I Racconti del Cenacolo di Ares Cenacolo di Ares Edizioni
Transcript
I Racconti del Cenacolo di Ares Cenacolo di Ares Edizioni
I Racconti del Cenacolo di Ares Cenacolo di Ares Edizioni © Cenacolo di Ares Edizioni 2012-2013 Copertina: Alessandro Pusceddu Prefazione di Martina Marongiu www.cenacolodiares.com Facebook: Cenacolo di Ares Edizioni Carmine Frau Incantatori di serpenti Racconto lungo Il Cenacolo di Ares «Conservare zavorra, è tutto lì il nocciolo della questione: zavorre e sorrisi e mani strette come quelle dei bambini all'asilo.» Fabio Giardina Prefazione Prendete un barbiere di dodici anni alto pressappoco così, e che sa tutto, ma proprio tutto. Aggiungete un Gringo, uno che è straniero in casa sua; poi prendete uno Scrittore, uno che parla coi suoi personaggi, e lasciate che i due diventino amici. E infine, disegnate una vecchia imbarcazione, che dondola in un porto e odora di cannella, e datele un bel nome di donna. A questo punto, senza che voi facciate altro, arriva un’Egda, come in ogni storia che si rispetti, capace di portarti via a cercare qualcosa che neppure esiste. E ti dimentichi di tutto, ma proprio tutto. Ci sono incanti capaci di durare una vita intera. Persone, luoghi, possibilità, e alle volte persino le storie. Ci stregano, così, semplicemente capita. Ma non a tutti, e mica sempre, sia ben chiaro. Capita anche di accontentarsi o di fuggire, di cercare o di reprimere. Capita di non capire, di non capire affatto. 7 In questo racconto, può capitare di non capire. Capita, ma non è grave. Può anche capitare di perdersi, e di ritrovarsi ben oltre il confine segnato dalla pagina, e di accorgersi un pelo in tempo del tempo che stava per svanire. Da queste parti si intrecciano parecchie cose rare, apparentemente prive senso, radicate in una sola notte di pioggia o sospinte dalla folle corrente del mare. Ma altrettanto raro è trovarsi da queste parti. Ci sono, volendo, per i più meticolosi, delle piste da seguire: alcune si interrompono però, decadono (non fateci troppo affidamento!); altre, vanno ben al di là della neve che imprigiona e libera. Ci sono i Grandi che giocano a fare i Grandi, e ci sono i Piccoli nati già Grandi e che, per dire che giocano, fanno terribilmente sul serio. Ci sono rocce, nella Città delle Rocce. E ovviamente c’è il porto. Tra chi resta e chi parte, chi resta sta bene dove sta, dice. Chi parte, forse, non tornerà mai. E se torna, saranno ormai trascorsi dei secoli, secoli 8 veri. E lo sa solo il tempo di che cosa sto parlando. A volte capita di sentirsi stranieri nella propria terra. Basta anche solo il minimo sospetto, per rimettere in dubbio tutto quanto alla ricerca di nuove strade. La fuga è amica di ogni speranza. E anche quando si sa tutto, e non per scelta, bensì per natura, può capitare di vivere l’inaspettato, e di dimenticare ogni cosa. Così, può capitare che leggendo questo libro ci si dimentichi persino del suo titolo. L’incantatore di serpenti esiste o è frutto di un inganno? Magari era tutta una scusa… Per voi, è davvero così importante? In fondo… sta tutto nell’Incanto. Martina Marongiu 9 10 1 Il continuo infrangersi dell’acqua sulle pietre del molo. La legna delle barche ormeggiate scricchiola e trema. Dondola. Lontano brilla il faro. Alfiere del mondo umano, primo bottone che regge insieme la stoffa stropicciata e irregolare della natura e quella invadente dell’umanità. Faro che è tutto un ritornare, quando accoglie a casa le barche sputate fuori dall’inesplorato. Faro che è tutto un viaggio, l’ultimo occhio vigile che puoi fissare innamorato, prima di esplorare le verità di un mondo – il tuo mondo – che temi e non ha ancora confini certi. Un porto è fatto di ritmi. Il tempo ci suona sopra per gli affari suoi una melodia fatta di ribollire, come l’acqua intorno agli scafi antichi e che pulsa al ritmo della luce di quell’immensa colonna. Cala la notte sul porto e tutt’intorno è silenzio senza colore. Stelle e silenzio, silenzio prima della vita, del pianto di un 11 bambino, degli affanni di un vecchio. Natura oltre il cono di luce che arriva fino a Vattelappesca, dovunque sia, e fa il giro del mondo per ricominciare, costante, dallo stesso punto, come avesse preso dall’uomo il suo peggior difetto. Oppure il suo miglior pregio. La Città delle Rocce finisce in quella luce. Oppure comincia. Le rocce abbracciano ruvide e fradice il porto da entrambi i lati. Al centro, ogni due anni, dondola lo scafo di un mercantile. È blu come gli occhi di una bella donna. Una lunga linea bianca lo spacca longitudinalmente a metà, e il bianco del cielo di agosto colora invece la parte inferiore della chiglia. Galleggia e tace sull’acqua. Un marinaio, in piedi sul montacarichi, è armato di pennello e di vernice. Rosso. Traccia per l’ennesima volta i caratteri sbiaditi dal sale, e strappa nuovamente quello scafo alla Natura, per rifarne umanità – più precisamente, donna – amica degli uomini e grembo paziente. La 12 chiamano Céline. Trasporta spezie dal sud del Paese, taluni dicono, quelli che ci sono stati, che il suo ponte profumi di acqua di mare, e cannella. 13 2 C’è un viavai di persone e cose al porto. Una fiera, da queste parti, è tutta una faccenda di terra battuta e di vento tiepido che sparge odori tra i più vari. Un minestrone. Carne arrosto, spezie esotiche, sudore, merda di cane, acqua stagnante, polvere da sparo, stoffa scura, stoffa chiara, capelli, acqua di colonia, sigari, denti gialli, denti bianchi, fiori, strumenti e bande musicali e tutto il resto. Una goccia di sudore caldo cola dalla tempia del primo clarinetto. Si schianta per terra, lasciando il segno di un minuscolo cratere di sabbia umida. Butta il groppo in fondo alla gola. Il maestro si gira e segna l’attacco. Musica. Le biciclette sono rovesciate sull’erba ai bordi del piazzale. La Céline riposa sull’acqua. È vuota, e le sue merci sono in vendita da qualche parte. Non c’è 14 nessuno dentro, ad eccezione del suo comandante. Lafayet, quello se ne sta sull’attenti, sul ponte, si afferra il polso dietro la schiena, osserva, come a ritracciare con lo sguardo meticoloso l’orizzonte che ha davanti. Nostalgico vero, di quelli che vivono soltanto per ritornare. Dopo aver ascoltato la musica della banda, mi sono fermato alla prima bancarella. Su un banco pieno di libri usati, cerco una copertina. Niente di preciso, mi limito a guardarle e a giudicare tonalità, materiale, e poi il titolo. Azzurro, carta rigida, “Strutture e interventi in campo idrico”. C’è un pozzo antico, fatto