Convergenza e divergenza nell`evoluzione recente

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Convergenza e divergenza nell`evoluzione recente
Le politiche sociali in Italia nello scenario europeo
Ancona, 6-8 Novembre 2008
CONVERGENZA E DIVERGENZA
NELL’EVOLUZIONE RECENTE DEI SERVIZI SANITARI NAZIONALI.
UN CONFRONTO TRA REGNO UNITO E ITALIA
Stefano Neri*
Paper presentato alla prima conferenza annuale ESPAnet Italia 2008
Sessione: nr. 9 Le riforme della sanità tra mutamenti di policy e dinamiche di politics
(*) Dipartimento di Studi del Lavoro e del Welfare, Università degli Studi di Milano
Via Conservatorio, 7
20123 Milano
[email protected]
Indice
1. Introduzione
p. 3
2. Le relazioni tra finanziamento e produzione: concorrenza,
cooperazione o programmazione?
p. 6
2.1 L’eredità degli anni novanta
p. 6
2.2 I quasi-mercati dopo il 2000
p. 10
3. La natura dei produttori: le collaborazioni pubblico-privato
p. 17
4. I sistemi di valutazione e controllo della performance
delle strutture sanitarie e il ruolo del governo
p. 23
5. Considerazioni finali
p. 27
Riferimenti bibliografici
p. 33
2
Convergenza e divergenza nell’evoluzione recente dei servizi sanitari nazionali.
Un confronto tra Regno Unito e Italia
Stefano Neri1
Versione preliminare - Non citare senza il permesso dell’autore
1. Introduzione
A partire dalla seconda metà degli anni ottanta i sistemi sanitari europei sono stati soggetti a
ondate di riforma che hanno inciso in profondità sia sulla governance complessiva che
sull’organizzazione interna delle strutture di produzione dei servizi. Quella che è stata definita una
vera e propria “epidemia delle riforme” (Klein, 2006; Macciocco, 2008) si è tradotta, da un lato,
nell’adozione di forme di concorrenza e poi di cooperazione tra le organizzazione sanitarie che
hanno affiancato o sostituito i tradizionali strumenti di programmazione gerarchica nell’allocazione
delle risorse, dall’altro, nell’introduzione di tecniche di direzione e gestione interna ispirate al New
Public Management o “aziendalizzazione”, nei quali i meccanismi di mercato si combinano con
quelli di tipo burocratico e professionale nel coordinamento e nel controllo delle attività svolte
all’interno delle strutture di erogazione dei servizi.
Questi processi hanno interessato tutti i paesi europei, anche se presentano differenze non
irrilevanti nelle scelte specifiche compiute per l’organizzazione interna delle strutture, che riflettono
per molti versi quelle esistenti nel grado di “managerializzazione” dei servizi pubblici nelle diverse
realtà nazionali (Pollitt e Bouckaert, 2000; Dell’Aringa et al., 2001) e, forse ancor più, nelle
specifiche forme assunte dalla concorrenza nei sistemi sanitari. A questo proposito, una differenza
fondamentale riguarda i modelli di tipo bismarckiano o delle assicurazioni sociali, che hanno optato
nella maggior parte per l’introduzione di forme di competizione tra le organizzazioni di
finanziamento (cioè tra i fondi mutualistici o assicurativi, come avvenuto soprattutto in Germania,
Olanda e Svizzera) e i servizi sanitari nazionali, tutti più o meno orientati alla promozione di forme
di concorrenza e poi di cooperazione amministrata (Enthoven, 1985; Light, 1997) tra le
organizzazioni di produzione dei servizi.
1
Dipartimento Studi del Lavoro e del Welfare, Università degli Studi di Milano.
3
Negli anni novanta, inoltre, principalmente i servizi sanitari nazionali2 sono stati soggetti a
fenomeni di decentramento politico (cfr. Rondinelli, 1981; Mills, 1990) che hanno trasferito poteri e
responsabilità dal livello di governo centrale a quelli inferiori. In particolare, mentre negli anni
sessanta e settanta i fenomeni di decentramento avevano posto in primo piano il ruolo degli enti
locali (come in Danimarca, Finlandia e anche in Italia con la riforma del 1978), in questo caso essi
si sono indirizzati principalmente verso il livello di governo intermedio (le Regioni in Italia, le
Comunità Autonome in Spagna, le Contee in Svezia) o verso le “nazioni”, distinte dallo Stato
centrale, come in Gran Bretagna con la devolution concessa a Galles, Scozia nel 1997-98 e la
ricostituzione di forme di governo autonome in Irlanda del Nord, soppresse nella prima parte degli
anni settanta, contestuale al processo di pacificazione avviato nel 1998.
La diffusione generalizzata di queste tendenze, pur nelle differenze nazionali, ha messo in
evidenza la presenza di fenomeni di convergenza tra i sistemi sanitari europei, che riguardano prima
di tutto i paesi che condividono i medesimi principi di organizzazione e finanziamento
(rispettivamente assicurazioni sociali o servizi sanitari nazionali) e poi, in una certa misura,
travalicano anche i confini delle due famiglie, interessando la totalità o quasi dei due paesi (cfr.
Saltman e Figueras, 1998; Freeman, 2000).
Dopo il 2000 queste tendenze generali sono per alcuni versi proseguite, rendendo più simili i
sistemi sanitari. A questo proposito, è interessante notare soprattutto la contaminazione crescente tra
le assicurazioni sociali e i servizi sanitari nazionali, rinvenibile per esempio, nei primi, nelle riforme
orientate a rafforzare il ruolo della medicina generale, con l’introduzione di qualche forma di
gatekeeping, e della programmazione territoriale pubblica (Francia, Germania), nei secondi, nello
spazio crescente attribuito ai produttori privati e alla libertà di scelta dei pazienti, tradizionalmente
più contenuto rispetto ai modelli bismarckiani (soprattutto in Gran Bretagna e nei paesi scandinavi).
D’altro canto, emergono anche differenze considerevoli che spingono a mettere in dubbio la tesi
della convergenza e rendono più difficile trovare delle linee comuni di evoluzione nei sistemi
sanitari. Questo fenomeno sembra particolarmente evidente nei servizi sanitari nazionali, dove sotto
il profilo istituzionale si assiste ad una divaricazione molto forte i tra paesi scandinavi (soprattutto
Norvegia e Danimarca) che hanno intrapreso processi di ricentralizzazione dell’assistenza sanitaria
e ospedaliera, ed alcuni paesi mediterranei (Spagna e Italia), nei quali prosegue il decentramento in
2
Fa eccezione il Belgio, nel quale il decentramento politico del sistema sanitario si inserisce nell’ambito di una riforma
istituzionale complessiva di tipo federale molto profonda e che sembra oggi mettere in crisi la stessa sopravvivenza
dello Stato centrale. Il fatto che il decentramento politico abbia riguardato prevalentemente i servizi sanitari nazionali si
spiega con il ruolo diretto esercitato tradizionalmente dallo Stato e dal potere politico centrale sulla gestione e il
finanziamento del sistema, quanto meno in Gran Bretagna e nei paesi scandinavi. Nei sistemi ad assicurazioni sociali
l’influenza dello Stato, pur rilevante, si esprime in forma più indiretta, data la presenza delle casse mutue dal lato del
finanziamento e di enti pubblici autonomi, così come di un settore privato tradizionalmente più vasto, nella produzione
di servizi. Alcuni dei paesi sistema sanitario di tipo bismarckiano, inoltre, presentavano già un assetto complessivo dei
poteri pubblici di carattere federale, come Germania o Svizzera.
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ottica federale (Saltman, 2008). Inoltre, altre differenze significative tra i paesi del Nord-Europa
(compreso il Regno Unito) e quelli mediterranei sembrano emergere nella regolazione dei sistemi
sanitari. I primi infatti sembrano puntare di nuovo sui meccanismi di concorrenza, accompagnati da
strumenti di monitoraggio e controllo dei produttori diversi dal passato, mentre i secondi nel bene e
nel male continuano a fare affidamento su forme di cooperazione amministrata, anche se con
differenze di carattere sub-nazionale.
Per acquisire una conoscenza più approfondita sulle tendenze in atto nei diversi sistemi e
giungere ad un giudizio più ponderato sul tema della convergenza o divergenza può essere utile
partire dalla ricostruzione e analisi delle trasformazioni principali intervenute in alcuni paesi negli
anni più recenti. In tale ottica questo lavoro si propone di discutere brevemente le principali
similarità e differenze esistenti nell’evoluzione recente dei sistemi sanitari di Regno Unito e Italia.
Per il primo, tradizionale modello di riferimento di tutti i servizi sanitari nazionali, la comparazione
si è concentrata sul caso inglese, il più rilevante per dimensioni, peso politico ed economico e per
l’influenza internazionale. Per l’Italia, si è cercato di mantenere una visione di carattere generale
pur tenendo conto inevitabilmente, in qualche misura, dei fenomeni di differenziazione regionale.
La comparazione riguarda tre aspetti dell’evoluzione dell’organizzazione e della regolazione dei
due sistemi:
1) la relazione esistente tra finanziatori e produttori di prestazioni specialistiche ambulatoriali e
ospedaliere e in particolare, il ruolo giocato a questo proposito dai meccanismi di concorrenza;
2) le sperimentazioni volte a mutare la natura delle strutture di produzione pubblica, con la
creazione di forme di public-private partnerships o collaborazioni pubblico-privato;
3) lo sviluppo di sistemi di monitoraggio e controllo della performance delle strutture sanitarie, da
parte delle autorità di governo (in particolar modo da parte di quelle centrali).
Le pagine successive sono dedicate alla descrizione e all’analisi dei mutamenti intervenuti dopo
il 2000 in queste tre dimensioni dell’assetto istituzionale dei due sistemi. Nel paragrafo finale,
avanzeremo poi alcune ipotesi sulle ragioni delle similarità e soprattutto delle differenze riscontrate
nei due casi.
5
3. Le
relazioni
tra
finanziamento
e
produzione:
concorrenza,
cooperazione
o
programmazione?
Dopo il 2000 nel Regno Unito sono state introdotte importanti novità nell’assetto istituzionale e
organizzativo del NHS rispetto all’assetto definito alla fine del decennio precedente. Allo stesso
modo, vi sono stati dei cambiamenti anche in Italia, per opera delle Regioni, anche se il grado di
continuità rispetto al passato appare maggiore. Per comprendere il senso di tali innovazioni, è
necessario prima di tutto descrivere quale sia stata l’evoluzione dei due sistemi negli anni novanta,
un decennio che ha segnato senz’altro per entrambi i sistemi uno spartiacque rispetto al passato.
2.1 L’eredità degli anni novanta
Alla fine degli anni novanta l’organizzazione del National Health Service (Nhs) britannico e del
Servizio Sanitario Nazionale (Ssn) apparivano profondamente diverse rispetto a dieci anni prima. Il
finanziamento e la produzione pubblica dei servizi non erano più affidate alla medesima
organizzazione (le District Health Authorities o Dha nel Regno Unito, le Unità Sanitarie Locali o
Usl in Italia), come accadeva dalla nascita dei due servizi sanitari nazionali. Nel Regno Unito tali
funzioni erano state attribuite ad organizzazioni distinte tra loro, scorporando tutti gli ospedali e la
gran parte degli ambulatori pubblici dalle Dha e riunendoli all’interno di Trust ospedalieri o
territoriali. In Italia la separazione organizzativa era stata parziale, dato che la grande maggioranza
delle nuove Aziende Sanitarie Locali (Asl) aveva mantenuto al suo interno una parte delle strutture
di produzione, ma era risultata comunque significativa. In una Regione importante come la
Lombardia, inoltre, era stato seguito il modello britannico scorporando pressoché tutti i presidi
ospedalieri dalle Asl per costituire 29 Aziende ospedaliere (Aosp).
