E si era imbarcato sul serio sulla Céline,
come marinaio. Incominciarono caricando
nel suo grosso stomaco dipinto le casse
piene di merce invenduta e di articoli
nuovi da scambiare altrove. Si limitava a
caricare e scaricare, lavare, mangiare e
dormire, senza dare troppa confidenza a
nessuno. Non percepiva stipendio. Il
giorno della partenza, nel momento in cui
venne sciolto l’ultimo legame con il
passato, rappresentato dalle grandi
catene d’ormeggio, tutti quanti se ne
stavano per qualche minuto a poppa. Chi
per salutare una ragazza, chi la famiglia,
qualcuno la casa che l’ha fatto uomo.
Gringo, con le sue fantasie sul trovare il
proprio posto, sull’incantatore di serpenti
e la sua cantilena, se ne stava per i fatti
suoi, a prua, aspettando il momento in
cui le braccia del golfo si aprissero e la
bocca del porto soffiasse abbastanza forte
da allontanare per sempre quella nave.
Una sera, molti anni dopo, incontrai un
vecchio marinaio che aveva lavorato per
un certo periodo nella Céline. Si ricordava
di tutti: Lafayet, i colleghi al ponte, il
52
medico di bordo, che aveva una benda
nera sull’occhio destro perché l’aveva
perso da piccolo, eccetera. Aveva
accennato a un tizio taciturno, sempre
sulle sue, che passava il tempo libero sul
ponte a scrutare l’orizzonte e a scrivere
appunti su un quaderno. Non poteva che
essere Gringo, pensai. Non si risparmiava
mai, se c’era da lavorare. Non gli
interessava
l’amicizia,
era
troppo
occupato a scovare il suo posto nel
mondo.
- Se ne andò presto, comunque. Quando
non sei nato per stare su una nave, te ne
accorgi presto e te ne vai prima possibile
– sentenziò, e poi sputò per terra.
La seconda lettera indirizzata alla Città
delle Rocce, nord est, non fu mai
recapitata. Aperta il 15 febbraio da un
funzionario della compagnia mercantile
Inter-Africana. Carta gialla. Probabili
pagine mancanti.
53
Caro amico,
ci sono distanze che non capisci finché
non le tracci con il tuo stesso animo. L’ho
imparato, il mare. Ho scoperto che è un
po’ come una persona. Un’immensa
persona. Placido e timido, ma fa presto
ad abituarsi alla tua presenza e a lasciarsi
andare alle peggiori nefandezze.
Come una persona.
La vita alla Céline è esattamente come
quella alla Città delle Rocce: le stesse,
identiche teste di cazzo che giravano per
la strada le puoi trovare qui dentro.
Ancora
non
riesco
a
sopportare
l’abitudine. Forse è l’abitudine alle cose
che ci opprime. Li butterei in mare tutti,
questi caproni, ma sono anche il mio
lavoro e la mia unica fonte di nutrimento.
La fame è ciò che governa i nostri
rapporti. Il comandante sembra un idiota.
Passa il tempo a scrutare l’orizzonte e
l’unica cosa che cerca è la vita che aveva
prima di partire.
54
Una mattina più stanca delle altre mi
trovavo sul ponte. Tre marinai in pausa
schiamazzavano dall’altro lato. Li vedevo,
e risi di gusto quando cominciarono a
pisciare oltre il parapetto. Dissi tra i
denti:
- Idioti.
Appuntavo sul quaderno quei momenti,
quando mi accorsi che il comandante si
era avvicinato, se ne stava dietro di me
con le braccia incrociate, sui lombi.
Rideva anche lui della scena, forse del
mio commento, ma subito tornò serio.
- Sei uno di compagnia, marinaio.
- Non di recente, signore.
- Appunto. – fece una pausa in cui decisi
di non fiatare. Guardavamo entrambi in
avanti, io cercavo il punto in cui mare e
cielo si fondono in un’unica striscia
cerulea. Lui aveva gli occhi di uno che
guarda un vecchio album fotografico, ma
cosa vedesse, non potevo immaginarlo.
Prese del tabacco da un astuccio, ne
55
riempì una striscia di carta, l’accese e me
la offrì.
- Ha un buon sapore.
- È tabacco coloniale inglese, niente di
meglio per sentirsi a casa. Lo producono
in Irlanda raffinando le foglie migliori di
Damasco. Da quando lavoro sopra questa
nave me ne faccio portare un po’. Mi
rilassa,
la
sensazione
di
portarmi
appresso il colore di quelle terre. Dovresti
vederle, le colline verdi, marinaio, quando
smette di piovere.
Guardava il cielo ma nel suo sguardo
c’era una punta di delusione, forse non
combaciava con quello della sua Irlanda,
così lontana dall’immagine che aveva
davanti. Mi domandò.
