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SOCIETA’ DI SCIENZE FARMACOLOGICHE APPLICATE SSFAoggi SOCIETY FOR APPLIED PHARMACOLOGICAL SCIENCES Notiziario di Medicina Farmaceutica Bimestrale della Società di Scienze Farmacologiche Applicate Giugno 2016 numero Fondata nel 1964 55 Il progetto SMD al nastro di partenza! Sommario: Cari Soci, Editoriale 1 ormai la maggior parte di voi sanno riconoscere il significato dell’abbreviazione Assemblea Soci 2 Fase I in Italia 4 Brexit 7 Un buon messaggio 7 Credi, ma verifica 8 Svegliatevi CRO 12 INPS e CUD 13 Notizie dai master 14 Ultime notizie 17 Salute, alimentazione, farmaci, ambiente 18 GLP 20 Terapie avanzate 22 IFAPP & SMBF 24 Felicità 25 TBC 26 Donne e farmaci 28 Corso BPL 30 The Lancet - BMJ 31 Morbo di Alzheimer 37 Demenza senile 39 Nuovi Soci 40 SMD, poiché ne parliamo da tempo su queste pagine. Il progetto Specialist in Medicines Development (SMD), al quale molti colleghi SSFA stanno lavorando da parecchi mesi, è arrivato finalmente al nastro di partenza. Lo scorso 31 maggio si è svolta a Roma una tavola rotonda per gli addetti ai lavori: sono intervenuti diversi colleghi internazionali (Mike Hardman, VicePresidente AstraZeneca ed uno dei fautori del progetto; Ingrid Klingmann, Presidente PharmaTrain; Peter Stonier, Presidente del Global Board PTF; Edward Nagy, un medico dipendente GSK che sta seguendo il programma SMD in UK). Erano inoltre presenti AIFA (dr.ssa Sandra Petraglia), EMA (prof Sergio Bonini che, impossibilitato a partecipare, ha inviato un messaggio di saluto), AICRO (dr. Stefano Marini), molti direttori di master italiani, e poi noi di SSFA (Marco Romano, Domenico Criscuolo, Luciano Fuccella e Francesco De Tomasi). E’ stata una intensa giornata di lavoro, durante la quale è stato ricordato l’importante lavoro svolto dalla “cordata” PharmaTrain che, nel periodo 20092014 e con il sostegno del programma IMI, ha portato avanti il progetto di armonizzazione del syllabus dei master Europei. Questo progetto è poi sfociato nel programma SMD, un periodo di verifica sul lavoro delle competenze acquisite dai candidati che si sono iscritti al progetto. Italia e Giappone sono i primi due Paesi che attiveranno il programma SMD: ma molti altri seguiranno a breve. Perché, ormai lo sappiamo da tempo, quando si stabilisce uno standard di qualità, in breve esso viene adottato da tutti i Paesi coinvolti nella ricerca e sviluppo dei farmaci. Prossimamente troverete sul sito SSFA tutte le informazioni ed i moduli per partecipare a questo progetto, che darà ai partecipanti una certificazione globale di competenza e professionalità. Domenico Criscuolo SSFA incontra il Presidente AIFA SSFA presenta le proprie attività al prof. Mario Melazzini Il 3 maggio scorso una delegazione SSFA, composta dal Presidente Marco Romano, dai Past President Francesco de Tomasi e Gianni de Crescenzo, e dal segretario Salvatore Bianco, è stata ricevuta dal Presidente AIFA prof. Mario Melazzini. Nell’incontro, la delegazione SSFA ha illustrato le attività della società nel campo della Ricerca Clinica e Farmacologica. Il prof. Melazzini ha espresso vivo interesse per le attività SSFA: i partecipanti hanno poi condiviso la necessità di una trasparente e produttiva collaborazione tra le varie componenti del mondo della Ricerca Clinica, per rendere il nostro Paese sempre più competitivo a livello internazionale. Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - 70% - DCB PRATO Anno X numero 55 Pagina 2 ASSEMBLEA SOCI 6 APRILE 2016 Cari Soci, Marco Romano e Anna Piccolboni lo scorso 6 aprile si è svolta, presso la nostra sede, l’Assemblea annuale dei soci che ha visto la partecipazione del Consiglio Direttivo e dei principali coordinatori dei Gruppi di Lavoro (GdL): l’affluenza dei soci è stata, come tutti gli anni, piuttosto modesta. Da quest’anno abbiamo più spazio presso la nostra sede di viale Abruzzi; pertanto sollecito una maggiore presenza dei Coordinatori dei GdL ma anche dei soci, non solo all’Assemblea annuale ma anche durante le riunioni di Consiglio che si tengono ogni 4-6 settimane. La voce dei soci è fondamentale per guidare le scelte e le decisioni del Consiglio. Nella mia Relazione ho sottolineato l’aumento costante del numero dei nostri soci (> 800) e delle richieste di iscrizione che, nel 2015, sono state 141. I numeri dimostrano che SSFA sta avendo successo grazie soprattutto alle tante iniziative che anche nel 2015 sono state proposte dai nostri GdL: la fase I in oncologia, anziani e metodologia degli studi clinici, risk based monitoring, solo per ricordare qualcuno tra i tanti eventi (17) organizzati l’anno scorso. Tra gli obbiettivi del mio mandato che ho ricordato, mi fa piacere citare la realizzazione del progetto di formazione a distanza, l’aggiornamento del nostro sito e l’organizzazione del prossimo Congresso Nazionale 2017 che si terrà a Milano. La relazione del Tesoriere ha confermato lo stato di salute ed il progresso di SSFA anche dal punto di vista finanziario: questo è un dato importante anche per una società no profit come la nostra, perché ci consente di attivare nuovi progetti, di fornire a voi un programma formativo ed informativo di prim’ordine, di guardare con ottimismo al futuro con la consapevolezza di poter intraprendere nuove iniziative a beneficio di tutti. Vi sono poi state le relazioni della maggior parte dei GdL che hanno ricordato tutte le attività svolte nel 2015 e i progetti per il 2016. Come ogni anno, Medicina Farmaceutica, GIQAR-GCP, BIAS, Affari Istituzionali e Affari Legali hanno partecipato a numerosi eventi, convegni ed incontri; tuttavia non vanno dimenticati molti altri GdL come Farmacoviglilanza, Studi Osservazionali, Rapporti con la Stampa, Dispo- (Continua a pagina 3) Anno X numero 55 Pagina 3 ragion d’essere. Sono invece molto lieto di segnalare alla vostra attenzione la nascita di un gruppo SSFA giovani che origina da alcuni ex studenti del Master della Bicocca: questo gruppo riunirà gli “under 35” e terrà un primo incontro a Milano in sede ancora da definire il prossimo 24 settembre. Vedo con grande interesse questa iniziativa, alla quale spero molti di voi aderiranno: è necessario infatti intraprendere un rinnovamento della SSFA nelle persone, nelle idee e negli strumenti utilizzati e sono certo che (Continua da pagina 2) Luigi Godi Il diploma a Francesco De Tomasi sitivi Medici, Farmacoeconomia ma anche nuovi gruppi di lavoro come Medicina Complementare che ha grandi potenzialità nel campo degli integratori alimentari e nutraceutici. Purtroppo abbiamo chiuso il GdL CRO in quanto vi è stata scarsa partecipazione anche perché chi lavora in CRO è attivo in molti altri GdL della nostra società scientifica e quindi un GdL CRO non aveva più Il diploma a Il diploma a Domenico Criscuolo Domenico Criscuolo questo gruppo farà molto bene e potrà gettare le basi per il futuro della nostra società. Infine, ho nominato due nuovi soci onorari che l’Assemblea ha approvato: si tratta di due past President, Domenico Criscuolo e Francesco De Tomasi. Entrambi hanno dato tantissimo alla SSFA e meritano in pieno questo riconoscimento. Ad entrambi va il nostro più affettuoso e sincero ringraziamento: essi sono ancora molto attivi con varie iniziative, nei GdL di appartenenza, nei Master e attraverso le pagine di questa rivista della quale, come sapete, Domenico è Direttore responsabile fin dall’inizio, cioè