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7 EBRAISMO INFORMAZIONE CULTURA SETTIMANALE שבועון SHALOMשלום È pericoloso girare con la kippah L’allarme lanciato dagli ebrei francesi. In aumento le aggressioni antisemite 28 T EVET 5776 S A B A T O G E N N A I O 09 Due palestinesi uccisi dopo tentata aggressione a soldati D ue palestinesi sono stati uccisi dopo aver tentato di aggredire con armi da taglio dei soldati israelinani a un posto di blocco nel Nord della Cisgiordania. Lo riferiscono fonti dell'esercito di ISRAELE. Finora 22 israeliani, un americano e un eritreo sono rimasti uccisi in attacchi compiuti da palestinesi, con armi da taglio o con automobili, dal primo ottobre scorso. (fonte afp) L'incredibile ipocrisia dei media di tutto il mondo Chi censurò il Maometto di Charlie ora va liscio col Dio giudeocristiano GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776 U 2 n anno fa, tutti i grandi quotidiani, tv e agenzie fotografiche, a cominciare dai “Big Three” (Msnbc, Cnn e Ap), fecero a gara nel giustificare la censura della copertina del redivivo Charlie Hebdo dopo la strage del 7 gennaio. Quella in cui Maometto piange e dice “tutto è perdonato”. La Cnn disse di nutrire “preoccupazioni per la sensibilità del pubblico musulmano”. Il colosso diede ordine in una email interna di non diffondere il disegno, ma di descriverlo. “E' la chiave per comprendere la natura dell’attacco alla rivista e la tensione tra libera espressione e il rispetto per la religione”, recitava la direttiva dell’azienda. Scelta non rispettata per il Dio giudeo cristiano che Charlie Hebdo ha messo in copertina un anno dopo. Nel 2015, la Bbc descrisse la copertina senza mostrarla, scelta che non ha ripetuto quest’anno. Il giornale destrorso Daily Telegraph tagliò la coper tina in modo da espungere il Profeta. Stavolta il Telegraph ha pubblicato integralmente la coper tina. Niente pixel. Il quotidiano della sinistra inglese Guardian nel 2015 pubblicò il Profeta dell’islam con l’avver tenza che avrebbe potuto “ferire la sensibilità dei lettori”. Due giorni fa non hanno avuto problemi a diffondere la nuova copertina. L’Associated Press un anno fa decise di censurare le vignette. Motivo? “Provocatorie”. L’Ap mostrò il direttore ucciso nella strage, “Charb”, che teneva in mano uno dei numeri dedicati all’islam, ma tagliando in modo da lasciare fuori Maometto. Stavolta niente censura: è un Dio abramitico, non Allah! Salvo poi cassare anche la nuova copertina, dopo le accuse di doppio standard rivolta da alcuni media. Un anno fa, il gruppo Nbc diede precise direttive: niente vignette “insensibili” e “offensive”. Regola che stavolta non è stata osservata da Msnbc. D’altronde, si sa, a esercitarsi in blasfemia contro i giudeo cristiani non si muore, non si finisce in tribunale e l’audience va for te. Ipocriti non sono quei coraggiosi anarchici di Charlie Hebdo, ma i felloni imboscati nelle redazioni di giornali e tv. Giulio Meotti (Il Foglio, 9 gennaio 2016) L’attacco al pub Fuga finita. Eliminato il killer di Tel Aviv L a fuga è finita. Una settimana dopo l’attacco ad un pub di Tel Aviv (due morti) l’arabo israeliano Nashat Melhem è stato ucciso da un’unità scelta della polizia. L’inseguimento si è concluso nel vill ag gio natale di Arara, 60 km a nord di Tel Aviv. Non in una moschea, come riferito all’inizio, ma in una casa abbandonata. Cinque persone che gli hanno fornito assistenza sono agli arresti. A scovarlo un cane segugio della polizia. Quando si è avvicinato al suo nascondiglio, Melhem si è innervosito e gli ha sparato. Resta da capire se il killer fosse un lupo solitario o parte di un gruppo. (Il Corriere della Sera, 9 gennaio 2016) Terrorismo a Parigi Portico d'Ottavia con le serrande giù A mezzogiorno i negozi del portico d'Ottavia hanno abbassato le serrande: un modo per ricordare le vittime dell'attentato di Parigi di un anno fa, nel quale un uomo si è barricato all'interno di un supermercato casher. Morirono 4 ostaggi. II rabbino capo, Riccardo di Segni: «Siamo a un anno dai tristissimi eventi di Parigi e la memoria deve essere mantenuta, ricordare l'orrore, ricordare anche la tristissima lezione che ne deriva, perché hanno prima colpito una redazione di un giornale, poi nn negozio di prodotti kosher, quindi attentati relativamente mirati. Si comincia con noi ma poi si arriva a investire l'intera popolazione». Memoria è anche quella proposta da Gunter Demnig: l'artista tedesco, che installa in tutta Europa le pietre d'inciampo per ricordare i deportati politici e razziali, sarà a Roma la prossima settimana per posizionare u nuove «Stolpersteine». La prima in via Po. Susi Fantino, Presidente del Municipio VII, annuncia che un'altra «sarà incastonata luned'i in via Gallia, indicherà il luogo dove ha vissuto Adolfo Sansolini, partigiano del Partito d'Azione torturato in Via Tasso e ucciso alle Fosse Ardeatine». (Il Corriere della Sera, 9 gennaio 2016) 29 T EVET 5776 DOMENICA G E N N A I O 10 Alfano: clandestinità una norma sbagliata ma ora deve restare GENNAIO 2016 • TEVET SHEVAT5776 5776 P 3 otrebbe alzare le braccia al cielo dopo un goal: aver costretto il governo a una marcia indietro sul reato di immigrazione clandestina. Al contrario, Angelina Alfano riconosce tutti i limiti di alcune scelte del passato. Come quando, nel 2009, sedeva in quel Consiglio dei ministri che approvò la norma che ora l'Anm e i magistrati più impegnati contro gli scafisti chiedono di abrogare. «Fu un tentativo di dissuasione, ma - ammette il ministro dell'Interno - non funzionò». E tuttavia, benchè condivida le «ragionevoli obiezioni» tecniche di Franco Roberti, il procuratore nazionale antimafia, e quelle «altrettanto ragionevoli» del ministro Orlando, Alfano tiene il punto: «Non è questo il momento opportuno per andare a modificare quel reato. La gente non capirebbe». Raccontano di uno scontro tra lei e il ministro della giustizia nell'ultima