- Ti capita mai di guardarlo? Dico, il cielo.
Ti capita mai?
- Il cielo? Lo guardo spesso.
- Non questo! Il cielo, qui non esiste. È
solo un prolungamento del mare. Quello
di casa, intendo. Descrivimelo. Finché
56
uno si ricorda il cielo sopra casa sua, non
è mai perduto davvero.
La realtà è che non sapevo rispondergli.
Un brivido di panico si scaricò dal basso
all’alto per la mia schiena, e tornò giù
bollente. Per la prima volta avevo
collegato la parola “casa” a qualcosa che
un tempo mi apparteneva senza che
nemmeno lo sapessi. Fanno così, le case:
ti appartengono quando nemmeno te ne
accorgi, e tu appartieni a loro. E lo vieni a
scoprire solo quando sei a centinaia di
chilometri lontano, mentre chiacchieri con
un capitano nostalgico. Te ne accorgi
sempre
tardi.
Temevo
di
essere
condannato alla perdizione, alla vacua
esistenza su un mondo di nessuno, e
quindi, su nessun mondo. Mi sentivo
sparire. Ma fu solo un istante, poi mi
venne in mente la descrizione che ne
avevi fatto tu una volta.
- Sa, signore, chi guarda il cielo, al
tramonto, dalla mia città, ci vede una
carta da lettere.
- Una carta da lettere.
57
- Già. Una sottile carta da lettere
pregiata. E sopra ci sono scritte parole
con una grafia elegante. Saluti a una
persona lontana, forse. I bordi si
infiammano appena il grosso disco rosso
del sole si tuffa nell’orizzonte, e il carbone
nero che avanza fino al punto più alto,
poi cade uniforme e si mischia con
l’acqua, e si accende di nuovo alla prima
luce sbavata della luna.
In quel momento ho pensato di non
essere perso del tutto, se il comandante
avesse avuto ragione. I suoi occhi si
fecero più chiari: continuava a fissare
lontano, ma dentro di sé.
- Hai un bel problema – disse trasognante
– quando governi una grossa nave
mercantile e l’unica cosa che ti interessa
è il passato, ragazzo. Il mare non te lo
perdona mica, questo fatto di snobbarlo.
Io non me lo ricordo più, il cielo che sta
sopra quelle terre nere ricoperte di erba e
sassi. Ci provo ogni giorno, ma niente. –
disse il comandante della nave mercantile
Céline,
Jonathan
Lafayet,
fissando
58
l’orizzonte del proprio passato. E poi se
ne andò.
Me la sono segnata, quella descrizione del
cielo. Spero di averla ricordata bene.
Capivo il comandante: si era perso.
Non posso più stare su questa nave. Mi
ha allattato fin troppo. Devo fare di
necessità virtù per ora, ma in questi
giorni è prevista una tappa per caricare
beni nel nord Africa. Già la sensazione di
caldo è aumentata notevolmente. L’aria è
più salata del mare e, da quando
abbiamo oltrepassato il Tropico, i
tramonti si sono fatti maestosi e
apocalittici. Non capisco se qui stia
ricominciando, o ci stia finendo, il mondo.
[omissis]
59
8
Sparivano all’orizzonte come fiaccole in
processione, i suoi colleghi di viaggio
stipati nel ventre della Céline, che
ripartiva sul mare nero della notte
africana. Li guardava andare, nascosto
nell’ombra ai margini del villaggio. La
luna scoppiava in milioni di scintillanti
frammenti sul pelo dell’acqua tiepida,
fracassata dallo scafo lento e imponente.
La Céline se ne andava, scomponendo il
passato
della
propria
scia,
e
restituendone una movimentata marea
densa come petrolio.
Il villaggio nel quale fu clandestino per
qualche giorno era l’ultima propaggine del
mondo da cui Gringo proveniva. Oltre, ci
sarebbero stati altri registri, altri istinti e
regole.
«Ecco un altro modo di essere stranieri»
pensava.
I crampi della fame non tardarono. Prima
di farci l’abitudine, erano una
mano
stretta con forza nelle viscere.
60
Le mattine infiammate si popolavano di
mosche immonde. L’acqua era brodaglia
rossa e tiepida. Ma era la notte, il
momento in cui quella terra soffiava la
vita dentro incubi, insetti, febbri e
tremori.
Nell’umido della terza notte dormiva
abbracciando le proprie caviglie. Non
dormiva, invero. Piangeva.
La terra che ora lo ospitava aveva
anticorpi che reagivano a lui come
un’infezione di cui liberarsi. La febbre e la
tremarella sono l’effetto di questa lotta
mortale.
Dopo
una
settimana
di
allucinazioni,
dolori
e
lacrime,
si
addormentò. E, per effetto della febbre
alta, sognò parecchio.