Anche le relazioni tra soggetti finanziatori e produttori pubblici apparivano profondamente
mutate rispetto al passato: al posto dei meccanismi di coordinamento e controllo di tipo gerarchicoburocratico prevalenti nel passato (si parlava di command-and-control systems), alla fine degli anni
novanta i rapporti tra le organizzazioni sanitarie erano improntati a combinazioni di strumenti tipici
del mercato, delle gerarchie e delle reti formate da soggetti legati da rapporti di cooperazione tra
loro (Powell, 1990). Nell’arco del decennio, inoltre, tali combinazioni erano mutate più volte e in
Italia questa variabilità è anche spaziale oltre che temporale.
Per descrivere l’evoluzione intervenuta nel corso degli anni novanta, sottolineando la natura
ibrida dei meccanismi di coordinamento e controllo utilizzati nei sistemi sanitari, Exworthy e
Powell (1991) hanno parlato, a proposito del caso inglese, di un doppio passaggio, prima, da forme
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di quasi-gerarchia (quasi-hierarchy) al quasi-mercato (quasi-market) e, poi, da questo a strutture e
relazioni vicine a quelle dei sistemi a rete (quasi-network). Per altri versi Vicarelli (2002; 2005)
riprendendo e sviluppando in senso esagonale la classica tripartizione di origine polanyiana,
utilizzata da Paci per l’analisi dei sistemi di welfare (Paci, 1982; 1989) e relativa ai principi di
integrazione dell’economia nella società (stato, mercato e comunità), individua nell’evoluzione dei
sistemi sanitari un movimento prima verso un polo autonomo che sta a metà tra quelli dello stato e
del mercato (la competizione amministrata), poi verso un altro polo che si pone tra stato e comunità
(la collaborazione amministrata). Il movimento continuerà, poi, nel decennio successivo,
indirizzandosi verso una sesta polarità che sta a metà tra comunità e mercato (la competizionecollaborazione).
I mutamenti intervenuti nell’organizzazione e nella regolazione del Nhs e del Ssn nel corso degli
anni novanta hanno visto effettivamente, nella prima parte del decennio, l’adozione di meccanismi
di concorrenza amministrata tra i produttori di servizi. Successivamente entrambi i paesi si sono
indirizzati verso lo sviluppo di forme di cooperazione amministrata o di “programmazione
negoziata”, basate sulla collaborazione, più che sulla competizione, tra le organizzazioni sanitarie
secondo il modello delle reti integrate. Gli assetti istituzionali e organizzativi dei due sistemi
tuttavia presentavano notevoli differenze.
I mercati interni (internal markets) o quasi-mercati (quasi-markets) inglesi e britannici, sono stati
creati nel 1990 dal governo Thatcher, principalmente per far fronte alla forte insoddisfazione dei
cittadini per la qualità dei servizi3. Essi si caratterizzavano per la separazione pressoché completa
tra produttori e finanziatori o acquirenti dei servizi (provider-purchaser split): un elemento, questo,
che è stato mantenuto dai laburisti, saliti al potere nel 1997, e che si è ormai consolidato fino ad
oggi. La funzione di finanziamento o di acquisto delle prestazioni poteva essere esercitata da due
tipi di soggetti: le già citate Dha, dipendenti dal Ministero della Sanità come i produttori pubblici,
oppure i medici di medicina generale (i General Practictioner o Gp). Questi infatti, in associazione
con altri Gp, potevano stipulare direttamente contratti di acquisto con i produttori, per conto dei
propri pazienti, secondo il sistema del Gp Fundholding.
Il Fundholding, che a metà del decennio arriverà ad interessare circa la metà dei pazienti inglesi,
verrà abolito nel 1997 dai laburisti, in quanto giudicato iniquo e fonte di elevati costi amministrativi
e di transazione. Esso però ha lasciato ampia traccia nel sistema, favorendo un riequilibrio di potere
tra medicina generale e specialisti ospedalieri. L’abolizione diede il via ad una complessa
trasformazione dei soggetti acquirenti culminata nel 2002 con la costituzione dei Primary Care
3
Per una trattazione dettagliata del processo che ha portato all’introduzione dei mercati interni nel Nhs, dell’esperienza
condotta negli anni novanta e della sua evoluzione si rimanda ai numerosi testi inglesi, come Mohan (2002), Webster
(2002) o Klein (2006). Nella letteratura italiana, mi si permetta di rinviare a Neri (2006), oltre a Maino (2001).
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Trust, eredi delle Dha, nei quali i medici di medicina generale e gli altri gruppi professionali
dell’assistenza primaria (come gli infermieri, i fisioterapisti o le ostetriche territoriali) hanno ampio
spazio negli organi di governo interno.
Nel sistema britannico i produttori, quasi tutti pubblici, dovevano competere per acquisire i
contratti di fornitura dei servizi da parte degli acquirenti, che acquistavano prestazioni per conto dei
pazienti. Per la remunerazione dei produttori esistevano dei costi di riferimento delle prestazioni
definiti dal Dipartimento di Sanità del Ministero, ma non si trattava di indicazioni vincolanti e vi era
ampia possibilità di variazione nelle negoziazioni locali. Il paziente poteva recarsi solo presso gli
ospedali e gli ambulatori specialistici con i quali il proprio acquirente aveva un contratto, fatto salvo
le prestazioni di emergenza e casi specifici per i quali era richiesta un’autorizzazione preventiva
concessa, con difficoltà, dalle autorità sanitarie.
Queste regole riflettevano chiaramente un’opzione favorevole alla costruzione di un assetto
istituzionale vicino al modello della concorrenza negoziale (vedi Mapelli, 1999). Il modello si fonda
sulla capacità degli acquirenti di selezionare gli erogatori in modo da ottenere prezzi e condizioni di
fornitura soddisfacenti e di controllarne efficacemente l’operato. I produttori competono più per
aggiudicarsi il contratto con gli acquirenti che per attrarre i pazienti, dato che la stipulazione di un
contratto può assicurare una situazione di oligopolio o di monopolio nella fornitura delle
prestazioni. In questo contesto le forti limitazioni poste alla libertà di scelta dei pazienti sono
funzionali al controllo della spesa, obiettivo che richiede la predisposizione di strutture contrattuali
in grado di prevenire eventuali comportamenti opportunistici, data la presenza di asimmetrie
informative tra acquirenti e produttori.
Molto diverse sono invece le caratteristiche della concorrenza amministrata in Italia, introdotta
nel 1992-93, in modo non del tutto chiaro, assieme all’aziendalizzazione. Innanzitutto, come
abbiamo già ricordato, nel disegno istituzionale dei quasi-mercati la separazione tra acquirenti e
produttori non è obbligatoria ed è stata solo parziale. Tra i produttori, inoltre, esiste una quota
rilevante di soggetti privati che, a fronte di una media nazionale oscillante tra il 15-20%, in Regioni
come la Calabria, la Campania o il Lazio rappresentano circa un terzo dell’offerta ospedaliera,
valutata in termini di posti letto.
La presenza significativa e storicamente radicata di produttori privati, tipica dei servizi sanitari
nazionali dei paesi mediterranei, spinge ad adottare un sistema di regolamentazione dell’accesso
all’erogazione di prestazioni per conto del Ssn, ossia finanziate con denaro pubblico, assente nel
Regno Unito. Tale sistema si basa sull’accreditamento “istituzionale” da parte delle strutture
pubbliche e private, con il quale si assicura il possesso di una serie di requisiti di qualità definiti
dalle Regioni, ulteriori a quelli necessari per l’autorizzazione all’esercizio. I cittadini possono
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scegliere liberamente la struttura di cura che preferiscono, pubblica e privata, nell’ambito delle
strutture accreditate.
La libertà di scelta, adottata sull’esempio svedese e caratteristica più dei sistemi mutualistici che
dei servizi sanitari nazionali, si combina con una sistema di remunerazione dei produttori basato su
tariffe associate alle singole prestazioni o agli episodi di ricovero classificati secondo il sistema
americano dei Drg. Le tariffe sono definite a livello regionale, con un riferimento unitario costituito
da un tariffario nazionale.
Secondo la versione che sembrava affermarsi negli anni immediatamente successivi alla riforma
(France, 1999), i produttori accreditati, pubblici e privati, dovevano competere per attrarre un
maggior numero di pazienti, dotati della piena libertà di scelta, in modo da incrementare le proprie
entrate grazie al meccanismo del pagamento a prestazione o a episodio di ricovero. La capacità di
attirare più pazienti e, quindi, di erogare un numero più elevato di prestazioni veniva considerata
indicatore di una migliore qualità dei servizi forniti. Per incrementare la possibilità di scelta da parte
dei cittadini si tendeva a far coincidere l’autorizzazione con l’accreditamento, in modo da ampliare
il numero dei soggetti presenti sul mercato.
Concepito in questi termini, l’assetto istituzionale dei quasi-mercati si avvicinava al modello
della concorrenza a prezzo fisso o yardstick competition (Mapelli, 1999), nel quale i produttori
competono non tanto per stipulare un contratto di fornitura con gli acquirenti, quanto per attirare i
pazienti. I fornitori sono incentivati ad assumere comportamenti efficienti in modo da produrre a
costi inferiori rispetto alle tariffe prestabilite, che sono fisse, ma allo stesso tempo devono prestare
attenzione alla qualità perché è su questa che competono tra loro per conquistare pazienti. La
competizione è aperta a tutti i produttori che accettano le regole stabilite dal soggetto finanziatore.
Tra questi, i pazienti sono liberi di scegliere la struttura di cura che preferiscono. Il modello si fonda
ovviamente su un’ampia fiducia nella capacità del cittadino di scegliere tra i diversi produttori di
servizi, in modo da cogliere adeguatamente i benefici forniti dalla presenza di un’offerta pluralistica
e competitiva.
Nonostante le riforme siano state approvate sotto la spinta della grave crisi della finanza pubblica
del 1992, il disegno iniziale della concorrenza amministrata conteneva scarsi incentivi al
contenimento della spesa. In un mercato caratterizzato da forti asimmetrie tra pazienti, finanziatori e
produttori, una parte dei quali privati, la libertà di scelta e il pagamento a prestazione rischiavano
anzi di incentivare i comportamenti opportunistici da parte dei produttori, volti ad incrementare
surrettiziamente il numero delle prestazioni erogate e a concentrare tendenzialmente la produzione
su quelle più remunerative .
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I cambiamenti introdotti nella seconda metà degli anni novanta, culminati nel decreto 229/99,
possono essere così interpretati come una forte correzione di tale assetto, orientata da
preoccupazioni relative al controllo della spesa e all’appropriatezza delle prestazioni. A tali fini i
meccanismi su cui si basa la concorrenza non vengono eliminati, ma di fatto risultano fortemente
circoscritti nella loro operatività.
Va in questo senso soprattutto la progressiva articolazione assunta dal sistema di
regolamentazione dell’accesso all’erogazione di prestazioni per conto del Ssn. In questa materia
infatti, prima, si distingue più chiaramente tra autorizzazione e accreditamento. Poi, si stabilisce che
la concessione dell’accreditamento sia subordinata alle esigenze della programmazione regionale,
indipendentemente dal possesso dei requisiti previsti. Infine, si introduce un livello ulteriore
all’accreditamento, quello degli accordi di servizio o contratti tra Asl (o direttamente le Regioni) e
produttori. I contratti devono indicare il volume massimo di prestazioni erogabili a favore del Ssn,
la remunerazione corrispondente e i meccanismi di sanzionamento in caso di sfondamento dei tetti
predefiniti.
