EBP08_Pagine da SNOP 69
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il buratto grosso Quando anche Bersani era «corporativo» Giorgio Ferigo I l 9 agosto 1745, i gastaldi dell’Arte dei Sartori di Venezia fecero un’ispezione «sotto il portico di Cà Dolfin al ponte dei Bareteri, alla botega di sartor di domino Antonio Capello», dove beccarono sul fatto «domino Antonio Biliani lavorante, che tagliava con misura una velada [di] pano blu, in contrafatione delle leggi dell’Arte nostra». La contrafatione riguardava il fatto che Antonio Billiani, pur essendo solo un lavorante sarto, stava eseguendo un’operazione da maestro sarto («tagliare con misura»): secondo le regole, avrebbe potuto soltanto imbastire e cucire quel che il maestro sarto aveva già tagliato, così come il garzone sarto poteva solo bordare asole e attaccar bottoni. È questo uno degli innumerevoli processetti presenti nell’Archivio di Stato di Venezia (nei fondi Arti, Militia da Mar, Giustizia Vecchia), che riguardano la complessa vita quotidiana delle corporazioni, le diatribe dell’una contro l’altra, i conflitti tra gli iscritti a una medesima corporazione (o arte o fraglia o scola o università). Le norme della mariegola, minuziose e talvolta dementi, ma scritte in elegante calligrafia e con i capilettera adorni, non comprendevano soltanto le tappe della carriera e le mansioni professionali. Per esempio riguardavano la difesa degli associati: basti pensare alla difesa dei sarti contro la «molteplicità delle done, che lavorano di sartore, ben note come contrafacienti nelle case...; Ebrei, che fano infinità di abiti nuovi, e li vendono; e strazzaroli, che fanno il medesimo..., tutti danni rilevantissimi all’Arte nostro». come dimenticare gli standard di qualità: per esempio, i tintori «di cremese» non potevano «tenzer né di grana, né d’alchimia, ma puro cremese». Come a Venezia, le cose andavano allo stesso modo da Milano a Bruges a Manchester, da Bologna a Messina a Granada, da Udine a Berlino a Lubecca. Il sistema corporativo finì quando i «malfattori franzesi» esportarono la loro rivoluzione nelle contrade d’Europa e piantarono sulle piazze e nei broli l’Albero della Libertà (libertà che, prima di tutto, era economica e commerciale): ebbe fine dunque Trenta stemmi delle «Arti» attive nella città di Orvieto tra il XIII e il XVII secolo Corporazioni senza fine Ancora, potevano regolare il tipo di prodotto: vedi i passamaneri, che potevano produrre «cordele rasade schiette, con oro a opera e senza», ma non «le cordelle alla napolitana» né manufatti «che sia con seda et oro», oppure i tellaroli, che potevano tessere tele di lino e canapa, anche mischiate a lana, ma soltanto ai fustagneri era concesso di lavorare il «filo a bombaso, e la lana» (per i non veneti, il bombaso è il cotone). E 33 numero 69 negli anni terribili ed esaltanti tra fine Settecento e inizio Ottocento. Soltanto in Italia il sistema corporativo non è mai terminato per davvero, se il 3 luglio 2006 è stato firmato il cosiddetto “decreto Bersani”, per tentare di sciogliere qualche lacciolo corporativo e di togliere qualche zeppa antiliberale di tassinari, avvocati, bancari, farmacisti, assicuratori. Sia lode a Bersani, dunque, e Dio l’abbia in gloria. Decreto vecchio fa buon brodo Tuttavia, neanche il ministro Bersani è senza peccato. Basti ricordare il celebre articolo 3 della Legge n. 85 del 22 marzo 2001, che imponeva che a rilasciare o rinnovare la patente ai diabetici fosse uno «specialista nell’area della diabeto- logia e malattie del ricambio». Diabetologi a far patenti non se ne trovarono: da qui la caccia a preattestati da allegare, controfirme di specialisti da apporre a tergo, chiose cautelative da aggiungere in calce al modello A. Da qui, i richiami ministeriali ai riottosi (buon ultimo quello del direttore generale del dipartimento dei Trasporti terrestri del 19 dicembre 2005) e restituzioni di certificati incompleti agli utenti adirati. Ebbene, quel decreto fu proposto e firmato, tra gli altri, dal liberalizzatore Bersani, che trattava i comuni medici patentatori proprio come i gastaldi dell’Arte trattavano tre secoli fa la lavoranzìa di Antonio Billiani. E proprio in nome di un presunto standard di qualità, identico a quello che proibiva di far fustagni ai tellaroli, che magari erano in grado di produrne di ottimi, a pelo alto e a pelo basso, rasati e tempestini. La differenza è questa: un certificato di patente non è né una velada di panno blu, né un fustagno a pelo basso, ma soltanto un pezzo di carta. Non garantisce niente e nessuno, se non l’accesso al pezzo di carta successivo. Sia ben chiaro: non si contesta qui la lobby dei diabetologi per difendere quella dei medici legali o degli oculisti (che su un blog veneto hanno dato vita a un dibattito surreale a proposito di visite per patenti), ma l’esistenza stessa delle lobby mediche. Tuttavia, il buon Bersani farà presto a ravvedersi. Non serve nemmeno che scriva un decreto ad hoc, tanto meno in segreto. Il decreto c’è già, da quasi tre anni: è quello del 30 set- tembre 2003). Oppure, se preferite, da dodici anni: quello dell’8 settembre 1994. Bersani deve soltanto concertare con i suoi colleghi dei ministeri dei Trasporti e della Salute di farlo entrare finalmente in vigore. Oltre ai sediai che eludono le tasse, non bisogna colpire anche i ministeri che eludono le leggi? Molti di noi saranno onorati di obbedire agli ordini. Certo, qualche medico tirerà giù porchi, come un tassinaro a fine turno. Qualcun altro avrà l’emicrania, come un farmacista senza Saridon, oppure architetterà nuovi introiti, come un bancario in astinenza da dobloni. Ma gli italiani saranno felici di entrare finalmente nell’Europa delle patenti di guida ragionevoli. E gli italiani, com’è stato autorevolmente detto, un po’ di felicità se la meritano. il buratto grosso • numero 69