Utopia - Bengio

Transcript

Utopia - Bengio
Thomas More
Secondo Libro di quel parlamento che fece
Rafaello Hytlodeo de l'ottimo stato de la
republica Utopiense, per Tomaso Moro,
cittadino e visconte di Londra
www.liberliber.it
Questo e-book è stato realizzato anche grazie al sostegno di:
E-text
Editoria, Web design, Multimedia
http://www.e-text.it/
QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Secondo Libro di quel parlamento che fece Rafaello Hytlodeo de l'ottimo
stato de la republica Utopiense, per Tomaso Moro, cittadino e visconte di Londra
AUTORE: Thomas : More <santo>
TRADUTTORE: Lando, Ortensio
CURATORE: Firpo, Luigi
NOTE: Questo classico del pensiero politico, il cui nome è entrato nel
linguaggio comune a designare progetti belli ma irrealizzabili, fu composto in
latino e pubblicato nel 1516 con il titolo "Libellus vere aureus nec minus
salutaris quam festivus de optimo reipublicae statu deque nova insula Utopia".
L'opera comprende due libri: il secondo, dedicato alla presentazione dei
costumi e degli ordinamenti dell'isola di Utopia, fu composto per primo,
nell'estate del 1515. L'opera venne completata l'anno successivo con la
premessa, a mo' di introduzione, di un "libro primo" in cui si descrive la
situazione politico-sociale dell'Inghilterra del tempo.
La presente edizione elettronica riproduce la prima traduzione italiana
del secondo libro, opera di Ortensio Lando, pubblicata a Venezia nel 1548 da
Anton Francesco Doni.
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza
specificata al seguente indirizzo Internet:
http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/
TRATTO DA: "Utopia",
di Thomas More;
a cura di Luigi Firpo;
traduzione di Ortensio Lando;
collezione: Strenna UTET;
Unione Tipografico-Editrice Torinese,
Torino, 1971
CODICE ISBN: informazione non disponibile
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 8 ottobre 2005
INDICE DI AFFIDABILITA': 1
0: affidabilità bassa
1: affidabilità media
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima
ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:
Ferdinando Chiodo, [email protected]
REVISIONE:
Alex (5630), [email protected]
PUBBLICATO DA:
Claudio Paganelli, [email protected]
Alberto Barberi, [email protected]
Informazioni sul "progetto Manuzio"
Il "progetto Manuzio" è una iniziativa dell'associazione culturale Liber Liber.
Aperto a chiunque voglia collaborare, si pone come scopo la pubblicazione e la
2
diffusione gratuita di opere letterarie in formato elettronico. Ulteriori
informazioni sono disponibili sul sito Internet: http://www.liberliber.it/
Aiuta anche tu il "progetto Manuzio"
Se questo "libro elettronico" è stato di tuo gradimento, o se condividi le
finalità del "progetto Manuzio", invia una donazione a Liber Liber. Il tuo
sostegno ci aiuterà a far crescere ulteriormente la nostra biblioteca. Qui le
istruzioni: http://www.liberliber.it/sostieni/
3
SECONDO LIBRO
di quel parlamento che fece Rafaello Hytlodeo de l'ottimo stato de
la republica Utopiense,
per Tomaso Moro, cittadino e visconte di Londra.
La isola degli Utopii, larghissima, nel suo mezzo si stende dugentomila passi e per
lungo tratto non si stringe molto, ma ver la fine d'amendue i capi si va ristringendo, i quai
piegati in cerchio di cinquecentomila passi, fanno l'isola in forma de la nuova luna. Questi suoi
corni dal mare combattuti sono distanti uno da l'altro circa undeci miglia, e il mare, tra queste
braccia dai venti difeso, fa come un piacevol lago e commodo porto, di onde per suo
bisogno manda le navi agli altri paesi; la bocca da una parte con guadi e secche, da l'altra
con aspri sassi, mette spavento a chi pensasse d'entrarvi come nimico. Quasi nel mezzo di
questo spacio è un'alta rupe, la quale per ciò non è pericolosa, sopra la quale in una torre
da loro fabricata tengono il presidio; molte altre rupi vi sono nascoste e perigliose. Elli
solamente hanno cognizione dei canali; indi aviene di raro che alcuno esterno, che non sia
da uno di Utopia guidato, vi possi entrare, quando che elli a fatica v'entrano senza pericolo,
non si reggendo a certi segni posti nel lito, i quai essendo mossi dai luochi soliti,
guiderebbono ogni grande armata nimica in precipizio. Da l'altra parte è un porto assai
frequentato e, dove si scende, fortificato da la natura e con arte in tal guida che pochi
uomini lo possono difendere da copioso esercito. Ma, come si nara, e anco la qualità del
luoco ne da indizio, quella terra anticamente non era dal mare circondata; ma Utopo, che le
diede il nome, perché prima si nomava Abraxa, costui ridusse quella turba da una vita rozza e
vilesca a questa foggia di vivere umano e civile, nel quale vincono quasi tutte le
generazioni degli uomini. Egli, preso in un tratto questo luogo, tagliò quindecimila passi di
terreno, col quale era la Utopia continuata a terra ferma, e la fece isola. E avendo astretto a
tal'opera non solamente gli uomini de l'isola, ma i soldati suoi ancora, con tanto numero de
uomini in brevissimo tempo fornì tale impresa, lasciando stupiti i vicini popoli, i quai di questo
prima ridevano.
Sono ne l'isola cinquantaquatro città grandi e magnifiche, di medesima favella, istituti e
leggi, e quasi a l'istesso modo situate quanto il luoco ha permesso; le più vicine sono
scostate una da l'altra miglia ventiquatro, ma niuna è tanto luntana da l'altra che non vi
possa andare un pedone in un giorno. Tre vecchi cittadini e prudenti di ciascuna città ogni
anno concorrono in Amauroto, città la quale, per esser nel mezzo de l'isola e a tutti
commoda, è tenuta la prencipale, e ivi trattano de le commune bisogne de l'isola. Ogni città
non ha meno di ventimila passi de terreno d'ogni intorno, e alcune più, come sono più scostate
una da l'altra. Niuna città brama di ampliare i suoi confini, riputandosi più tosto lavoratori dei
campi che tengono, che patroni.
Hanno per le ville acconciamente le case di ogni instrumento vilesco fornite; in queste
vanno ad abitare i cittadini a vicenda. Niuna famiglia rusticana ha meno di quaranta persone,
eccetto due villani. A questi è preposto un padre e una madre di famiglia per età e costumi
ragguardevoli, e ad ogni trenta famiglie dassi un capo. Tornano ne la città ogn'anno vinti di
ciascuna famiglia, i quai sono stati in villa due anni. In luoco di questi vengono altri vinti da
la città, perché siano ne le opere vilesche ammaestrati da quei che, per esservi stati un
anno, sono di tali opere più sperti, e che l'anno vegnente ammaestrino gli altri a fine che
non si truovino tutti del lavorare i campi ignoranti, laonde nel raccogliere la vettovaglia
commettessino errore. Benché questa foggia di rinuovare gli agricoltori sia solenne, acciò che
niuno fusse astretto di continuare la vita rusticana più lungamente, nondimeno molti,
4
delettandosi de l'agricoltura, impetravano di starvi più anni. Gli agricultori coltivano il terreno,
nodriscono gli animali, apparecchiano le legne e le portano a la città per terra o per mare
come viene loro più in acconcio, fanno nascere con mirabile artificio un'infinità de polli,
perché, senza far covar le galline, con un caldo proporzionato sanno farli venire in vita, e gli
uomini li accompagnano e governano. Nodriscono pochi cavalli e feroci, dei quali si servono
solamente per le imprese che si fanno a cavallo, perché ogni fatica di coltivare e condure le
cose loro fanno con opera dei buoi, i quai, benché siano più lenti che i cavalli, tuttavia sono a
la fatica più pazienti e meno soggetti a le infermità, oltre che sono di minor spesa e, quando
più non vagliono a la fatica, si possono mangiare. Usano di seminare solamente il formento,
bevono vino di uva, de pomi o de peri, overo l'acqua pura, o pure la cuocciono con mèle o
licorizia, de la quale hanno copia. E quantunque sappiano quanta vettovaglia si consuma ne
le città e nel contado, nondimeno seminano di più, per darne ai vicini. Ogni istromento
ricchiesto a l'agricoltura si piglia de la città dai magistrati, senza costo alcuno; e molti
concorrono ogni mese in la città a le feste solenni. Quando è tempo di tagliar il formento, i
preposti dei lavoratori avisono i magistrati quanto numero de cittadini si debba mandare, e
concorrendovi tutti a tempo, in un giorno sereno quasi tagliano tutto il formento.
De le città, e specialmente di Amauroto.
Chi ha veduto una di quelle città le ha veduto tutte, tanto sono un' a l'altra simile,
ove la natura del luoco lo consente. Ne dipingerò adunque una, e benché non importi
descrivere più questa che quella, nondimeno ragionerò di Amauroto, la più degna, la
quale per avervi il senato è da tutte le altre onorata, e io ho di quella maggior
cognizione, perché vi sono stato cerca anni cinque.
Amauroto è situata in una costa di monte, quasi quadrata, perché la sua larghezza
comincia poco di sotto da la cima del colle e per duemila passi si stende al fiume Anidro,
lungo la ripa del quale alquanto più si stende. Anidro fiume sorge da picciol fonte ottanta
miglia sopra Amauroto, ma, dal concorso d'altri fiumi accresciuto, passa avanti Amauroto
largo cinquecento passi, e indi poi slargandosi a seicento, mette ne l'Oceano. In questo
spacio di alquante miglia tra el mare e la città, l'acqua va e torna con molta fretta ogni sei
ore. Il mare, quando v'entra, occupa il letto del fiume per trenta miglia e caccia indietro le
acque di quello, e a le fiate le corrompe col salso. Ma tornando poi adietro, il fiume a
l'usato corre con dolci acque irenanti la città; e un ponte non di travi o legnami, ma di pietra
egregiamente lavorata, serve per passare il fiume a quella parte che è più dal mare luntana,
acciò che le navi possino passare inanti a quel luoco de la città senza pericolo. Hanno
ancora un altro fiume, non già grande, ma tranquillo e piacevole, il quale, sorgendo del
monte ove la città è fabricata, passa per mezzo di quella e mette ne l'Anidro. Amaurotani
hanno tolto dentro ne la città la fonte di questo fiume, che non era molto luntana, e
fortificatola, acciò che non potesseno i nimici divertire l'acqua o corromperla. Indi con
canoni di pietra cotta derivano l'acqua a le più basse parti, e ove per il luoco non si può
condure l'acqua, fanno cisterne in le quai si raccoglie la pioggia, e ne pigliano i popoli il
medesimo commodo. Il muro largo e alto cinge la città con torri e revelini; la fossa secca,
ma larga e profonda e con spine e siepi; da tre bande ha le mura, e da la quarta il fiume li
serve per fossa; le piazze sono fatte acconciamente, e per condurvi le cose necessarie, e
perché siano secure da' venti; gli edificii non vili e tirati al dritto quanto è lungo ogni
borgo, con le case a rimpetto una de l'altra. Le fronti dei borghi hanno tra loro una via
larga venti piedi. Dietro le case quanto è largo il borgo è l'orto largo e rinchiuso da le
muraglie di dietro dei borghi; ogni casa ha la porta di dietro e davanti, la quale si apre
agevolmente in due parti e si chiude da sé stessa; ognuno vi può entrare; tanto hanno ogni
lor cosa commune, che ancora mutano le case ogni dieci anni. Fanno gran stima degli
orti, nei quali piantano viti, fruti, erbe e fiori con grande ordine e vaghezza. Garreggiano i
5
borghi uno con l'altro di aver orti più belli, né hanno cosa de la quale piglieno più diletto e
commodo che di questi, dei quali pare che avesse più cura il loro autore che di
qualunque altra cosa, perché dicono Utopo da principio aver descritto questa forma de
la città, lasciando poi la cura di ornarla ai descendenti. Ne le loro istorie, da quel tempo
che fu preso l'isola, che comprende anni mille settecento e sessanta, le quai conservano
molto diligentemente, leggesi che le case erano basse come tugurii, fatte di ogni sorte di
legnami che potevano avere, i pareti lutati e la cuoperta de strami levata nel mezzo. Ma
ora le case hanno tre palchi, i muri di selice o mattoni con calce incrostati e ripieni de
rottami; i tetti, piani e rassodati in guisa che non portano pericolo del fuoco, sono
cuoperti di piombo per tollerar le piogge; le finistre di vetro, ch'hanno bellissimo, li defendono
dai venti; usano ancora a questo tele sottili unte con oglio lucidissimo o di ambro, e indi
hanno più chiara luce e sono dal vento meglio difesi.
Dei magistrati.
Ogni trenta famiglie si eleggono ogn'anno un magistrato, nomato da loro anticamente
«sifogranto» e ora «fìlarco». Quello che è preposto a dieci sifogranti con le loro famiglie
si nomava «traniboro» e ora «protofilarco». I filarelli, che sono dugento, giurano sagramento
di eleggere quello che giudicherano a la commune utilità, e così eleggono per principe uno
di quatto che sono proposti dal popolo, i quai si pigliano da le quatto parti de la città,
uno de ciascuna, e danno le balotte secrete. Questo magistrato dura in vita, purché non venga in
sospezione di voler tirannizare. Li tranibori si eleggono ogn'anno, ma non li mutano senza
causa. Tutti gli altri magistrati sono annuali. I tranibori ogni terzo dì, e talvolta più spesso,
vengono a consiglio col prencipe cerca le cose de la republica; e se v'è pure qualche
controversia, l'achetano. Chiamano ogni dì in senato due sifogranti per ordine, e hanno per
legge che niuno statuto sia di valore, del quale non sia prima stato trattato tre dì nel
consiglio. Gli è pena la testa a trattare consigli di cose publiche fuori del senato, acciò che
non potesse il principe, overo i tranibori, ordire una congiura e opprimere il popolo con
tirannia e mutare lo stato de la republica. Perciò ogni cosa importante va al consiglio de'
sifogranti, i quai, ragionatone con le sue famiglie, ne consigliano tra loro e del loro parere
avisano il senato. Talvolta si tratta nel consiglio di tutta l'isola. Usano i magistrati di non
ragionare sopra cosa alcuna quél giorno che ella viene proposta, ma la differiscono nel
seguente giorno, a fine che, pensandovi sopra, consiglino quello che sia a la republica
profitevole, e non s'abbino a pentire del loro consiglio come poco considerato.
Degli artefici.