di pietre, in primo piano. A matita. Comincia: “Il discorso degli interventi in campo idrico, a grandissima ragione, può essere considerato dagli addetti come una risposta molto ampia ai problemi di approvvigionamento, specie se inserito all’interno del dibattito tutt’altro che obsoleto della tecnica idricosofica di moda nel nuovo continente. Con il presente lavoro…” 15 Molto più interessante il suo vicino di scaffale, verde, carta rigida, “Venti ragioni per smettere di bere”, con un bellissimo bicchiere largo sullo sfondo. Mi incuriosisce un uomo al padiglione artigianale, dall’altro lato dello spiazzo. Indossa un cappello in vendita a pochi spiccioli. Il mercante ci spera. Vattelappesca se questa volta lo comprano. Tira su i calzoni, stamattina la moglie gli ha fatto trovare pronti quelli azzurri, in cotone rigido, molto comodi per lavorare al laboratorio del cuoio, e – certo – anche al banco, se non fosse per quel fastidioso dettaglio che sono larghi, e quante volte glielo devo dire che sono larghi: non posso mica andare in giro a mostrare ai clienti le mutande, che cazzo. Tira su alla buona le braghe, fino all’ombelico, o poco sotto, senza preoccuparsi della camicia che viene su tutta stropicciata. Chiede permesso al Gringo – concesso – e gli annoda il laccio al mento. Gli calza a pennello eccetera, dice, mentre si regge i pantaloni con la mano sinistra. Sembra proprio fatto per 16 lei, dice, proprio quando una musica calda arriva di spalle, a folate insieme al vento, e distrae il pistolero. A lato delle giostre sta seduto un uomo, per terra, con le gambe incrociate. Indossa un bel copricapo rosso. È a torso nudo, ha le spalle ossute cotte dal sole, e soffia dentro uno strumento fatto di canna dipinta e laccata, con una grossa zucca sferica vicino al bocchino. I ragazzini nel loro giro di giostra urlano e ridono per i fatti loro. Un gabbiano spolpa la carcassa di un topo. Dentro la cassetta c’è qualche spicciolo. Poca roba. La cesta di vimini al suo fianco è ben coperta. Ci sarà dentro un serpente addormentato. Gringo lascia cadere qualche moneta generosa dentro la cassetta, una gira tre volte su se stessa e si posa sul legno con suono acuto. L’incantatore ripone il suo strumento, alza lo sguardo, e ringrazia 17 con un misurato cenno dei baffi grigi. Poi, incomincia la nenia. Le note che fuoriescono sono molto ripetitive e veloci. Con un gesto rapido, dispone la cesta tra lui e il suo spettatore, e poi la apre. Il dorso di un meraviglioso animale si solleva di scatto. La corona intorno al collo si apre come una bellissima coppia di ali, ali squamate e tutto quanto, e al suo interno sono tracciate delle spirali. La danza dell’animale è ora lenta, poi più pericolosa con l’incalzare della musica. Con uno scatto improvviso, il rettile sinuoso cerca di afferrare le dita del musicista. Va a vuoto. Una, due, tre volte. L’uomo tiene una nota più a lungo delle altre, e richiude dentro il serpente semplicemente spingendo il coperchio della cesta dolcemente contro l’animale. Poi dice: «Sei uno straniero in casa tua, nei tuoi occhi c’è una fuga perpetua». 18 3 Egda ha la pelle bianca. Bianchissima. Gli occhi sono blu e risaltano in quel viso bianco, così come le lentiggini rosse e i capelli biondi. E i suoi maglioni. Ha una voce delicata, anche perché parla sempre molto poco, come volesse preservarla dalla ruvidità del mondo. Le piace la musica suonata al pianoforte, e va matta per il profumo della cannella. Quando sente la necessità inevitabile e impellente di dover dire qualcosa, le sue palpebre si stringono in una smorfia appena percettibile e molto carina. Pare concentrarsi su una pagina del destino del mondo e da essa trarre una, sola, riga perfetta. Poi la dice. Parla così poco che la gente pensa sia straniera. E in effetti, in un certo senso, è straniera. 19 I genitori erano originari di uno di quei paesi del nord Europa in cui avere la pelle chiara come la luna d'inverno è cosa comune. E pure le lentiggini non mentono, anche se bisogna dire, a questo punto della storia, che Egda è nata e ha sempre vissuto a pochi chilometri dalla bottega da Pwim. Con il punto e tutto quanto. Una notte pioveva. Ma così forte che finiva il mondo. Aveva cominciato piano, come tutte le cose che cominciano, e non sanno ancora fare altro. Si sentivano ancora alcune automobili passare sull’acqua, l’intensità aumentò graduale ma inesorabile. Il boato dell’acqua prese il posto del leggero ticchettio, la gente chiudeva le imposte e si preoccupava dentro la propria abitazione, che d’un tratto non sembrava più così sicura. Notti di quelle esistono solo per far piovere più acqua possibile. In quella notte, Egda, aveva sognato la neve. 20 La mattina dopo, una mattina di quelle che esistono solo ed esclusivamente dopo una notte di pioggia, Egda entrò in una bottega. Quella bottega aveva un'insegna di legno rossa e bianca che cigolava dondolando appesa all'asta di ferro arrugginito, con scritto sopra, a caratteri eleganti neri: da PWIM. Con il punto e tutto quanto. 21 4 Pwim taglia i capelli. Non si è mai innamorato. Gli piace il calcio e il rumore delle forbici quando tagliano i capelli bagnati, i vestiti rossi, e il suo amico immaginario: il Lungo. Ha dodici anni, e aveva entrambi i genitori, italiani. La madre morì l’istante esatto in cui lui venne al mondo. La coincidenza l’ha sempre costretto a sospettare con tristezza che lei fosse morta di lui. Il padre, benedetto dalla venuta di un figlio, veniva stesso tempo colpito dal lutto per la moglie. Divenne taciturno. Dipingeva. Riuscì a dedicare al figlio un grande affetto, tutto quello che gli era possibile. Anche la parte che non poteva più riservare alla moglie. Almeno, finché all'anno scorso. rimase 22 in vita. Fino A undici anni, tre mesi e quattordici giorni dalla morte della moglie, venne meno. Ora Pwim tira avanti facendo il barbiere, e se la passa mica male, anche grazie ai suoi amici. Ha dodici anni, sei mesi e qualcosa. La prima parola di Pwim è stata: “Grazie”. L’aveva detta all’infermiera quando lo afferrò per poi adagiarlo nell’incubatrice. Lei indossava il camice azzurro a maniche corte, col collo a “V” che scopre completamente un ampio triangolo che collega la testa al seno. La pelle era abbronzata e raggrinzita, ma in modo appena percettibile. Indossava pantofole bucherellate. Bianche: standosene appeso per le ascelle alla presa a due mani dell’infermiera, Pwim le vedeva spuntare fuori dai calzoni, laggiù. Ha questo brutto vizio di sapere tutto, senza aver mai imparato niente. Lo sa e basta. Una di quelle doti innate. La seconda parola di Pwim fu: “Ora”. 