riunione di governo, con Renzi che alla fine si schiera dalla sua parte e decide di non abrogare il reato di clandestinità. È andata così ? «Non c'è stato nessuno scontro. Anzi, non c'è nessuna delle cose che ha detto Orlando che non abbia il pregio della ragionevolezza. Cosi come, sul piano tecnico, quanto affermato dal dottor Roberti a Repubblica, è corretto». E allora perché mantenere il reato scusi? La norma di fatto non viene applicata... «Il tema è un altro. Nel campo della sicurezza stiamo giocando due partite intrecciate ma diverse: una sulla realtà e l'altra sulla percezione della realtà. La realtà è che calano i reati, che abbiamo raggiunto nel 2015 il numero più basso di omicidi della storia d'Italia, che i reati predatori come le rapine sono in calo, che la criminalità organizzata non è mai stata così in affanno, che abbiamo saputo gestire 10 mila manifestazioni di ordine pubblico e che, soprattutto, abbiamo svolto finora un ottimo lavoro di prevenzione sul terrorismo internazionale». Ma la percezione dei cittadini italiani è un'altra... «Purtroppo è così e non ce la possiamo prendere con la gente. Dobbiamo lavorare perché una percezione sbagliata non modifichi i comportamenti, perché alla fine la paura incide anche sul senso di libertà. Il mio no alla cancellazione del reato di clandestinità riguarda esattamente questo: il momento è molto particolare e non dobbiamo dare agli italiani l'idea di un allentamento della tensione sulla sicurezza proprio mentre chiediamo di accogliere i profughi». Lo ammetta, fu un errore andare dietro alla Lega e approvare quella norma? «Fu un tentativo di dissuasione. Ci sono norme che riescono bene e altre che non funzionano. Devo dire che non fu l'unica non riuscita di quel periodo: non mi sembra che le ronde abbiano risolto il problema della sicurezza o i respingimenti abbiano avuto successo. Hanno solo portato l'Italia a una condanna internazionale senza incidere minimamente sulle migrazioni». Salvini era pronto al referendum contro l'eliminazione del reato di clandestinità. Temevate di essere travolti? «Guardi che la mia richiesta di non inserire quella norma nel decreto legislativo risale al 13 novembre, ben prima dell'annuncio leghista sul referendum. Salvini pensava di avere in mano il biglietto vincente della lotteria e di andare all'incasso alle amministrative. Invece dovrà tornare a occuparsi della Corea del Nord, che mi pare essere la sua passione in politica estera». Ha vinto Alfano contro Renzi? «Renzi era d'accordo con me il 13 novembre. Anche lui condivide un approccio non ideologico ma pragmatico alla politica e alla realtà. La bussola di noi moderati al governo è proprio questa, il buon senso, la ricerca di una soluzione equilibrata a problemi complicati. Ed è stato il buon senso a suggerirci che non fosse opportuno modificare quella norma». Quindi in futuro potrebbe essere cancellato quel reato, magari utilizzando un disegno di legge a parte? L'Associazione nazionale magistrati, con Rocco Sabelli, la considera una norma «inutile e dannosa. Come risponde? «La sfera di cristallo non ce l'ho, vedremo. Quanto all'Anm, fa la sua parte e in questa non c'è il compito di scrivere le leggi». Che fine ha fatto il piano europeo per il quale vi eravate battuti? Dei 40 mila ricoollocamenti di profughi ne sono stati fatti appena 200. Si può dire che è fallito? «Le cifre parlano da sole, siamo a numeri da condominio. Questa è la vera questione e, se non si risolve, l'Europa rischia di andarsi a schiantare contro un iceberg. Con l'aggravante di averlo visto in tempo». Oltre alla clandestinità avete ingaggiato col Pd anche sulle unioni civili. Sono in corso dei tentativi di mediazione: fin dove potete arrivare? «Ci sono ancora dei giorni per produrre una mediazione. Ma sinceramente ancora non mi spiego perchè una legge nata con il giusto obiettivo di riconoscere più diritti ai conviventi di una coppia, anche omosessuale, abbia trasformato il tutto in una fotocopia del matrimonio, preludio anche alle adozioni. Le questioni per noi sono sempre tre: diritti, equivalenza con il matrimonio e possibilità di adottare da parte delle coppie gay. Sul primo punto diciamo si, sugli altri due diciamo no. Semplice, di buon senso». FRANCESCO BEI (La Repubblica, 10 gennaio 2016) 0 1 SHEVA T 5776 L U N E D I G E N N A I O 11 Un anno fa gli attacchi a Montrouge e a HyperCacher C Ancora commemorazioni a Parigi ommozione, lacrime e raccoglimento. La Francia ha celebrato ieri le vittime dei barbari attentati perpetrati esattamente un anno fa, l'8 e 9 gennaio del 2015, da Amédy Coulibaly, lo spietato terrorista che in nome dello Stato islamico (Isis) uccise una poliziotta ventiseienne a Montrouge e quattro degli ostaggi trattenuti all'HyperCacher, il supermercato ebraico della Porte de Vincennes. Alle 19:30, al termine dello shabbat, una "corteo unitario in omaggio" ai morti si è tenuto davanti al grande negozio di prodotti kosher dell'est di Parigi ormai completamente rinnovato. Alla cerimonia, promossa dal consiglio degli ebrei di Francia (Crif), hanno partecipato, tra gli altri, il premier Manuel Valls, il ministro dell'Interno Bernard Cazeneuve, nonché il presidente del Consiglio dei musulmani (Cfcm), Anouar Kbibech. Tra l'altro, questo fine settimana, il Cfcm ha promosso un'operazione ''porte aperte'' per tutte le moschee della République. L'iniziativa, ha spiegato Kbibech, ha lo scopo di "creare uno spazio di scambio conviviale con i nostri connazionali non musulmani". Un "gesto simbolico d'apertura" per "smetterla di guardarci in cagnesco". Davanti al supermercato sono state accese 19 candele, una per i 17 morti di gennaio scorso, una per le vittime degli attentati del 13 novembre e una per tutte le vittime del terrorismo. Martedì Hollande era già stato all'HyperCacher per svelare una targa in "memoria delle vittime dell'attentato antisemita" con il nome delle quattro vittime ebree di Coulibaly: Yoav Hattab, Philippe Braham, Yohan Cohen e François-Michel Saada. Altre pietre commemorative sono state svelate nei giorni scorsi davanti alla redazione di Charlie Hebdo e sul vicino Boulevard Richard-Lenoir dove il 7 gennaio passarono all'azione i fratelli Kouachi uccidendo dodici persone. "Nonostante il trauma ancora duraturo, la vita ha ripreso il suo corso. Con il sentimento di una ritrovata fratellanza", ha detto il grande rabbino di Francia, Haim Korsia. Intanto però - nonostante le misure messe in campo dalle autorità transalpine per garantire la sicurezza dei siti ebraici di Francia come sinagoghe e scuole religiose - l'emigrazione degli ebrei francesi verso ISRAELE (la cosiddetta 'aliyah') ha raggiunto per il secondo anno consecutivo livelli record con circa 7.900 partenze. GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776 Israele: Progetto Dreyfus, denuncia il silenzio dei leader europei quando a morire sono gli ebrei 4 Ieri sera manifestazione a Tel Aviv in solidarietà vittime terrorismo antisemita U n centinaio di persone, chiamate dall'associazione italiana no profit 'Progetto Dreyfus', ha manifestato ieri sera a Tel Aviv davanti il luogo dell'attentato mortale compiuto il primo gennaio scorso da un arabo israeliano. Con l'hashtag #whereistheworld?, la manifestazione ha voluto protestare contro la mancanza in questa occasione di leader europei e mondiali in ISRAELE a differenza della solidarietà mostrata a Parigi per l'attentato a Charlie Hebdo e all'iperkoscher del gennaio del 2015. Per questo i manifestanti innalzavano sagome di Ieri c'è stato anche l'omaggio a Clarissa Jean-Philippe, l'agente della polizia municipale freddata l'8 gennaio a Montrouge. Accompagnato da due ministri Hollande si è recato in mattinata nel comune alle porte di Parigi per inaugurare una targa in ricordo dell'agente di 26 anni uccisa da Coulibaly: "Clarissa Jean Philippe, vittima del terrorismo nel compimento del proprio dovere". Durante la cerimonia è stata deposta una corona di fiori e osservato un minuto di silenzio. E' stata poi intonata Marsigliese. Più volte la famiglia di Clarissa, originaria della Martinica, aveva deplorato che l'uccisione della figlia fosse stata "dimenticata". La madre si è intrattenuta con Hollande al termine di quella che ha poi definito una "bella cerimonia" che le ha "scaldato il cuore". A Clarissa sono state intitolate l'avenue de la Paix di Montrouge e una strada di Villepinte. A Sainte-Marie, il comune della Martinica di cui era originaria, è stata eretta una statua in suo omaggio. Un'altra piazza a suo nome sorgerà a Carrière-sous-Poissy la cittadina alle porte di Parigi in cui abitava. La settimana di omaggi e commemorazioni si chiuderà oggi con un'ultima manifestazione popolare in Place de la République questa volta in ricordo di tutte le vittime degli attentati del 2015, incluso, gli ultimi tragici eventi di venerdì 13 novembre. Ai piedi di una quercia, l'"albero del ricordo", verrà svelata una targa, poi Johnny Hallyday, uno dei più popolari cantanti francesi, interpreterà 'Un dimanche de Janvier', un brano dedicato all'impressionante mobilitazione popolare dell'11 gennaio, quando oltre 1,2 milioni di persone e i leader di circa 50 Paesi sfilarono per le vie di Parigi per dire basta al terrorismo. Hollande, Putin, Ban Ki-Moon, Cameron, Obama, Renzi, Erdogan, Merkel e Sarkozy che all'epoca in parte scesero in piazza contro l'attentato a Parigi. "Innanzitutto - ha detto Alex Zarfati di 'Progetto Dreyfus' - abbiamo voluto dimostrare la nostra solidarietà alle vittime dell'attentato di Tel Aviv, ma anche denunciare il doppio standard che la stampa e i politici mondiali ed europei adottano nei confronti delle vittime israeliane". "Un evento di impatto che ha voluto mettere in evidenza - ha aggiunto Beny Raccah di 'Progetto Dreyfus' - il silenzio e l'assenza dei leader mondiali a Tel Aviv ma presenti a Parigi". All'iniziativa - che è stata trasmessa in diretta su Periscope e che secondo gli organizzatori ha avuto 400 contatti - ha dato l'adesione anche 'Hevra' Olei Italia', l'associazione che rappresenta gli emigrati ebrei italiani in ISRAELE: "La politica dei due pesi e di due misure - ha detto il presidente Vito Anav - è per noi inaccettabile".(ANSA). 0 2 SHEVA T 5776 MARTEDI G E N N A I O 12 Ebreo aggredito con machete in strada a Marsiglia U n minore, probabilmente con problemi psichici, ha aggredito con un machete un uomo che indossava una kippah, tipico copricapo ebraico, questa mattina a Marsiglia, prima di essere arrestato dalla polizia. Secondo quanto riferiscono i media francesi, il giovane, nato nel 2000, ha colpito la vittima nei pressi del municipio del 9° arrondissement di Marsiglia, davanti ad alcuni testimoni e poi è fuggito lasciando cadere l'arma. L'uomo ha subito lesioni lievi alla schiena e a una mano. Il presunto autore dell'aggressione è stato arrestato una decina di minuti più tardi dalla brigade anti-criminalité (BAC) in stato confusionale. ''Il fermato non sembra padrone di tutte le sue facoltà" ha detto una fonte a Le Parisien, assicurando tuttavia che "l'episodio è stato preso molto seriamente dagli investigatori". L’autore dell’attacco antisemita contro un insegnante ebreo a Marsiglia è un giovane turco di origine curda che sostiene lo Stato islamico. Ha detto di agire ‘’per Allah’’ e ‘’per l’Is’’, ha annunciato questo pomeriggio il procuratore della città, aggiungendo che il giovane di 16 anni non ha precedenti penali. L’aggressore ha leggermente ferito con un machete il professore, con indosso una kippah, che camminava in strada, prima di essere arrestato dalla polizia. Un’inchiesta per “tentato omicidio a sfondo razziale” e “sostegno al terrorismo” è stata aperta dalla procura di Marsiglia. (ADNKRONOS) Shoah: Roma ricorda vittime con 11 nuove pietre inciampo Dell'artista tedesco Gunter Demnig. Sono dedicate a Arrigo Tedeschi, Giulio Sacripanti, Alfredo