L'agricoltura è commune arte a maschi e femine e niuno è di quella inesperto. Tutti da
la fanciullezza l'imparano, parte in scola, ove se ne danno i precetti, parte nei campi a la
città più vicini, ove sono condotti quasi a giuocare, acciò che non solamente veggano
l'arte, ma piglino occasione di esercitare il corpo. Oltre l'agricoltura, a tutti (come dicemo)
commune, ciascuno impara un'arte, o a lavorare di lana o di lino, o muratore, o magnano o
legnaiolo, perché non è apo loro altro arteficio nel quale si occupino molte persone. Le vesti
sono di una forma, eccetto che variano quanto basta a discernere il sesso e i maritati da' non
maritati. Questa usano per ogni età et è vaga da vedere e commoda al muovimento del
corpo, oltre che è commoda a l'estate e al verno. Ogni famiglia fa le sue vesti. E ognuno
impara alcuna di quelle arti, non solo i maschi, ma le femine ancora, le quai perché sono
men robuste, si danno a la lana e al lino, lasciando ai maschi le arti faticose. La maggior
parte impara l'arte del padre; tuttavia s'alcuno ad altra arte s'inchina, egli impara l'arte de la
famiglia ne la quale viene adottato, il che si fa per opera del magistrato insieme col padre di
6
quello. Se uno, imparata un'arte, brama d'impararne un'altra, parimente se gli concede; e
poi esercita qual più gli agrada, se la città non ha più bisogno di una che de l'altra.
L'officio de' sifogranti è specialmente di provedere che niuno stia ocioso, ma eserciti
con sollecitudine l'arte sua, non già da la mattina per tempo sin a la sera, che è miseria estrema, e
usasi in ogni paese eccetto che apo gli Utopii, i quai, di ventiquatr'ore tra il dì e la notte, sei
ne assegnano al lavorare, tre innanti desinare, dopo el quale riposano due ore, e poi lavorano
le altre tre; dipoi cenano. Annoverando la prima ora dopo ' desinare, dopo l'ottava vanno a
dormire, e dormono poi otto ore. Il tempo ch'avancia tra le opere e il desinare, ognuno lo
dispensa a suo modo, pur in opere vir_ tuose; e molti si occupano in lettere. Leggesi ogni dì
innanti giorno, e vi vanno specialmente coloro che sono eletti a lo studio.
Ma vi concorrono assai altri, maschi e femine, come è il desio loro. S'alcuno, a cui non
aggrada lo studio, vuole in questo tempo esercitarsi ne l'arte sua, niuno lo vieta, anzi viene
laudato come persona utile a la republica.
Dopo cenna stanno a diporto un'ora, la state nei giardini, el verno ne le sale ove
mangiano. Ivi cantano overo ragionano." Non sanno giuochi di fortuna e perniziosi, ma
usano due giuochi, non dissimili al giuoco degli scachi: uno è il contrasto dei denari, nel
quale un numero vince l'altro nuinero; ne l'altro le virtù combattono con i vizii. In questo
giuoco accortamente si può vedere la discordia tra essi vizii e la loro concordia contra le
virtù; quai vizii a quai virtù si oppongano; con quai forze combattino apertamente, con quai
machine da traverso resistono, con quai agiuti le virtù vincano le forze dei vizii, con quai
arti ribattano ogni loro sforzo e con quai modi una parte resti vittoriosa.
Ma perché non pigliate quivi errore, bisogna considerarvi attentamente. Potresti pensare
che elli, lavorando solamente sei ore, patisseno disagio de le cose necessarie, il che non
aviene; anzi, lavorando solamente quel tempo, guadagnano quanto fa loro bisogno ad ogni
commodo e anco di più; e questo potrete comprendere, considerando quante persone apo le altre
nazioni stiano occiose. Primieramente quasi tutte le femine, che sono la metà del popolo; e
ove le femine si affaticano, ivi gli uomini si danno al riposo. Quanta turba de preti e
religiosi non lavora? I ricchi e nobili con le copiose famiglie de' servi, spadacini e parasiti;
aggiugnivi i forfanti, che si fingono infermi per dapocagine, e truoverai che picciol numero
apparechia quello che da tutti gli uomini si consuma. Considera in questi quante arti non
necessarie si fanno per servire a la vita lussuriosa, da le quai si piglia gran guadagno. Se
questi pochi che lavorano fusseno divisi in così poche arti al vivere umano commode, la
vettovaglia sarebbe a sì vii prezzo, che gli uomini avanzarebbono assai oltre il lor vivere. Se
consideri quei che esercitano arti inutili e chi stanno ociosi, vivendo de le altrui fatiche,
comprenderai quanto poco tempo basterebbe per guadagnare quanto bastasse non solo al
vivere, ma eziandio a le voluttà, con avantagio ancora, il che si vede manifestamente ne
l'Utopia.
In tutta quella città e nel contado non sono cinquecento tra uomini e donne che
stiano in ocio e siano gagliardi. Tra questi sono i sifogranti, i quai, benché siano per le leggi dal
lavoro essenti, tuttavia lavorano per invitare col loro essempio gli altri al lavoro. Sono
parimente essenti coloro i quai, comendati dai sacerdoti al popolo, sono per secreta
ballotazione dei sifogranti applicati agli studii, e in perpetuo da la fatica essenti. Quei, poi,
che non riescono negli studii, sono rimandati a imparare l'arte: e aviene sovente, a l'incontro,
che qualche mecanico a quelle ore che non lavora fa tanto profitto in lettere, che viene
levato da l'arte e posto ne l'ordine dei letterati. Di quest'ordine de' letterati si eleggono i
sacerdoti, i tranibori e anco il principe, nomato anticamente «barzane» e ora «ademo». L'altra
moltitudine non ociosa, né occupata in esercizii inutili, fa in poch'ore grand'opere. Vi s'aggiugne
questo: che in molte arti necessarie fanno minor opera che le altre genti, perché ne li altri
luochi il figliuolo, non curando di mantenere quello ch'ha fabricato suo padre, lascia venire
gli edificii a tale, che il suo erede è astretto a rifare con gran spesa quello che si poteva
prima con poco ristorare. E alcuni sontuosi, non si contentando de la casa fabricata da un
7
altro, ne edificano un'altra e lasciano andare quella in rovina.
Ma ne la republica utopiense, così bene ordinata, di raro si edifica di nuovo, anzi si
prevede ad ogni mancamento che possa avenir ne le case prima che avenga. Così durano
lungamente gli edificii con poca fatica, laonde non hanno i muratori molte volte che
lavorare, se non squadrano legnami e lavorano le pietre per aver la materia ad ordine di
fabricare quando fa mestieri.
Vedi quanto poca fatica usano ne l'apprestarsi il vestire! Quando sono al lavoro, usano
vesti di cuoio o di pelle, e queste durano anni sette; quando vanno in publico, si mettono
una vesta che cuopre quelli abiti rozi, e le usano tutte d'un colore nativo ne l'isola. Così i
panni de lana meno costano apo loro che apresso le altre nazioni. Il lino poi, che meno
costa, è più in uso, e si considera nel lino solamente la candidezza, e ne la lana la mondizia,
né si aprecia più il filo perché sia più sottile. Così ognuno si contenta di una vesta quasi per due
anni, quando che altruove non si contentano gli uomini di quatro e di cinque, né anco di
dieci, di" seta e di lana. Ma Utopiensi, avendo abito che li difende dal freddo, non sono astretti
desiderarne più, quando che ivi niuno è de l'altro più ornato.
Pertanto, essercitandosi in vili arti, aviene che in poche ore guadagnano assai, e quanto
avanza loro dal vivere dispensano a ristorare le opere publiche. E quando non fa bisogno di
questo, lavorano ancora meno per publico editto. Non vogliono i magistrati occupare i loro
cittadini a la fatica contra lor voglia, quando che l'istituzione de la loro republica a questo mira
specialmente: che quanto per le publiche necessità è lecito, si diano a le occupazioni intellettuali,
ne le quai pensano che consista la vera felicità.
Del comercio tra i cittadini.
È ragionevole che si dicchiari in che guisa i cittadini hanno comercio insieme e
trattano le loro bisogne. Essendo la città composta di famiglie, elli le fanno grandi col maritar le
figliuole, perché vanno le giovani maritate in casa dei mariti, ma i figliuoli maschi e i
descendenti rimangono ne la famiglia e ubidiscono al più vecchio, al quale si sostituisce un altro
per età prossimo a quello, se egli mancasse di giudicio. Ma perché la città non venga meno de
cittadini, né cresca oltre modo, vietasi che niuna famiglia (perché in ogni città ne sono
seimillia, eccetto il senato) abbia più che sedeci fanciulli, perché negli adulti non si può tener
misura. E fassi questo agevolmente, dando ne le famiglie più rare quei figliuoli che nascono
ne le più copiose, e quando crescono oltre modo, li mandano ne le altre città meno populose.
Quando poi multiplicano per tutta l'isola, mandano le colonie ai luochi vicini, ove siano
larghi terreni non coltivati dagli abitatori, i quai pigliano in compagnia a vivere con le loro
leggi, se si contentano, perché con loro buoni istituti rendeno fertile il terreno, il quale forse era
giudicato sterile e maligno. Ma se non vogliono abitare con loro, li cacciano di quei confini
che si pigliano. Combattono come contro nemici, parendo loro che sia causa giustissima di
guerreggiare contra coloro i quai non lasciano lavorare ad altri quel terreno ch'avanza loro
e se ne possono nodrire molti.
Se alcune città loro tanto si sciemano d'uomini, che non se gli possa supplire da le
altre (il che a memoria loro è acaduto solamente due fiate, per la pestilenza), ricchiamano i
cittadini da le colonie per far l'isola loro populosa, volendo più tosto disfare le colonie che
lasciar venir meno le città de l'isola.
Ma torno a la foggia del viver loro. Il più vecchio è preposto a la famiglia, le
moglie servono ai mariti e i figliuoli ai padri, e universalmente i minori ai maggiori.
Ogni città se divide in quatro parti uguali, e nel mezzo di ciascuna è una piazza ov'ogni
famiglia porta i suoi lavori e li dispone per ordine in certi granari. Ogni padre di famiglia piglia
di qui ciò che fa bisogno a' fatti suoi senza prezzo alcuno, quando che hanno copia di ogni
cosa, né alcuno teme che gli manchi, e si contenta solamente di quanto gli fa mestiero,
essendo manifesto che, dove non è il timore di dover mancare de le cose necessarie, né
8
superbia di volersi aumentare di ricchezze soverchie, le quai cose fanno l'uomo avido e
rapace, il che non aviene agli Utopii, ivi è un viver tranquillo.
Evvi il mercato dei cibi, ove si portano erbe, frutti, pane, pesci, carni di ogni
animale, e questo fuori di la città vicino al fiume, ove si possono lavare le immondizie. Indi
portano gli animali uccisi e lavati per mano di famigli, perché non lasciano contaminare i
lor cittadini ad uccidere gli animali, parendo loro che la umanità e clemenza a l'uomo
naturale con tale uccisioni a puoco a puoco venga meno; né lasciano portare in la città cosa
alcuna sporca o corrotta, acciò che non si corrompa l'aria e indi nasca pestilenza.
Ogni borgo ha certe spaciose sale, distanti ugualmente una da l'altra e con i loro
proprii nomi. In queste abitano i sifogranti con le trenta famiglie a loro commesse, quindeci
da una parte e quindeci da l'altra, le quai hanno a venire a mangiare in quel luoco. Quei
che hanno cura di apparecchiare i cibi per ciascuna sala vengono in piazza a chiedere i cibi
per quante persone si truovano avere. Hanno special cura degli infermi, i quai sono
governati in publichi alberghi, perché hanno fuori di la città quatro stanze M tanto capaci che
paiono quatro picciole città, perché vi stiano molti infermi acconciamente e perché gli infermi
contagiosi possino stare dagli altri luntani. Sono queste stanze ad ogni commodo degli infermi
arteficiosamente fabricate, e tanta diligente cura si usa nel medicarli con assidua cura di medici,
che ognuno infermando si contenta più tosto di esser governato in questi luochi che ne la casa
propia; ma niuno vi si manda contra sua voglia. I cibi secondo l'ordine dei medici sono
assignati ai dispensieri, che li dividano tra quei di ciascuna sala, se non si ha riguardo al
principe, al pontefice, ai tranibori o agli ambasciatori, i quai vi vanno di raro, e se pure vi
si truovano, si provede loro di certe stanze a sofficienza fornite.
Concorrono ad ora di mangiare a suono di tromba di metallo tutte le famiglie
ricomandate ad un sifogrante, eccetto gli infermi che giacciono negli alberghi ó ne le
propie case, benché, satisfatto a le sale, non si niega il cibo de la piazza a chi lo chiede, sapendosi
di certo che questo non faccia senza causa ragionevole. Perché, quantunque non sia vietato ad
alcuno il mangiare in casa, tuttavia niuno vi sta volontieri, per non esser tenuto per cosa
onesta, et è pazia pigliar la fatica di aprestare un magro disinare, puotendo truovarlo delicato
ne la sala. I servi qui ministrano in quelle cose che sono di fatica o di qualche sporchezze
Ma le femine di queste famiglie a vicenda cuocciono i cibi e apparechiano il convito.
Mangiano a tre tavole o più, come porta il numero loro, i maschi con la schena al muro e le
femine di fuori, acciò che, volendosi levare per qualche disconcio, come suole avenire a le
gravide, non turbino gli ordini, e anco possino andare a rivedere le baile, che stanno in una
stanza sempre col fuoco e l'acqua monda per governare i bambini a voglia loro.
Ognuna latta i suoi figliuoli, se non è impedita da infermità, e quando aviene
questo, le mogli dei sifogranti agevolmente proveggono di baila, perché chi sono atte di far
questo si offeriscono spontaneamente, specialmente che tutti le comendano di clemenza, e
quello che da lei è lattato la riconosce per madre. Ne la stanza de le baile stanno i
fanciulli da cinque anni in giù. Gli altri sinché sono a l'età di maritarsi, e maschi e
femine, servono a le tavole, e chi non può servire sta presente con sommo silenzio, e mangiano
quello che gli viene sporto da quei che sentano, senza aver ora alcuna assignata al loro desinare.
Nel mezzo è la prima tavola a traverso del cenaculo, da la quale si mirano tutte le tavole.