E’ evidente, in questi come in altri provvedimenti, la volontà di recuperare il ruolo della
programmazione regionale e territoriale nella definizione e trasformazione dell’offerta di servizi,
rispetto agli effetti indotti dai meccanismi di mercato. Una tendenza, questa, manifestatasi anche nel
caso britannico, ben prima dell’avvento al potere dei laburisti: in questo caso però il timore non era
tanto quello di perdere il controllo sulla spesa, quanto piuttosto di dovere affrontare severe
conseguenze politiche e sociali a causa dei processi di ristrutturazione e di fusione delle strutture
ospedaliere innescati dal regime di concorrenza.
2.2 I quasi-mercati dopo il 2000
Dopo il 2000 i principali mutamenti nella regolazione riguardano il Nhs, mentre per il Servizio
Sanitario Nazionale è difficile formulare un giudizio complessivo, in quanto i processi di
differenziazione regionale diventano in questo campo preponderanti. Anche nel caso italiano, però,
è possibile individuare alcune tendenze generali che sembrano accomunare le diverse Regioni.
Nel Regno Unito con il nuovo secolo si è assistito ad una svolta importante nella politica
sanitaria dei laburisti. In primo luogo, approfittando di un periodo di crescita economica prolungata,
il governo ha preso l’impegno di aumentare la quota del Pil destinata alla spesa sanitaria,
tradizionalmente piuttosto bassa in confronto alla maggioranza dei paesi europei. Dopo avere
improntato i primi anni di governo ad una politica di contenimento della spesa, la decisione di
incrementare le risorse destinate alla sanità deriva dalla constatazione della bassa qualità media dei
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servizi, per i quali continuava ad essere diffuso un forte malcontento, e dalla loro insufficienza, tale
da mantenere i tempi di attesa a livelli insostenibili. Il tradizionale dibattito tra inputters e outputters
(Klein, 2001), cioè tra coloro che imputavano la scarsità dell’offerta rispetto alla domanda ad una
capacità produttiva e ad un investimento in risorse inadeguati e coloro che invece la attribuivano ad
una scarsa produttività delle strutture pubbliche rispetto alle potenzialità, viene risolto a favore dei
primi, rovesciando un orientamento prevalente dalla seconda metà degli anni settanta.
Con il Nhs Plan del 2000 viene posto l’obiettivo di incrementare la spesa in modo da portarla nel
lungo termine sui livelli dei paesi che investono la maggiore quota di risorse in sanità, vale a dire
Francia e Germania. Si è passati così da un incremento annuo della spesa pubblica del 2-3% in
termini reali, caratteristico della fine degli anni novanta, ad uno del 7-8%, con l’idea di giungere nel
2008 ad una spesa complessiva stimata nell’ordine del 9,4-9,5% del Pil.
Come si vede dalla tabella 1, la spesa sanitaria complessiva del Regno Unito misurata in termini
di Pil, inferiore fino al 2000 a quella dei principali paesi europei, è cresciuta poi significativamente,
con un particolare contributo da parte della spesa pubblica che ha superato quella italiana, spagnola
e si è avvicinata a quella svedese. Per l’Italia che, come vediamo, spende meno di altri paesi europei
per la sanità, la tabella 1 evidenzia il recupero nella spesa pubblica avvenuto dopo il 2000, dopo il
calo degli anni novanta e in particolare, dopo la drastica riduzione del periodo 1990-1995 (avvenuta
più precisamente dopo il 1992).
Tabella 1 – La spesa sanitaria pubblica e complessiva in percentuale sul Pil (1990-2006)
1990
1995
2000
2003
2006
Francia
6,4 (8,4)
7,8 (9,9)
7,5 (9,6)
8,7 (10,9)
8,8 (11,1)
Germania
6,3 (8,3)
8,2 (10,1)
8,2 (10,3)
8,5 (10,8)
8,2 (10,6)
Italia
6,1 (7,7)
5,2 (7,3)
5,9 (8,1)
6,2 (8,3)
6,9 (9,0)
Spagna
5,1 (6,5)
5,3 (7,4)
5,2 (7,2)
5,7 (8,1)
6,0 (8,4)
Regno Unito
5,0 (6,0)
5,8 (6,9)
5,8 (7,2)
6,6 (7,7)
7,3 (8,4)
Svezia
7,4 (8,2)
6,9 (8,0)
7,0 (8,2)
7,8 (9,4)
7,5 (9,2)
Fonte, Oecd (2008) ed elaborazioni. Nota: tra parentesi è indicata la spesa sanitaria complessiva.
Il recupero della spesa sanitaria pubblica in Italia e nel Regno Unito negli anni successivi al 2000
emerge anche dalla tabella 2 (alla pagina seguente), che riporta la quota percentuale di spesa
pubblica rispetto a quella complessiva. Per il Regno Unito, la cui quota è tradizionalmente assai
elevata, il dato è ancora più significativo, in quanto l’incremento è tale da portare la percentuale di
spesa pubblica britannica a superare quella svedese, da sempre molto alta, e ad assestarsi nel 2006
11
su valori superiori a quelli di ogni altro paese dell’Unione Europea, salvo Lussemburgo e
Repubblica Ceca (Oecd, 2008).
Tabella 2 – La spesa sanitaria pubblica in percentuale sulla spesa complessiva (1990-2006)
1990
1995
2000
2003
2006
Francia
76,6%
78,6%
78,3%
79,9%
79,7%
Germania
76,2%
81,6%
79,7%
78,7%
76,9%
Italia
79,5%
70,8%
72,8%
74,5%
77,2%
Spagna
78,7%
72,2%
71,6%
70,4%
71,2%
Regno Unito
83,6%
83,9%
80,9%
85, 5%
87,3%
Svezia
89,9%
86,6%
84,9%
82,5%
81,7%
Fonte, Oecd (2008).
L’aumento della spesa sanitaria ha contribuito alla riduzione dei tempi di attesa, al
miglioramento delle infrastrutture ospedaliere e alla crescita nelle dotazioni di personale (King’s
Fund, 2005). Tra il 2000 e il 2002 in Inghilterra il numero dei medici fu incrementato di 9.500 unità
quello degli infermieri di 20.000 e i terapisti di altre 6.500 unità. Per la fine del 2008 è stata prevista
l’assunzione di ulteriori 35.000 nuove unità rispetto a quelle esistenti nel settembre 2001, suddivise
tra infermieri, ostetriche e infermieri domiciliari (Department of Health, 2002).
La dotazione ospedaliera è stata considerevolmente rinnovata mediante lo strumento del project
financing, nella forma peculiare del Private Finance Initiative (Pfi), lanciata dai conservatori e poi
ampiamente utilizzata dai laburisti in diversi settori quali quello sanitario, scolastico, dei trasporti o
per la costruzione di nuove carceri. Il Pfi presenta il vantaggio di permettere la realizzazione di
nuovi servizi pubblici in modo più rapido di quanto sia possibile con gli strumenti finanziari
tradizionali. Esso però ha suscitato vibranti polemiche perché in molti casi si è dimostrato
particolarmente oneroso per lo Stato e le autorità pubbliche, con pesanti ricadute sull’erogazione dei
servizi (Pollock et al., 2001). Tra il 1997 e il 2006 in Inghilterra sono stati costruiti o sono in corso
di realizzazione 85 nuovi ospedali, 79 dei quali attraverso il ricorso al Pfi.
Il massiccio sforzo volto ad incrementare le risorse a disposizione del sistema è stato associato
ad un framework regolativo profondamente riformato rispetto a quello emerso alla fine degli anni
novanta, con un rilancio in grande stile della concorrenza, in forme diverse dal passato e vicine per
molti versi al modello della yardstick competition. Questo è vero soprattutto per l’Inghiltrerra,
mentre Galles e Scozia, utilizzando i poteri attribuiti con la devolution, sono state più caute nel reintrodurre i meccanismi di competizione, così come del resto nel procedere alla trasformazione
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dello status e dell’organizzazione interna delle strutture ospedaliere pubbliche, di cui si dirà nel
paragrafo successivo.
Innanzitutto, le riforme hanno visto l’adozione di un nuovo sistema di remunerazione dei
produttori (payment by results), basato su tariffe a prestazione o ad episodio di ricovero associate ad
un sistema di classificazione della casistica ospedaliera, gli Health Related Groups (Hrg) simile ai
Drg e usato fino a quel momento solo su base volontaria. Il nuovo sistema intende premiare gli
erogatori che si dimostrino in grado di attirare un maggiore numero di pazienti e di erogare un
numero più elevato di prestazioni, secondo il principio noto come money follows the patients.
Affinché ciò sia possibile, è necessario che ai pazienti venga progressivamente attribuita la libertà
di scelta della struttura di cura, cosa che accade prima, nel 2005, garantendo ad ogni paziente la
possibilità di scegliere tra almeno cinque produttori e poi, dal 2008, estendendo tale opportunità
anche agli erogatori privati.
A differenza che nel passato, infatti, nel quale il sistema dell’offerta finanziato con denaro
pubblico era rimasto per lo più escluso ai produttori privati, anche all’epoca di Margaret Thatcher,
dal 2000 il governo laburista inglese ha promosso esplicitamente lo sviluppo dell’attività del settore
sanitario privato per conto del Nhs. Ciò è avvenuto soprattutto nella specialistica ambulatoriale e,
principalmente, in quella di tipo chirurgico, con l’apertura degli Independent Diagnostic Treatment
Centres (Istc), costruiti dalle autorità pubbliche ma affidati in gestione ad operatori privati.
Il ruolo del settore privato era inizialmente concepito in senso esclusivamente integrativo e
subordinato rispetto a quello pubblico, per la fornitura di prestazioni nei quali l’offerta pubblica
risultava insufficiente, come le operazioni alla cataratta o le protesi all’anca. Tuttavia, negli ultimi
anni è diventato sempre più chiaro che i produttori privati si porranno presto in diretta competizione
con quelli pubblici per l’erogazione dei servizi, in condizioni di parità rispetto ai Trust.
L’acquisto delle prestazioni dal settore privato non è più gestito centralmente dal Ministero,
come accadeva in passato, ma è affidato in misura crescente agli acquirenti sul territorio, i Primary
Care Trust (Pct), che possono stipulare contratti con i produttori privati come con quelli pubblici.
Uno sviluppo più recente, ma significativo, riguarda la medicina generale e le cure primarie, nel
quale i Pct hanno cominciato ad acquistare prestazioni presso soggetti privati, soprattutto per
garantire il servizio nell’orario notturno e nei fine settimana.
I documenti governativi individuano come obiettivo il fatto che entro il 2008 gli Istc giungano ad
erogare fino al 15% delle prestazioni ambulatoriali di chirurgia programmata. Tuttavia vi sono
numerosi dubbi sul fatto che il target venga raggiunto, dato che la maggioranza delle strutture
private non è stata in grado di raggiungere gli obiettivi di produzione fissati fino ad ora annualmente
nei contratti (Pollock e Godden, 2008). Nonostante la presenza di incentivi alla produzione
13
superiori a quelli delle strutture pubbliche, come il contestato riconoscimento di tariffe più
remunerative per compensare condizioni tecnico-produttive che si suppongono più svantaggiose, il
settore privato britannico, tradizionalmente molto debole eccetto che a Londra, non sembra in grado
di rispondere agli stimoli provenienti dalle autorità centrali. Per questo il governo sta incentivando
l’ingresso di produttori provenienti dall’estero, soprattutto dagli Stati Uniti.