da circa 10 anni. Grazie per la vostra attenzione e soprattutto per la vostra partecipazione alla SSFA! Marco Romano Anno X numero 55 Pagina 4 SPERIMENTAZIONE CLINICA DI FASE 1 IN ITALIA Auditorium CNR, Roma, 30 marzo 2016 La Determina n.809/2015 del 10 giugno 2015 è stata approfonditamente analizzata da Umberto Filibeck in 3 articoli apparsi sui numeri 51, 52 e 53 della rivista SSFAoggi, ai quali rimando e che suggerisco a tutti di leggere. Non vi è dubbio che questo documento costituisca un momento importante nel processo di adeguamento della normativa italiana agli standard internazionali, tanto più in previsione dell’avvio del Regolamento Europeo. Consci dell’importanza della Determina, SSFA e SIF hanno ritenuto opportuno organizzare un convegno che si è tenuto a Roma il 30 marzo nell’aula convegni del CNR al quale hanno partecipato oltre 200 persone. Decreto Ministeriale 28 luglio 1977 recante il regolamento per l’esecuzione di detti accertamenti. Dozzine di campioni di prodotti da analizzare e di documentazioni precliniche si riversarono sull’ISS che era totalmente impreparato ad affrontare un compito del genere. I tempi di risposta si allungarono in modo intollerabile, spesso all’infinito, e la ricerca di Fase 1 italiana fu costretta a trasferirsi all’estero. Criscuolo ha anche ricordato come i dati forniti da AIFA mostrino che nel 2015 gli studi di Fase 1 in Italia hanno rappresentato l’11.5% del totale delle sperimentazioni cliniche ma quelli su volontari sani sono stati appena l’1% del totale. Si sta verificando un’importante La sessione del mattino, moderata da Domenico Criscuolo per SSFA e dal prof. Giorgio Cantelli Forti per SIF, è stata aperta appunto da Criscuolo che ha ricordato come gli studi di Fase 1 in Italia abbiano subito un colpo mortale dall’avvento della legge 7 agosto 1973, n.519 che modificava i compiti dell’ISS e al secondo comma, lettera l, da cui il temine “comma l” entrato nell’uso, attribuiva a questo istituto il compito di accertare la composizione e l’innocuità dei prodotti farmaceutici di nuova istituzione (cioè mai utilizzati ancora nell’uomo) prima della sperimentazione. A questa legge faceva seguito successivamente il evoluzione nel settore della farmacoterapia che vede sempre più emergere prodotti antitumorali e biotecnologici che, ovviamente, compiono anche la Fase 1 in pazienti ed ai tradizionali parametri ADME e tollerabilità si aggiunge ora anche una preliminare valutazione di attività. Altra area che si sta notevolmente sviluppando è quella delle terapie per le malattie rare. In questo caso, essendo per definizione pochi i pazienti reperibili nei centri specializzati, occorre coinvolgere molti centri ed anche in questo caso si tratta di studi in pazienti, non in volontari sani. In ambedue i casi, tuttavia, sviluppare la Fase 1 è importante perché gli stessi centri vengono poi ovviamente coinvolti nelle successive fasi 2 e 3, essendo gli sperimentatori già a conoscenza delle proprietà e delle caratteristiche dei nuovi farmaci. Ha preso quindi la parola Gianni De Crescenzo che, in qualità di Past President SSFA, ha sostituito il Presidente in carica Marco Romano impossibilitato a partecipare causa impegni di lavoro all’estero. De Crescenzo ha confermato quanto detto da Criscuolo ed ha ricordato un fenomeno che sottolinea i cambiamenti in atto nella ricerca farmaceutica. SSFA fu fondata nel 1964 da ricercatori preclinici come farmacologi, tossicologi, tecnici farmaceutici, biochimici, tutte figure attive in aree che in gran parte stanno scomparendo in Italia causa la progressiva dismissione dei grandi laboratori di ricerca farmaceutica preclinica, e che vengono sostituite da professionisti