A quella tavola sentano i sifogranti e la moglie e due de' più vecchi. Sentano a quatro a
quatro per tutte le tavole. Se in quella sifogranzia è tempio alcuno, il sacerdote e la moglie
di quello sentano a tavola col sifogrante. Si pongono d'amendue le parti i più giovani, dipoi
i vecchi, di maniera che si truovano insieme di età dissimili, acciò che la gravita e riverenza
dei vecchi raffreni i giovani da ogni sconvenevole atto o parlare. Le vivande più delicate sono
portate primieramente ai più vecchi, i luochi dei quali sono ragguardevoli; dipoi si serve
agli altri ugualmente. I vecchi dispensano a chi loro piace quei delicati cibi, dei quali non
era tanta copia che se ne potesse dare a tutti. Così vengono onorati i vecchi, e nondimeno il
commodo a tutti perviene. In ogni desinare e cena si legge brevemente qualche cosa che
9
vaglia a formare i costumi. Da questa lezione i vecchi pigliano occasione di onesti
parlamenti, ma sollazevoli e grati. Non però tanto sono prolissi nel parlare, che non vogliano
udire ragionare i giovani, anzi a studio li pruovocano per comprendere ne la libertà del
convito la prontezza e disposizione di ciascuno. Il desinare è di corto tempo, perché si va al
lavoro, ma la cena tengono più lunga, perché segue poi il dormire, che giudicano molto
efficace per il padire. Non cenano senza canti, e copia de frutti o confezioni; fanno perfumi
odoriferi, spargono unguenti e non sparagnono a cosa alcuna che possa rallegrare il
convito, non parendo loro che sia vietata alcuna voluttà, purché non ne riesca qualche
incommodo.
In questa guisa vivono ne la città; ma in villa, ove sono le famiglie una da l'altra
luntane, tutte mangiano a casa sua, né li manca cosa alcuna, perché gli viene portato di
quello che si mangia dagli altri ne la città.
Pellegrinaggi degli Utopiensi.
S'alcuno brama di vedere qualche suo amico che stia in altra città, o pure di vedere
quel luoco, ottiene facilmente licenza di andarvi dai suoi sifogranti e tranibori, purché non
sia qualche bisogno de l'opera sua. Mandasi alcun nuncio con una epistola che significa loro
aver licenza di andarvi, e li assegnano il giorno del ritornare. Se gli da un carro con un
servo publico, che guidi e governi i buoi. Se non hanno femine in compagnia, rimandano il
carro, per non aver seco tale impedimento; quantunque non portino seco alcuna cosa, tuttavia
non gli manca per via, perché ovonque si truovano, sono in casa sua. Se stanno in un
luoco più che un dì, ciascuno ivi esercita l'arte sua et è trattato umanamente dagli artefici a
lui simili. S'alcuno da sé stesso, senza la licenza in scritto del principe, è truovato andare fuor
dei suoi confini e viene pigliato, è come fugitivo riduto ne la città, ove si vede grevemente
punire. Se da nuovo commette tale errore, è punito con servitù. Nondimeno ognuno può
andar diportandosi per i campi de la sua regione, avendone licenza dal padre e consentendolo
la moglie. Ma in qualunque villa perviene, non gli è dato mangiare se prima non fa
quant'opera è tenuto di fare innanti desinare o innanti cena. Con questa legge può ciascuno
andare per i campi tra i suoi confini, perciò che tanto gioverà a la città quanto se fusse in
quella.
Vedete già quanto sia loro vietato lo stare in ocio, senza niuno colore di darsi a la
dapocagine; non hanno magazeni da vino, né da cervosa, né luoco publico da meretrici,
niuno luoco da nascondersi, niuno riduto de vizii; anci, la presenza di tanti occhi fa la fatica
onesta parer necessaria. A lo costume di questo popolo segue di necessità l'abondanza, la
quale tra tutti si divide, e così non può essere tra loro alcuno bisognoso. Nel senato
amaurotico, ove (come dicemmo) ogn' anno concorrono tre di ogni città, essendo manifesto che
una città abbia copia di qualche rendita, de la quale un'altra sia bisognosa, si provede che la
copia di una sopplisca a la povertà de l'altra, senza prezzo alcuno. Anci, la città che de la
sua copia averà agiutato l'altra, senza pigliar da quella cosa alcuna, ricorre ad un'altra per
qualche cosa di che ella ha bisogno, quantunque non le abbia dato cosa alcuna. Così tutta
l'isola è come una sola gran famiglia. Poi che è proveduto a questi, il che non giudicano
aver fatto, se non poi che in due anni hanno veduto qual rendita loro riesce, quanto avancia,
cioè gran copia di formento, melle, lana, lino, zaferano, porpore, veli, cera, sevo e cuoio e
anco animali, portano ad altre regioni, a le quai donano del tutto la settima parte, e il
rimanente vendono per mediocre prezzo. Di questo comercio riportano a casa non
solamente le merci, de le quai hanno bisogno ne l'isola, ch'è per lopiù il ferro, ma eziandio
buona somma di argento e d'oro. E da tale continua consuetudine sono di tai cose mirabilmente
copiosi. Perciò non fanno differenza dal dare in credenza a toccare il denaro, anzi hanno il
più in crediti, benché fanno publichi istromenti e vogliono che vi concorra l'autorità di quelle
città ove danno in credenza; e quella, riscuotendo a tempo i denari dai debitori, li mette ne
10
l'erario; e ne cavano l'usura fin a che gli Utopiensi li dimandano, i quai non mai riscuotono
di quelli la maggior parte, non parendo loro cosa giusta pigliare dagli altri quello di che elli
non si accommodano e i debitori ne pigliano frutto. Quando aviene che vogliano prestare
ad altra città denari, li pigliano da quella che è loro debitrice, overo, accadendo guerregiare, al
che riservano tutto quel tesoro che tengono ne l'erario per servirsene negli estremi pericoli e
sùbiti casi, specialmente quando sòldano con grossi stipendii soldati esterni, i quai più volontieri
mettono in pericolo che i loro cittadini, perché sanno di certo che gl'inimici ancora si suogliono
comperare con denari. A quest'effetto conservano un tesoro inestimabile, non già come
tesoro; ma mi vergogno narrare in che modo lo tengono, temendo che non mi sia creduto,
specialmente che io non lo crederei a me stesso, se cogli occhi propii non l'avesse
veduto. Et è necessario che ogni cosa sia meno credibile, quanto ella è dai costumi de chi la
stanno ad udire luntana; benché l'uomo prudente forse meno si maraviglierà, vedendo i
loro istituti tanto dai nostri dissimili, se ancora l'uso de l'oro e de l'argento più s'accommoda
ai loro costumi che ai nostri. Certamente, non usando elli il denaro, ma tenendolo per quei
casi che forse non avengono mai, l'oro e l'argento non è più stimato di quanto elli merita
per sua natura, la quale a giudicio di tutti è inferiore del ferro, il quale a noi è tanto
necessario quanto il fuoco e l'acqua. E veggiamo l'oro e l'argento non aver da la natura
virtù alcuna, de la quale non possiamo mancare, se non che la sciocchezza umana l'ha
tenuto in prezzo perché si truova di raro. Anzi, la natura come pia madre ha posto negli
occhi di tutti quelle cose che sono ottime, come l'aria, l'acqua e la terra, e ha nascosto quelle
che poco giovano. Se elli rinchiudessino questi metalli in una torre, puotrebbe il popolo
sospettare che il principe o il senato ne pigliasse qualche commodo, ingannando in qualche
guisa il popolo. Se poi ne facesseno vasi, quando venisse occasione di volerne far moneta per
pagare i soldati, forse spiacerebbe a molti privarsi di quei vasi che avessino usato a' lor
commodi.
Elli per provedere a tai cose hanno, sì come ne le altre cose, truovato una via molto
simile ai loro istituti e dai nostri dissimile, i quai con tanta diligenza lo guardiamo, la quale
non sarà facilmente creduta, se non dagli uomini sperti. Elli bevono in vasi di terra e di
vetro belissimi, e fanno vasi da immondizie e da orinare d'oro e d'argento, e anco catene
e ceppi. A quei che sono infami attaccano a le orecchie anneli, e in detto, con catene d'oro al
colo, e con oro gli cingono il capo. Così pongono ogni loro studio che l'oro e l'argento
apo i suoi popoli sia vilipeso. Così aviene che questi metalli, tanto grati a le altre nazioni,
sono tanto vili apo gli Utopiensi, che perdendoli tutti non parebbe loro di aver perduto un
denaro. Raccogliono nei litti perle e ne le rupi diamanti e piropi, i quai non vanno cercando,
ma, avendoli truovati, li poliscono. Con questi ornano i fanciulli, i quai si gloriano di tai
ornamenti e ne divengono arroganti; ma poi che sono cresciuti e veggono che solamente i
fanciulli usano simile inezie, senza esser dai padri ammoniti, per vergogna le lasciano, sì come i
nostri poi che sono grandicelli gittano le noci, i puerelli e simile inezie.
Quanti diversi effetti partoriscano negli uomini questi diversi istituti, non mai mi è
parato vedere tanto manifestamente quanto negli ambasciatori degli Anemolii. Questi erano
venuti ad Amauroto mentre ch'io v'era; e perché venivano a trattare di gran cose, quei tre
cittadini di ogni città avevano prevenuto il loro venire, e parimente gli ambasciatori de le
genti vicine, che erano venuti prima; i quai, sapendo i costumi degli Utopiensi, che non
onorano gli abiti sontuosi e poco prezzano l'oro, anzi è tra loro biasimato, usavano di venire in
abiti quanto meno puotevano sontuosi. Ma gli Anemolii, che erano popoli luntani e poco
aveano comercio cogli Utopiensi, intendendo come tutti vestivano rozamente, si diedero a credere
che facessero questo per povertà, così, più arroganti che savi, determinarono di mostrarsi
come dèi, cogli abiti ornati, e muovere i miseri Utopiensi a maraviglia. Così entrarono ne la
città tre ambasciatori con cento in compagnia, vestiti a varii colori, e molti di seta. Gli
ambasciatori, che erano nobili nel paese loro, aveano manti e collane d'oro, anneli d'oro,
pendenti da le orecchie e altre collane pendenti dai capelli con gioie e perle lampeggianti,
11
e insomma erano ornati di quelle cose che sono apo gli Utopiensi o sopplicii de servi, o
biasimi d'uomini infami, overo inezie de fanciulli. Era un giuoco mirare come erano divenuti
arroganti, quando fecero comparazione dal loro ornamento al vestire degli Utopiensi, perché
tutto il popolo s'era ridotto in piazza. Considerate ora quanto si truovarono ingannati de la loro
speranza e come si truovarono luntani da quello che speravano di ottenire! Questo loro
ornamento fu giudicato cosa vergognosa dagli Utopiensi, eccetto da pochi, i quai per giuste
cause erano stati a vedere altre nazioni, per il che salutando per signori ogni minimo servo di
quegli, pensarono che gli ambasciatori fossero servi e non li onorarono ponto. Aresti veduto i
fanciulli eh'aveano gittato le perle e le gioie, quando le videro pendere dai capelli degli
ambasciatori, mostrarli a le madri dicendo: — Eccoti, o madre, quel sciocco, che usa perle
e gioie come se fusse un banbino! — La madre da do vero diceva: — Taci, figliuolo, perché
forse colui è un borione degli ambasciatori. — Altri biasimavano quelle catene d'oro con dire
che erano tanto sottili che un servo le puotrebbe rompere, e tanto larghe che se le puotrebbe
levare dal collo e fuggire. Gli ambasciatori, stati ivi due giorni e vedendo quanto a vile
v'era tenuto l'oro, anzi più biasimato apo gli Utopiensi che non era apo loro in prezzo, e
mirando le catene e i ceppi di un servo fuggitivo, nei quai era più oro e argento che non
valeva ogni ornamento di tutti tre, deposero ogni lor vago portamento, del quale prima
andavano arroganti. Poi che parlarono cogli Utopiensi, compresseno come si maravigliavano che
un uomo potesse mirare una gioia lampeggiante, al quale fusse lecito di mirare le stelle, il sole,
e che alcuno si riputasse più nobile per il filo di lana più sottile, quando che quello pure
è stato portato da una pecora, la quale per ciò non è più che pecora. Si maravigliano ancora
che l'oro, di sua natura così inutile, tanto venga stimato da le altre genti, che l'uomo, per
causa del quale l'oro è in precio, sia meno stimato che l'oro, in tanto che alcuno rozzo e
stupido tenga in servitù molti uomini da bene e savi, solamente perché possedè molti denari;
i quai se per fortuna o per qualche sottilità de le leggi fussero condotti in mano del
peggior servo di quello, colui sarà astretto farsi servo del suo servo, solamente per questo
mutamento di posseder denari. Mi maraviglio e abomino quei che danno ai ricchi quasi gli
onori divini, non perché gli siano obligati né debitori, ma solamente perché sono ricchi,
benché non sperino, vivendo quelli, aver pur un denaro di quei tanti che possedeno i ricchi,
conoscendoli miseri e avari.
Queste simili opinioni hanno bevuto parte co' late ne la fanciullezza, parte negli istituti
de la republica, i quai da simili inezie sono molto alieni, e parte da la dottrina. E benché
non molti sono in ciascuna città essenti da le fatiche e applicati a le lettere, cioè quelli
che da la fanciullezza mostrano acuto ingegno e l'animo inclinato a le buone arti, tuttavia tutti i
fanciulli vengono ammaestrati ne le lettere, e buona parte del popolo, maschi e femine,
occupano in studii quelle ore ch'avanzano loro da lavorare. Imparano le scienze ne la loro
favella, la quale è copiosa di parole, suave ad udire e innanti ogn'altra fedelissima interprete de
l'animo. Questa istessa, benché in molti luoghi corrotta e diversa, in buona parte di quel clima
è in uso.
Prima che v'andasse, non aveano pur udito il nome di quei filosofi che sono di qua
illustri; nondimeno elli hanno truovato in musica, loica, aritmetica e matematica quasi le
istesse cose che truovarono i nostri antichi; ma sì come ragguagliano quasi in ogni cosa gli
antichi, così ne le nuove invenzioni di loica sono molto inferiori, perché non hanno
truovato niuna regola de le restrizioni, amplificazioni e supposizioni, truovate acutamente
ne la loica che tra noi dai fanciulli s'impara. Le seconde intenzioni tanto sono dal loro
discorso luntane, che non possono comprendere l'uomo in commune e universale, quantunque
noi l'abbiamo fatto grande come un gigante e quasi lo mostriamo a deto. Ma nel corso de le
stelle e muovimento dei cieli sono peritissimi. E hanno truovato istromenti di figure diverse,
con li quai comprendono a pieno i muovimenti del sole, de la luna e de le stelle che sono nel
loro orizonte. Non sanno cosa alcuna de l'amicizia e inimicizia de le stelle, né de l'astrologia
indovinatrice, anzi ingannatrice. Conoscono molto avanti le piogge, i venti e le tempesta
12
per certi lor segni. Ma cerca le cause di tutte le cose, del corso e salso del mare, e insomma de
l'origine e natura del cielo e del mondo, dicono parte come i nostri filosofi, parte son, come
quelli, di vario parere. Cerca la filosofia morale, disputano de le istesse cose come noi. Ragionano
dei beni de l'anima, del corpo e degli esterni, se tutti si possono chiamar beni o solamente
quei de l'animo. Disputano de la virtù e de la voluttà, ma la principale controversia tra di
loro è disputare in qual cosa consista la vera felicità de l'uomo, overo se consiste in più cose.