Molte critiche sono state sollevate da un documento del 2006 proveniente da un organismo
ufficiale quale l’Health Committee, citato da Bach (in corso di pubblicazione), che ha sollevato
dubbi sul fatto che gli Istc siano grado di fornire prestazioni ad un rapporto conveniente tra qualità e
prezzo, sull’effettiva necessità di acquisire capacità produttiva aggiuntiva rispetto a quella esistente
o in via di realizzazione da parte delle strutture pubbliche, sulla formazione del personale e sulle
condizioni di lavoro cui sarebbe sottoposto (Health Committee, 2006).
Le riforme introdotte nel Regno Unito sembrano avvicinare il Nhs al Ssn sotto il profilo
dell’organizzazione e della regolazione. Ciò parrebbe rafforzare la tesi di una convergenza tra i due
sistemi e, più in generale, viste le scelte compiute nei paesi scandinavi, dei sistemi sanitari europei
su assetti istituzionali che prevedono, al di là delle differenze, l’attribuzione di un’ampia libertà di
scelta della struttura di cura da parte dei pazienti e l’impiego dei Drg per la remunerazione dei
produttori.
Queste opzioni però nel Regno Unito sono funzionali al rilancio di forme di concorrenza nella
produzione dei servizi, in maniera anche più incisiva che nel periodo 1990-97. E ciò avviene mentre
il Ssn, così come altri sistemi sanitari europei, non sembra promuovere un ritorno ai mercati o
quasi-mercati. Al contrario, nonostante i tentativi compiuti nella prima parte di questo decennio dai
governi Berlusconi in carica in quegli anni (Vicarelli, 2005), in Italia si è assistito ad una
progressiva attenuazione dei meccanismi concorrenziali, anche nelle Regioni, come la Lombardia,
che precedentemente si erano spinte lungo questa strada.
A questo proposito, occorre sottolineare che, sotto il profilo dell’organizzazione e della
regolazione, i processi di decentramento hanno garantito alle Regioni ampi margini di scelta
nell’applicazione della normativa nazionale, esercitando i quali possono dar vita a forme piuttosto
diverse di competizione o collaborazione amministrata. La costruzione dei Servizi Sanitari
Regionali (Ssr) è avvenuta in un arco di tempo che va dalla metà degli anni novanta (almeno nei
casi più pionieristici) alla prima parte del decennio successivo, in un percorso non ancora concluso,
come risulta evidente constatando che per certi aspetti, come l’accreditamento, le scelte regionali
appaiono ancora lontane dall’essere compiutamente definite.
Nel complesso emergono tre modelli di riferimento cui possono essere accostate, con maggiore o
minore approssimazione, le Regioni italiane (Neri, 2008b). Il primo è il modello della concorrenza,
14
adottato veramente solo dalla Lombardia, soprattutto tra il 1997 e il 2002. In questa fase infatti il
sistema lombardo si caratterizzava per una regolazione altamente competitiva, ottenuta attraverso i
meccanismi tipici della yardstick competition. Essa infatti prevedeva la separazione pressoché
completa tra acquirenti e produttori (unico caso in Italia); la massima apertura del sistema
dell’offerta ai soggetti privati attraverso l’ampia concessione di nuovi accreditamenti, equiparati di
fatto alle autorizzazioni; l’uso estensivo dei meccanismi tariffari, applicati anche alle prestazioni
psichiatriche ambulatoriali e a quelle consultoriali; la piena libertà di scelta, da parte del paziente, di
tutte le strutture accreditate pubbliche e private presenti sul territorio regionale; la fissazione di tetti
complessivi di spesa per tutte le strutture invece che per singolo produttore (i cosiddetti “tetti di
sistema”, di ambito regionale o per singola Asl)..
Mossa probabilmente da preoccupazioni relative al contenimento della spesa e, in particolare, alla
tenuta del meccanismo dei tetti di sistema, dal 2002 la Lombardia ha considerevolmente attenuato il
regime di concorrenza. Ciò è avvenuto mediante l’introduzione di tetti massimi di produzione e
spesa per singolo produttore, con l’impiego di contratti tra Asl e fornitori, nonché attraverso il
blocco, prima, e poi la forte restrizione nella concessione di nuovi accreditamenti, subordinati alle
esigenze delle programmazione regionale. Questi mutamenti hanno spinto taluni ad escludere che la
Lombardia adotti ancora un modello concorrenziale e ad accostarla invece alle Regioni che fanno
uso sistematico degli strumenti negoziali, vale a dire Emilia-Romagna e Toscana (Formez, 2007).
Pur concordando con il mutamento sostanziale intervenuto nella regolazione del Ssr lombardo, in
questa sede si preferisce non accogliere tale indicazione, data la persistente presenza di politiche
atte a promuovere la liberalizzazione e la privatizzazione del sistema, come la conversione delle
strutture pubbliche in organizzazioni di natura ibrida pubblico-privato, il tentativo di utilizzare in
forma estesa il project finance in forme simili al Pfi, l’esternalizzazione massiccia dei servizi sociosanitari delle Asl.
Il secondo modello si basa sul principio di integrazione tra le organizzazioni sanitarie. A tale
modello possono essere accostate le Regioni centro-settentrionali e quelle del Nord-Est. In tali
contesti, le politiche regionali perseguono la costruzione di reti di offerta di servizi nelle quali
ciascuna struttura sanitaria, pubblica o privata, rappresenti un nodo insostituibile di una rete, e sia in
un rapporto di complementarietà e non di competizione con gli altri nodi. L’integrazione tra le
organizzazioni sanitarie e la logica di rete ad essa sottesa devono consentire di ridurre il più
possibile gli sprechi, le ridondanze e le duplicazioni di servizi, assicurando da un lato
l’appropriatezza clinica e organizzativa, dall’altro il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione
delle risorse (tecniche, umani, strutturali) e del loro utilizzo. A tale fine risulta fondamentale il ruolo
giocato dalla programmazione regionale e territoriale.
15
In queste Regioni la separazione tra acquirenti e produttori è solitamente limitata, dato che viene
costituito un numero limitato di Aosp nelle quali vengono concentrate le prestazioni di alta
specialità; inoltre spesso anche la presenza del privato non è particolarmente rilevante, almeno nel
settore ospedaliero, come accade nei casi del Veneto e della Toscana. A fini di controllo della spesa
le possibilità di scelta della struttura di cura da parte dei pazienti presentavano alcune restrizioni
relative al privato, ma queste hanno perso importanza nel corso del tempo, stante l’affermazione del
principio di libertà di scelta sancita anche a livello europeo (Maino, 2003). L’uso dei sistemi
tariffari viene contenuto in qualche misura attraverso l’impiego del finanziamento per funzioni,
basato sul costo dei fattori produttivi.
Il modello dell’integrazione presenta due varianti. La prima, propria di Emilia-Romagna e
Toscana, enfatizza il ruolo della programmazione negoziata attraverso l’uso degli accordi
contrattuali tra committenti e produttori, vale a dire tra Regione o Asl, da una parte, Aosp e strutture
private accreditate, dall’altra. Gli assetti contrattuali possono essere differenti, ma in entrambe le
Regioni la governance del sistema sanitario è assicurata attraverso la definizione e la realizzazione
di accordi, piani, programmi regionali e locali elaborati, a partire dalle indicazioni della
pianificazione regionale, attraverso processi, formali e informali, di negoziazione e di concertazione
con tutti gli attori coinvolti nella progettazione e nella gestione degli interventi sanitari e sociosanitari.
La seconda variante del modello dell’integrazione, della quale è tipico rappresentante il Veneto,
attribuisce minore importanza alla concertazione e alla negoziazione territoriale e si affida
maggiormente alla programmazione centralizzata di livello regionale. In tali contesti il ricorso agli
accordi contrattuali con le Aziende Ospedaliere è assente o comunque assai limitato, dato che il
finanziamento delle Aosp è definito direttamente dalla Regione mediante la determinazione di
budget preventivi. Il governo dell’offerta pubblica, prevalentemente integrata, è assicurato dal vasto
impiego di strumenti di programmazione top-down cui si associa lo sviluppo di meccanismi di
controllo di tipo manageriale all’interno delle singole Aziende. I contratti con le strutture private
sono definiti prevalentemente a livello regionale, con uno scarso ruolo delle Asl.
Accanto a questi due modelli, è possibile forse identificare un terzo modello, cui sono accostabili
diverse Regioni meridionali, definibile come residuale-incrementale per la scarsa capacità di optare
chiaramente per un assetto regolativo piuttosto che per un altro e per l’oscillazione tra i diversi
modelli. Nella già citata ricerca del Formez (2007) svolta da Vittorio Mapelli, si parla a questo
riguardo di modello burocratico, ponendo l’accento sul prevalente affidamento su strumenti di
governo gerarchico di tipo tradizionale, sulla debolezza dei meccanismi di programmazione e
16
controllo di carattere manageriale e sull’assenza di accordi contrattuali. Tipico rappresentante di
questo modello sarebbe la Campania.
Tra le Regioni riconducibili a questo terzo modello in alcuni casi, come Lazio, Campania e
Sicilia, nella seconda metà degli anni novanta si erano delineati assetti regolativi, in buona parte
mantenuti tutt’ora, favorevoli alla concorrenza. Giocava in tal senso prima di tutto la struttura
dell’offerta, caratterizzata da un grado elevato di separazione tra acquirenti e produttori dei servizi,
con la presenza rilevante di soggetti privati. In secondo luogo, la competizione appariva favorita
non tanto per scelta esplicita, quanto per l’assenza o la scarsa operatività dei meccanismi che altrove
venivano utilizzati per stemperarne o annullarne gli effetti. Risultavano e, spesso, risultano di fatto
assenti o inefficaci gli strumenti introdotti per limitare la concorrenza dalla legislazione nazionale
nella seconda metà degli anni novanta, come i contratti tra acquirenti e produttori o un utilizzo
dell’accreditamento in modo funzionale alle esigenze della programmazione regionale.
Nel Lazio durante il governo di centro-destra di Storace (2000-2005) vi sono stati alcuni
provvedimenti che rendevano piuttosto esplicito l’orientamento verso la concorrenza. L’indirizzo
però sembra cambiato con il mutamento nella coalizione di governo, i cui provvedimenti sono volti,
pur faticosamente, alla promozione di un assetto regolativo ispirato a forme di integrazione e di
razionalizzazione dell’offerta. Anche la Campania sembra muoversi nello stesso senso. Oltre a
corrispondere agli orientamenti politici dei partiti e degli esponenti di governo, a questa scelta non è
certamente estranea la necessità di far fronte al debito sanitario pregresso, particolarmente pesante
in queste due Regioni e in Sicilia.
Un’analoga tendenza ad orientarsi verso il modello dell’integrazione è osservabile anche in altre
realtà come Sardegna, Calabria e Puglia. In quest’ultimo caso, gli interventi di razionalizzazione
compiuti dal governo di centro-destra di Fitto (2000-2005) sono stati particolarmente incisivi e
hanno portato ad una forte centralizzazione della governance a livello regionale, così come ad un
ritorno ad una struttura dell’offerta più integrata, con la riduzione da quattro a due Aosp.