23 La frase intera, per la cronaca, fu: “Grazie, ora levati dalle palle, grazie”. L'infermiera se la prese in modo tanto personale che non avresti mai detto. Se non altro, per il fatto che l'autore della frase aveva sì e no qualche minuto di vita. In realtà il motivo di quella rudezza è da ricondurre sicuramente al fatto che la prima cosa che Pwim vide del mondo, fu il corpo senza vita della madre, immobile, di un sonno apparentemente lieve ma così eterno da farti quasi arrabbiare, sul letto della clinica. Le lenzuola erano rosa. Fuori, il sole era velato dalla stoffa del caldo cielo estivo. Il grano era già imballato da settimane e, nei posti che contano, era appena finita una grossa faccenda di guerra. Il mondo, dicevano nei giornali, era pronto a ripartire, ma in fondo, la verità è che non si era mai fermato. Solo nella sala dell’ospedale in cui ci troviamo, sembrava non essersi mai neppure affacciato. 24 Per quel motivo, nessuno si stupì, a parte l’infermiera permalosa, quando la prima frase di Pwim fu: “Grazie, ora levati dalle palle, grazie”. Attualmente, possiede una bottega con l'insegna di legno. Per la precisione: “da Pwim.”. Con il punto e tutto quanto. In questo preciso istante, se ci si sporge per guardare dal portone, sta tagliando i capelli a un suo cliente, un signore coi baffi grigi e una camicia blu profumatissima. Lo si capisce da tutto quello sferragliare e ticchettare e pettinare eccetera. Il rumore delle lame che in un colpo si abbracciano in una stretta brillante, letale per i capelli lunghi, e ha un ritmo piacevole. Ci si potrebbe fischiettare un bel motivo sopra. - …che poi non si addice alle persone per bene: fare per la strada quel che ti capita di fare in casa – ci pensò un secondo – e pure con il pensare ci andrei attento. – disse il cliente, precisando. 25 - Sa, signor Hobbes, sono convinto che ciascuno di noi sia contemporaneamente molte persone. Una persona diversa a seconda del momento che si trova a vivere – disse Pwim, e con un balzo saltò giù dalla cassa di legno per cambiare pettine e forbici. E via dicendo. Come tutti possono vedere, Pwim taglia i capelli montando sopra una vecchia cassa rovesciata, con il logo di una nota marca di Rum marchiato sul lato, poiché ancora non arriva alla testa dei clienti. - Ma sono cresciuto di due centimetri questo mese. Non ha mica bisogno di soldi. I pittori hanno la puntuale capacità di diventare ricchi e alla moda negli ambienti che contano, una volta trapassati. Il padre di Pwim, da morto, è riuscito ad accumulare molto più di ciò che quel diploma di ragioneria gli avrebbe mai permesso di desiderare, ai tempi. Per cui, sostanzialmente Pwim non è povero. 26 Potrebbe starsene tutto il giorno a casa, o che so, andare a scuola a far finta di imparare. È solo che tra tutto quello che sa fare Pwim, e sicuro che sa fare tutto, gli dà un piacere senza eguali tagliare i capelli alla gente. Il cliente che se ne sta seduto sotto le sue forbici scintillanti, si fa vivo una settimana sì e una no per capelli e baffi, e sa benissimo che Pwim è un ragazzino fuori dal comune. Lo sanno tutti. - Pwim? – chiese con uno slancio che lasciò poi in sospeso. - Lo so signor Hobbes, lo so. Riporto a sinistra e baffi corti ma non troppo. - No, mica dicevo questo. Voglio dire, Pwim, com’è che ci si sente quando sei uno come te? - Basso? – chiese il giovane barbiere, segnalando una misura scarsa dal pavimento col palmo della mano. 27 - Ma no, dico, come ci si sente quando sei speciale? Insomma, io darei qualsiasi cosa per sapere le cose che sai tu. - È una condanna. – disse Pwim. - Una condanna? - Una condanna. Insomma, io vorrei non sapere. Tipo non sapere cosa dire. Vorrei che ci fosse un mondo del quale poter immaginare qualcosa. Fantasticare. Dicono che quando ti svegli nessuno debba toccarti i capelli, altrimenti può rubare i tuoi sogni. È un po’ come se a me succedesse ogni mattina. È la stessa situazione di chi ha un viziaccio e non riesce a liberarsene. La stessa cosa: vede quanto gli succede ma non ci si oppone, perché non riesce. Sapete, da qualche parte visse uno scrittore. Quello da sempre andava blaterando di mondi assurdi, di pistoleri e di una certa inflessione dialettale nell'anima, e delle cattedrali e di varie altre faccende complicate tipo quella del vecchio orologiaio eccetera. Beh, arrivò a convincersi che il tutto esistesse davvero. 28 Finisce male, finisce che se non stai attento la linea che separa gli scogli del tuo mondo da quelli del mondo vero si assottiglia sempre di più, confondendoli e ingoiandoli entrambi come mare in burrasca. Un bel casino. Le onde si alzano e il vento carica instancabile, e il faro bianco in lontananza, unico punto di riferimento sicuro, comincia a sparire dietro la cortina di nebbia, e le piccole gocce grigiastre e la risacca eccetera. Ecco, è così quando sai tutto. Hai l'impressione che la gente con la quale parli non capisca fino in fondo di che diamine stai parlando. Quelli ti guardano come se fossi il faro dietro le onde e le gocce e la risacca e il vento, e piano sparisci dalla loro vista. Le persone evitano del tutto ciò che si scorge appena. - ... - ammutolì il cliente. Le forbici gelide poggiate sul labbro superiore e pronte a tracciare una perfetta linea di baffi. Forse rifletteva. - ... – rispose Pwim. 29 - Accidenti, sai davvero tutto. – sentenziò l’uomo. Accidenti, sapeva davvero tutto. 30 5 Vado matto per quei film sul vecchio West. Le storie di pistoleros, polvere e stranieri senza scrupoli né casa. Ho sempre pensato che nel Lontano West, se hai una giusta dose di fortuna e di palle, viene fuori che diventi qualcuno. Se ti interessa ovviamente. diventare qualcuno, L’uomo che ho conosciuto alla fiera della Città delle Rocce diceva di parlare con un vecchio sciamano, un incantatore di serpenti, o qualcosa del genere, diceva. Il problema è che io non ci avevo visto nessuno a parte lui, che girava su se stesso con un cappello da cowboy in testa e mi sembrava tutto matto. Sconvolto, di sicuro. Ripeteva una cantilena sull’essere stranieri e sulla speranza, per questo gli dissi: - Gringo, ora calmati e poi mi spieghi meglio. 