Dalle onde che si ritiravano, sulla
spiaggia, emergeva una grossa capanna
tirata su con materiali di fortuna
raccattati nei paraggi. La copertura era
per lo più costituita da grossi rami
marcescenti. All’interno, ragazzini seduti
in
cerchio
allestivano
un
pasto
mischiando in una ciotola, con le mani
61
nude, una manciata di riso e del brodo.
Un grosso coltello era piantato sulla
corteccia dura di un frutto.
A lato di quel rito sedeva un uomo, che
ripeteva una cantilena dondolando a
tempo. Era magro e pallido, i capelli
sporchi e la barba tagliata male,
probabilmente con una lama poco affilata.
Dall’esterno non si riusciva a sentire la
cantilena, ma, avvicinatosi, si rese conto
di capire la sua lingua. Il terrore si prese
possesso del pistolero quando le parole
dell’uomo si fecero più chiare:
- Ti capita mai di guardarlo, il cielo? Ti
capita mai? - lo ripeteva - Ti capita mai di
guardarlo? Dico, il cielo. Ti capita mai?senza
soluzione
di
continuità,
dondolando, seduto su quella terra rossa,
come un pazzo. Gli era famigliare, ma la
mente annebbiata dalla febbre e dalla
fame non permetteva di ricordare dove
avesse sentito già quella cantilena. Gli
venne voglia di rivedere il cielo di casa
sua. Il tramonto e le stelle che si
specchiano sull’acqua del porto alla Città
delle Rocce. Il senso di orrore si
62
impossessò della schiena di Gringo,
schiantandogli addosso scariche di brividi
e congelandogli la gola. Tese, tremando,
la mano verso la spalla dell’uomo – che
continuava a dire ti capita mai, e
dondolare anche, un pazzo – per
fermarlo, ma l’istante esatto in cui le dita
raggiunsero la spalla, questi si voltò di
scatto rivelando in una scossa di terrore
improvviso il suo volto. «Tu» - pensò
inorridito Gringo senza riuscire a dirlo,
non gli riusciva proprio di poter parlare,
per uno scherzo del suo sistema nervoso
gli parve addirittura di averla sigillata, la
bocca - « tu sei me».
Incapace di controllare il proprio corpo in
preda al panico, divenne spettatore della
scena rocambolesca in cui il suo braccio
destro si tese all’assalto dell’arma
infilzata poco più in là, su quel frutto
secco, e dopo averla estratta la piantava
lentamente nello stomaco di quello
scherzo della mente, un uomo che era lui
stesso. La lama arrugginita si faceva
spazio nella pelle, mentre ancora l’uomo
cantilenava e si dimenava ossesso, e poi
63
allargava il varco verso gli intestini che
opponevano resistenza meccanica alla
spinta.
Fece forza, ricoprendosi di sangue e
lacrime.
Urlò.
Aprì gli occhi e la prima cosa che vide fu
un fazzoletto ingiallito che tamponava
una fronte larga.
- Stavi sognando. – disse quella fronte.
- Mi ammazzavo.
- Sei fortunato a essere
sentiero. Non è il posto
svenire, qua. – continuava a
sudore con quel fazzoletto
Ora mi appartieni.
svenuto sul
ideale dove
tamponarsi il
– Riprenditi.
La fronte che gli parlava apparteneva al
mercante europeo
Rubio Ramirez,
bandito dal mondo civile per le sue
pratiche fuorilegge ma dallo stesso
mondo adorato, proprio per quelle, una
64
volta approdato nel nuovo scenario di
deserto e arricchimenti.
Quello che si sentiva straniero in casa sua
– una volta lo chiamavano Gringo –
decise di fare lo straniero nel mondo.
Dopo alcuni mesi di lavoro nella Céline, e
un infinito tempo di febbre africana e
allucinazioni, partì alla volta del deserto,
in una carovana che smerciava soprusi in
cambio di oro, potere, e spezie pregiate.
Non è come uno se lo immagina, il
deserto. È più defilato rispetto al corteo
carico di cannella, ma la sua costanza nel
seguirti, è quella la cosa che fa impazzire.
Se non ci stai attento, la solitudine di
sabbia e polvere e sole si impossessa di
te e comincia a incancrenirsi nel profondo
dello spirito. La salvezza di una persona
può essere in un dettaglio, un’immagine.
Il cielo di casa, per esempio, salvò il
nostro Straniero. Cercava di ricordarsi
ogni sfumatura di arancione di quel
tramonto che i suoi ricordi strappavano
da momenti quasi del tutto dimenticati.
Qualcuno gli aveva detto che se avesse
ricordato il cielo sopra casa sua non
65
sarebbe stato mai perso del tutto. Si
appigliò a quel consiglio, che ora gli
pareva davvero così saggio, come se
fosse ormai l’unica ragione a tenerlo
ancora in vita.