3. La natura dei produttori: le collaborazioni pubblico-privato
Nell’ultimo quindicennio si sono diffuse in maniera crescente forme di collaborazione tra settore
pubblico e privato note con il nome di public-private partnerships, o collaborazioni pubblicoprivato. Con questa espressione si intende un insieme molto ampio di assetti societari e
organizzativi che prevedono il coinvolgimento e la cooperazione di soggetti pubblici e privati nella
progettazione, realizzazione e gestione di servizi pubblici (per una definizione vedi ad es. Ippr,
17
2001; World Bank, 2006). Il coinvolgimento comporta la condivisione del rischio finanziario e
imprenditoriale tra le due parti, definito secondo modalità contrattuali di vario genere.
Definite in questo modo, le public-private partnerships possono comprendere una molteplicità di
rapporti che si instaurano tra pubblico e privato, come la fornitura di servizi alle amministrazioni
pubbliche da parte di soggetti privati, e quindi le diverse forme di esternalizzazione di servizi che
implichino un rapporto contrattuale tra le parti; le concessioni di costruzione e/o di gestione nei loro
diversi tipi; strumenti di carattere finanziario e imprenditoriale utilizzati per la realizzazione di
opere strutturali e infrastrutturali, come il project financing.
In un senso più limitato, le collaborazioni pubblico-privato possono indicare i modelli societari e
organizzativi che prevedono il coinvolgimento di soggetti privati nella proprietà e nel governo di
strutture pubbliche, che assumono una natura giuridica di tipo privato (o “ibrida”) e adottano una
regolamentazione di tipo privatistico nei rapporti verso l’esterno e nei meccanismi di
funzionamento interno. E’in questo seconda accezione, piuttosto comune nella letteratura italiana
(ad es. Fiorentini, 2000; Cuccurullo, 2005), che noi utilizzeremo questo concetto.
Intese in questo senso, in Italia le collaborazioni pubblico-privato nel settore sanitario includono
assetti societari come le società a capitale misto pubblico-privato a maggioranza pubblica, le
fondazioni di diritto privato, le associazioni in partecipazione, o anche peculiari esperienze regionali
come le Società della Salute toscane, per quanto queste rappresentino una forma di collaborazione
pubblico-pubblico tra Asl ed enti locali4. Per l’attivazione di tali esperienze ci si è serviti per lo più
dello strumento delle sperimentazioni gestionali, introdotto a livello nazionale dall’art. 9-bis del
d.lgs 502/92 (con le modifiche apportate dall’art. 11 del d.lgs 517/93), poi riscritto dal decreto
229/99 e dalla legge 405/2001, che ha concesso ampia autonomia in materia alle Regioni. Costituite
in maggioranza dopo il 1999 e ubicate per lo più al Centro-Nord, le sperimentazioni gestionali
vedono una prevalenza delle società a capitale misto, probabilmente in quanto si tratta della forma
societaria per la quale la normativa è più chiara e dettagliata (Bensa e Pellegrini, 2002). Alle
sperimentazioni gestionali possono poi essere affiancate le fondazioni ex-Irccs frutto della riforma
promossa dal decreto legislativo 288/03, anche se esse conservano natura giuridica pubblica.
Nel Regno Unito, nel settore sanitario le public-private partnerships si sono tradotte nel processo
di trasformazione dei Trust ospedalieri in Foundation Hospital Trust. Questi sono concepiti come
4
Spesso nelle collaborazioni pubblico-privato viene incluso anche il project financing. A nostro avviso però esso di per
sé andrebbe escluso, poiché non prevede un coinvolgimento del privato nella proprietà e nel governo dei servizi
pubblici, ma piuttosto nella loro gestione (e per la sanità, ciò riguarda i soli servizi “ausiliari” come i parcheggi, le
mense o la manutenzione). Per questa ragione quindi non prenderemo in considerazione come forma di partnership
neanche il Pfi inglese. Ciò non vuol dire però che il project financing non possa rientrare in ogni caso nelle
collaborazioni pubblico-privato, anche nella definizione da noi adottata, in quanto può essere utilizzato, come spesso
accade in Italia, per la progettazione e realizzazione di servizi che saranno gestiti sotto forma di collaborazioni. In questi
casi, nel project financing sono spesso coinvolte imprese strettamente legate a quelle che prenderanno parte alle società
di gestione dei servizi core, quando non si tratti degli stessi soggetti.
18
un nuovo tipo di soggetto giuridico, le public benefit corporations, simili ad organizzazioni
mutualistiche o cooperative. Dal 2004 ad oggi sono stati convertiti in fondazioni 96 dei 290 Trust
ospedalieri esistenti in Inghilterra.
La diffusione delle collaborazioni pubblico-privato è una tendenza internazionale che riguarda
molti paesi europei e occidentali. In Europa, nell’ambito di sistemi sanitari nei quali prevale un
orientamento sfavorevole alla piena privatizzazione del sistema, esse vengono viste come uno
strumento utile a fornire maggiore autonomia tecnica, organizzativa, gestionale e finanziaria alle
strutture pubbliche di produzione, superando i limiti incontrati dalla managerializzazione.
Le esperienze condotte nel Nhs e nel Ssn presentano alcune somiglianze, ma anche notevoli
differenze, nelle finalità con cui vengono condotte, nella struttura del governo interno, nel ruolo ad
esse assegnato nel sistema dell’offerta. Cominciando da quest’ultimo profilo, va detto che nel
Regno Unito, soprattutto in Inghilterra, le fondazioni ospedaliere sono considerate un nuovo
modello organizzativo e gestionale cui devono tendere gradualmente, tutte le strutture pubbliche di
produzione di servizi, all’interno di un sistema caratterizzato sempre più dalla presenza di un’offerta
pluralistica e competitiva. Lo dimostra la velocità con cui il Nhs sta procedendo alla trasformazione
dei Trust ospedalieri, che è partita dalle strutture che hanno i migliori risultati in termini gestionali,
finanziari e nella qualità dei servizi.
Nel Ssn, con la parziale eccezione della Lombardia e della riforma degli Irccs, le collaborazioni
pubblico-privato non fanno parte di un disegno volto al mutamento complessivo della struttura
dell’offerta, ma vengono costituite molto spesso per risolvere problemi locali. Talvolta il
coinvolgimento di soci privati e il cambiamento nello status giuridico serve ad impedire la chiusura
di piccole strutture di provincia, con operazioni che consentono di evitare di prendere decisioni
impopolari ma che risultano assai discutibili dal punto di vista dell’interesse generale (Asr EmiliaRomagna, 2002). Questo carattere delle collaborazioni pubblico-privato potrebbe però mutare se
avranno seguito le dichiarazioni rilasciate in alcune occasioni dal governo entrato in carica da
qualche mese, che sembra intenzionato a conferire nuovo vigore, e una qualche sistematicità, al
processo di trasformazione delle strutture ospedaliere pubbliche in organizzazioni “ibride”
pubblico-privato. Peraltro, al modello delle fondazioni il governo fa esplicito riferimento anche per
la riforma di altre organizzazioni pubbliche che erogano servizi, come le scuole o le università.
Le finalità con cui vengono costituite le collaborazioni pubblico-privato presentano alcune
similarità ma anche importanti differenze. Secondo la letteratura italiana e internazionale, gli
obiettivi che si vogliono conseguire con le collaborazioni pubblico-privato in sanità sono molteplici,
ma possono essere riuniti in alcuni gruppi fondamentali (Fiorentini, 2000; Sirchia, 2000; Bellezza e
Florian, 2001; Mapelli 2003; Ippr, 2001; Mayo e Moore, 2002; Maltby, 2003; Pollock, 2005):
19
1) il reperimento di reperire risorse finanziarie ulteriori rispetto a quelle pubbliche, principalmente
per effettuare investimenti strutturali o infrastrutturali. Il capitale privato può giungere mediante
apporto diretto da parte dei soci privati, oppure grazie alle possibilità di ricorrere a forme di
indebitamento con più facilità e minori restrizioni rispetto alle organizzazioni pubbliche;
2) l’acquisizione di competenze tecniche e manageriali di cui il settore pubblico e carente, di nuovo
per la progettazione e realizzazione di opere strutturali e infrastrutturali, più che per la gestione
di servizi;
3) il conseguimento di una maggiore flessibilità organizzativa e gestionale rispetto alle strutture
pubbliche, utile a conseguire un grado più elevato di efficienza e qualità nell’erogazione dei
servizi. Ciò sarebbe possibile grazie sia all’assunzione di una disciplina giuridico di tipo
privatistico per le regole di funzionamento interno e il rapporto con l’esterno (pensiamo ad
esempio agli acquisti di beni e servizi), sia, al passaggio ai contratti collettivi di lavoro tipici del
settore privato;
4) la promozione della partecipazione delle comunità locali, dei pazienti o dei lavoratori alle scelte
strategiche e alla vita delle strutture sanitarie, assicurando a questi gruppi forme di
rappresentanza diretta o mediata istituzionalmente negli organi di governo delle organizzazioni
sanitarie.
Il primo e il secondo obiettivo riguardano quelle collaborazioni nelle quali ha una parte
fondamentale la ristrutturazione o la costruzione di nuove strutture. Essa ha un notevole rilievo sia
nel caso britannico che in quello italiano. Nel primo, però, l’accesso al capitale privato da parte
delle fondazioni è stato sottoposto a severe restrizioni, dopo le polemiche suscitate dal Pfi. Nel
secondo, invece, vi è il concreto rischio che le libertà acquisite dalle nuove società in materia
finanziaria portino ad un eccessivo indebitamento, come sembra avvenuto in alcune esperienze
emiliano-romagnole (Asr Emilia-Romagna, 2002).
La possibilità di acquisire una maggiore flessibilità organizzativa e gestionale è senz’altro alle
base dell’idea delle partnerships in Italia come negli altri paesi in cui sono state sperimentate. Nel
Regno Unito tuttavia i propositi iniziali sono stati molto ridimensionati nella legislazione istitutiva
delle fondazioni (l’Health and Social care Act del 2003) e ancora di più nella pratica concreta,
anche se ad avviso di alcuni restano forti rischi soprattutto nella gestione del patrimonio (Pollock,
2005). Nella regolazione del lavoro, la maggiore flessibilità retributiva attribuita alle fondazioni,
che si tradurrebbe nella possibilità di derogare dagli accordi collettivi sia in senso migliorativo che
peggiorativo per il personale, è stata assorbita negli anni successivi al 2003 all’interno del processo
di implementazione del programma di riforma della struttura salariale e dell’inquadramento
20
retributivo denominato Agenda for Change, che ha interessato tutte le strutture pubbliche. Tale
programma ha determinato la creazione di nuove pratiche lavorative nelle unità del Nhs, all’insegna
della collaborazione interprofessionale e del lavoro in team, mentre la grande maggioranza del
personale ha usufruito di aumenti retributivi non irrilevanti (Bach, 2004; Bach, in corso di
pubblicazione).
In Italia, a quanto risulta, il passaggio alla disciplina giuridica propria del settore privato ha
comportato un indubbio aumento della flessibilità organizzativa e gestionale, soprattutto in materie
come l’acquisto di beni e servizi, non più soggetto alle procedure pubbliche. Nel lavoro i dirigenti
delle strutture ex-pubbliche possono usufruire di una maggiore libertà e rapidità di assunzione o di
licenziamento, ma tendono alla stabilizzazione della forza lavoro, soprattutto dei medici e del
personale sanitario. Il ricorso ai contratti di lavoro non standard, alla somministrazione di
manodopera o, più frequentemente, alle libere professioni è tendenzialmente limitato ad esigenze
temporanee, oppure è dovuto a condizioni di carenza dell’offerta di lavoro, come può accadere con
gli infermieri o gli anestesisti.