31 Si calmò, ma non mi spiegò niente che fosse più chiaro di quella storia dello sciamano. Un uomo veniva trafelato verso di noi, teneva insieme calzoni e camicia con la mano sinistra e con la destra continuava a indicare qualcosa che non c’era sopra la sua testa. - Quello, signore, lo dovrebbe pagare. – ansimò sputacchiando. Ad ogni modo, col tempo diventammo amici, io e quel ladro inconsapevole di cappelli da cowboy, e presi il vizio di chiamarlo Gringo. A dirla tutta, ancora non ho idea di come si chiami davvero. Forse me l’ha detto, comunque. Capita che talvolta alla Città delle Rocce si sia un po' stranieri, e capita che in un determinato periodo della sua vita, Gringo, si comportasse esattamente da gringo. Sapete? Quello che entra in città a cavallo di un vecchio mulo grigio, con un poncho e una Colt e nient’altro, e la città lo sa, che quello è un gringo, e cerca 32 di espellerlo al più presto come se fosse un calcolo nei reni. Lui era, diciamo, bloccato in questo stadio di non appartenenza. Non so dirvi se fosse a causa della storia della fiera, o se la storia della fiera fosse una conseguenza del suo stato d’animo. Per quanto mi riguarda, che mi piacciono i film sul vecchio West ve l’ho già detto. Mi guadagno da vivere raccontando storie, e spendo più di quanto dovrei in una collezione di libri scelta solo per le copertine. Non li ho mai letti, a essere sinceri. Magari un giorno lo farò. Mi piacciono, quelle copertine. La gente dice che non puoi giudicare un libro dalla copertina, benedetta saggezza popolare, ma io lo faccio. Alla fiera presi il libro “Venti ragioni per smettere di bere”, insieme a un volume di seconda mano sulla fine del mondo. In copertina c’era il quadro del Viandante sul mare di nebbia. Una volta mi sono innamorato e sono finito sul ponte principale di una grossa nave passeggeri. Può sembrare anche una correlazione illogica, questo sì, ma 33 era capitato che una premura si fosse presa gioco delle mie gambe. Inspiegabile premura, a conti fatti, ma necessaria. Decisi di farmi di corsa mezza Città delle Rocce. Non era una questione di chiedersi il perché. A volte devi prendere e correre senza farti domande, ché le risposte non sono altro che vicoli ciechi e barriere architettoniche. Devi solo cominciare a correre, ecco tutto. Io lo feci per arrivare al porto e salire su una nave in partenza, con l'idea abbastanza idiota di abbracciare una bellissima donna, e dichiararle in modo affannoso e tutt'altro che convincente il mio amore. La Céline mi guardava silenziosa. Sarebbe presto partita per il suo giro di commerci. Al suo fianco era ormeggiata la nave passeggeri. Un inferno di lamiere e parquet e amori infranti. - Nemmeno l’ombra, signore. Ora la prego di liberare il ponte, o al limite pagare l’imbarco. – mi disse il comandante della nave. Ne aveva viste, di persone che cercavano altre persone. Ma non solo: cercavano valigie, animali, 34 armi, gioielli, carte, destini, fortune, stelle comete. Qualche volta, persone. Sapeva che c’era poco da fare in quei casi. Il fatto è questo: il più delle volte le persone non vogliono essere cercate. Vogliono essere trovate. Qualche volta puoi anche aver sbagliato nave. Per questo non le trovi. Ma il più delle volte hai sbagliato persona. Per questo non la trovi. Io pensavo di aver chiaramente sbagliato nave. - La vita è anche fatta di navi sbagliate. – dicevo quando ne parlavamo. - Già. Per questo non l’hai trovata, vero? concluse Gringo con un tono sarcastico il mio ragionamento, mescolando un soffritto di olio, cipolla e pancetta succosa sotto un fuoco allegro. E poi, ci sono rocce, alla Città delle Rocce. C'è anche un sacco d'acqua. 35 Il mare. Dalla casa di Gringo, in centro, si vede il mare, e pure i gabbiani che volano a cerchi concentrici sopra i comignoli arrugginiti, e giureresti di sentire il profumo del muggine arrostito che i camini sputano in cielo. C'è il vecchio faro bianco e viola sul lato orientale della costa. Lo guardo sempre in momenti come quello della nave sbagliata. Lo facevo anche da piccolo, quando mi andava di scappare via di casa. Io mi ci nascondevo, al faro. Qualcuno si costruiva un rifugio, qualcuno si nascondeva al centro di un campo pieno zeppo di cespugli: tra i rami impolverati c’era e ci sarà sempre un po’ di spazio per un bambino qualsiasi e i suoi desideri migliori, fatti con le gambe incrociate e un broncio così. Io, andavo al faro. Ora è dismesso, a causa delle innovazioni nel campo della navigazione. Venne declassato ad attrazione turistica, e la sua gloriosa banda orizzontale rossa 36 venne ridipinta di viola. I marinai raccontavano che quando lo si vede dal mare, la banda colorata sparisce per un meraviglioso incantesimo ottico. Per questo motivo alcuni giurano di averlo visto staccarsi prodigiosamente dal terreno e librarsi nell’aria. - Come un cazzo di squalo, o vattelappesca come. – diceva sempre un vecchio pescatore, Samuèl Cerneau, europeo con la barbetta a chiazze e la pelle rossa corrosa dal sale. Lo trovate sempre al molo, tra le dodici e le ventuno, a bestemmiare contro i giovani pescatori pieni zeppi di tecnologia e pesce fresco. Il faro. Quando fa brutto, riesci a vedere solo la sua luce intensa e ritmata. Quando fa bruttissimo, sparisce dietro il boato del mare in tempesta e del vento disperato. - C'è da dire che quando fa bruttissimo l'ultima cosa di cui devi preoccuparti è il 37 faro. – sottolineava Cerneau – Faresti bene a tenere le palle all’asciutto. - E a bagnare la gola. gli faceva sempre eco qualche avventore ubriacone della locanda. Quando fa bello, però, il mare alla Città delle Rocce è un grosso sospiro di sollievo blu, e il vento profuma di fiori viola delle jacarande, la luna ci si specchia e si trova più bella che mai. La fregatura, in giorni come quelli, è che speranza e odio sono sentimenti complementari. Gatto e Volpe, si direbbe. Uno si trova a consolare l’amico che si è lanciato a perdifiato sulla nave sbagliata, e un istante dopo, decide che il mondo è troppo piccolo. Che la speranza è una pelle troppo stretta e tu ci sei cresciuto dentro fino a strapparla, e a strapparti. Gringo. Le parole di quell’incantatore, quello della fiera, gli si piantarono in mente come unico pensiero che fosse capace di formulare. Maceravano là dentro per mesi. Lotta perpetua aveva 38 detto, straniero, casa. Non è chiaro se quello sciamano ci fosse sul serio, su quella terra. Ma non importa. Pensieri che maceravano in testa. In poche settimane la sua inquietudine si acuì. Pensavo l’avrebbe elaborata, bisogna lasciare lo spazio necessario in questi casi. La pelle… il vestito era troppo stretto e stava cominciando a lacerarsi. Straap! Se proprio vuoi, il tempo rattoppa gli strappi più semplici. Cura tutte le ferite che devi far rimarginare. Per le altre non ci sono troppe questioni. Restano aperte. E quello, il tempo, passa dall'altra parte dello schieramento, lotta contro di te e diventa il parametro con il quale misurare i fallimenti, gli investimenti sbagliati, gli errori imperdonabili. Roba che ci si sbagliano vite intere, volendo. Altro che navi. Strap. 