e Adolfo Sansolini, Marcello, Maurizio e Umberto Mendes, Pacifico Livoli, Enrico David Di Veroli, Donato Piazza, Enrica Tagliacozzo. L'iniziativa, giunta alla settima edizione, per ricordare le vittime dell'orrore nazista U ndici sampietrini con una targa d'ottone lucente per non dimenticare l'orrore della Shoah. E per ricordare chi fu strappato dalla sua abitazione e deportato nei campi di concentramento. Roma ricorda ancora una volta i suoi cittadini vittime dell'orrore dei lager nazisti. Questa mattina in via Po, nel quartiere Salario e a due passi da Villa Borghese, è stata installata una delle undici nuove pietre d'inciampo dell'artista tedesco Gunter Demnig. Proprio davanti l'ingresso dell'edificio, al numero civico 42, dove abitava Arrigo Tedeschi, classe 1887, arrestato il 16 ottobre 1943, deportato ad Auschwitz ed assassinato dopo pochi giorni, il 23 ottobre. Nella Capitale sono state posizionate dal 2010 226 pietre d'inciampo e oggi l'artista tedesco torna 'al lavoro' nella Città Eterna per la sua settima volta. "Con questa iniziativa si sta realizzando una grande mappa europea della memoria - spiega la curatrice del progetto Adachiara Zevi - Questo è l'unico caso di un monumento diffuso, in diverse città, in tanti quartieri. Un monumento anti-gerarchico con ogni pietra che racconta una sua storia". L'idea dei 'Stolpersteine' (pietre d'inciampo) risale al 1993 quando Demnig fu invitato a Colonia per una installazione sulla deportazione dei cittadini rom e sinti. All'obiezione di una anziana signora secondo la quale a Colonia non avrebbero mai abitato i rom, l'artista decise di dedicare tutto il suo lavoro alla ricerca e alla testimonianza dell'esistenza di cittadini scomparsi a seguito delle persecuzioni naziste: ebrei, politici, militari, rom, omosessuali, testimoni di Geova, disabili. Ad oggi in tutta Europa sono state installate oltre 50mila pietre d'inciampo.(ANSA). Il Papa e gli ebrei. A Roma nuova tappa di amicizia Domenica Francesco in Sinagoga Di Segni: un messaggio di pace «II nostro incontro vuole concordemente dare un segnale: l'appartenenza a una fede non deve essere motivo di ostilità, ma è possibile costruire, proprio in nome della religione, una convivenza sul rispetto e la collaborazione» GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776 F 5 in dalla elezione di Francesco il rabbino capo della storica Comunità ebraica di Roma, Riccardo Di Segni, ha avuto diversi contatti e incontri personali con il Papa. Da subito, «per desiderio condiviso», è entrata in agenda la possibiIità di una sua visita al Tempio Maggiore. Dal suo studio di Lungotevere de Cenci, Di Segni delinea oggi l'importanza della terza visita di un Pontefice alla sinagoga nel contesto storico segnato dai conflitti che stiamo vivendo, nel progresso delle relazioni e del dialogo ebraico-cattolico a cinquant'anni dalla Noma aerate. E parla dell'urgenza del messaggio che l'incontro di domenica vuole evidenziare e rilanciare. Come si svolgerà il prossimo incontro del Papa al Tempio Maggiore e qual è il carattere che si è voluto dare a questa visita? La visita, comprensiva del momento importante all'interno del Tempio con i discorsi ufficiali, ha il carattere e lo scopo di un incontro diretto, personale e collettivo con la Comunità ebraica di Roma e con alcune rappresentanze ebraiche internazionali che ci tengono a incontrare papa Francesco. La presenza istituzionale italiana è pertanto ridotta all'essenziale. In prima fila sarà il popolo della Comunità ebraica nelle sue varie componenti: da chi si occupa dei poveri alle famiglie colpite dal terrorismo, ai giovani, agli ex deportati che costituiscono le diverse sfaccettature odierne e rappresentative di una comunità storicamente dirimpettaia al Vaticana. È perciò una visita scandita e concentrata essenzialmente nell'incontro diretto con le persone. È prevista una larga partecipazione? Avremo il Tempio strapieno, al limite della capienza. La visita alla sinagoga di papa Francesco avviene esattamente sei anni dopo quella di Benedetto XVI del 17 gennaio del 2010 e a trent'anni da quella di Giovanni Paolo II. Rispetto ad esse quali sono le differenze? La visita di Giovanni Paolo II è stata uno spartiacque nei rapporti ebraico-cristiani. La seconda di Benedetto XVl ha sottolineato, con il suo stile, una continuità. Ciascuna delle due visite va inseritanel contesto delle diverse contingenze. Perché è importante la visita di papa Francesco? Un primo aspetto è proprio quello della continuità su una strada di amicizia segnata dai suoi predecessori. È importante perché nel percorso del dialogo nulla deve essere mai dato per scontato e non era scontato che ci potesse essere una nuova visita. Siamo sempre attenti al percorso comune e riteniamo ogni passo importante. La visita di papa Francesco non sarà un mero rituale ereditato dai suoi predecessori, è una nuova tappa, si rinnova di sentimento e si coprirà di nuovi significati. E quale significato, secondo lei, assume in questo momento? La visita di Francesco in sinagoga ha il suo significato e la sua forza proprio nel contesto storico che stiamo vivendo. Il mondo è insanguinato da conflitti. Siamo preoccupati per l'estremismo dilagante e le violenze che si compiono in nome delle religioni, per gli indirizzi che possono prendere certe scelte politiche. Il nostro incontro vuole concordemente dare un segnale che è attualissimo, importantissimo e urgente: il messaggio che l'appartenenza a una fede, a una religione non deve essere motivo di ostilità, di odio e di violenza ma è invece possibile costruire una convivenza pacifica, sul rispetto e la collaborazione proprio in nome della propria religione. È un segnale in controtendenza... Ma è l'idea vincente in questo momento. Il prossimo incontro con papa Francesco attualizza la diversità religiosa come dimostrazione di convivenza, di collaborazione per il bene di tutti, perché le religioni sono