Ma inchinano più del giusto a credere che ne la voluttà consista il viver felice. E si servono
a questo de la religione, la quale però appresso di loro è greve e severa; né mai disputano
de la felicità, che non uniscano insieme alcuni principii tolti da la religione e da la filosofia,
senza i quali pensano che la ragione umana sia tronca e debole ad investigar la vera felicità.
Quei principii sono tali: che l'anima è immortale, nata per la benignità di Dio a la felicità; che a
le virtù e buone opere nostre sono assignati i premii e a le sceleragini i sopplicii. Benché tai
principii vengano da la religione, tuttavia pensano che siano con ragioni e fondamenti umani
condotti a crederli e a concederli; e, levati via questi, confermano arditamente che ciascuno,
quantunque stupido, è astretto di cercare la voluttà a dritto e a torto e solamente ha da mirare
che un minor diletto non impedisca il maiore, laonde ne segua qualche affanno che ricompensi
l'avuto solazzo. Perché dal seguire la virtù così aspra e malagevole, e non solamente cacciar da
sé il vivere soave, ma sofferire ancora spontaneamente i dolori, non porta frutto alcuno, se
dopo morte non ne segue alcun premio, avendo passato la vita miseramente: e questo giudicano
estrema pazzia. Tuttavia non pongono la felicità in ogni voluttà, ' ma solamente ne l'onesta,
perché la natura è tratta a quella come ad un sommo bene da la virtù, ne la quale sola la
parte adversa mette la felicità. Questi dicono che la virtù è un vivere secondo la natura, e che
siamo creati a questo disposti, e che segue la natura colui il quale nel bramare e fuggire le
cose ubidisce a la ragione, la quale primieramente muove gli animi umani ad onorare la
divina Maestà, a la quale siamo tenuti de l'essere e che siamo capaci de la felicità.
Secondariamente ci ammonisce e desta, che cerchiamo di vivere lietamente con minore ansietà
che si può e che agiutiamo gli altri ad ottenere questo bene per la naturai compagnia che è tra
noi. Niuno mai ha seguito tanto rigidamente la virtù, né datosi tanto ostinatamente a le
fatiche e vigilie, che egli non sia stato pronto ad allegerire le altrui miserie e a
commendare per cosa umana che l'uomo studii a giovare a l'uomo e, mitigando i travagli di
quello, ricondurlo da le miserie a vita tranquilla e sollazzevole. E perché non debbe la natura
istigarci che facciamo l'istesso officio verso noi stessi: Perciò che, overo che la vita sollazzevole
e gioconda è cattiva, e se così è, non solamente non dèi porgere agiuto ad alcuno di ottenerla,
anzi quanto puoi privarne ciascuno come de cosa perniziosa e mortifera, e tanto più dèi
privarne te stesso, a cui non meno sei tenuto di pruovedere che agli altri.
Dicono, adunque, la natura ci assegna la vita gioconda, cioè la voluttà, come un
fine di tutte le opere nostre, e vogliono che il viver secondo la natura sia il vivere
virtuoso. Ma invitandoci la natura ad agiutare uno l'altro (il che fa ella meritamente),
quando che niuno è di tanta dignità che la natura si pigli cura di lui solo, perché essa
porge il seno a tutti quei ai quali ha dato una forma commune, ella istessa veramente ti
ammonisce che non procuri i tuoi commodi con l'altrui incommodo.
Vogliono, adunque, che si osservino le convenzioni fatte tra privati uomini e anco le
publiche leggi fatte da buono principe o da un popolo che non sia oppresso da tirannia, le
quai assegnino il modo a communicare i commodi e godere le voluttà. Gli è poi gran
prudenza se, non offendendo queste leggi, si cerca il proprio commodo, et è singolare pietà
studiare al commodo universale. Ma gli è strana e spiacevole ingiuria volersi pigliare solazzo con
altrui dispiacere, et è singolare benignità spogliare sé medesimo di qualche solazzo per
accomodarne altri. Il che tuttavia riporta uguale commodo al danno che se ne sente, perché
viene con beneficii ricompensato, e la conscienza de l'opera buona, con la memoria de la
carità e benivolenza di coloro ai quali hai fatto beneficio, porta a l'animo più diletto che non
arebbe dato quella voluttà corporale, da la quale ti sei astenuto. Finalmente (come la
13
religione persuade a l'animo umano) Iddio con perpetua allegrezza ricompensa una breve
voluttà. Così vogliono che si considerino le operazioni nostre e tra queste le virtù, mirando
finalmente a le voluttà che sono de la felicità il fine.
Chiamano elli voluttà ogni muovimento o fermezza di animo e di corpo, nel quale
l'uomo, da la natura guidato, si diletta di truovarsi. Né senza causa vi aggiongono l'appetito
de la natura, perché, sì come non solamente il sentimento, ma la dritta ragione segue ogni
cosa che è per natura gioconda, a la quale non si vada con ingiuria altrui, né si perde
maggior solazzo, e non gli segue fatica. Così quelle cose reputano inutili a la felicità che sono
dagli uomini contra l'ordine di natura riputate dolci, anzi le tengono per nocive, quando
che, avendo una fiata occupato l'uomo, tanto lo adescano con falso diletto, che non lo
lasciano pigliare piacere dei veri solazzi. Sono veramente assai cose che di loro natura non
hanno alcuna soavità, anzi non poc'amaritudine, ma per il diletto de' tristi piaceri non
solamente sono annoverate tra le più gioconde voluttà, ma eziandio tra le prencipai cause de
la vita nostra.
Tra queste sorte di falsa voluttà annoverano coloro i quai per esser meglio vestiti si
reputano migliori, ma pigliano doppio errore, riputando migliore la loro vesta che l'altrui e sé
medesimi degli altri più degni. Che maggior dignità ha il filo di lana più sottile che il
grosso, considerando l'uso de la vesta; Tuttavia molti si tengono da più per esser più
pomposamente vestiti e si sdegnono quando non si veggono stimare più che gli altri. Il che è
una sciocchezza, considerando quanto sia vano l'onore dagli abiti causato. Che naturai diletto
porge che alcuno si cavi la beretta e pieghi le ginocchia ad onorarti; Ti gioverà forse
questo a levarti il dolore del capo o dei ginocchi; Quanto soavemente impaciscono in questa
falsa imagine di voluttà coloro che si tengono nobili per essere nasciuti di progenie la quale
per molte età sia stata ricca, quando che non conoscono altra nobilita, benché non si
tengono men nobili, ancora che non gli avessero lasciato i loro maggiori facultà, overo che essi
l'avessero consumata! Tra questi annoverano coloro che si dilettano di gioie e si reputano dèi
quando aviene che ne abino qualcuna di gran prezzo e molto stimato a sua età. Non la
comprano ligata in oro, anzi la vogliono nuda e con segurtà che sia buona, tanto si
temono di essere ingannati. Nondimeno a l'occhio umano tanto diletta una gioia fina
quanto una finta, non discernendo una da l'altra. Doverebbe tanto valere la gioia fina come la
finta appresso di te che non sei in questo giudicio differente da un cieco! Che diremo noi di
coloro che conservano soverchie ricchezze solamente per mirarle a lor solazzo; Godono elli
la vera felicità, o pur si truovano ingannati da falsi diletti? Ma quei che nascondono il tesoro,
il quale forsi non più vedranno, stando in pensiero di non perderlo, lo perdono mettendolo
sotterra, ove né a te né agli altri può servire; nondimeno tu ti rallegri poi ch'hai nascosto il
tesoro, e stai con l'animo sicuro. S'alcuno te lo rubasse dieci anni prima che tu moresti, che ti
è vagliuto quel tesoro in quei dieci anni che non l'avevi; Aggiongono a queste allegrezze i
giuocatori de dadi o di carte, i quai giuochi solamente per nome conoscono, e parimente i
cacciatori e gli uccellatori, e dicono che solazzo è gittare i dadi, poi che gittandoli spesso
l'uomo dovrebbe saziarsi. Non è più tosto un fastidio udir bagliare i cani e Che maggior
diletto è veder un cane seguire la lepre, che un cane l'altro cane? Perché veramente si vede
la velocità del correre a questo e a quel modo. Se ti diletta veder straziare e uccidere
quell'animaletto, dovresti più tosto muoverti a pietà vedendo la lepre impotente, fugitiva,
timida e innocente esser straciata dal cane gagliardo, feroce e crudele. Così gli Utopiensi
hanno rifiutato al tutto quest'esercizio del cacciare come arte conveniente ai beccari, la quale
hanno commessa ai servi, e giudicano che il cacciare sia di quella la più infima parte. Ma le
altre giudicano più utili e oneste, quando si amazzano gli animali per la necessità del vivere
umano, e il cacciatore solamente si piglia piacere de la morte del misero animale, il qual
desiderio pensano elli che nasca da un animo a la crudeltà disposto. Queste e altre cose
innumerabili, de le quai gli uomini altruove pigliano diletto, sono apo gli Utopiensi
sprezzate come cose di niuna soavità, e benché piacciano al volgo, il quale, prevertendo la
14
natura, reputa dolci le cose amare, sì come le femine gravide, le quai tengono la pece e il sevo
per più dolce che il mèle perch'hanno corrotto il gusto, il quale però non può mutare la
natura di niuna cosa e specialmente de la voluttà.
Fanno diverse specie di voluttà: alcune assegnano al corpo, alcune a l'anima. A
l'anima danno l'intelletto e quella dolcezza che nasce da contemplare la verità. Vi
s'aggiunge la gioconda memoria di aver vivuto bene. La voluttà del corpo dividono in due
forme, una che diletta il sentimento e ristora quelle parti che sono in noi da calor naturale
consumate, il che si fa col cibo e col bere, perché, evacuandosi il corpo nel mandar fuori le cose
soverchie scaricando il ventre, o generando, o col gratare qualche parte del corpo, è di
mestiere che sia riempiuto. Evvi un'altra voluttà, che non dona ai sentimenti nostri cosa
alcuna da loro bramata, né d'alcuna li priva, ma solamente con occulta forza porge loro
diletto, come è la musica. Metteno un'altra forma di corporal voluttà, la quale consiste
nel quieto e tranquillo stato del corpo e nomasi da tutti sanità. Questa non essendo da
qualche dolore afflitta per sé stessa, diletta senz'altro solazzo esteriore. E quantunque ella non
si mostri così manifestamente ai sentimenti come la voluttà del mangiare e del bere, tuttavia
tutti l'hanno per grandissima voluttà, e gli Utopiensi la tengono per fondamento di ogni
solazzo, senza il quale ogni voluttà è nulla, perché mancare di dolore senza sanità è più tosto
uno stupore che un solazzo. Quella opinione che dice la sanità non essere voluttà, perché non
si sente se non con qualche esterno muovimento, è da loro al tutto rifiutata. Anzi, tutti
concordevolmente affermano la sanità essere una speciale e primaria delettazione. E,
dicono, se ne la infermità è il dolore, mortai nimico de la voluttà, perché non sarà ne la
tranquillità de la sanità una giocondità singolare? Non fanno differenza che si dica l'infermità
istessa esser dolore, overo il dolore esser ne l'infermità, perché ne riesce la medesima
sentenza. Ma se la sanità è la voluttà istessa, overo necessariamente parturisce voluttà, come
il fuoco produce caldo, veramente ad ogni modo segue che a la ferma sanità riesca una
vita gioconda. Oltre di questo, dicono, quando mangiamo, ristorarsi col cibo la sanità, la quale
per la fame cominciava ad indebolirsi, e quando è tornata al solito vigore, sentiamo la
giocondità del mangiare tanto maggiormente, quanto la sanità è più robusta. Così appare esser
falso quello che dicono, che la sanità non si sente, il che non può avenire in uomo che non sia
stupido e, per conseguente, non sano. Abbracciano adunque primieramente quelle voluttà de
l'animo (che sono apo loro le prencipali), le quai sanno che nascono da virtù e da la buona
conscienza. Ma fanno la sanità un principal sollazzo innanti agli altri di maggior diletto. Né
vogliono che si brami il mangiare e il bere e ogn'altra voluttà, se non per conservare la
sanità, perché non sono tai cose da loro istesse gioconde, ma in quanto mantengono la sanità.
Però debbe il savio più tosto cercare di non esser occupato da l'infermità che bramare la
medicina, per non aver bisogno di questa voluttà, la quale si conviene temperare. S'alcuno di
questa sorte di voluttà si tiene beato, egli è astretto di confessare che a l'ora sarà
felicissimo, quando da fame, sete e piccicore da mangiare, bere e gratarsi sarà travagliato, le
quai cose veggiamo manifestamente esser sozze e misere. Queste, adunque, sono le meno
sincere voluttà, le quai ci avengono solamente per medicare ai contrarii dolori, perché col diletto
di mangiare s'accompagna la fame, e con legge non uguale, perché il dolore tanto è più
lungo quanto è maggiore, e nascendo innanti al piacere, non si estingue se non insieme col
piacere. Stimano elli poco queste voluttà, se non quando la necessità si strigne di usarli.
Nondimeno godono queste ancora e ne ringraziano la natura madre, la quale adesca con
soavità i suoi figliuoli a quello che era necessità che si facesse. Con quanto fastidio
viveressimo, s'avessimo a cacciar la fame e la sete con pozioni e veleni sì come cacciamo le
altre infermità; Ma abbracciano lietamente la bellezza, le forze e la destrezza, come doni
giocondi e propii de la natura. Gli altri solazzi che per le orecchie, per gli occhi e per le
nari passano a l'anima, i quai sono propii de l'uomo (perché niuno animale considera la
bellezza del mondo, né sente gli odori se non quanto fa mestiero per discernere il cibo, né si
diletta de la varietà dei suoni), questi, dico, volontieri accettano. In tutti questi tengono tal
15
misura che il maggior sollazzo non sia dal minore impedito. Ma sprezzare la bellezza,
minuire le forze, mutare la destrezza in pigrizia, estenuare con digiuni il corpo, fare ingiuria a
la sanità e rifutare gli altri sollazzi de la natura a noi concessi, se non fusse per giovare a
la republica, reputano una sciocchezza e che questo nasca da un animo crudele e ingrato a
la natura, i cui beneficii rifuta come sdegnandosi di esserlene debitore, e specialmente
facendosi questo per una vana ombra di virtù, overo per sopportare con minor dispiacere
le adversità, le quai forse non mai verranno. Questo è il loro parere cerca la virtù e la
voluttà; e se Dio non gli ispira miglior parere, elli credono che non se ne truovi altro
migliore. Io non mi occuperò a disputare de la verità de la loro opinione, perché non lo
concede il tempo, e io mi sono posto a narrare gli istituti degli Utopiensi, non a difenderli. E
siano questi decreti qual si vogliano, io tengo di certo che non si truovi più degno popolo,
né republica più felice.