La carovana distribuì equamente povertà
e ingiustizie – se c’è una cosa che
riusciva a fare quel mondo per il quale
commerciava Ramirez, era proprio quello
– sul suo cammino, si spinse in terre
lontane, osando sempre di più a ogni
partenza.
Attraversarono
terre
dai
profumi sconosciuti, e raccontate con
lingue antiche come i sassi, fino a
raggiungere strade dove gli uomini
facevano danzare i serpenti.
Per quelle strade, una mattina blu, così
presto che il sole doveva ancora
cominciare a scaldare l’aria, Rubio
Ramirez morì, lasciando al proprio destino
ogni sua proprietà, compreso un uomo
che partì alla volta di casa, un’era dopo
essersene andato via.
66
9
Questa idea di andare a cercare
l'Incantatore di serpenti che Egda aveva
sognato era una gran bella idea, mica no.
Entrambi
ne
avevano
discusso
a
sufficienza, e venne fuori che sarebbero
andati a cercarlo una mattina di inverno,
durante le ferie natalizie.
Non era troppo freddo, ma Egda aveva
lasciato scritto, in un foglio di carta, con
una penna blu, di: “non dimenticare
l'abbigliamento da neve. È importante.”
Ed era importante sul serio, visto che
l'aveva scritto all'inizio del foglio di carta,
e anche alla fine.
Prima di: “ciao.” Con la firma e tutto
quanto.
Il Lungo gliel'aveva detto, che non era
una buona idea, di lasciar perdere, ma
Pwim lo mise a tacere con un detto che lo
stesso Lungo aveva coniato tempo fa per
lui. Questo detto è risaputo, e recitava:
“no.”
67
Bisognava parlare con qualcuno che fosse
abbastanza anziano da avere una certa
esperienza delle persone, ma anche
abbastanza giovane da poterne parlare
con qualcuno, insomma. Non avevano la
più pallida idea di cosa né dove cercare.
Si sarebbero incontrati davanti alla
parrocchia e avrebbero chiesto per primo
a padre Kon.
- Incantatore di serpenti?
- Già – disse Pwim, e fece sì con la testa
Egda, facendogli eco in un modo tutto
suo.
- E incanta i serpenti?
- Potrebbe. Ha qualche idea?
- Non saprei, chiedete al Sindaco Quin.
Se c'è qualcuno in questa città che
esercita un lavoro del genere, è a lui che
deve renderne conto.
Si recarono quindi all'ufficio municipale
per incontrare il Sindaco Quin, il quale
non aveva mai sentito parlare di alcun
incantatore di serpenti che esercitasse,
68
appunto, l'incanto dei serpenti nella sua
città.
Sottolineò bene: la sua città.
Consigliò loro di chiedere al prefetto della
provincia, Iob, ché sicuramente avrebbe
avuto un'idea più chiara di tutti gli
esercizi di quel tipo, nella provincia.
Avrebbero dovuto recarsi alla Città a
nord.
- Me li ricordo quei capelli. – disse Pwim
di fronte a un uomo vestito da prefetto
Iob.
Si dà il caso che pochi mesi prima il
prefetto Iob si fosse recato alla Città per
un sopralluogo. Si trattava di una
faccenda di vecchie navi di proprietà di
un armatore andato in malora. È chiaro
che il prefetto non dovesse far altro che
sottoscrivere le scartoffie sopra le quali
stava scritto, con inchiostro nero, l’esito
dei sopralluoghi vari; per cui si diede a
una settimana di mera attività di
rappresentanza. Non aveva il miglior
aspetto, per cui decise di darci un taglio,
69
ai capelli, quando si trovò con una
precisione casuale così tempestiva sotto
la bottega da PWIM. Con il punto eccetera
eccetera.
Il prefetto disse di non conoscere
personalmente
alcun
incantatore
di
serpenti, ma che esisteva un vecchio
collaboratore
che
era
piuttosto
appassionato di serpenti e animali esotici,
nel quale poter riporre qualche speranza
più concreta.
Inforcò gli occhiali, posandoli sulla punta
tonda del naso, e diede una rapida letta
alla sua rubrica di pelle nera. Scorreva
sotto il dito una lista scritta in anni e anni
di contatti e relazioni interpersonali,
appuntati sempre solo con la penna nera,
per una particolare fobia dell’inchiostro
blu. Rabbrividiva a vedere fogli candidi
firmati con il blu dozzinale di una
dozzinale penna blu. Senza rimuovere gli
occhiali, e anzi, senza alcun movimento,
sollevò lo sguardo oltre le lenti squadrate,
strinse le sopracciglia foltissime e
guardando Egda disse:
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- Si chiama Trenton. Eh eh eh! Giacomo
Trenton. Chiedete di lui.
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