Nel rapporto di impiego, in Italia le collaborazioni pubblico-privato sembrano promettere un
passaggio progressivo dalla regolazione contrattuale di tipo pubblico ad una di tipo privato. A
questo proposito la normativa civilistica introduce una differenza tra lavoratori trasferiti e
neoassunti. Per i primi, è prevista la conservazione del rapporto di lavoro istituito con il precedente
datore di lavoro e dei diritti che ne derivano, nonché l’applicazione dei contratti collettivi in essere
prima del trasferimento, almeno fino alla loro scadenza e salvo che siano sostituiti da altri contratti
collettivi applicabili all'impresa del nuovo datore di lavoro. Questo pone un problema, sul medio
termine, per il trattamento economico-normativo dei lavoratori trasferiti, dato che i dirigenti delle
strutture ex-pubbliche potrebbero legittimamente decidere di passare dal contratto del Ssn ad uno di
quelli in uso nel settore privato.
Per i dipendenti non provenienti dalle strutture pubbliche ma direttamente assunti dalle nuove
società, il datore di lavoro può scegliere quale contratto collettivo di lavoro applicare. L’aspettativa,
in questo senso, è che il contratto applicato ai neoassunti sia uno di quelli del settore privato, come
il contratto Aiop. Dal punto di vista economico e, soprattutto, da quello normativo i contratti della
sanità privata sono peggiori, per i lavoratori, rispetto a quello del Ssn.
La pratica ha confermato solo in parte questi timori. Nelle fondazioni di diritto pubblico ex-Irccs
sia per i lavoratori trasferiti che per quelli di nuova assunzione continua ad essere applicato il
contratto del Ssn. Nelle sperimentazioni gestionali i lavoratori trasferiti sono rimasti dipendenti
pubblici a tutti gli effetti delle Asl o Aosp di provenienza, soggetti a comando presso le
collaborazioni pubblico-privato, a tempo tendenzialmente indefinito. I neoassunti invece sono
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dipendenti delle nuove società e ad essi è stato applicato il contratto Aiop. In diversi casi (ad
esempio quelli emiliani) sono stati siglati accordi con i sindacati grazie ai quali il trattamento
economico e, ove possibile data la diversa natura giuridica, anche quello normativo dei lavoratori
dipendenti delle nuove società è stato considerevolmente avvicinato a quello dei dipendenti
pubblici.
La presenza di due gruppi di lavoratori con condizioni di lavoro differenti, inoltre, pare un dato
temporaneo, per quanto attualmente rilevante, dato l’elevato turn-over caratteristico di queste
società. Questo significa che si dovrebbe assistere nei prossimi anni ad una progressiva
generalizzazione della regolazione contrattuale privata o alla creazione di forme ibride differenti sia
dal settore pubblico che da quello privato (su questi aspetti si veda Neri, 2008a).
Infine, vi sono notevoli differenze negli obiettivi di democratizzazione attribuiti alle
partenerships nei due paesi. Alla base delle fondazioni ospedaliere inglesi c’è l’idea di fornire alla
comunità locale, ai pazienti e ai lavoratori la possibilità di influire più o meno direttamente sulle
scelte operate dal management dell’ospedale, permettendo a tali gruppi di eleggere propri
rappresentanti negli organi di governo. Infatti, iscrivendosi ad una fondazione i pazienti o expazienti, i membri della popolazione locale o dell’utenza di riferimento dell’ospedale, i lavoratori
della struttura ospedaliera possono eleggere propri rappresentanti all’interno dei Board of
governors, sorta di consigli di indirizzo delle fondazioni.
Solitamente i Board sono composti da 30-40 membri, supportati da uno staff di cinque o sei
persone. La legge conferisce un grado rilevante di discrezionalità alle singole fondazioni nella
composizione dei Board, ma la maggioranza dei membri deve essere eletta dai pazienti e dalla
comunità locale, mentre vi devono essere almeno tre rappresentanti eletti dai lavoratori. Altri
membri obbligatori sono quelli (almeno uno a testa) nominati dalle università, nel caso gli ospedali
siano sedi dei corsi di laurea in Medicina, dalle autorità di governo locale e dai Primary Care Trust
(il che rompe in qualche modo la separazione tra acquirenti e produttori). I componenti dei Board
possono rappresentare anche organizzazioni private (soprattutto non-profit) coinvolte nella gestione
dei servizi, ma fino ad ora questa possibilità ha avuto uno sviluppo limitato. E’ evidente quindi
l’obiettivo di fornire una rappresentanza e una possibilità di influenza sulla vita e il funzionamento
della struttura a quelli che possono essere identificati come gli stakeholder dell’ospedale.
I Board of governors collaborano all’elaborazione delle scelte strategiche dell’ospedale e hanno
il compito specifico di promuovere il coinvolgimento della comunità locale nella vita della
fondazione. Essi nominano i membri non esecutivi del Board of directors, l’organo cui compete la
gestione dell’ospedale, attribuita prima di tutto ad un Chief Executive (grosso modo corrispondente
al direttore generale); presiedono il Board of directors attraverso il Chair, che è lo stesso del Board
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of governors; nominano gli auditors, cui sono affidati compiti di controllo sulla gestione
dell’ospedale.
Nonostante l’enfasi posta dal governo sulle potenzialità di democratizzazione insita nella
fondazioni, fino ad ora i Board of governors costituiscono un’esperienza deludente. Dagli studi e
dal monitoraggio condotto sulle prime fondazioni (Lewis e Hinton, 2005, Day e Klein, 2005; Klein,
2006) è emerso che il numero di iscritti alle fondazioni è assai limitato (in un ospedale londinese si
sono iscritte circa 5.000 persone su 250.000 membri della popolazione locale di riferimento), così
come è molto basso il tasso di partecipazione alle elezioni dei Board, dove spesso vi è un solo
candidato per ogni seggio. Tutto ciò ha sollevato forti dubbi sulla rappresentatività di tali organi nei
confronti della popolazione. A tali perplessità si associano quelle sul ruolo esercitato dai Board, che
da un lato non sembrano in grado di esercitare un’influenza o un controllo significativo sul
management dell’ospedale, dall’altra tendono ad intromettersi nella gestione quotidiana della
struttura, non avendone il potere né competenze adeguate.
Nel caso italiano, la partecipazione delle comunità locali alle scelte strategiche e alla vita
dell’ospedale non rientra tra gli obiettivi delle collaborazioni pubblico-privato, se non nel caso delle
fondazioni, soprattutto in quelle di diritto privato. In tali casi la partecipazione assume però un
contenuto ben diverso rispetto all’esperienza inglese, in quanto è mediata istituzionalmente: gli
interessi della cittadinanza all’interno dei consigli di amministrazione sono infatti rappresentati dai
membri nominati dai Comuni del territorio. Nelle fondazioni costituite nel mantovano è prevista la
possibilità, per i cittadini, di iscriversi alle fondazioni e di partecipare poi alla scelta dei membri dei
consigli di amministrazione (Cantù et al., 2005). A quanto risulta, però, tali previsioni hanno avuto
fino ad ora scarso seguito e traduzione concreta.
4. I sistemi di valutazione e controllo della performance delle strutture sanitarie e il ruolo del
governo
La differenza principale tra l’evoluzione del Nhs e quella del Ssn negli ultimi anni riguarda forse
la costruzione di sistemi di monitoraggio e di valutazione della performance delle strutture sanitarie.
Nel Regno Unito e, soprattutto, in Inghilterra, il disegno di riforma volto alla creazione di un’offerta
pluralistica e competitiva, con il rilancio delle relazioni di mercato, è stato accompagnato dallo
sviluppo di un sistema articolato di standard nazionali definiti dalle autorità di governo centrali. Gli
standard, che formano i National Service Frameworks (Nsf), riguardano dimensioni come
l’efficienza gestionale, l’appropriatezza organizzativa, l’equità nell’accesso, la percezione del
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servizio fornito da parte degli utenti, e, almeno in parte, l’impatto sulla salute della popolazione di
riferimento. Essi includono ad esempio target riguardanti i tempi massimi di attesa, le riduzioni nei
tassi di mortalità, varie misure di efficienza, così come una serie di obiettivi più ampi riguardanti lo
sviluppo dei servizi destinati al governo delle patologie croniche, al trattamento di quelle
cardiovascolari e tumorali.
Il compito di controllare il rispetto degli standard e, per quanto riguarda gli aspetti clinici, anche
di fissarli, è affidato ad una serie di organismi dotati di ampia autonomia dal governo centrale, per
quanto sia quest’ultimo a nominarne i componenti, secondo un modello tipico del sistema politicoamministrativo britannico. Ai risultati ottenuti dalle strutture è legata l’attribuzione di gradi
crescenti di autonomia gestionale e finanziaria, mentre al mancato rispetto degli standard è
collegato un potere di sanzionamento, da parte del Dipartimento di Sanità ministeriale, che arriva
fino al licenziamento della dirigenza delle organizzazioni sanitarie.
Lo sviluppo di standard e indicatori nazionali, accompagnati dalla messa a punto di strumenti di
gestione della performance, era stato avviato dai conservatori fin dalla metà degli anni ottanta, che
avevano disposto anche il loro inserimento all’interno dei contratti tra acquirenti e produttori. Con i
governi laburisti però i sistemi di monitoraggio fanno un deciso salto di qualità, acquisendo un
dettaglio e una pervasività sconosciuta in passato e arrivando ad interessare anche la pratica clinica.
Gli standard, inoltre, sono inseriti all’interno dei Public Service Agreements (Psa) che ciascun
dipartimento governativo è chiamato a sottoscrivere con il Ministero del Tesoro, contenenti una
serie di impegni al cui rispetto è collegata in qualche misura l’erogazione delle risorse finanziarie.
Il controllo del rispetto degli standard contenuti nei Frameworks è affidato alla Healthcare
Commission (fino al 2004 denominata Commission for Health Improvement), un organismo di
nomina governativa che gode di ampia autonomia. La commissione compie regolari ispezioni
presso le strutture del Nhs, le fondazioni e anche i produttori privati. Le sue competenze, inoltre, si
estendono fino alla verifica dell’applicazione dei protocolli, delle linee-guida e delle
raccomandazioni emanate dal National Institute for Clinical Excellence (Nice), i cui vertici sono
anch’essi nominati dal governo, istituito nel 1998.
Per le fondazioni infine esiste un’apposita autorità regolativa, il Monitor, dotato di penetranti
poteri di controllo sull’attività e la gestione finanziaria, oltre che della facoltà di autorizzare la
trasformazione di un Trust in fondazione. Questi poteri sono particolarmente importanti, dato che le
fondazioni, per legge istitutiva, non rispondono del proprio operato al Segretario di Stato alla Sanità
e sono fuori dalla catena di comando che va, appunto, dal Segretario di Stato, vertice politico
dell’apparato ministeriale, alle strutture operative del sistema, Trust e Primary Care Trust (Pct).
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All’interno dei Frameworks hanno un ruolo fondamentale gli standard e indicatori che vanno a
comporre il sistema di classificazione annuale dei Trust ospedalieri, noto come star rating system.