Sono di corpo agile e vigoroso e di maggior forze che non promette la loro statura,
la quale però non è picciola. E quantunque il lor terreno sia mal fertile e l'aria poco sana,
tuttavia con temperato vivere si mantengono contra l'aria, e con l'industria vincono la terra,
di maniera che in niuno luoco vengono più copiosi ricolti, né animali meglio nodriti, e i
corpi umani più vivaci e meno a le infermità soggetti. Perciò non vedrai solamente fare da
loro quelle opere che fanno i lavoratori altruove per vincere la malignità del terreno, anzi
ivi si vede una selva cavata da le radici con mano del popolo e un'altra piantata altruove,
nel che non s'è considerato la fertilità del terreno, ma il commodo di condure i frutti o altre
cose, acciò che fusseno le legne più commode al mare o al fiume overo a le città. Sono gente
benigne e piacevole che ama il riposo e, quando fa mestieri, paziente de la fatica e specialmente
negli studii che ornano l'animo.
Elli, avendo da me inteso de le lettere e dottrina de' Greci, perché de le cose latine
altro non commendano che le istorie e i poeti, si mostrarono molto bramosi ch'io di quelle
lettere gli ammaestrasse. Così io cominciai a leggerli, più tosto acciò non credessino ch'io
schivasse la fatica, che ch'io ne sperasse frutto alcuno. Ma avendo letto alquanti giorni, la loro
diligenza mi diede ardire che non sarebbe vana la mia sollecitudine, perché cominciarono
scrivere le lettere, pronunciare le parole e mandarle con tanta prestezza a memoria, che mi parve
cosa miracolosa; e molti per ordine del senato furono destinati a questo studio, cioè quei del
numero de' studianti che erano di più acuto ingegno e di matura età. Così in tre anni
leggevano speditamente ogni autore greco, pur che non fusse corrotto il libro. Elli così per
mio aviso tanto agevolmente impararono quelle lettere, perch'io credo che derivassero da'
Greci, quando che ne la loro favella, che è persiana, sono molte parole greche,
specialmente nel nominare le città e i magistrati. Io, la quarta fiata che navicai, mi posi
in nave buon numero di libri in luoco di mercatanzie, avendo meco disposto di non tornar mai,
più tosto che tornar presto. Così lasciai a quelli molte opere di Piatone e di Aristotile,
Teofrasto dei pianetti, ma troncato in più luochi, perché, essendo tenuto con poca cura ne
la nave, una simia ne cavò fuori alquante carte e, stracciatele giuocando, le aveva sparte qua
e là. Hanno in grammatica Costantino Lascari. Non aveva portato meco Teodoro Gaza, né altro
dizionario che Esichio e Dioscoride. Tengono carissimi i libretti di Plutarco e si dilettano de
le piacevolezze di Luciano; de' poeti hanno Aristofane, Omero, Euripide e Sofocle in
forma picciola di Aldo; degli istorici Tuccidide, Erodoto et Erodiano; in medicina, Tricio
Arpino, mio compagno, aveva portato alcune opere d'Ippocrate e la Microtechne di Galeno, i
quai libri tengono carissimi, e quantunque meno sono bisognosi de la medicina che
qualunque altra nazione, tuttavia è appresso di loro onorata più che in altro paese,
perché l'annoverano tra le parti principali e utilissime de la filosofia. E investigando le cose
di natura con lo agiuto di questa, si danno a credere non solamente di prendere gran
diletto, ma eziandio di aggradirsi sommamente a l'autore e artefice di quella, pensando che
egli (come fanno gli altri artefici) abbia posto innanti agli occhi de l'uomo, il qual solo ha
fatto di tal cognizione capace, questa machina, acciò che la consideri, e che più gli sia caro
16
l'uomo che considera con admirazione le dignissime opere di quello, che colui il quale come
animale senza intelletto e stupido non si cura di mirare questo mirabile spettacolo. Così gli
ingegni degli Utopiensi, ne le lettere esercitati, vagliono mirabilmente a truovare le arti utili
ai commodi de la vita. Ma sono a noi debitori di due, cioè di imprimere libri e fare la carta
bambacina, benché in buona parte da loro stessi ne vennero a perfetta cognizione di quelle.
Perché mostrando le lettere di Aldo impresse in carta bambacina e ragionando con loro de lo
stampare libri, intesero assai più oltra di quello che dicevamo, perché niuno di noi era molto
esperto di una né di altra. Elli di subito fecero congettura come si potesseno fare cotal arte; e
perché scrivevano per adietro in pelli, in scorza e in papero, tentarono subito di fare la carta
e stampare, ma non riuscendo da principio, fecero tante fiate l'esperienza che appresero amendue
queste arti, e se non mancasseno loro copie, averebbono già stampato assai libri greci. Ma non
hanno altri libri che li sopradetti, e di questi hanno stampato gran numero. Ognuno che sia di
singulare ingegno, overo ch'abbi veduto buona parte del mondo, il quale pervenga a loro per
mirare gli istituti di quelli, è raccolto benignamente, perché odono volontieri ciò che si fa
negli altri paesi. Pochi mercanti vi vanno. Che altro vi possono portare che ferro? E che
vorebbono portar via altro che oro; Ma elli vogliono in persona portar via le cose loro per aver
cognizione degli altri paesi e non si scordare la perizia del navicare.
Dei servi.
Non tengono per servi quei che sono presi in guerra, ancora che fusse fatta da loro,
né i figliuoli dei servi, né alcuno che serva apo altre nazioni, i quai possino comperare, ma quei
che per qualche mancamento sono da loro dannati a la servitù, overo altri di esterne
nazioni che gli sono dati a tale supplicio per qualche loro mancamento; il che aviene
sovente, e molti ne hanno per vilissimo prezzo. Tengono questi servi in continua fatica e
in catene, ma trattano i loro propii più duramente, giudicando che siano incorrigibili e degni di
più greve sopplicio, poiché, essendo tanto egregiamente nodriti a la virtù, non s'hanno
potuto raffrenare dal vizio. Evvi un'altra sorte di servi: quando alcuno di altra nazione
avezzo a la fatica, povero e di bassa condizione elegge di servire a quelli. Questi (eccetto che li
danno alquanto più fatica) trattano benignamente e li tengono poco meno che per loro
cittadini. S'alcuno vuole partirsi (il che di raro aviene) non lo tengono contra sua voglia, né lo
mandano via senza doni.
Gli infermi (come dicemmo) trattano con gran carità, non tralasciando cosa alcuna
cerca le medicine e il governo del vivere, che vaglia a rendere a quelli la sanità. S'alcuno è
incurabile, tenendoli compagnia, parlando con lui e servendolo, allegeriscono la sua calamità. Ma
se l'infermità è incurabile e di perpetuo dolore, i sacerdoti e il magistrato lo confortano
che, essendo già inetto agli ufFicii de la vita e molesto agli altri e greve a sé stesso, che
non voglia sopravivere a la propia morte e nodrire seco la pestifera infermità, e che,
essendogli la vita un tormento, non dubiti di morire; anzi, ch'avendo buona speranza che
sarà libero da tale acerba vita, uccida sé stesso o si lasci dagli altri uccidere; e che farà
opera da prudente, quando che le calamità saranno da lui lasciate morendo, non i commodi;
oltre che, seguendo il consiglio dei sacerdoti interpreti dei dèi, farà opera santa e pia. Chi
sono a questo persuasi, overo con astinenza finiscono la vita, overo dormendo sono uccisi. Ma
non ne fanno morire alcuno contra sua voglia, né mancano di servirlo ne l'infermità,
parendo loro che questa sia onorata impresa. Ma s'alcuno s'uccide senza il consentimento dei
sacerdoti e del magistrato, egli, senza esser sepolto, viene gittato in una palude.
Le femine non si maritano innanti anni dodici, e i maschi de sedici. Se il maschio o la
femina sono truovati a lussuriare innanti al matrimonio, vengono puniti grevemente e
privati in perpetuo del matrimonio, se il principe non si muove a pietà di perdonar loro tal
fallo. Il padre e la madre di famiglia sotto ' governo dei quali aviene tal mancamento sono
infamiati di esser stati poco attenti a governare le creature a loro commesse. Puniscono questa
17
colpa tanto atrocemente, prevedendo che pochi si mariterebbono volontieri per non vivere
tutti gli anni con una sola e non tollerar le molestie del matrimonio, quando fussero avezzi
di giacersi ora con questa, ora con quella.
Ne l'eleggere le mogli tengono un modo a mio parere ridiculoso, ma riputato da
loro prudentissimo. Una onesta matrona mostra la virgine, o vedova che sia, nuda a lo
sposo, e parimente un uomo di gravita mostra il giovane nudo a la giovanetta. E biasimando io
questo costume come inetto, elli a l'incontro risposero che si maravigliavano assai de la
pazzia de le altre genti, le quali nel comperare un cavallo, ove si tratta de pochi denari, vanno
tanto cautamente che lo vogliono vedere senza sella, acciò che sotto quella non avesse qualche
piaga, e ne l'elegger la moglie, la quale può dare a quelli o solazzo o dispiacere mentre che
dura la vita, sono tanto negligenti che si contentano di veder la donna quasi tutta cuoperta,
quando che vedeno solamente il volto di quella, e tuttavia puotrebbe ella nascondere qualche
diffetto per lo quale non mai si contenterebbe d'averla presa. Né tutti sono di tanta sapienza che
mirino solamente ai costumi; anzi, nei matrimonii dei savi uomini le doti del corpo fanno più
grati i doni de l'animo. Veramente tale bruttura puotrebbe nascondersi sotto gli abbiti, che la
moglie sempre fosse odiosa al marito, e a questo si debbe provedere con leggi prima che segua
l'inganno, quando che elli soli di tutte le altre nazioni sono contenti di una sola moglie, né si
scioglie il matrimonio se non per l'adulterio o per altra intollerabile molestia. In tai casi il
senato concede a l'innocente di rimaritarsi e il colpevole resta infame e privo in perpetuo de
matrimonio. Non vogliono che la moglie non colpevole sia ripudiata contra sua voglia,
ancora che cadesse in qualche calamità del corpo, parendo loro una crudeltà che si abbandoni
la persona quando ha maggior bisogno di consolazione, perché la vecchiezza, che porta le
infermità et è l'infermità istessa, sarebbe da la compagnia abbandonata. Aviene a le fiate che,
non si confacendo de costumi e truovando amendue altri con i quai sperano di vivere più
soavemente, si separano e maritansi tutti due, con l'autorità però del senato, il quale non
ammette il divorzio se prima non conosce le cause di quello, e anco le fa investigare da le
propie mogli. E anco si rendono difficili a questo, acciò che non si speri di mutar facilmente
il matrimonio. Gli adùlteri puniscono con durissima servitù, e se erano amendue adùlteri, si
concede che, lasciato l'adulterio, si maritino insieme, overo con altri. Ma se quello che è
offeso tanto ama l'offenditore che non voglia fare divorzio, non gli è vietato di mantenere
il matrimonio, pur che voglia seguire ne l'opera il dannato. E sovente è avenuto che la
sollecita pazienza de l'innocente ha ottenuto la libertà al colpevole. Ma chi adultera dopoi
questo perdono, è punito ne la testa. A le altre colpe non è assignato determinato sopplicio,
ma secondo il mancamento segue il sopplicio più o men greve, come pare al senato. I mariti
castigano le mogli, i padri i figliuoli, se non fusse qualche enorme mancamento che si dovesse
punire pubicamente. Ma quasi tutte le grevi colpe sono punite con servitù, il che non meno
spiace agli scelerati et è più commodo a la republica che ucciderli, perché giovano più con la
fatica che con la morte, e con l'essempio continuo ammoniscono gli altri a guardarsi da
simili colpe. Se in tal stato sono perversi e inobedienti, allora come bestie indomite gli uccidono;
li pazienti non sono fuori di speranza che, tollerando i travagli e le fatiche, e mostrando che
più loro spiacia il peccato che la penitenza, non siano francati, o mitigata la servitù per
autorità del prencipe o suffragii del popolo.
Non meno puniscono chi ha provocato alcuna persona a lussuria che s'avesse
commesso l'errore, parendo loro che la volontà determinata a peccare, ancora che non possi
venire ad effetto, sia de l'istesso supplicio degna.
Si pigliano piacere de' boffoni, ma non è lecito fargli ingiuria, né gli danno in
governo a chi non si diletta de le loro facezie, temendo che non siano ben trattati. Non si
concede di schernire alcuno che sia tronco o sciancato, parendo sconvenevole schernire quel
vizio che è venuto in l'uomo senza sua colpa. Sì come tengono per dapoco chi non hanno cura
di conservarsi la bellezza naturale, così biasimano quel che con belletti studia di aumentarla,
avendo per certo che la bontà dei costumi assai più vale a render grata la moglie al marito
18
che alcuna bellezza corporale. Non solamente si rimangono da le sceleragini per tema dei
sopplicii, ma sono invitati a le virtù con egregii onori. Rizzano ne la piazza statue agli uomini
che per la republica hanno fatto qualche degna impresa, acciò che si conservi la memoria de
le opere illustri e i loro discendenti siano a la virtù incitati. Chi cerca di avere alcuno
magistrato, ne viene privato al tutto. Vivono insieme amichevolmente, perché i magistrati non
sono terribili, si chiamano padri e si portano da padri, e i popoli gli onorano spontaneamente.
Il prencipe non è dagli altri conosciuto con diadema o corona, ma con un manipolo di
formento, che gli viene portato innanti, e il pontefice con un torchio.
Hanno poche leggi e biasimano gli altri popoli che empiono de leggi e d'interpreti
smisurati volumi, parendo loro che sia iniquità obligare a tante leggi l'uomo, che non si
possino leggere, e tanto oscure, che non siano intese. Non ammettono avocati, anzi vogliono
che ognuno in giudicio dica la sua ragione, perché in tal guisa si ragiona meno e meglio si
cava la verità senza ornamento di parole. Il giudice sollecitamente espedisce ogni causa e
favorisce agli ingegni semplici contro i malvagi e accorti, il che a fatica si può osservare apo le
altre nazioni tra tante dubiose leggi. Apo loro ciascuno è giureconsulto, perch'hanno
pochissime leggi, e commendano sommamente la più semplice interpretazione che se le
dia, perché la sottile interpretazione non può esser da tutti intesa, il che è contra la
intenzione de le leggi, le quai si danno acciò che siano a tutti manifeste.