portatrici di pace e di valori positivi, utili a tutta la società. Il momento difficile può essere superato positivamente in questa prospettiva. È necessario allargare l'esempio ad altre componenti. Bisogna creare una gara virtuosa. Lei ha incontrato già diverse volte papa Francesco, quali temi di rilievo avete affrontato in questa prospettiva? Dai problemi sociali che affliggono l'Europa all'immigrazione, all'emergenza umanitaria. Si è ragionato sull'impegno delle religioni in questo senso e sui futuri progetti di collaborazione. Proprio ieri il Papa ha reiterato i suoi appelli sulla questione degli immigrati... Sull'emigrazione abbiamo presentato le nostre analisi, la nostra disponibilità e le nostre perplessità, fermo restando l'aspetto fondamentale che è iscritto nel nostro Dna storico che il migrante deve essere protetto. La Shoah ci deve far ricordare anche soprattutto l'importanza della convivenza con il vicino e con il diverso. Qualcuno ha detto che l'Europa è nata da Auschwitz, non si può finire con un'altra Auschwitz. Si deve mostrare che qui in Europa siamo insieme per vivere e collaborare, non per distruggere perché la convivenza è possibile. Ricordando i cinquant'anni dalla Nostra aetate Francesco ha sottolineato «la vera e propria trasformazione che avuto in questo tempo il rapporto tra cristiani ed ebrei». Anche da un punto di punto di vista teologico il dialogo intra-religioso ha fatto dei passi avanti. Per lei quali sono significativi? Di recente la Commissione vaticana per i rapporti religiosi con l'ebraismo ha pubblicato un documento. Direi che si tratta di un documento importante perché è una sintesi di quanto è stato compiuto in questi cinquant'anni e della riflessione teologica da parte cattolica che porta a dei chiarimenti importanti e a delle precisazioni necessarie. In particolare, ad esempio, sul rifiuto di una missione istituzionale dei cristiani in relazionagli ebrei. Ma non tutto è risolto, diversi aspetti debbono ancora essere sviluppati e approfonditi. Posso dire che si tratta fin qui di un onorevole armistizio. Come viene considerata la consapevolezza di questo dialogo intra-familiare da parte della Comunità ebraica? Il mondo ebraico è estremamente variegato. Solo un piccolo gruppo di specialisti si occupa di queste questioni. La gente comune vede i fatti e sui fatti misura il valore di un rapporto. Un ebreo che vive in Europa coglie e apprezza il fatto che il clima dei rapporti è sostanzialmente cambiato, decisamente migliorato, anche se ci sono difficoltà sulle quali bisogna ancora lavorare. Questo è importante. Ma c'è differenza con gli ebrei che vivono nello Stato di Israele. C'è questo duplice aspetto da considerare. Non è semplice. La visita cade anche nel contesto dell'Anno giubilare della misericordia, nella cui bolla d'indizione papa Francesco ha voluto menzionare in modo particolare il legame con l'ebraismo... Un evento come questa visita alla Comunità ebraica di Roma certamente serve a consolidare ancora di più i rapporti e a dare forti segnali visibili in questo senso. STEFANIA FALASCA (Avvenire, 12 gennaio 2016) 0 3 SHEVA T 5776 MERCOLEDI G E N N A I O 13 Il triste presagio degli ebrei d’Europa Attacchi antisemiti quotidiani. La Francia è il test. E stiamo perdendo U n giovane islamista ha aggredito a colpi di machete un insegnante ebreo che portava la kippah a Marsiglia. “Ho agito per Allah e per lo Stato islamico”, ha dichiarato l’attentatore, fermato poco dopo dalla Police Nationale. Tranquilli: il procuratore che segue il caso, Brice Robin, ha detto che l’islamista non sembra essere affetto da disturbi psichici. “Le motivazioni non lasciano dubbi”, ha scandito il presidente Hollande, deplorando l’ennesima “aggressione antisemita”. Non ci voleva un genio per capirlo. Eppure, le notizie quotidiane di attacchi contro gli ebrei in Europa meritano sempre meno spazio sui giornali. Come se fossimo assuefatti alla dose quotidiana di antisemitismo spicciolo, a fari spenti. La settimana scorsa una cosa simile era successa in Inghilterra. “Senza gli ebrei, la Francia non sarebbe la Francia”, ha detto il premier Valls alla commemorazione dell’attentato all’Hyper Cacher. Verissimo. Soltanto che sta avvenendo: gli ebrei stanno lasciando la vecchia Europa. Solo nello scorso anno diecimila ebrei francesi hanno fatto le valigie alla volta di Israele e altri paesi. Nella comunità ebraica c’è un senso di impotenza e di triste presagio: “E’ vero, in Israele ci sono gli attacchi con i coltelli. Ma almeno laggiù il governo israeliano è con noi. Qui il governo dorme”, ripetono gli ebrei a Parigi e altrove. Vanno prese seriamente le parole della moglie di uno dei kamikaze del Bataclan, Kahina Amimour: “Fino a quando continuerete a offendere l’islam e i musulmani sarete dei potenziali obiettivi, non solo i poliziotti e gli ebrei, tutti”. La Francia è il grande test, perché ospita la più vasta e vitale comunità ebraica d’Europa. E gli islamisti, i loro “compagni di viaggio” europei, sembrano avere la meglio. Almeno per ora. Come va per gli ebrei, va per tutti noi. (Il Foglio, 13 gennaio 2016) "Boicotta Israele” anche in Italia centocinquanta accademici preparano un appello GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776 S 6 ulla falsariga di quanto è già accaduto in Gran Bretagna, un nutrito gruppo di accademici italiani sta lavorando a un appello che invita la comunità scientifica al boicottaggio culturale di Israele, o quantomeno delle sue istituzioni ufficiali. «Non accetteremo inviti dalle istituzioni accademiche israeliane, non saremo referenti in alcuno dei loro eventi, non parteciperemo a conferenze da loro finanziate, organizzate o sponsorizzate, né coopereremo con loro», avevano scritto trecento docenti e ricercatori britannici (sul Guardian) nell’ottobre scorso, motivando la decisione con le «violazioni intollerabili dei diritti umani inflitte a tutto il popolo palestinese». Fra