39 Ce l’aveva negli occhi da sempre, quell’inquietudine, per questo il suo nomignolo prese piede facilmente, e tutti lo chiamavano così, scordandosi il vero nome. Alle volte sei capace di vivere da sconosciuto a casa tua, ma quando non reggi, è allora che lo strappo è irreparabile. …STRAP! Gringo sparì. Evaporato. Casa sua cominciava a riempirsi di polvere. Le finestre serrate non lasciavano entrare il sole primaverile che scaldava rocce e gabbiani. Una mattina me ne stavo col naso dentro la storia in bianco e nero di un regista innamorato del suo personaggio femminile. Ci aveva un bel culo e il fisico da diva degli anni Venti, la bella. Squillò il telefono. Un numero sconosciuto. Chiamava me, quello stronzo, come se 40 nulla fosse eccetera. successo. Senza spiegare - Alla buon'ora. Testa di cazzo. - Ho avuto da fare. - Già. - Senti. Ho pensato molto, in questi mesi. - Almeno quello. - Almeno quello. Ho pensato molto e mi sono chiesto: perché mi chiamate Gringo? Perché Straniero? - Beh, a parte il fatto che ormai nessuno ti chiama più. Alla Città delle Rocce o sei un cittadino oppure sei un gringo. Tipo il vecchio Clint. E indovina che cosa sei tu? - Appunto. Sono uno straniero. Nei nomi è segnato più destino di quanto si possa credere, amico mio. - ... - Ho fatto questo ragionamento, tempo fa, e ho deciso di cercare il mio posto. 41 Uno deve cercare il suo posto, a un certo punto, no? Insomma, se sono uno straniero qui dentro, significa che, semplicemente, questa non è casa mia. disse esattamente così, al telefono: questa, non, è, casa, mia. Al telefono uno si aspetta di sentire frasi fatte, cliché, proverbi e al limite insulti, ma non frasi così – come quel meteorologo – continuava, mentre sentivo in sottofondo rumori imprecisati di traffico e vento – che viveva in un posto in cui non poteva essere felice e Lo interruppi - uno deve cercare il suo posto, chiaro. Il meteorologo, va benissimo, ma che c'entra ora?, stavo scrivendo un racconto. E alla fine quello si suicida, ricordi? Davvero? Poveraccio. Senti, quell’incantatore, alla fiera, io l’ho visto davvero quella sera. La lotta col serpente mi aveva ipnotizzato, come un sogno ad occhi aperti, o forse era la musica. Ma non importa mica tanto, sai? È tutto un fatto di cosa siamo noi, di come vogliamo sporcare il mondo con la nostra 42 esistenza. Il piattume mi sta avvelenando. Non devi preoccuparti troppo per me, sto correndo verso me stesso e mi vedo chiaramente. – si mangiava le parole – Devo… devo trovare il mio posto. Ecco. Devo… dobbiamo trovare il posto giusto oppure… anzi. Oppure, saremo costretti a vivere senza magia, vittime di un buio informe, dell'ombra, di niente. È una cosa che ho io in testa, forse. Cerca di capirmi. Dovresti farlo anche tu. Cerca il tuo posto. - Il mio posto? Ma sto bene qui, quando è primavera e le strade si ricoprono di petali viola, dove diavolo lo trovo un posto così? D'accordo, devi, dobbiamo, trovare il posto e tutto quanto, ma ora comincio a preoccuparmi. Quasi preferivo quando ti davo per morto. - Ti racconterò. Ora devo riagganciare. - Vieni a trovarmi. Ne parlia... 43 Gringo aveva riagganciato subito dopo il suo “ devo riagganciare”. Cosa che rese piuttosto inutile il mio invito. Fissai il vuoto con il ricevitore ancora all'orecchio per lunghissimi minuti. La verità bella e buona è che se la dava a gambe. Pensavo che fosse un atteggiamento irresponsabile. Da sciocchi. Avrei voluto saperne di più, ma, da quel momento, non avrei mai più rivisto Gringo. Venni a sapere successivamente che visse accampato per alcune settimane dentro il Faro. 44 6 Una mattina di quelle col sole ingenuo. Aveva piovuto, la notte prima, e sui vetri tremava incerta ancora qualche goccia. Il temporale aveva lavato i mal di testa e ripulito le strade. L'umidità macchiava i palazzi in ombra e, a chiazze, la terra sulle strade, fino a colare giù in rigagnoli, come tutto l’amore non ricambiato del mondo. Qualcuno aveva lasciato sul davanzale una pentola, ci avrebbe poi cucinato la pasta o lavato i pavimenti. Le piante verdi del corso, rinfrescate le foglie, si erano tenute un po’ di pioggia e l’avrebbero rilasciata sui ragazzini scocciatori. O nel vento. In una mattina di quelle, una ragazza entrò nella bottega “Da Pwim.” Con il punto eccetera. Si sedette su una poltroncina, come fanno quelli che aspettano il proprio turno. Dai diffusori della bottega fuoriusciva una musica famosa. La stufa di ghisa era antica e lucida. 45 Pwim, fino ad allora, aveva tagliato soltanto capelli maschili. Baffi, al limite. Ma pur sempre maschili. Singolare che non ci fossero clienti in quel momento, e la ragazza si era seduta lo stesso come per attendere il suo turno, forse per un eccesso di buona educazione. E però, da quel momento, la vita dei due ragazzini sarebbe cambiata. - Prego, è libero. – disse Pwim, sventolando una stoffa bianca. La ragazza non rispose. - Sarebbe il tuo turno – disse lui, tirando poi su con il naso. Egda fece un respiro un poco più profondo degli altri, si guardò intorno per un secondo, forse due, poi sorrise appena. - Ah, ma io non sono venuta per tagliare i capelli. - Ah, no? 46 - No. Presa tra tutte le ipotesi, possibili e non, questa era davvero una delle poche cose che Pwim non avrebbe mai indovinato. Osservavano un punto, davanti a loro, come se soltanto loro capissero l'importanza, e le coordinate. Senza dire nulla. C’erano capelli sul pavimento. I prodotti erano sul ripiano di pietra antica, tutti in mostra, e in ordine d’altezza. Su un panno bianco le forbici di svariate misure e con le lame più strane. C’era quella per sfoltire le punte e quella per i lavori di precisione. Pwim amava rifinire l’arco dietro l’orecchio. La prendeva seriamente, quella curva che sfumava poi poco sopra le spalle. Lo specchio davanti alle poltrone era pulito e sdoppiava l’intera bottega. Facevano dondolare al tempo del pezzo in radio le loro gambe, e nessuno dei due ancora toccava il pavimento quando sedeva su quelle poltroncine. 