I popoli vicini, che sono liberi, perché molti hanno sofferto la tirannia, mossi da
queste virtù, dimandano dagli Utopiensi i magistrati per un anno e anco per cinque, e
quando hanno fornito il loro ufficio li rimandano onorevolmente e ne conducono seco
degli altri; e in vero questi popoli ottimamente proveggono a la loro republica, la cui
salute o rovina depende dai costumi dei magistrati, né potevano far migliore elezione,
quando che sono gli Utopiensi d'una tale costanza, che non si piegano con prezzo alcuno, e
avendo da ritornare a la patria, non hanno occasione di far ingiustizia, massimamente che,
non conoscendo quei cittadini, non possono da alcuno agevolmente esser persuasi di
contravenire a la giustizia. Questi due mali, amore e avarizia, quando hanno potere nei
giudicii pervertono ogni giustizia e indeboliscono ogni nervo de la republica. Utopiani
chiamano compagni quei popoli ai quali danno magistrati, e amici quei a chi hanno fatto
beneficii. Elli non fanno con altre genti confederazioni, le quai tanto sovente apo altri
popoli sono fatte e rinuovate. Perché s'hanno da fare (dicono elli) confederazioni alcune,
bastando ad amicarsi l'uomo la commune natura umana, la quale non giovando, che puotranno
più valere le parole? Sono in questo parere, perché le convenzioni e patti tra prencipi in quei
paesi poco fedelmente si osservano. Ma in Europa, e specialmente dove regna la fede di
Cristo, si conservano inviolabilmente le confederazioni, parte per giustizia e bontà dei
prencipi, parte per reverenza e timore dei sommi pontefici, i quai, sì come non
commettono cosa alcuna, che contravenga a la religione, così commandano che gli altri
prencipi mantengano le loro promesse e con scommuniche severissime sforzano i contumaci a
servare la loro fede. E meritamente in vero tengono per biasimo vituperevole che non si osservi
fede ne le confederazioni da coloro che specialmente si nomano fideli. Ma in quel nuovo
mondo, tanto dal nostro distante quanto sono ancora i costumi dissimili, non si fidano di
confederazione, quando che non si possono fare con tante cerimonie e sagramenti, che non si
truovi ne le parole qualche calumnia postavi a studio; e così non si può fare
confederazione alcuna che non vi sia un uncino da romperla. Ma se truovano i prencipi
simile accortezza o inganno nei contratti degli uomini privati, li dannano come sacrilegi e
degni di morte; e questo farebbono specialmente i consiglieri dei prencipi, i quai sono tal fiata
stati autori de le fraudolenti confederazioni acciò che si potessino rompere. Indi aviene che
non vi sia altra giustizia se non la umile e plebea, e molto inferiore da la regale maestà.
Come se vi fusseno due giustizie, una del volgo, umile e bassa, la quale, avinta con molti nodi,
non ardisca levarsi; l'altra dei prencipi, alta e magnifica, a la quale tanto sia lecito quanto
loro piace. Io credo che gli Utopiensi non facciano alcuna confederazione, perché i prencipi di
19
quel paese tanto sono a contravenire ad ogni loro promessa disposti. Tuttavia, se vivessero in
queste parti, muterebbono proposito. Benché elli giudicano, ancora che fusseno osservate le
confederazioni ottimamente, che non sia bene fare tai confederazioni, perché si puotrebbono
tenere per nimici quei popoli che sono divisi con un rivo o con un colle, non avendo tra loro
tai segni de parti, e indi guerreggiare insieme; anzi, che, fatte le confederazioni, non si
strigne però l'amicizia e resta la licenza di saccheggiare, non si avendo per imprudenza potuto
porre ne la confederazione ogni cautela somciente a ribattere l'ingiuria. Ma elli a l'incontro
giudicano che non si tenga alcuno per nimico, dal quale non s'abbia ricevuto ingiuria, e che
basti la compagnia naturale in luoco di confederazione, perché gli uomini più volontieri e con
maggior fermezza si uniscono cogli animi, che per confederazioni o parole.
De la guerra.
Hanno sommamente in abominazione la guerra come cosa d'animali, dei quai però
niuno così lungamente guerreggia come l'uomo, né tengono altra cosa più biasimevole che la
gloria acquistata in guerra. E quantunque si esercitino ne la milizia, non solamente i maschi,
ma le femine ancora, a certi giorni, per non essere al guerregiare inetti quando fusse il
bisogno, tuttavolta non si mettono a guerreggiare inconsideratamente se non per difendere i lor
confini o per liberare da la tirannia e servitù qualche misero popolo. Benché talvolta porgono
agiuto agli amici, non solamente perché si difendono, ma eziandio perché recompensino le
avute ingiurie; ma questo fanno, essendone dimandato loro consiglio, prima che si venga a
le armi e che sia pruovata la causa per giusta, cioè quando gli inimici di quelli facendo correrie
abbino condotto via il bottino, et essendogli stato ridomandato, non l'abbino voluto
rendere; ma fanno guerra più atroce quando i loro mercanti sono maltrattati o calunniati
ingiustamente apo le altre nazioni. Tale fu la guerra che fecero poco avanti la nostra memoria
per Nefelogiti contra Alaopoliti, i quai avendo maltrattato i mercanti de' Nefelogiti sotto
colore di osservare le lor leggi, furono con la guerra sanguinosa però d'ambe le parti di
maniera afflitti, che, multiplicando le calamità, caddero in servitù de' Nefelogiti, perché gli
Utopiensi combatterono per Nefelogiti e non per propio interesse. Così gli Utopiensi fanno
atroce vendetta de le ingiurie fatte agli amici anco nei denari, ma non così fieramente
vendicano le propie, perché, se gli uomini loro per qualche inganno perdono i loro beni, pur
che non sia lor fatto violenza nei corpi, si contentano che si satisfaccia al danno, e non più
tengono comercio di quella gente. Non però che meno curino i loro cittadini che i loro
confederati, ma perché i mercanti di quelli, essendo ingannati, perdeno del propio avere,
laonde senteno maggior danno. Ma i cittadini utopiensi altro non possono perdere che dei beni
de la republica, i quai si mandano ad altri paesi quando avanzano loro, e indi quasi niuno sente
di questo danno. Perciò reputano che sia una crudeltà voler punir con morte di molti quel danno
dal quale niuno senta incommodo nel vivere o ne la vita. Ma s'alcuno dei loro cittadini viene
ferito o morto ingiuriosamente, sia fatto per consiglio publico o privato, mandano ambasciatori a
dimandare i colpevoli, e non essendo loro dati, muovono guerra contra quel popolo. I colpevoli,
che gli sono dati, overo uccidono, o tengono per servi.
Si vergognano e pentono de la vittoria sanguinosa, parendo loro d'aver comperato
troppo caro le mercatanzie, ancora che fusseno di gran prezzo. Si gloriano d'aver vinto i
nimici con arte o con inganno; di questo trionfano pomposamente e ne rizzano un trofeo.
E allora si vantano arditamente, quando hanno vinto con quella industria con la quale
l'uomo solamente può vincere, cioè con le forze de l'ingegno, e questo reputano una egregia
virtù. Dicono elli: i leoni, gli orsi, i lupi, i cingiali, i cani e le altre bestie combattono con le forze
del corpo, ma sì come assai di quelle ci vincono per valore e ferocità corporale, così noi le
superiamo tutte con l'ingegno e con la ragione. Nel loro guerreggiare mirano di ottenire
quella cosa per cagion de la quale hanno mosso guerra; ma s'alcuno gli resiste, ne fanno
così atroce vendetta, che gli altri per l'avenir non ardiscono da contraporsi a loro. A queste
20
cose mirano elli prencipalmente e in fretta ne vengono a l'effetto, avendo però l'occhio
prencipalmente più tosto a schivare il pericolo che di farsi gloriosi. Perciò, intimata la guerra,
fanno porre segretamente molti scritti col bollo publico nei luochi più frequenti de' nimici,
facendo intendere come promettono gran premio a chi amazza il prencipe, e minore poi per
la testa degli altri che proscrivono, e sono questi i consiglieri, i quai dopo ' prencipe sono autori
de la guerra. Ma danno dopio premio a chi presenta vivi quei ch'hanno proscritto, e anco
invitano con larghi premii gli istessi proscritti in andare contra i loro popoli e perdonano
a quelli ogni passato fallo. Così l'inimici in breve tempo hanno sospetto di tutti gli uomini, né si
fidano tra loro medesimi, laonde si truovano in gran pericolo e timore. Et è più volte avenuto
che buona parte di loro, e tra questi il prencipe, siano stati traditi da coloro nei quai aveano
maggior speranza. Tanto facilmente sono spinti ad ogni sceleragine gli uomini con i doni, i quai
sono dati dagli Utopiensi in questi casi senza misura alcuna; ma considerando a quanto pericolo li
confortano, studiano di ricompensare con la copia dei beneficii la grandezza del pericolo. Perciò
promettono, e attendono poi con effetto, non solamente gran somma d'oro, ma eziandio
grandi rendite in luochi securi apo gli amici. Questa foggia di apprezzare e mercare il nimico,
biasimato apo le altre nazioni, e riputato di animo vile e crudele, apo loro è tenuta per gloriosa
impresa, riputandosi in questo prudenti, che forniscano guerre grandissime senza venire a
conflitto, e pietosi, perché con la morte di pochi salvano la vita di molti, che morirebbono
nel fatto d'arme, parte dei suoi, parte dei nimici, dei quali hanno quasi tanta pietà come dei
loro propii, sapendo che non vengono a la guerra spontaneamente, ma spinti dal furore dei
loro prencipi.
Se questo non gli riesce, seminano e nodriscono discordie tra' nimici, dando
speranza di ottenere il regno al fratello del prencipe o a qualcuno che vi possa aspirare.
Quando non vagliono queste sedizioni, eccitano i popoli vicini a guerregiare contra i nimici
con mostrare loro qualche ragione che abbino nel paese di quelli e, promettendo di favorirli ne
la guerra, gli danno denari copiosamente. Ma di raro vi mandano i lor cittadini, i quai tengono
tanto cari, che non ne cangierebbono uno col prencipe de la parte nimica. Ma danno l'oro e
l'argento più facilmente, perché lo conservano a questo effetto, perché non viverebbono meno
commodamente, ancora che lo dispensasseno tutto. E anco, oltre le ricchezze che tengono in
casa, hanno infinito tesoro che gli debbono molte nazioni. Mandano a la guerra soldati di altra
nazione, e specialmente dei Zapoleti. Questo popolo è luntano da l'Utopia cinquanta miglia
verso oriente, orrido, rusticano e feroce, il quale abita le selve, dove ancora è nodrito.
Questa è gente dura, atta a patire il freddo, il caldo e la fatica, senza alcuna delicatezza; non
si da a l'agricoltura, né studia come si vesta o fabrichi; solamente governa gli animali e
vive di cacciagione e di rapina. Sono nati solamente a guerreggiare, e cercano la guerra
studiosamente, offerendosi per vii prezzo a chi li ricerca. Hanno per sostentamento de la
loro vita questa sola arte, con la quale si cerca la morte, ma servono fedelissimamente e
virilmente a chi li sòldano; si obligano sin ad un certo giorno, con patto che, passato quel
giorno, possino andare al soldo del nimico; tuttavia ritornano con poco maggior prezzo. Si
fanno poche guerre che non vi sia di questo popolo d'amendue le parti. Così aviene che i
parenti e gli amici soldati da questa e da quella parte sono condotti a stipendio [e] concorrano
insieme a mortale uccisione, scordandosi de l'amicizia e del parentato, solamente mossi da
questa occasione: che sono stipendiati da la parte contraria con poco soldo, al quale tanto
mirano che, potendo aver un denaro di più al giorno, passano a la parte nimica. Tanto sono
immersi ne l'avarizia! La quale però non giova punto a quelli, perché consumano a viver
lussuriosamente in breve tempo quanto hanno acquistato col sangue. Questo popolo serve ne
la guerra agli Utopiensi contra ogni mortale, perché li danno maggior stipendio che
qualunque altro. Sì come gli Utopiensi cercano gli uomini da bene per accommodarsene, così
pigliano gli uomini malvagi per servirsene a la guerra, e quando fa mestieri con gran promesse
gli spingono a gran pericoli, laonde spesse volte una gran parte di loro non torna a dimandar
le promesse. Tuttavia gli Utopiensi attendono fìdelmente ogni loro promessa a quelli che
21
rimangono vivi per accenderli a simili imprese. Né si pigliano cura se ne muoiono gran
numero, parendo loro di giovare a la natura umana, se potesseno purgare il mondo di quella
feccia d'un popolo tanto scelerato e malvagio.
Dopo questi, mandano le squadre di quei popoli per i quai combatteno, e dietro a
questi la gente degli amici che porge loro agiuto. Finalmente v'aggiongono i loro cittadini, dei
quali uno che sia per virtù illustre fanno di tutto lo esercito capitano. A costui sostituiscono due,
i quai, vivendo prosperamente il capitano, siano uomini privati, ma, morto lui o rimanendo
prigione, uno di loro gli succede come per eredità, e così il terzo per simile modo, acciò che,
pericolando il capitano (come aviene in la guerra), non si turbi tutto lo esercito. Di ogni città
si esercitano i soldati che spontaneamente vogliono militare, perché niuno è mandato fuori
a la guerra mal suo grado, avendo per cosa certa che l'uomo timido, oltre che non si
porterà virilmente, darà timore agli altri. Ma avendo guerra contra la patria, mettono ne le
navi quei che sono timidi, pur che siano di corpo gagliardi, e li mescolano con uomini arditi e
valorosi, overo su la muraglia, in guisa che non possino fuggire. Così la vergogna dei suoi,
l'aver l'inimico a fronte e il non poter fuggire, fa che vincono il timore, e la estrema necessità
spesse volte si muta in virtù.
E sì come niuno è tratto a guerra esterna contra sua voglia, così confortano e con
laudi incitano le mogli a seguire i mariti a la guerra, e nel conflitto pongono le mogli che
sono ne l'esercito vicino ai mariti, e d'intorno i figliuoli e altri loro prossimi, i quai sono
mossi da la natura a porgersi agiuto insieme. Il marito che torna senza la moglie è biasimato,
così il figliuolo perduto il padre; indi aviene che, se non fugge il nimico, si combatte sin a
l'esterminio. Perché, sì come schivano quanto possono di fare fatto d'arme e conducono a
questo effetto soldati forastieri, così, quando sono astretti di combattere, vi vanno tanto
arditamente, quanto prima hanno schivato di andarvi. Non s'infuriano da prencipio, ma a
poco a poco pigliano vigore, con animo fermo di morire più tosto che dare le spalle. Quella
securezza de le cose al vivere necessarie, senza l'affanno dei loro descendenti (il che in ogni
luoco indebolisce gli animi generosi) fa gli Utopiensi d'animo altiero e che si sdegna di esser
vinto. Si fidano ancora ne la perizia ch'hanno ne la guerra, e anco le dritte opinioni [e]
buoni istituti de la republica, ch'hanno imparato da la fanciullezza, gli aumentano la virtù, con
la quale non tanto sprezzano la vita che la gittino, né tanto l'hanno cara che, richiedendolo
onesta causa di esporla a la morte, se la vogliono avaramente e con biasimo conservare.