loro, molti italiani che insegnano all’estero. La conseguenza è che ora qualcosa di molto simile è in fase di definizione anche da noi. Sarebbero già 150 gli accademici che hanno aderito a un testo ancora non definitivo, come dice uno dei partecipanti, che vorrebbe evitare toni troppo radicali per coinvolgere la massima platea possibile. La sostanza è comunque un no alle istituzioni ufficiali di Israele, che però non si applicherebbe ai singoli intellettuali e docenti israeliani quando invitati (o invitanti) a titolo personale. L’appello britannico - seguito peraltro da altri consimili, anche ad esempio fra gli antropologi delle nostre università - aveva com’è noto sollevato polemiche, e non solo consensi. C’è stato anche un «controappello», firmato tra gli altri da J. K. Rowling, l’autrice di Harry Potter. «Stiamo cercando di informare e incoraggiare il dialogo fra Israele e i palestinesi in una comunità culturale e creativa più ampia - vi si legge -. I boicottaggi culturali che vogliono isolare Israele sono divisivi e discriminatori, e non favoriscono la pace». MARIO BAUDINO (La Stampa, 13 gennaio 2016) A chi fa paura la kippah Francia Ebrei nel mirino, il Gran Rabbino: non rinunciamo al simbolo M eglio che per un po' evitiate di indossare la kippah, ha consigliato ieri Zvi Ammar, presidente del Concistoro ebraico di Marsiglia, rivolgendosi alla sua comunità, "in attesa di tempi migliori", visto che portare il copricapo tradizionaledegl i ebrei può diventare fatale. Parole che hanno di nuovo rimesso in discussione lo spirito laico e fortemente tollerante della società francese, già in crisi profonda dopo l'assalto a Charlie Hebdo e all'ipermercato ebraico dello scorso gennaio. Il fatto è che da anni, ormai, gli ebrei di Francia si sentono nel mirino dell'antisemitismo, di quello targato estrema destra e di quello islamico: nel 2014, gli attacchiantisemitisonostati 851. Sempre più sono gli ebrei che lasciano la Francia per andare in Israele, compiendo così l'aliyah (in ebraico vuol dire: salita). E chi resta ha sempre più paura. Come gli ebrei di Marsiglia. Lunedì mattina uno di loro, l'insegnante Benjamin A., 35anni, che insegna la Torah all'istituto franco-ebraico La Source, è stato aggredito in boulevard Paul Claudel a colpi di machete da un giovane turco di origine curda, Yusuf, un liceale che compirà sedici anni la settimana prossima, "in nome dell'Islam e dello Stato islamico". Il ragazzo si è accanito contro il docente perché portava infatti la kippah, e perché indossava un abito ortodosso. Un dettaglio identitario più che simbolico. Il docente si è salvato, proteggendosi proprio col grosso volume della Torah, il libro sacro che raccogliessi insegnamenti della tradizione religiosa ebraica. E forse anche per questo altro dettaglio - le religioni si nutrono di simboli - si è levata autorevole da Parigi la voce del gran rabbino di Francia, Haim Korsia. Il quale ha preso, sostenendola con orgoglio e coraggio, posizione ben di versa e assai meno remissiva rispetto a quella di Zvi Ammar: "Non ci pensiamo neppure a rinunciare alla nostra kippah: continueremo ad indossarla. Anzi, invito tutti i tifosi che andranno a vedere la partita dell'Olympique Marsiglia contro il Montpellier (20 gennaio, Coppa di Francia, ndr.) a indossare un copricapo, qualsiasi esso sia, un modo per dire: siamo solidali". Resta l'angoscia di scoprire quanto vasto sia il contagio del fanatismo islamico. Yusuf era incensurato. Non c'erano state segnalazioni d'indottrinamento né da parte dei dirigenti scolastici, né da quelle dell'antiterrorismo. Frequentava con profitto il liceo professionale Ampère. Il virus dell'Isis è arrivato via Internet? O da altre vie? L'inchiesta, forse, lo appurerà. Ma non placherà le inquietudini e come dice Zvi Ammar: "È incredibile, un brillante studente con il suo zainetto sulle spalle che decide un mattino di andare ad ammazzare un ebreo... Sabato sera, il primo ministro Manuel Valls ha detto che la Francia senza gli ebrei non sarebbe la Francia, e questo ci ha confortato, ma possiamo realmente continuare a vivere come francesi ed anche come ebrei? Non si sa più cosa fare: saremo costretti a nascondere la kippah per non essere identificati?". LEONARDO COEN Il Fatto Quotidiano, 13 gennaio 2016) Le liste degli ebrei, stop a «Radio Islam» I l sito «Radio Islam», che tempo fa aveva pubblicato liste di cittadini di religione ebraica, è stato oscurato. Il provvedimento emesso dal gip di Roma era stato sollecitato dal pm Sergio Colaiocco che sull’episodio ha aperto un’indagine. Ad eseguire il provvedimento è stata la polizia postale. Le liste riportavano i nomi di imprenditori, intellettuali e giornalisti e venivano pubblicati anche documenti sul potere ebraico. Il pm Colaiocco ha ipotizzato contro ignoti i reati di minaccia e diffamazione con l’aggravante dell’odio razziale. (Il Corriere della Sera, 13 gennaio 2016) 0 4 SHEVA T 5776 G I O V E D I G E N N A I O 14 Perché è scandaloso che un ebreo nasconda la kippah L'appello in Francia a rinunciare al copricapo è segno dell'antisemitismo crescente in Europa K IPPAH o non kippah? La diatriba tra gli esponenti dell'ebraismo francese che invitano a non indossare per strada la kippah «per non essere riconosciuti come ebrei, e quelli che lo bollano come incitamento alla viltà e al «disfattismo», è il segno allarmante degli effetti dell'antisemitismo che cresce in Europa. Solo immaginare di dover rinunciare a un simbolo religioso per non essere aggrediti è terribile. Ma è anche qualcosa di surreale. Se non altro perché tutta la storia dell'intolleranza in Europa è sempre passata attraverso l'obbligo per gli ebrei di distinguersi dagli altri, non la loro libertà di indossare o non indossare quel che gli pare: che si tratti di un particolare copricapo o di altro segno distintivo come l'infame stella gialla imposta dai nazisti. La kippah, dalla parola ebraica che significa calotta (e che forse ha la stessa etimologia del nostro "cappello"), chapeo nel castigliano antico dei sefarditi, yarmulke in yiddish, che si potrebbe dire "papalina" in italiano (perché identico al copricapo indossato dal Papa e dai cardinali ), non è affatto un obbligo religioso prescritto dalla Bibbia. Neanche gli ultraortodossi sostengono che lo sia. Quando a metà Anni '80 Ronald Reagan ricevette alla Casa bianca i lubavich (quelli che girano per New York con riccioli, palandrana e cappellone nero) gli chiese quale fosse il significato religioso della kippah. «Signor Presidente, per noi è un segno di rispetto, gli rispose rabbi Shemtov. Il Talmud si limita a prescrivere: «Copriti la testa per mostrare che hai timore del Cielo«. Le leggende di Rabbi Nachman raccontano che a iniziare la pratica di fargli coprire la testa fu sua mamma, convinta che solo il timor di Dio potesse salvarlo dalla perdizione. Nella forma attuale risale al Settecento. Fino a qualche secolo fa non era obbligatorio nemmeno durante i riti religiosi. Nell'Europa dell'Est erano più in voga i larghi cappelli orlati di pelliccia, che ancora vengono sfoggiati dagli ortodossi per i giorni di festa. È segno di rispetto verso gli ebrei indossare un cappello — qualsiasi cappello, a rigore anche un fazzoletto — durante le loro cerimonie, così come per i cristiani lo è togliersi il cappello in chiesa. In Sinagoga o a una Sèder di Pèsach è normale prestare la kippah a un ospite non ebreo. Solo più di recente si sono moltiplicate le simbologie identitarie. Il presidente della Comunità ebraica di Roma, Dureghello: "visita in Sinagoga dal significato enorme" GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776 "C 7 osa mi aspetto dal Papa? Una stretta di mano e che questa nostra vicinanza diventi un esempio per le altre religioni". Così la presidente della Comunità ebraica di Roma, Ruth Dureghello a margine di un'iniziativa a Palazzo Chigi, commentando la visita del Papa che domenica prossima porterà il suo saluto al tempio Maggiore. "Come presidente della comunità più antica della diaspora che si trova a Roma e che da sempre ha avuto rapporti e relazioni diverse con i vicini dell'altra parte del Tevere - ha continuato - il significato di questa visita è enorme. In questo momento storico particolare, come romani siamo orgogliosi di portare un messaggio di univocità di valori insieme al Vaticano e nella figura di Papa Francesco in visita alla Sinagoga. Per quanto riguarda i temi di geopolitica internazionale, - ha concluso - la situazione Mediorientale e il conflitto israelo-palestinese, possiamo dire che la sicurezza di Israele e la pace all'interno dei confini è imprescindibile e questo è il punto di partenza sul quale anche Papa Francesco è stato molto chiaro nella sua ultima visita a Gerusalemme". In Israele, ad esempio, indossare una kippah a uncinetto identifica come sionisti o conservatori, in pelle come ortodossi moderni, nera come apprendisti rabbini o chassidim, bianca identifica i seguaci di Rabbi Nachman, in seta i riformatori, quella ricamata i sefarditi e i riformisti. Una funzione completamente diversa da quella religiosa o politica è l'uso identitario, quello per cui chi indossa la kippah si identifica come ebreo, sia che lo faccia in sinagoga, sia lo che lo faccia per strada. Niente di male, ci sono situazioni in cui è sacrosanto rivendicare la propria identità, specie per i perseguitati (io sono nato poco dopo l'Olocausto e questa è la ragione per cui mio padre volle assolutamente che fossi circonciso, anche se lui non era né credente né praticante). Ma altrettanto lecito e fondato in molti secoli di cultura ebraica e di persecuzioni è il non ostentare eccessivamente la propria ebraicità, il non gridarla inutilmente di fronte a chi vuole male agli ebrei. Nella Bibbia gli ebrei si fanno massacrare pur di non rinnegare il proprio Dio, non inchinarsi agli dei degli altri. I fratelli Maccabei si fanno ammazzare l'uno in modo più atroce dell'altro pur di non consumare la carne di maiale che gli viene imposta dal satrapo ellenistico Antioco. Ma nulla impone, o al contrario proibisce, di esibire in pubblico una certa foggia di vestire o di coprirsi il capo. Dovrebbe essere una questione di libertà, condizionabile solo da esigenze di sicurezza. Per quanto riguarda la Francia bisogna ricordare anche che la discussa legge del 2004 proibisce di indossare pubblicamente nelle scuole il velo islamico, i kippot (plurale di kippah) o altri vistosi simboli religiosi. Non é dunque uno scandalo religioso suggerire di non indossarli nemmeno per strada. Ma è scandaloso che nel cuore dell'Europa gli ebrei debbano pensare di nascondere la propria identità per paura. Gli ebrei erano stati obbligati per tutto il Medioevo a indossare determinati copricapi (il famoso cappello a cono che poi divenne uniforme dei condannati dell'Inquisizione) o determinati segni che li distinguessero dagli altri. Il Rinascimento imponeva il cerchio giallo da indossare sopra le vesti: ne porta testimonianza anche uno dei profeti del Vecchio Testamento dipinti da Michelangelo nella Cappella Sistina. Pare che lo avessero inventato in Spagna per distinguere e separare ebrei e musulmani, le minoranze dal "sangue sporco". In Francia e in Germania gli ebrei venivano costretti persino a comprare le pezze gialle dal governo, una forma di tassa. I nazisti che imponevano la Stella di Davide gialla non avevano inventato nulla di nuovo. SIEGMUND GINZBERG (La Repubblica, 14 gennaio 2016) Turismo: Israele, in 2015 + 91 mila visitatori dall’Italia 84 mila sono turisti, il 30% viene per motivi religiosi "A bbiamo chiuso il 2015 con 3,1 milioni di visitatori da tutto il mondo di cui 2,8 milioni turisti. Per quanto riguarda i turisti provenienti dall'Italia, che è il sesto Paese al mondo per utenza, abbiamo avuto un +91 mila visitatori, di cui 84 mila turisti. Per questo, quest'anno abbiamo anche raddoppiato il nostro bugdet annuale di pubblicità nel vostro Paese". Lo ha fatto sapere Avital Kotzer Adari, direttore Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo nel corso di una conferenza stampa promossa dal ministero del Turismo per presentare le iniziative rivolte ai pellegrini nell'Anno del Giubileo della Misericordia. Adari ha spiegato che ancora non ci sono dati sulle affluenze di pellegrini in nel periodo delle festività natalizie. Tuttavia ha ricordato che il 30% degli italiani che vanno in Israele lo fanno per motivi religiosi. Quindi il direttore del'ufficio israeliano del Turismo ha invitato a non avere timori per viaggi nel Paese: "In Israele - ha spiegato - il livello di sicurezza personale è altissimo e ogni pellegrino è benvenuto, in particolare a motivo dell'esperienza spirituale del tutto speciale che compie attraverso il pellegrinaggio". 