47 Accadde in quel momento, sul pavimento pieno di ciocche di capelli tagliati, neri, grigi, biondi eccetera. Fu su quel preciso pavimento pieno di capelli, al ritmo di quattro gambe dodicenni che oscillavano nell'aria, che Pwim chiese a Egda. - E che sei venuta a fare? - Voglio vedere l'Incantatore di serpenti. 48 7 Un giorno, era Aprile o giù di lì, ricevetti un plico. Conteneva una lettera datata 12 marzo. 12 Marzo. Caro amico, siamo tutti vivi, ma quando possiamo dire, con totale certezza, di vivere sul serio? È una domanda che si infrange sui miei pensieri come il nostro amico mare fa sulla Città delle Rocce. Quando ne parlavo, nessuno ci credeva, ma io l’ho visto. L’ho visto davvero, quell’uomo, mentre suonava un flauto esotico in faccia a un serpente dal veleno mortale. Quando ci siamo conosciuti, ricordi? Nemmeno tu hai mai dato corda al mio racconto. Posso svelarti da dove sto scrivendo perché, quando riceverai le mie parole, non conterà più. Chissà se mi stai ancora cercando. Chissà se interessa a qualcuno, in realtà. Quando sei uno straniero non 49 manchi a nessuno, se sparisci. Mi sono procurato un telefono, qualche giorno fa, e ho provato a dirtelo, ma non ci sono riuscito. Non riesco a dire le cose. Ora lo faccio: mi trovo al Faro. O meglio: quando leggerai la lettera probabilmente non ci sarò più, qua dentro. È un bel posto. Si vede il mare come se fosse il giardino di casa. Non riuscivo più a dormirci, nella mia. Ho dormito poche ore nell’ultima settimana. Il mio corpo si ribellava e marciva nel buio di quelle mura. Dalla finestra, di notte, si vedeva il mare. Una grossa pozzanghera nera sotto la luce della luna. Lo ascoltavo spesso, ho sempre avuto l’impressione che il mare dica qualcosa a chiunque sia disposto a starlo a sentire. Non era vero! Non mi diceva un cazzo di niente. Come ogni cosa di questa città ammuffita. Ho deciso di andare ad ascoltare il più vicino possibile. Una mattina mi trovavo al molo. Era una giornata tiepida: l’acqua faceva dondolare il legno delle barche e 50 scoppiettava calma sotto di esso. Quella mattina l’ho visto. Il faro. Era più bello che mai. Il sasso che mi schiaccia continuamente il petto, da qui, è molto più leggero. Da qualche ora ho preso una decisione che, probabilmente, cambierà la mia vita. Ho già parlato con il comandante Lafayet: mi ha trovato un lavoro alla Céline. Mi occuperò di caricare e scaricare le casse, vitto, alloggio e viaggio inclusi. Si parte presto. Siamo vivi, questo lo possiamo dire. Ma quando ci renderemo conto di vivere sul serio? Ho deciso di scoprire la risposta a questa domanda. Voglio trovare la mia vera casa. Firmato: Gringo, quello che è straniero a casa sua. C’era scritto proprio così. Quello che è straniero a casa sua. 51 E si era imbarcato sul serio sulla Céline, come marinaio. Incominciarono caricando nel suo grosso stomaco dipinto le casse piene di merce invenduta e di articoli nuovi da scambiare altrove. Si limitava a caricare e scaricare, lavare, mangiare e dormire, senza dare troppa confidenza a nessuno. Non percepiva stipendio. Il giorno della partenza, nel momento in cui venne sciolto l’ultimo legame con il passato, rappresentato dalle grandi catene d’ormeggio, tutti quanti se ne stavano per qualche minuto a poppa. Chi per salutare una ragazza, chi la famiglia, qualcuno la casa che l’ha fatto uomo. Gringo, con le sue fantasie sul trovare il proprio posto, sull’incantatore di serpenti e la sua cantilena, se ne stava per i fatti suoi, a prua, aspettando il momento in cui le braccia del golfo si aprissero e la bocca del porto soffiasse abbastanza forte da allontanare per sempre quella nave. Una sera, molti anni dopo, incontrai un vecchio marinaio che aveva lavorato per un certo periodo nella Céline. Si ricordava di tutti: Lafayet, i colleghi al ponte, il 52 medico di bordo, che aveva una benda nera sull’occhio destro perché l’aveva perso da piccolo, eccetera. Aveva accennato a un tizio taciturno, sempre sulle sue, che passava il tempo libero sul ponte a scrutare l’orizzonte e a scrivere appunti su un quaderno. Non poteva che essere Gringo, pensai. Non si risparmiava mai, se c’era da lavorare. Non gli interessava l’amicizia, era troppo occupato a scovare il suo posto nel mondo. - Se ne andò presto, comunque. Quando non sei nato per stare su una nave, te ne accorgi presto e te ne vai prima possibile – sentenziò, e poi sputò per terra. La seconda lettera indirizzata alla Città delle Rocce, nord est, non fu mai recapitata. Aperta il 15 febbraio da un funzionario della compagnia mercantile Inter-Africana. Carta gialla. Probabili pagine mancanti. 53 Caro amico, ci sono distanze che non capisci finché non le tracci con il tuo stesso animo. L’ho imparato, il mare. Ho scoperto che è un po’ come una persona. Un’immensa persona. Placido e timido, ma fa presto ad abituarsi alla tua presenza e a lasciarsi andare alle peggiori nefandezze. Come una persona. La vita alla Céline è esattamente come quella alla Città delle Rocce: le stesse, identiche teste di cazzo che giravano per la strada le puoi trovare qui dentro. Ancora non riesco a sopportare l’abitudine. Forse è l’abitudine alle cose che ci opprime. Li butterei in mare tutti, questi caproni, ma sono anche il mio lavoro e la mia unica fonte di nutrimento. La fame è ciò che governa i nostri rapporti. Il comandante sembra un idiota. Passa il tempo a scrutare l’orizzonte e l’unica cosa che cerca è la vita che aveva prima di partire. 54 Una mattina più stanca delle altre mi trovavo sul ponte. Tre marinai in pausa schiamazzavano dall’altro lato. Li vedevo, e risi di gusto quando cominciarono a pisciare oltre il parapetto. Dissi tra i denti: - Idioti. Appuntavo sul quaderno quei momenti, quando mi accorsi che il comandante si era avvicinato, se ne stava dietro di me con le braccia incrociate, sui lombi. Rideva anche lui della scena, forse del mio commento, ma subito tornò serio. - Sei uno di compagnia, marinaio. - Non di recente, signore. - Appunto. – fece una pausa in cui decisi di non fiatare. Guardavamo entrambi in avanti, io cercavo il punto in cui mare e cielo si fondono in un’unica striscia cerulea. Lui aveva gli occhi di uno che guarda un vecchio album fotografico, ma cosa vedesse, non potevo immaginarlo. Prese del tabacco da un astuccio, ne 55 riempì una striscia di carta, l’accese e me la offrì. - Ha un buon sapore. - È tabacco coloniale inglese, niente di meglio per sentirsi a casa. Lo producono in Irlanda raffinando le foglie migliori di Damasco. Da quando lavoro sopra questa nave me ne faccio portare un po’. Mi rilassa, la sensazione di portarmi appresso il colore di quelle terre. Dovresti