Essendo più fiero il fatto d'arme, alquanti giovani congiurati attendono ad uccidere il
prencipe nimico, ora a faccia aperta, ora con inganno dì luntano, e da presso con lunga e
continuata squadra; e di raro aviene (se non fugge) che non rimanga morto o prigione. Se sono
vittoriosi, non attendono ad uccidere inimici che fuggono, ma più tosto li pigliano. Né mai
perseguitano tanto il nimico; tengono una squadra in ordinanza; e più tosto lasciano
fuggire il nimico, che guastare i suoi ordini, avendo memoria che molte fiate, essendo rotto
il campo nimico, i vittoriosi, spargendosi qua e là e lasciando pochi per retroguarda,
hanno dato occasione al nimico di farsi di vinto vittorioso.
Non saprei narrare se siano più astuti a disporre le insidie o più accorti a
schivarle. A le volte penserai che fugano, quando sono più ostinati di non fuggire, né si può
con segno alcuno indovinare quando da dovero si dispongono di fuggire. Perché, sentendosi in
disvantagio nel numero o per sito del luogo, si lievano di notte tacitamente o fingono qualche
astuzia, overo di giorno si parteno, ma con tal ordine che non è minore il pericolo assalirli
quando se ne vanno, che quando stanno fermi. Fortificano i loro allogiamenti con larga e
profonda fossa, né si servono in questo dei vili servi, anz'i soldati a lor mano la cavano,
gittando la terra dentro, eccetto quei che per ogni sùbito caso stanno armati a la guardia.
Così, adoperandovisi tanto numero, fortificano gran campo in pochissimo tempo. Usano
arme a pigliare i colpi ferme e non inette da portare e muovere, in tanto che non gli
impacciano nuotando, perché tra gli ammaestramenti de la milizia si avezzano a nuotare
armati. Per arme di luntano usano le saette, e sono a lanciar quelle ove dissegnano gagliardi e
22
sperti, non solamente i pedoni, ma eziandio i cavallieri. Da presso non usano spade, ma accette
che tagliano e pungono accutissimamente e col peso ancora sono mortali. Fanno certe
machine, le quali tengono nascoste finché fa mestiero di usarle, perché non siano dagli altri
schernite, e mirano specialmente a farle che agevolmente si possino condure e girare come
porta il bisogno.
Osservano le tregue tanto santamente che, essendo ancora ingiuriati, non le violano. Non
saccheggiano il paese nimico, né ardono le biade, anzi a lor potere non le lasciano
calpestare da' pedoni né da' cavallieri, facendo presupposto che crescano per loro. Non
uccidono alcuno disarmato, se non è qualche spia. Difendono le città che se gli rendono
e non saccheggiano quelle che pigliano a forza, ma uccidono solamente quei che non
lasciavano rendere la città, e gli altri che la difendeano fanno servi. Ma non offendono la
turba inetta a guerreggiare. Danno parte dei beni dei dannati a coloro che persuadevano
che la città si rendesse, e il rimanente, che si vende il bottino, donano ai compagni venuti
loro in agiuto. Niuno di loro piglia cosa alcuna del bottino. Finita la guerra, non pigliano
dagli amici quello che v'hanno speso, ma da quei che sono vinti per questa causa riscuotono
parte denari, parte si appropiano alcuni terreni, dei quali i popoli vinti gli pagano
ogn'anno certe rendite, le quai sono cresciute in tal guisa che ne pigliano ogn'anno più di
settecentomila ducati. Mandano in questi luochi alcuni lor cittadini per camerlenghi, acciò
che vivano magnificamente e vi stiano come nobili. Tuttavia se ne riporta buona somma ne
l'erario, overo gli prestano a quei popoli, né li riscuotono se non quando lo ricerca il bisogno, e
di raro riscutono tutta la somma. Di questi campi assegnano parte a quei che fanno per loro
qualche pericolosa impresa, com'è sopra detto. S'alcuno prencipe apparecchia di assalire
con arme il loro paese, con grande esercito li vanno subito contra fuori dei loro confini per
non guerreggiare nel propio paese; né mai vengono a tanta necessità, che accettino ne l'isola
agiuto alcuno dagli amici.
De le religioni degli Utopiensi.
Sono varie le religioni, non solo per l'isola, ma per le città ancora. Altri onorano il
Sole, altri la Luna, altri alcuna de le stelle erranti. Alcuni onorano per sommo dio
qualche uomo che sia stato egregio per virtù. Ma la maggior parte, i più prudenti dico,
non adora alcuna di queste cose, ma pensa che vi sia una occulta, eterna, immensa e
inesplicabile divinità, sopra ogni capacità umana, la quale con la virtù, non con la grandezza, si
stenda per questo mondo, e questo Dio chiamano padre. Da lui riconoscono l'origine,
l'aumento, i mutamenti e il fine di tutte le cose e a lui solo danno i divini onori. Gli altri
tutti, benché adorino cose diverse, in questo parere concorrono, che vi sia un sommo Dio,
il quale abbia creato il tutto e con sua prudenza lo conservi, e chiamatilo in loro linguaggio
Mytra. Ma discordano in questo: che uno afferma che questo sommo Dio sia una cosa e
alcuno un'altra. Affermano, però, che quel sommo, il qual tengono per Dio, ha il governo
del tutto. Ma tutti a poco a poco si scostano da la varietà de le soperstizioni e concorrono
in quella religione che con più ragioni et evidenze si pruova. E già sarebbono tutti di una
religione, se non che ogni disgrazia che loro accade nel mutare la religione si pensano che
gli sia mandata dal Cielo per castigo e che quel Dio, il quale vogliono abbandonare, si
vendichi di questa loro empia intenzione.
Ma poi ch'io gli predicai il nome di Cristo, la dottrina di quello, i miracoli e la costanza
di tanti santi martiri, che spontaneamente volsero spargere il sangue, e come tante nazioni si
sono a lui convertite, mirabilmente vi s'inchinarono, ovcr per divina ispirazione, overo che
parve loro questa via molto simile a la loro relig[i]one, e valse questo assai perch'avevano
compreso che la foggia del loro vivere piaceva a Cristo e che i veri cristiani avevano
monasteri molto simili ai loro istituti. Ma sia avenuto per qual causa si voglia, molti si
convcrtirono a la fede cristiana e volsero esser battegiati. Ma di noi quatto, che ivi eravamo,
23
niuno era sacerdote, perché due erano morti. Tuttavia quei popoli ancora desiderano avere quei
sagramenti che s'appertengono di ministrare solamente ai sacerdoti; e disputano tra loro sovente
se sia lecito senza commissione del pontefice eleggere sacerdote uno di loro; e stavano per
eleggerlo, ma non ancora l'avevano eletto, quando io mi parti[i] da loro. Quei che ancora non
hanno appreso la fede cristiana, non biasimano chi la crede. Se non che uno di nuovo
battezzato cominciò ardentemente (quantunque io lo ammoniva che tacesse) a commendare
la fede cristiana e dannare ogni altra setta, chiamando empii coloro che adoravano altro che
la santissima Trinità e degni del fuoco eterno. Costui fu preso non già come violatore de la
religione, ma come colui ch'aveva levato nel popolo tumulto, allegando gli antichissimi loro
istituti che ognuno possi tenere qual religione più gli piace.
Gli Utopiensi, avendo inteso che i primi abitatori di quella regione esser stati cerca
la religione di pareri diversi e considerando che queste varie sette, combattendo tra loro per
la religione, gli aveano dato occasione di vincerli tutti, fecero un editto che ognuno potesse
tenere quella religione qual più gli aggradiva a l'animo, e s'alcuno bramava di tirare l'altro
ne la sua religione, poteva con modestia e ragioni studiare a persuaderlo, ma non usare in
questo alcuna violenza o ingiuria; e chi contendeva di questo importunamente era punito con
l'esilio o con servitù. Fecero gli Utopiensi tale statuto non solamente per rispetto di
conservare la pace, la quale con la contenzione e con l'odio si estingue, ma eziandio
pensando che piacesse a Dio il culto vario e diverso e che perciò ispirasse varii riti a
questo e a quello. Ma giudicarono che non fusse convenevole voler con forza e minacce sforzare
alcuno a credere quello che tu credi per vero. E quantunque una di quelle loro religioni
fusse vera, tuttavia volseno che fusseno persuasi i loro cittadini a quella con modestia,
sperando che la verità, quando che sia, debbia rimaner vittoriosa; e che, contendendosi con
arme, gli uomini ostinati puotrebbono con le loro vane superstizioni oppriinere la vera
religione, come avienc che i frutti vengono affogati da le spine. Così, da tai ragioni mossi,
lasciarono libero ad ognuno di credere quello che più gli piaceva. Solamente vietarono che
niuno affermasse le anime morire con i corpi e che il mondo fussc governato a caso, senza
previdenza divina, laonde volevano che dopo questa vita fussero puniti i vizii e premiate
le virtù. Quei che negavano tai cose erano tenuti peggio che bestie, volendo assimigliarc l'anima
umana a le pecore; ma ne anco lo riputavano loro cittadino, come colui il quale (non
essendo da timore raffrenato) sprezzerebbe ogni buono costume e istituto. Et è da credere
che costui contrafaccia di nascosto a le leggi o studii di annullarle per servire al suo
appettito, non avendole in riverenza né sperando o temendo cosa alcuna dopo questa vita.
A chi tiene tale opinione non danno onore alcuno né magistrato; così è lasciato da parte,
come uomo inetto e da poco. Non però viene punito, dandosi a credere che non sia in potere
di alcuno credere quello che gli piace. Non lo sforzano con minacce che tenghi secreto il suo
parere, fingendo di credere come gli altri; gli vietano però il disputare di questa opinione,
specialmente apo il volgo. Ma confortano gli uomini di gravita e i sacerdoti che ne ragionino,
sperando che tale pazzia debbia esser vinta da la ragione. Altri in gran numero tengono che le
anime ancora de le bestie siano immortali, ma de le nostre men degne e non ad uguale
felicità nasciute. Tanto sono persuasi de l'immensa felicità de le anime nostre, che piangono gli
infermi e non i morti, se non quei che veggono mal volontieri lasciar questa vita. E questo
hanno per cattivo augurio, come se l'anima, senza speranza di bene alcuno, spaventata da la
propia conscienza, temesse il sopplicio. E pensano che non piaccia a Dio l'andare di colui il
quale non corre volontieri quando è chiamato, ma sta ritroso. Se veggono alcuno morire
in questa guisa, se ne smanscono e lo portano a sepelire tacitamente, e pregano Dio che
perdoni a la sua dapocagine. Niuno piange quei che muoiono lietamente e con buona
speranza, anzi, seguendo le essequie ca[n]tando, ricomandano affettuosamente le anime di quelli a
Dio; ardeno i corpi con riverenza più tosto che con ramarico. Rizzano una colonna ove sono
scolpite le lodi del defonto e, tornati a casa, ricontano i costumi e la vita di quello e
specialmente commendano la sua morte. Tengono che tale commemorazione di bontà sia a' vivi
24
uno stimolo a la virtù e gratissimo culto ai defonti, dandosi a credere che i morti
invisibilmente si truovmo presenti a simili parlari. Perché non sarebbono felici, quando non
potesseno andare ove piace loro, e sarebbono ingrati se non bramasseno di rivedere i suoi amici,
con i quali erano uniti con rispondente carità, la quale, essendo uomini da bene, più tosto debbe
essere accresciuta che scemata. Credono, adunque, che i morti pratichino tra' vivi, mirando
quanto si fa e dice; perciò si metteno arditamente a le imprese, fidandosi di tali agiuti; e
portando onore a la presenza dei loro maggiori, si guardano da commettere cosa disonesta
anche segretamente.
Sprezzano gli augurii e le altre superstizioni d'indovinare, le quai sono apo le altre
nazioni tanto riputate. Onorano quei miracoli che vengono senza agiuto alcuno di natura
come testimoni de la divina presenza, e ne le gran cose con publiche supplicazioni
studiano a placare Dio. Pensano che contemplare le cose di natura sia un culto a Dio
gratissimo. Molti ancora, mossi da religione, sprezzano le lettere, non si danno a
contemplare cosa alcuna, ma solamente pensano di acquistare la felicità perpetua con
buone operazioni. Così servono agli infermi, altri riconciano le vie, altri purgano le fosse,
altri rifanno i ponti, cavano sabbia e pietre, conducono ne le città legne e frutti, altri
tagliano alberi e li segano; e come fossero servi si pongono volontieri ad ogni impresa
difficile, strana o sozza, la quale dagli altri per la fatica o per fastidio è lasciata. Faticano
continuamente perché gli altri riposino, non biasimando, però, alcuno che viva altrimenti.
Questi, quanto più si portano da servi, tanto vengono dagli altri più onorati. Ma sono di
due sorti: alcuni vivono casti e non mangiano carni; altri al tutto non mangiano di animale
alcuno e lasciano da parte ogni diletto carnale con speranza de la vita futura, e sono sani
e prosperosi. L'altra sorte di questi, data parimente a le fatiche, si marita per esseguir
l'opera de la natura e generare figliuoli a la republica. Non fuggono quei sollazzi che non li
ritirino da la fatica. Mangiano carni d'animali di quatro piedi, dandosi a credere che con quel
cibo si mantenghino più robusti a le fatiche. Utopiani tengono questi per più prudenti e quei
per più santi. Ma quando più apprezzano il celibato ch'il matrimonio e la vita austera che la
deliziosa, li beffano; nondimeno, dicendo che sono mossi a questo da religione, gli onorano,
perché si guardano sommamente di non dannare la religione di alcuno. Elli chiamano questi
tai «butreschi», che apo noi significa religiosi.