La classificazione si basa sulla valutazione dell’efficienza gestionale, della qualità dei servizi e
dell’efficacia clinica: Per il giudizio sulla qualità dei servizi hanno un ruolo importante le risposte
fornite da pazienti e personale nelle indagini statistiche effettuate periodicamente dal Nhs.
Il sistema, utilizzato tra il 2001 e il 2005, forniva una classificazione degli ospedali pubblici
secondo un punteggio che partiva da 3 stelle, il livello più alto, fino a 0 stelle, la valutazione più
bassa in termini di performance. A seconda del punteggio e, quindi, del livello della performance
conseguita, ai Trusts erano attribuiti diversi gradi di autonomia fino alla possibilità, per quelli con i
punteggi più alti, di presentare domanda per acquisire lo status di fondazione. I punteggi erano
portati a conoscenza del pubblico mediante pubblicazione sui giornali.
Lo star rating system è stato soggetto a pesanti critiche e vibranti proteste da parte dei manager e
dei medici di livello più elevato (i consultant). Le contestazioni hanno riguardato la scelta degli
indicatori e delle dimensioni dell’attività soggette a valutazione, il fatto che tale scelta fosse
effettuata senza il coinvolgimento dei professionisti e degli operatori sanitari, la presenza
comprovata di trucchi e imbrogli messi in atto da parte di manager e medici che falsavano i
punteggi ottenuti dalle strutture ospedaliere (Bevan e Hood, 2006).
A seguito delle critiche, nel 2006 il sistema di classificazione è stato rivisto sostituendo ai
punteggi la formulazione di giudizi più articolati e coinvolgendo maggiormente il personale nel
processo di valutazione. Allo stesso modo, anche il meccanismo dei Frameworks nel suo complesso
è stato sottoposto a processi di revisione. Tuttavia il governo ha cercato in ogni caso di mantenere il
focus dei sistemi di controllo sull’erogazione delle prestazioni, così come è stato conservata la
connessione con meccanismi di incentivazione della dirigenza e degli operatori delle strutture.
Al di là delle critiche e degli aggiustamenti che sono stati effettuati negli ultimi anni, questo
insieme di innovazioni fa parte di un tentativo di allontanare le possibilità di intervento diretto del
potere politico sulla gestione delle strutture operative. Abbandonando i meccanismi di comando e
controllo tipici del modello burocratico, incentrati sulla definizione di regole dettagliate e il
controllo del loro rispetto, il governo si concentra sulla definizione di obiettivi stabiliti a livello
nazionale. Il controllo del raggiungimento di tali obiettivi e, per quanto riguarda gli aspetti clinici,
anche la loro fissazione, è affidata ad organismi dotati di un elevato grado di autonomia nello
svolgimento della loro attività, che rispondono comunque in ultima istanza all’esecutivo. Questo poi
interviene, attraverso le strutture centrali del Dipartimento di Sanità, a premiare o sanzionare le
strutture sanitarie sulla base delle valutazioni effettuate dagli organismi indipendenti. Tale
orientamento si esprime poi al massimo grado nelle fondazioni che, come si è detto rispondono del
25
proprio operato all’autorità di regolazione e, almeno teoricamente, alla comunità locale, piuttosto
che al Segretario di Stato alla Sanità.
Coerente con l’idea di allontanarsi da un modello organizzativo di tipo burocratico è anche la
riforma della catena di comando e dell’apparato ministeriale, nel quale emergono due polarità, il
Dipartimento centrale di Sanità e, sul piano operativo, Trust e Pct. I livelli intermedi invece, vale a
dire gli uffici ministeriali regionali, ora trasformati nelle Strategic Health Authority, vengono
fortemente alleggeriti nella struttura e ridimensionati nelle funzioni attribuite.
Questa evoluzione non trova analoga corrispondenza nel Ssn. Esistono certamente sistemi di
monitoraggio e controllo dell’attività di Asl e Aosp messi in piedi dalle Regioni, collegati agli
obiettivi della programmazione regionale e utilizzati per la valutazione dei direttori generali e della
dirigenza di vertice delle strutture sanitarie. Tuttavia, oltre ad essere regionali e quindi diversi
(anche significativamente) l’uno dall’altro, tali sistemi non hanno il grado di articolazione, la
sistematicità né tanto meno la trasparenza e la pubblicità di quelli inglesi. Inoltre, alla valutazione
della performance delle strutture non è connessa l’attribuzione di gradi differenti di autonomia,
mentre è quanto meno lasca la relazione tra i risultati conseguiti e i meccanismi premianti della
dirigenza, un campo nel quale entrano in gioco logiche politiche o comunque estranee all’attività
svolta e ai suoi esiti.
Sia questo un bene o un male, nel caso italiano quello che manca più di tutto, rispetto al caso
inglese, è soprattutto la presenza di organismi dotati di forte autonomia rispetto al potere politico,
incaricati del controllo e della valutazione dell’efficienza gestionale, della qualità dei servizi e
dell’attività clinica delle strutture operative. In questo senso le agenzie regionali, pur in alcuni casi
importanti (Ferrera et al., 2006), non sembrano ricoprire un ruolo simile a quello delle commissioni
e delle autorità create nel Regno Unito. A questo riguardo la letteratura e gli esperti hanno notato da
tempo l’assenza di strutture come il Nice, che possano mettere un po’ di ordine nella confusione
delle indicazioni di tipo clinico proveniente dalle organizzazioni internazionali come l’Oms, dal
Ministero della Salute, dalle Regioni e da una pluralità di altre fonti nazionali o internazionali
(Dirindin e Vineis, 2004). Sempre in relazione all’attività clinica, è stato poi di recente sollevato,
come accade periodicamente, il problema del controllo, alla luce di alcuni casi di malasanità e di
comportamenti opportunistici messi in atto da parte di operatori e strutture sanitarie, emersi con
l’intervento della magistratura.
Al di là dell’ambito clinico, la definizione di standard nazionali e di organismi incaricati di
valutare l’attività delle strutture sanitarie è emersa all’interno di proposte dirette al complesso della
pubblica amministrazione. Nella scorsa legislatura tali questioni sono state in qualche modo
affrontate all’interno della discussione relativa alla proposta di legge per la costituzione di
26
un’authority della pubblica amministrazione5. In questa legislatura, sempre nell’ambito di proposte
di riforma complessiva della pubblica amministrazione, il Ministro della Funzione Pubblica ha
parlato esplicitamente di standard nazionali per le strutture sanitarie, così come per altre
organizzazioni di erogazione di servizi pubblici, citando esplicitamente il caso inglese.
Al di là degli interventi innovativi che possano essere messi in atto in futuro, all’interno di un
sistema marcatamente regionalizzato come il nostro, per la definizione di obiettivi generali del Ssn
in termini di efficienza gestionale e di qualità del servizio, connessi a meccanismi di valutazione e a
sistemi premianti, potrebbero forse essere utilizzati meglio gli strumenti delle Intese e degli Accordi
Stato-Regioni. Qualcosa in questo senso è stato fatto, ad esempio, a più riprese, sulle liste di attesa,
o con i contenuti definiti nel “Patto per la Salute” del 2006. Gli Accordi però sono stati dedicati
prevalentemente a questioni prettamente finanziarie e in particolare al problema dei disavanzi
regionali.
5. Considerazioni finali
Nelle pagine precedenti si è cercato di descrivere i tratti principali dell’evoluzione più recente
del Nhs ed del Ssn, evidenziando le similarità e le differenze negli orientamenti emersi nei due
sistemi. Pur nella difficoltà di formulare un giudizio complessivo, nelle soluzioni adottate dai due
paesi sul piano istituzionale e organizzativo le tendenze alla divergenza sembrano prevalere rispetto
a quelle alla convergenza. Spiccano in questo senso soprattutto il rilancio dei meccanismi di
concorrenza nel Nhs, peraltro secondo forme diverse e in qualche modo più radicali rispetto alla
prima parte degli anni novanta, mentre nel Ssn i Sistemi Sanitari Regionali, pur tra differenze
rilevanti, sembrano in qualche modo convergere verso assetti regolativi di tipo integrativo o
cooperativo; l’inserimento delle collaborazioni pubblico-privato inglesi in un disegno complessivo
di riforma dell’offerta pubblica che sembra assente nel caso italiano, con la sperimentazione di
forme di governance interna di dubbia funzionalità ma comunque assai differenti da quelle in uso
nel nostro paese; lo sviluppo, nel sistema inglese, di penetranti sistemi di monitoraggio e controllo
delle performance, affidati ad organismi autonomi dal potere politico, sconosciuti nel Ssn.
Molte delle tendenze rilevate nel Regno Unito e, come si è detto, in particolare nel caso inglese,
sono presenti anche nei paesi scandinavi. Basti pensare alla messa a punto di sistemi di
monitoraggio dell’attività delle strutture sanitarie da parte del potere centrale, in Danimarca o in
Norvegia (Vrangbæk e Christiansen, 2005; Lægreid et al., 2005), nei quali hanno grande
5
Si vedano a questo proposito i numerosi interventi dedicati al tema sul sito la voce.info (http://www.lavoce.info/), o
Ichino (2006).
27
importanza gli obiettivi riguardanti la riduzione dei tempi di attesa e il miglioramento nella qualità
dei servizi percepita dagli utenti (cfr. Toth, 2008). Allo stesso modo, la ri-centralizzazione delle
competenze in materia sanitaria (soprattutto nell’assistenza ospedaliera), avvenuta sempre in
Norvegia e in Danimarca, ha portato ad un assetto istituzionale che, pur differente da quello
britannico, è egualmente incentrato su due polarità costituite dal governo centrale e dalle strutture
operative dei servizi sanitari nazionali. Ancora, l’apertura ai soggetti privati del sistema dell’offerta
finanziata con denaro pubblico, associata ad una qualche forma di riproposizione dei meccanismi di
concorrenza, è un processo in corso anche in Svezia, dove stanno acquistando uno spazio crescente
anche le public-private partnerships (Vrangbæk, 2004; Glenngård et al, 2005).
Queste innovazioni hanno interessato in misura molto minore i sistemi sanitari dell’Europa
mediterranea. Se prendiamo la Spagna, ad esempio, l’evoluzione del sistema sanitario sembra
simile a quella del Ssn sia nell’assetto istituzionale, dove proseguono i processi di
regionalizzazione, sia, per molti versi, sotto il profilo regolativo (Rico e Costa-Font, 2005). Anche
le collaborazioni pubblico-privato, con il contrastato processo di sperimentazione delle fondazioni
di diritto privato e, poi, di diritto pubblico, presentano notevoli similarità con quelle italiane, nei
meccanismi di governo interno e, ancora di più, nelle problematiche relative alla regolazione del
rapporto di lavoro. Nonostante il Segretario di Stato alla Sanità britannico che ha promosso i
Foundation Trust, Alan Milburn, abbia dichiarato di essersi ispirato alle fondazioni spagnole,
queste non sembrano avere molto a che fare con quelle del Regno Unito.
E’ possibile quindi avanzare l’ipotesi che sia in corso una differenziazione nell’evoluzione dei
servizi sanitari nazionali tra i paesi del Nord Europa e quelli dell’Europa del Sud. Si tratterebbe di
una ripresa della prevalenza dei fenomeni di divergenza dopo alcuni decenni in cui invece erano
stati più decisamente più evidenti i processi di convergenza tra i due gruppi di paesi.