vederle, le colline verdi, marinaio, quando smette di piovere. Guardava il cielo ma nel suo sguardo c’era una punta di delusione, forse non combaciava con quello della sua Irlanda, così lontana dall’immagine che aveva davanti. Mi domandò. - Ti capita mai di guardarlo? Dico, il cielo. Ti capita mai? - Il cielo? Lo guardo spesso. - Non questo! Il cielo, qui non esiste. È solo un prolungamento del mare. Quello di casa, intendo. Descrivimelo. Finché 56 uno si ricorda il cielo sopra casa sua, non è mai perduto davvero. La realtà è che non sapevo rispondergli. Un brivido di panico si scaricò dal basso all’alto per la mia schiena, e tornò giù bollente. Per la prima volta avevo collegato la parola “casa” a qualcosa che un tempo mi apparteneva senza che nemmeno lo sapessi. Fanno così, le case: ti appartengono quando nemmeno te ne accorgi, e tu appartieni a loro. E lo vieni a scoprire solo quando sei a centinaia di chilometri lontano, mentre chiacchieri con un capitano nostalgico. Te ne accorgi sempre tardi. Temevo di essere condannato alla perdizione, alla vacua esistenza su un mondo di nessuno, e quindi, su nessun mondo. Mi sentivo sparire. Ma fu solo un istante, poi mi venne in mente la descrizione che ne avevi fatto tu una volta. - Sa, signore, chi guarda il cielo, al tramonto, dalla mia città, ci vede una carta da lettere. - Una carta da lettere. 57 - Già. Una sottile carta da lettere pregiata. E sopra ci sono scritte parole con una grafia elegante. Saluti a una persona lontana, forse. I bordi si infiammano appena il grosso disco rosso del sole si tuffa nell’orizzonte, e il carbone nero che avanza fino al punto più alto, poi cade uniforme e si mischia con l’acqua, e si accende di nuovo alla prima luce sbavata della luna. In quel momento ho pensato di non essere perso del tutto, se il comandante avesse avuto ragione. I suoi occhi si fecero più chiari: continuava a fissare lontano, ma dentro di sé. - Hai un bel problema – disse trasognante – quando governi una grossa nave mercantile e l’unica cosa che ti interessa è il passato, ragazzo. Il mare non te lo perdona mica, questo fatto di snobbarlo. Io non me lo ricordo più, il cielo che sta sopra quelle terre nere ricoperte di erba e sassi. Ci provo ogni giorno, ma niente. – disse il comandante della nave mercantile Céline, Jonathan Lafayet, fissando 58 l’orizzonte del proprio passato. E poi se ne andò. Me la sono segnata, quella descrizione del cielo. Spero di averla ricordata bene. Capivo il comandante: si era perso. Non posso più stare su questa nave. Mi ha allattato fin troppo. Devo fare di necessità virtù per ora, ma in questi giorni è prevista una tappa per caricare beni nel nord Africa. Già la sensazione di caldo è aumentata notevolmente. L’aria è più salata del mare e, da quando abbiamo oltrepassato il Tropico, i tramonti si sono fatti maestosi e apocalittici. Non capisco se qui stia ricominciando, o ci stia finendo, il mondo. [omissis] 59 8 Sparivano all’orizzonte come fiaccole in processione, i suoi colleghi di viaggio stipati nel ventre della Céline, che ripartiva sul mare nero della notte africana. Li guardava andare, nascosto nell’ombra ai margini del villaggio. La luna scoppiava in milioni di scintillanti frammenti sul pelo dell’acqua tiepida, fracassata dallo scafo lento e imponente. La Céline se ne andava, scomponendo il passato della propria scia, e restituendone una movimentata marea densa come petrolio. Il villaggio nel quale fu clandestino per qualche giorno era l’ultima propaggine del mondo da cui Gringo proveniva. Oltre, ci sarebbero stati altri registri, altri istinti e regole. «Ecco un altro modo di essere stranieri» pensava. I crampi della fame non tardarono. Prima di farci l’abitudine, erano una mano stretta con forza nelle viscere. 60 Le mattine infiammate si popolavano di mosche immonde. L’acqua era brodaglia rossa e tiepida. Ma era la notte, il momento in cui quella terra soffiava la vita dentro incubi, insetti, febbri e tremori. Nell’umido della terza notte dormiva abbracciando le proprie caviglie. Non dormiva, invero. Piangeva. La terra che ora lo ospitava aveva anticorpi che reagivano a lui come un’infezione di cui liberarsi. La febbre e la tremarella sono l’effetto di questa lotta mortale. Dopo una settimana di allucinazioni, dolori e lacrime, si addormentò. E, per effetto della febbre alta, sognò parecchio. Dalle onde che si ritiravano, sulla spiaggia, emergeva una grossa capanna tirata su con materiali di fortuna raccattati nei paraggi. La copertura era per lo più costituita da grossi rami marcescenti. All’interno, ragazzini seduti in cerchio allestivano un pasto mischiando in una ciotola, con le mani 61 nude, una manciata di riso e del brodo. Un grosso coltello era piantato sulla corteccia dura di un frutto. A lato di quel rito sedeva un uomo, che ripeteva una cantilena dondolando a tempo. Era magro e pallido, i capelli sporchi e la barba tagliata male, probabilmente con una lama poco affilata. Dall’esterno non si riusciva a sentire la cantilena, ma, avvicinatosi, si rese conto di capire la sua lingua. Il terrore si prese possesso del pistolero quando le parole dell’uomo si fecero più chiare: - Ti capita mai di guardarlo, il cielo? Ti capita mai? - lo ripeteva - Ti capita mai di guardarlo? Dico, il cielo. Ti capita mai?senza soluzione di continuità, dondolando, seduto su quella terra rossa, come un pazzo. Gli era famigliare, ma la mente annebbiata dalla febbre e dalla fame non permetteva di ricordare dove avesse sentito già quella cantilena. Gli venne voglia di rivedere il cielo di casa sua. Il tramonto e le stelle che si specchiano sull’acqua del porto alla Città delle Rocce. Il senso di orrore si 62 impossessò della schiena di Gringo, schiantandogli addosso scariche di brividi e congelandogli la gola. Tese, tremando, la mano verso la spalla dell’uomo – che continuava a dire ti capita mai, e dondolare anche, un pazzo – per fermarlo, ma l’istante esatto in cui le dita raggiunsero la spalla, questi si voltò di scatto rivelando in una scossa di terrore improvviso il suo volto. «Tu» - pensò inorridito Gringo senza riuscire a dirlo, non gli riusciva proprio di poter parlare, per uno scherzo del suo sistema nervoso gli parve addirittura di averla sigillata, la bocca - « tu sei me». Incapace di controllare il proprio corpo in preda al panico, divenne spettatore della scena rocambolesca in cui il suo braccio destro si tese all’assalto dell’arma infilzata poco più in là, su quel frutto secco, e dopo averla estratta