0 5 SHEVA T 5776 VENERDI G E N N A I O 15 Parashà Bò Quando Alessandro il Macedone fece il giudice tra gli israeliti e gli egiziani GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776 N 8 ella parashà di Lekh Lekhà è scritto: “Dopo questo fatto la parola dell’Eterno fu rivolta ad Abramo in visione in questi temini: Non temere, Abramo, Io ti sono scudo; la ricompensa che riceverai sarà grandissima” (Bereshìt, 15:1). Il messaggio divino continuò con queste parole: “E disse ad Abramo: sappi che i tuoi discendenti dimoreranno, stranieri, in un paese non loro per quattrocento anni. Essi saranno asserviti e oppressi. Ma Io punirò anche la nazione che li avrà tenuti schiavi e poi usciranno con grandi ricchezze” (ibid., 13-14). La promessa dell’Eterno ad Abramo si avverò quattrocento anni più tardi quando i figli d’Israele uscirono dall’Egitto. In quell’occasione l’Eterno disse a Moshè: “Ti prego di parlare al popolo affinché ogni uomo chieda al proprio vicino e ogni donna alla propria vicina oggetti d’argento e d’oro. E l’Eterno aveva messo il popolo in buona luce degli egiziani; Moshè stesso era considerato grande in Egitto tanto dai cortigiani del faraone come dal popolo” (Shemòt, 11:2-3). E più tardi “I figli d’Israele conformandosi al comando di Moshè chiesero agli egiziani vasi d’argento, d’oro e indumenti. E l’Eterno aveva ispirato benevolenza per questo popolo da parte degli egiziani che prestarono loro e spogliarono l’Egitto (ibid., 12:35-36). Rashì [Francia, 1040-1105] nel suo commento alla Torà chiede perché l’Eterno si rivolse a Moshè dicendo “ti prego”. E spiega che l’Eterno parlò in questo modo affinché gli israeliti chiedessero oggetti di oro e argento agli egiziani e così la promessa fatta ad Abramo quattrocento anni prima venisse mantenuta. In questo modo non avrebbero potuto dire che la profezia: “Saranno asserviti e oppressi” si era avverata ma non quella “Usciranno con grandi ricchezze”. R. Barukh Halevi Epstein [Belarus, 1860-1941] in Torà Temimà (p. 82) spiega che era necessario pregare gli israeliti di chiedere oggetti dagli egiziani perché essi erano più che felici di andare liberi e non avrebbero pensato affatto a ricchezze. R. ‘Ovadià Sforno [Cesena, 1475-1550] nel suo commento afferma invece che Moshè esortò gli israeliti a farsi dare oggetti di valore dagli egiziani e di non preoccuparsi se proprio per quel motivo gli egiziani li avrebbero successivamente inseguiti perché proprio da quello sarebbe scaturita la liberazione finale con il mare che avrebbe inghiottito l’esercito egiziano. Il fatto è che Moshè aveva chiesto al Faraone il permes- so di portare tutto il popolo nel deserto a tre giorni di distanza dall’Egitto per offrire sacrifici all’Eterno (Shemòt, 8:23). Il motivo addotto da Moshè era che gli egiziani adoravano gli animali come divinità e non avrebbero tollerato la visione degli animali sacrificati nel mezzo delle loro città. In effetti la richiesta di uscire dall’Egitto non era solo per sacrificare nel deserto ma soprattutto per liberare gli israeliti in modo permanente dalla schiavitù. Così l’oro e l’argento che era stato “prestato” divenne proprietà degli israeliti. L”esodo ebbe luogo nell’anno 2448 dalla creazione del mondo. Fu circa mille anni dopo che Alessandro il Macedone conquistò tutto l’oriente con la sconfitta finale di Serse a Gaugamela. Un Midràsh riportato nel Talmud Sanhedrin (91a) e con qualche variazione in Bereshìt Rabbà, racconta che in occasione dell’arrivo di Alessandro in Eretz Israel e in Egitto, gli egiziani presentarono una petizione al Re. Citando il versetto della Torà dove è scritto “ E l’Eterno aveva ispirato benevolenza per questo popolo da parte degli egiziani che prestarono loro” gli egiziani reclamarono la restituzione degli oggetti di argento e di oro che non erano stati restituiti. Un arguto israelita di nome Gheviha figlio di Pesissa chiese ai Maestri l’autorizzazione di difendere la causa degli israeliti di fronte ad Alessandro dicendo che se avesse perduto i maestri avrebbero potuto sostenere che Gheviha era un uomo qualunque e il fatto che avesse perso la causa non aveva valore. Se avesse vinto, disse Gheviha, potrete dire loro che è la Torà del nostro maestro Moshe che ha vinto. Avendo ricevuto l’autorizzazione dei maestri, Geviha si presentò in giudizio e chiese agli egiziani quali erano le prove che avevano diritto a riscuotere quello che gli israeliti avevano portato con se all’uscita dall’Egitto. Gli egiziani risposero che la loro prova era dal versetto della Torà. Geviha rispose che se loro portavano prove dai versetti della Torà, lui avrebbe portato prova contraria da un altro versetto della Torà dove era scritto “E la dimora che i figli d’Israele fecero in Egitto fu di quattrocento trent’anni” (Shemòt, 12:40). Su questa base Gheviha chiese il pagamento dei salari arretrati di seicentomila uomini per quattrocento trent’anni. Alessandro chiese agli egiziani di ribattere. Dopo tre giorni di deliberazioni gli egiziani non avendo trovato risposta, se ne andarono di fretta. DONATO GROSSER