Dal punto di vista dei regimi di welfare, per i paesi del Sud Europa si potrebbe affermare che le
differenze nei percorsi di evoluzione recente dei servizi sanitari nazionali europei tendono ad
allontanare tali paesi dagli altri che adottano lo stesso modello di organizzazione del sistema
sanitario, confermando, anche per questa via, l’intuizione che ha portato all’individuazione di un
modello di welfare mediterraneo, distinto da quelli propri del resto dell’Europa nordica o
continentale (Ferrera, 1996a; Leibfried, 1992). Se prendiamo in considerazione invece solo i paesi
del Nord Europa, le tendenze evolutive dei servizi sanitari nazionali sembrano avvicinare il Regno
Unito e i paesi scandinavi, che vengono abitualmente assegnati a due regimi di welfare distinti,
quello “liberale” o “anglosassone”, e quello “socialdemocratico” o, appunto, “scandinavo”, per
usare i tipi proposti rispettivamente da Esping-Andersen (1990) e Ferrera (1996b). Del resto tale
vicinanza o similarità nei sistemi sanitari era già stata notata, quando era stato osservato che il
28
carattere marcatamente universalistico e redistributivo del Nhs rende il sistema di welfare britannico
più simile, nel settore sanitario, al regime socialdemocratico che a quello liberale (EspingAndersen, 1999).
E’ possibile, tuttavia, che le differenze riscontrate nell’analisi condotta nelle pagine precedenti
non siano il segno dell’avvio di percorsi divergenti nella trasformazione dei sistemi sanitari di
Regno Unito e Italia e, se si accetta l’estensione almeno tendenziale, tra paesi del Nord Europa e
quelli mediterranei. Le diversità infatti possono essere semplicemente dovute ad un “ritardo” da
parte dei paesi mediterranei nella ricezione di tendenze e nell’adozione di politiche destinate ad una
diffusione generalizzata, in quanto rispondenti a bisogni comuni nell’ambito dei sistemi sanitari.
L’ipotesi della divergenza, insomma, appare tutta da verificare e, allo stato attuale, può essere
avanzata solo con molta cautela. Ciò che si può fare utilmente in conclusione di questo lavoro, è
tornare ai due casi oggetto di indagine, Regno Unito e Italia, e provare ad identificare alcune delle
ragioni alla base delle tendenze differenti riscontrate nei due sistemi sanitari. Questa operazione
potrebbe essere d’aiuto per capire se le divergenze siano un fenomeno contingente o invece se
poggino su basi più durature.
Una prima ragione, che spiega in parte le differenze sul piano regolativo, va ricercata nelle
esigenze prioritarie dei due sistemi, così come sono identificate dai policy makers. Nel Ssn
l’attenzione continua ad essere concentrata sul controllo della spesa, perseguito, tra l’altro,
attraverso la razionalizzazione delle strutture e il contenimento del numero delle prestazioni, molte
delle quali ritenute non appropriate e non necessarie. A tali fini una regolazione ispirata ai principi
dell’integrazione e della complementarietà tra le strutture di produzione appare più adatta rispetto
ad una di carattere competitivo.
Al contrario, dopo la svolta del 2000 uno degli obiettivi principali del governo inglese è quello di
aumentare la produttività e il numero di prestazioni erogate, in modo da ridurre i tempi di attesa. A
questo scopo è funzionale un sistema di mercati o quasi-mercati ispirato al modello della yardstick
competition, nel quale le strutture di produzione, pubbliche e private, sono incentivate ad attrarre il
maggior numero di pazienti e ad erogare una quota più elevata di prestazioni, per cogliere i benefici
garantiti dall’impiego delle tariffe a prestazione o a episodio di ricovero. Queste sono utilizzate in
entrambi i sistemi per incentivare le organizzazioni sanitarie a perseguire condizioni di efficienza
produttiva. Tuttavia, mentre nel Ssn l’altro incentivo presente in questi tipi di tariffe, quello ad
incrementare l’attività erogata, viene contenuto, con maggiore o minore successo, mediante la
fissazione di volumi massimi di produzione e spesa per le singole strutture, tale meccanismo, pur
presente nei contratti del Nhs, non è stato percepito come altrettanto vincolante, in presenza di un
afflusso di risorse nel sistema senza precedenti.
29
Come insegna l’economia sanitaria, però, l’utilizzo dei meccanismi di mercato e, in particolare,
di assetti vicini al modello della yardstick competition presenta forti rischi di perdita di controllo
della spesa e l’esperienza inglese di questi ultimi anni sembra confermare tali previsioni.
Nonostante la spesa destinata al Nhs sia salita in maniera straordinaria, nel 2005 molti ospedali si
sono trovati in condizioni di emergenza finanziaria a causa di una produzione eccessiva che i Pct
non erano disposti a remunerare. La causa principale di questa situazione paradossale, che ha
richiesto tagli sui servizi forniti da molte strutture, è stata identificata proprio nel cattivo utilizzo dei
meccanismi di mercato (Palmer, 2005). In relazione alla crisi economica e finanziaria esplosa negli
ultimi tempi, non è escluso che le autorità di governo britanniche non rivedano la politica di
investimenti portata avanti dopo il 2000 e, con essa, l’assetto regolativo instaurato nel Nhs,
contenendo l’azione dei meccanismi competitivi.
Nella decisione di rilanciare il mercato, inoltre, hanno senz’altro avuto un peso gli orientamenti
ideali del Segretario di Stato alla Sanità in carica negli anni successivi al 2000, il già citato Alan
Milburn, molto vicino al Primo Ministro Tony Blair. A differenza del suo predecessore, considerato
un tipico esponente dell’old Labour, Milburn si è sempre qualificato come uno dei più decisi
“modernizzatori” del Partito Laburista. Il suo orientamento favorevole alla concorrenza e al
mercato, ma anche ad attribuire maggiore potere agli utenti all’interno del sistema sanitario, ha
avuto per unanime riconoscimento un’importanza fondamentale nelle riforme. Allo stesso modo,
non va dimenticato il ruolo esercitato da alcuni accademici in qualità di consulenti dei governi
laburisti per le riforme della pubblica amministrazione. Su tutti si può ricordare Julian Le Grand, le
cui tesi relative al ruolo benefico della concorrenza e della libertà di scelta da parte degli utenti sono
state esposte in numerosi lavori, assai influenti nel contesto britannico (ad es. Le Grand, 2003;
2007).
In un’ottica strutturale, nel senso marxiano del termine, una parte della letteratura ha ricondotto
le scelte attuate dal governo inglese, in questo come in altri settori dei servizi pubblici, al grado
elevato di apertura dell’economia britannica di fronte ai mercati internazionali e ai fenomeni di
globalizzazione (Leys, 2003); un tratto, questo che accomuna chiaramente il Regno Unito ai paesi
scandinavi. Queste interpretazioni si avvicinano in qualche modo a quelle che pongono l’accento
soprattutto sulle pressioni esercitate dalle compagnie assicurative e dalle organizzazioni sanitarie
americane per entrare nel Nhs, come in parte sta accadendo. Tali pressioni sarebbero collegate a
quelle compiute da organizzazioni internazionali come il WTO o la Banca Mondiale, per l’apertura
del settore sanitario ai mercati internazionali (Pollock, 2005).
Orientamenti favorevoli al mercato erano condivisi anche dal Ministro della Sanità Sirchia e da
altri esponenti dei governi italiani di centro-destra in carica nel periodo 2001-06. A questo riguardo,
30
le idee di Sirchia hanno trovato una traduzione non tanto nell’assetto regolativo del Ssn, quanto
nella riforma volta a trasformare gli Irccs in fondazioni e, più in generale, nell’indirizzo favorevole
alla diffusione delle collaborazioni pubblico-privato. In questa materia, però, come in altre, l’azione
del governo centrale ha trovato spesso l’opposizione determinante delle Regioni.
Quest’ultima considerazione ci porta ad un altro fattore che contribuisce a spiegare le differenze
nell’evoluzione dei due sistemi sanitari presi in esame. Nel nuovo equilibrio dei poteri tra i livelli di
governo emerso dopo gli anni novanta e i mutamenti costituzionali introdotti nel 2001, una riforma
strutturale del Ssn, che ne muti in profondità l’organizzazione e la regolazione, richiede, per la sua
attuazione se non per la stessa approvazione, il consenso e la collaborazione concreta delle Regioni.
Queste infatti detengono le principali competenze in materia di organizzazione e gestione del Ssn.
Quali che siano le preferenze dei governi nazionali, i principi introdotti dalla legislazione statale
devono essere tradotti concretamente nei Servizi Sanitari Regionali dagli esecutivi e dalle
assemblee regionali, che hanno ampia discrezionalità in questo ambito. Ciò probabilmente, se non
rende impossibile riforme globali del sistema come quelle del 1992-93 e del 1999, certamente
costituisce un freno a proporre periodicamente mutamenti di tale portata, come fa invece il governo
britannico. Per molti versi ci si deve quindi attendere che le trasformazioni in ambito organizzativo
e regolativo si verifichino a livello regionale, più che nazionale, come dimostra l’esperienza di
questi anni con il caso della Lombardia.
L’assunzione di un assetto istituzionale di carattere marcatamente regionalista e tendenzialmente
federale, condiviso anche dalla Spagna, costituisce quindi un freno ad assecondare la “rivoluzione
continua” del sistema (Webster, 2002), portata avanti nel Regno Unito negli ultimi vent’anni. Nulla
impedisce però che siano le Regioni a proporre periodiche rivoluzioni nel proprio sistema, per
quanto esse trovino a loro volta un limite nella legislazione nazionale.
Indubbiamente, se si vorrà procedere alla definizione di standard comuni per le organizzazioni
sanitarie e all’istituzione di organismi indipendenti per la valutazione dell’operato delle strutture, si
dovrà tenere conto di questa realtà. Si impone cioè una riflessione approfondita sul livello di
governo cui attribuire la definizione degli standard, sul loro grado di dettaglio e di cogenza,
sull’opportunità di costituire organismi di controllo in ambito nazionale o invece regionale. Le
scelte dovranno considerare, da un lato, la struttura costituzionale acquisita dal nostro paese,
dall’altro, la necessità di perseguire obiettivi di eguaglianza nell’accesso e nella fruizione dei servizi
da parte di un servizio sanitario nazionale.
Infine, le differenze emergenti nella struttura dei servizi sanitari britannico e italiano e, più in
generale, dei paesi del Nord Europa rispetto a quelli mediterranei, può essere ricondotta anche a
fattori di lungo periodo, la cui importanza nella spiegazione dell’evoluzione dei sistemi sanitari e di
31
quelli di welfare è già stata ampiamente notata e analizzata (Vicarelli, 1997; 2005; Paci, 1982;
1989; Ferrera, 1993). Nel nostro caso, può darsi che la persistenza o il rilancio del ruolo del livello
nazionale di governo, pur in forme diverse dal passato, così come l’evoluzione più recente in senso
bipolare (Stato-strutture di produzione) nell’organizzazione del Nhs siano favorite da una tradizione
di intervento statale nell’assistenza sociale e sanitaria, tipica dei Paesi del Regno Unito e dei paesi
scandinavi. Questa tradizione, che affonda le sue radici nei secoli passati, non ha un corrispettivo
analogo nel Sud Europa, dove è stato più rilevante il ruolo dei governi locali e dei cosiddetti “corpi
intermedi” della società. Sotto questo profilo, la divergenza rilevata nei percorsi di trasformazione
dei servizi sanitari nazionali tra i diversi gruppi di paesi europei non farebbe altro che riproporre un
fenomeno che si è già verificato in altri momenti cruciali della storia del welfare, come i decenni a
cavallo tra ottocento e novecento o il secondo dopoguerra.
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