la piantava lentamente nello stomaco di quello scherzo della mente, un uomo che era lui stesso. La lama arrugginita si faceva spazio nella pelle, mentre ancora l’uomo cantilenava e si dimenava ossesso, e poi 63 allargava il varco verso gli intestini che opponevano resistenza meccanica alla spinta. Fece forza, ricoprendosi di sangue e lacrime. Urlò. Aprì gli occhi e la prima cosa che vide fu un fazzoletto ingiallito che tamponava una fronte larga. - Stavi sognando. – disse quella fronte. - Mi ammazzavo. - Sei fortunato a essere sentiero. Non è il posto svenire, qua. – continuava a sudore con quel fazzoletto Ora mi appartieni. svenuto sul ideale dove tamponarsi il – Riprenditi. La fronte che gli parlava apparteneva al mercante europeo Rubio Ramirez, bandito dal mondo civile per le sue pratiche fuorilegge ma dallo stesso mondo adorato, proprio per quelle, una 64 volta approdato nel nuovo scenario di deserto e arricchimenti. Quello che si sentiva straniero in casa sua – una volta lo chiamavano Gringo – decise di fare lo straniero nel mondo. Dopo alcuni mesi di lavoro nella Céline, e un infinito tempo di febbre africana e allucinazioni, partì alla volta del deserto, in una carovana che smerciava soprusi in cambio di oro, potere, e spezie pregiate. Non è come uno se lo immagina, il deserto. È più defilato rispetto al corteo carico di cannella, ma la sua costanza nel seguirti, è quella la cosa che fa impazzire. Se non ci stai attento, la solitudine di sabbia e polvere e sole si impossessa di te e comincia a incancrenirsi nel profondo dello spirito. La salvezza di una persona può essere in un dettaglio, un’immagine. Il cielo di casa, per esempio, salvò il nostro Straniero. Cercava di ricordarsi ogni sfumatura di arancione di quel tramonto che i suoi ricordi strappavano da momenti quasi del tutto dimenticati. Qualcuno gli aveva detto che se avesse ricordato il cielo sopra casa sua non 65 sarebbe stato mai perso del tutto. Si appigliò a quel consiglio, che ora gli pareva davvero così saggio, come se fosse ormai l’unica ragione a tenerlo ancora in vita. La carovana distribuì equamente povertà e ingiustizie – se c’è una cosa che riusciva a fare quel mondo per il quale commerciava Ramirez, era proprio quello – sul suo cammino, si spinse in terre lontane, osando sempre di più a ogni partenza. Attraversarono terre dai profumi sconosciuti, e raccontate con lingue antiche come i sassi, fino a raggiungere strade dove gli uomini facevano danzare i serpenti. Per quelle strade, una mattina blu, così presto che il sole doveva ancora cominciare a scaldare l’aria, Rubio Ramirez morì, lasciando al proprio destino ogni sua proprietà, compreso un uomo che partì alla volta di casa, un’era dopo essersene andato via. 66 9 Questa idea di andare a cercare l'Incantatore di serpenti che Egda aveva sognato era una gran bella idea, mica no. Entrambi ne avevano discusso a sufficienza, e venne fuori che sarebbero andati a cercarlo una mattina di inverno, durante le ferie natalizie. Non era troppo freddo, ma Egda aveva lasciato scritto, in un foglio di carta, con una penna blu, di: “non dimenticare l'abbigliamento da neve. È importante.” Ed era importante sul serio, visto che l'aveva scritto all'inizio del foglio di carta, e anche alla fine. Prima di: “ciao.” Con la firma e tutto quanto. Il Lungo gliel'aveva detto, che non era una buona idea, di lasciar perdere, ma Pwim lo mise a tacere con un detto che lo stesso Lungo aveva coniato tempo fa per lui. Questo detto è risaputo, e recitava: “no.” 67 Bisognava parlare con qualcuno che fosse abbastanza anziano da avere una certa esperienza delle persone, ma anche abbastanza giovane da poterne parlare con qualcuno, insomma. Non avevano la più pallida idea di cosa né dove cercare. Si sarebbero incontrati davanti alla parrocchia e avrebbero chiesto per primo a padre Kon. - Incantatore di serpenti? - Già – disse Pwim, e fece sì con la testa Egda, facendogli eco in un modo tutto suo. - E incanta i serpenti? - Potrebbe. Ha qualche idea? - Non saprei, chiedete al Sindaco Quin. Se c'è qualcuno in questa città che esercita un lavoro del genere, è a lui che deve renderne conto. Si recarono quindi all'ufficio municipale per incontrare il Sindaco Quin, il quale non aveva mai sentito parlare di alcun incantatore di serpenti che esercitasse, 68 appunto, l'incanto dei serpenti nella sua città. Sottolineò bene: la sua città. Consigliò loro di chiedere al prefetto della provincia, Iob, ché sicuramente avrebbe avuto un'idea più chiara di tutti gli esercizi di quel tipo, nella provincia. Avrebbero dovuto recarsi alla Città a nord. - Me li ricordo quei capelli. – disse Pwim di fronte a un uomo vestito da prefetto Iob. Si dà il caso che pochi mesi prima il prefetto Iob si fosse recato alla Città per un sopralluogo. Si trattava di una faccenda di vecchie navi di proprietà di un armatore andato in malora. È chiaro che il prefetto non dovesse far altro che sottoscrivere le scartoffie sopra le quali stava scritto, con inchiostro nero, l’esito dei sopralluoghi vari; per cui si diede a una settimana di mera attività di rappresentanza. Non aveva il miglior aspetto, per cui decise di darci un taglio, 69 ai capelli, quando si trovò con una precisione casuale così tempestiva sotto la bottega da PWIM. Con il punto eccetera eccetera. Il prefetto disse di non conoscere personalmente alcun incantatore di serpenti, ma che esisteva un vecchio collaboratore che era piuttosto appassionato di serpenti e animali esotici, nel quale poter riporre qualche speranza più concreta. Inforcò gli occhiali, posandoli sulla punta tonda del naso, e diede una rapida letta alla sua rubrica di pelle nera. Scorreva sotto il dito una lista scritta in anni e anni di contatti e relazioni interpersonali, appuntati sempre solo con la penna nera, per una particolare fobia dell’inchiostro blu. Rabbrividiva a vedere fogli candidi firmati con il blu dozzinale di una dozzinale penna blu. Senza rimuovere gli occhiali, e anzi, senza alcun movimento, sollevò lo sguardo oltre le lenti squadrate, strinse le sopracciglia foltissime e guardando Egda disse: 70 - Si chiama Trenton. Eh eh eh! Giacomo Trenton. Chiedete di lui. …Mancano solo 40 pagine alla fine del libro! Puoi decidere di acquistarle, scegliendo tu che valore dare a questa lettura, cliccando il link: https://www.paypal.com/cgibin/webscr?cmd=_sxclick&hosted_button_id=MTJN76AV 3VUKL Indica poi l’indirizzo mail al quale desideri ricevere l’e-book completo oppure scrivi a [email protected] 71