Hanno sacerdoti di vita santissima, ma solamente tredeci per ogni città, secondo '
numero dei tempii. Ma quando vanno a la guerra ne conducono seco sette di quelli e ne
creano altri sette in luoco loro, fin che si torna da la guerra, e alora gli ultimi accompagnano
il pontefice, sin che per morte dei primi succedono al sacerdozio. Sono eletti dal popolo, come
i magistrati, segretamente, acciò che non nascano odii tra loro, e dal loro collegio vengono
sagrati. Questi sono preposti ai divini misteri. Hanno cura de le religioni, sono giudici dei
costumi et è biasimato colui che sia ripreso da quelli. Sì come è loro ufficio ammonire i
malfattori, così ai magistrati conviensi di castigarli. Solamente scommunicano gli ostinati, il
che è apo loro sommamente biasimevole e tenuto per greve sopplicio, perché temono l'infamia
e la religione, oltre che non sono sicuri del corpo, perché, se tardano a pentirsi e satisfare ai
sacerdoti, sono puniti dai magistrati. Questi sacerdoti ammaestrano i fanciulli, avendo maggior
cura a formarli ne le lettere che nei buoni costumi. E pongono ogni studio che imparino
buone opinioni e piglino desiderio di esser utili a la republica, acciò che gli animi giovenili
in questo formati ne l'età virile siano disposti a mantenere lo stato de la republica, il quale
solamente vien meno per i vizii che nascono da sinistre opinioni.
Danno ai sacerdoti elettissime mogli del popolo loro; fanno sacerdotesse ancora le
femine, ma di raro se non sono vedove o di età matura. Sono più onorati i sacerdoti apo gli
Utopiensi che qualunque magistrato, e se commettono qualche rea opera, non vengono puniti
d'alcuno, ma lasciati al divino giudicio e a la propia conscienza, perché non par loro giusta
cosa di toccare con mano mortale colui che è a Dio sagro. Questo costume possono osservare
agevolmente, perché eleggono sacerdoti quei che sono di ottima vita, i quai de raro cadcno
25
nei vizii, vedendosi con tanto favore eletti perché osservino la virtù. E se pure aviene
che pecchino, come avien ne l'umana natura, tuttavia, perché sono pochi e senza potestà
alcuna, non si teme che possino a modo alcuno infestare la republica. E ne fanno pochi,
acciò che sia tale dignità più ragguardevole e perché tengono che sia diffidi cosa truovare
gran numero de buoni che possino esser di tale dignità degni.
Questi e dai loro popoli e dagli stranieri sono molto onorati, il che per mio aviso è
causato da questo: che facendosi il fatto d'arme, elli, separati dagli altri, stanno in
ginocchione vestiti con i sagri abiti; e con le mani al cielo levate, pregano prima per la
pace e poi per la vittoria al loro popolo, senza spargimento di sangue d'amendue le parti.
Vincendo i suoi, corrono ne le squadre, vietando l'uccisione degli sconfitti, né alcuno gli offende:
tanta riverenza portano a quelli, che non tocherebbono le vesti. Perciò sono in tanta
venerazione apo le esterne nazioni, ancora che molte fiate hanno salvato non meno i nimici
da le mani dei cittadini, che questi da le mani de' nimici. A le volte è avenuto ch'essendo
sconfitto il campo loro e mettendosi il nimico a saccheggiare, sopravenendo i sacerdoti, è stata
raffrenata l'uccisione e fatta la pace con onesti partiti. Non mai è stata gente alcuna tanto
feroce e cruda, la quale non abbia onorato il corpo di quelli come sagrosanto e inviolabile.
Celebrano solennemente il primo e l'ultimo del mese, e parimente de l'anno, il quale
dividono secondo il corso de la Luna. I primi giorni chiamano «cinemerni» e gli ultimi
«trapemerni», cioè prime feste, ultime feste.
Hanno egregii tempii non molto lavorati, il che non era loro necessario, essendo
pochi, ma ben capaci; sono alquanto scuri, per consiglio dei sacerdoti, perché la molta luce
distrae i pensieri nostri e la mediocre li raccoglie e fa l'uomo a la religione più dedito.
Benché siano di varie forme, nondimeno tutti sono a la religione accommodati quasi ad una
commune foggia. Li sacrificii particolari di ciascuna setta sono tenuti ne le case particolare.
Fanno con tale ordine i publichi sacrificii, che non aviliscono i privati e particolari. Così non
tengono nei tempii alcuna imagine dei dèi, acciò che possa ognuno liberamente imaginarsi
Dio in qual forma più gli piace. Chiamano Dio solamente per questo nome: Mytra; e tutti
per questa voce intendono la natura de la divina Maestà. Non si fanno orazioni, le quai non si
possino prononciarc senza offendere le altre sette.
Concorrono al tempio ne le ultime feste, al vespro e diggiuni, per rendere grazie a
Dio d'aver passato quel mese prosperamente; il giorno seguente, ch'è la prima festa, la
mattina concorrono al tempo a sopplicare felice successo per il seguente mese. Ne l'ultime
feste, prima che si vada al tempio, le mogli ai mariti, i figliuoli ai padri, si mettono in
ginocchione, chiedendo perdono di ogni mancamento. Così ogn'odio nascosto o dispiacere
nasciuto tra loro si estingue, e si truovano ai sacrificii con animo candido e puro, perché
temono di andare ai sacrificii non avendo l'animo da ogni odio e ira purgato.
I maschi vanno a la destra parte del tempio e le femine a la sinistra, e ogni padre e
madre di famiglia si mette innanti a tutti i suoi per vedere i gesti di coloro ch'hanno in
governo e potergli correggere di ogni errore che commettessero. Attendono che i giovani
stiano vicini ai vecchi, acciò che non si diano a cose puerili se stanno tra fanciulli o
garzoni, parendo loro che in quel tempo debbano, col levare la mente a Dio, esser incitati a la
virtù. Non sacrificano animali, dandosi a credere che la divina clemenza non si plachi con
sangue o uccisioni, avendo quella dato la vita agli animali perché vivano. Ardono incenso
e altre cose odorifere, portano assai torchi, non già che non tengano per certo come tai cose
niente vagliono a placare la divina natura, né anco le orazioni degli uomini, ma piace loro
questo culto senza nocumento alcuno; e con tali odori e lumi si sentono muovere a devozione
verso Iddio e doventare più pronti ad onorarlo. Il popolo nel tempio si veste di bianco e i
sacerdoti de varii colori, ma non di preciosa materia, perché sono quelle vesti quasi ricamate
non di pietre preziose, ma di varie penne de uccelli, in tal modo con ordine disposte, che l'opera
oltre ogni stima più assai vale che la materia. Dicono ancora che in quel variare di penne
che si vede in le vesti dei sacerdoti sono compresi alcuni secreti misteri, la interpretazione dei
26
quali, imparata dai sacerdoti che diligentemente la insegnano, fa loro comprendere i divini
bcneficii che ricevono e quale pietà debbano usare verso Dio e il prossimo.
Quando il sacerdote ornato esce del santuario, tutti si piegano con la faccia in terra
con tanto silenzio che muove agli animi timore, come se Dio fusse presente. Poi che sono
stati alquanto in terra, ad un segno del sacerdote si lievano e cantano a Dio laude con
musicali istromenti di forma assai differenti da quelli che si veggono apo noi, ma nel
suono alcuni più, alcuni meno soavi che i nostri. Ma ci vincono di gran lunga in questo:
ch'ogni lor musica, o con organi o con voce umana, imita et esprime gli affetti naturali, e
accommodasi il suono a la materia; sia orazione supplicatoria, lieta, placabile, turbata, lugubre o
sdegnata, la melodia rappresenta in tal guisa il sentimento di questa tal cosa, che gli
animi di tutti sono a quella disposti e accesi. In fine dei sacrificii, tutti ad una voce dicono
certe parole col sacerdote, le quai, benché siano dette in commune, ognuno può applicare a sé
medesimo. In queste riconoscono Iddio autore de la creazione e del governo e di tutti gli
altri beni, e di tanti beneficii gli rendono grazie, ma particolarmente che sian nati in
republica felicissima e abbino religione a loro parere d'ogn'altra più vera. E se pigliano errore
in questo, che ispiri loro la miglior via, offerendosi pronti a seguirla. Ma la republica loro
è ottima e la religione verissima; e che dia loro costanza a perseverare in quella e
conduca tutti gli uomini a quella foggia di ben vivere e in quel parere cerca la religione,
se però non si diletta più di questa varietà di religione per la sua inscrutabile sapienza.
Sopplicano poi che li ricevi a sé dopo la morte, che non sia crudele, né strana. Fatta
quest'orazione, da nuovo si piegano in terra, e poco appresso levati, vanno a mangiare. Il
rimanente del giorno consumano in giuochi et esercizii militari.
Hovvi descritto quanto più veracemente mi è stato possibile la forma di quella
republica, la quale non solamente giudico ottima, ma eziandio sola la quale possi con ragione
esser chiamata republica. Perché altruove si ragiona veramente del publico commodo, ma si
attende al particolare. In questa da dovero si mira al ben publico, lasciando al tutto da
parte ogni propio utile. Chi è ne le altre republiche, ancor che siano fiorite e prospere, il
quale non si tema di morirsi per fame se non procura più tosto a' suoi privati commodi che al
publico bene? E anco la necessità ne le altre republiche strigne l'uomo a far questo. In
questa, ove ogni cosa è commune, niuno teme di patire, pur che siano pieni i granari
publichi. Perché ivi non si distribuisce con malvagità, né vi è alcuno povero, e quantunque
niuno posseda in particolare, tutti sono nel publico ricchi, perché veramente, non avendo
pensieri cerca l'acquistare particolarmente, menano lieta vita con tranquillo animo. Non stanno
in affanno del loro vivere, non sono con dimande continue da le mogli travagliati, non temono
che i figliuoli impoveriscano, né di indotare la figliuola stanno in pensiero. Anzi, sono securi
del vivere felice de' figliuoli, nipoti e d'ogni lor descendente e anco di loro stessi, perché
parimente si provede a chi non può più lavorare come a quei che lavorano.
Ardirà alcuno di comparare la equità di altre genti, le quai a mio parere non ne
tengono ombra alcuna, con la equità di questa republica? Che equità è questa, eh'un nobile,
overo orefice, o usuraro, o pure qualunque altro, che non opera cosa alcuna, overo che ogni
suo fatto è poco necessario a la republica, si acquisti il vivere delicato e splendido, quando
che un servo, un lavoratore de' campi, un fabro, un carretieri con tanta fatica dì e notte, che
non la patirebbono i buoi, si guadagna parcamente il vivere, quasi peggiore che quello
degli animali, che non faticano tanto assiduamente, né stanno in timore de le cose a venire?
Ma questi sono afflitti da la poco fruttuosa fatica, e ricordandosi de la povertà, ch'aspettano in
vecchiezza, restano vinti dal dolore, vedendo che, non potendo tanto guadagnare che basti loro
di giorno in giorno, perdono ogni speranza di riporre cosa alcuna per la vecchiezza. Non è
ingiusta questa republica e ingrata, la quale da liberamente tanti doni ai nobili, agli ociosi, ad
artefici de vani diletti e agli adulatori, e non provede a' lavoratori di terreno, a'
carbonarii, a' servi, a' carrettieri e a' fabri, senza i quali non può stare alcuna republica;
anzi, avendosi de le loro fatiche servito mentre che erano giovani, poi che invecchiano, li lascia
27
di disaggio morire in estrema povertà! Che dirò, che i ricchi pigliano ancora del salario diurno dei
poveri non solamente con violenza o fraude, ma con publiche leggi?
Considerando adunque tutte le republiche che ora fioriscono, così mi ami Dio che
non veggo altro che una congiura de ricchi, la qual, tratta dai propii commodi, sotto nome di
repu[b]lica ricercano ogni modo e arte con la quale possino fare grandi acquisti e tenerseli senza
timore, dipoi come possino con piccioli salarii aver le fatiche de' poveri e servirsene a lor
voglia. Questi truovamenti de' ricchi, sotto colore di republica, do ventano leggi! Tuttavia
questi pessimi uomini, poi ch'hanno con insaziabile appetito diviso tra loro quello che a tutti
dovea bastare, sono degli Utopiensi inferiori quanto a la felicità de la republica loro, da la
quale essendo levata via la cupidigia del denaro, quante molestie e sceleragini sono da quella
rimosse! Chi non sa quante fraudi, rapine, risse, tumulti, contenzioni, sedizioni, uccisioni,
tradimenti, incantesimi, puniti più tosto che raffrenati con i sopplicii, col sprezzare i denari se ne
vanno, e con questi la sollecitudine, i pensieri, fatiche e vigilie con la pecunia si portano, e
anco se ne va la povertà, la qual sola pare che sia bisognosa de denari?
E per meglio considerarla, pensati di qualche anno sterile, nel quale siano morti
per fame gli uoinini a migliaia, e truoverai che nel fine di quella carestia era tanto formento
nei granari dei ricchi, ch'arebbe nodrito quei che morirono di fame, né alcuno arebbe sentito
la sterilità di quel tempo. Così facilmente s'acquisterebbe il vivere, se il desio di accumulare
denari non impoverisse gli altri. I ricchi veramente comprendono che sarebbe migliore partito
non mancare di cose necessarie, ch'abondare di tante soverchie. E io tengo certo che overo il
rispetto del conimodo, overo l'autorità del salvator Cristo, il quale per sua sapienza e bontà
seppe e puoté consigliare quello ch'era meglio, arebbe già ridotto il mondo tutto sotto queste
leggi, se non si contrapones[s]e la superbia, la quale si tiene felice non per i propii commodi,
ma per gli incommodi altrui, delettandosi col suo pompeggiare di affligere i poveri. Questa
serpe infernale ritarda gli uomini da la vera via! Ma essendo ella oggimai radicata negli
umani petti, mi rallegro che tengano gli Utopiensi questa ottima forma di republica felicissima
e, quanto può l'umana cognizione prevedere, ancora perpetua, perch'essendo tra loro estirpati i
vizii de l'ambizione e le radici de le sette, non v'è pericolo di discordia, la qual sola basta
a rovinare le ben fortificate città. Ma, vivendo in con[c]ordia con salutiferi istituti, non puotrà
l'invidia de' vicini prìncipi, già più volte ribattuti, crollare quell'imperio.
Poi che Raffaello ebbe così detto, quantunque mi parevano esservi molte
sconvenevolezze nei costumi e leggi loro, non solo cerca il guerregiare, come ancora ne la
religione, ma specialmente che questo vivere in commune senza denari pare ch'estingua la
nobilita, la magnificenza e lo splendore, che sono per commune opinione i veri ornamenti de
la republica, tuttavia, vedendolo già stanco e temendo di non offenderlo nel riprendere
questa republica tanto affetuosamente da lui commendata, laudai il suo parlare e, presolo per
mano, lo menai a cena, dicendo che ad altro tempo potressimo de le istesse cose pensare e
ragionare. Il che piaccia a Dio che avenga.
IL FINE DEL SECONDO E ULTIMO LIBRO
28