attivi nella sperimentazione clinica che tuttavia ha acquisito una posizione importante nel mondo rappresentando un settore di eccellenza, come dimostra l’elevato numero di ricerche cliniche con nuovi farmaci in atto nel nostro Paese. La dr.ssa Angela Del Vecchio, Direttore dell’Ufficio Attività Ispettiva GCP e di Farmacovigilanza di AIFA, ha comunicato che l’agenzia pubblicherà l’elenco dei centri accreditati per studi di Fase 1 e che in caso di criticità sarà possibile la sospensione del centro dall’elenco. In quanto alla procedura di autocertificazione prevista dalla Determina, per ora si procederà solo con l’invio della documentazione mediante posta certificata ma verrà successivamente comunicato quando sarà possibile procedere tramite l’Osservatorio. Gli studi autorizzati attualmente in corso potranno essere portati a termine pur in assenza di osservanza della nuova Determina. Lo stesso vale per i laboratori. La dr.ssa Sandra Petraglia, Direttore dell’Ufficio Ricerca e Sperimentazione Clinica di AIFA, ha esaminato (Continua a pagina 5) Anno X numero 55 (Continua da pagina 4) l’andamento delle sperimentazioni cliniche in Italia negli ultimi anni. Dal 2010 al 2015, gli studi di fase 1 sono passati dal 5,6% a 11,5% del totale. Nel 90% dei casi i soggetti sono pazienti ed 1/3 degli studi riguarda le malattie rare. Per quanto riguarda la classificazione Anatomica Terapeutica (ATC), l’onco-ematologia rappresenta il 70% degli studi; seguono il SNC e la cardiologia. Il nuovo Regolamento Europeo dovrebbe superare molti dei problemi oggi ancora presenti nell’armonizzazione delle procedure alla sperimentazione clinica e AIFA, in collaborazione con le agenzie degli altri Paesi, sta lavorando alla definizione di nuove procedure riferendosi alle attuali norme sulle VHP. Non viene tuttavia prevista l’utilizzazione di teleconferenze per superare posizioni divergenti. Sono anche in progetto incontri con i Comitati Etici. La dr.ssa Annarita Meneguz, Dirigente Tecnologo dell’ISS, ha sostenuto che per quanto riguarda gli studi di fase 1 l’ISS identifica esperti referenti cui affidare le pratiche. Dal 2006, le richieste di studi di fase 1 all’ISS sono state 533, ma solo 20 riguardavano studi in volontari sani e nessuno di questi ultimi riguardava nuovi farmaci. Si è anche osservato un forte aumento degli studi con te- Pagina 5 rapie cellulari (75-80%). Il dr. Umberto Filibeck, docente del Master di Tor Vergata, ha trattato l’importante argomento dei requisiti di qualità, ricordando come già il DPR 14 gennaio 1997 si occupasse dei requisiti minimi strutturali, tecnologici ed organizzativi per l’esercizio delle attività sanitarie da parte delle strutture pubbliche e private, senza tuttavia entrare nei dettagli come fa ora la Determina che anche tiene conto dell’evoluzione della normativa della sperimentazione clinica che nel frattempo ha avuto luogo. La Determina prevede l’esistenza di un sistema di assicurazione di qualità nei centri che eseguono studi di fase 1, le caratteristiche professionali del personale per il quale deve anche prevedersi adeguata formazione, fornisce anche dettagliate procedure operative standard. Molti di questi elementi mancano nel caso di sperimentazioni Non Profit e AIFA ha avviato un progetto per colmare questa lacuna in collaborazione con i comitati etici. Nella discussione che è seguita al termine della prima parte del convegno, da alcuni partecipanti provenienti da centri ospedalieri è stato sollevato il problema di come questi debbano certificarsi e di chi debba firmare tale certificazione: il Primario, il Direttore Generale dell’ospeda- le, l’Assessore Regionale alla Sanità, il responsabile di una agenzia di QA esterna? Dopo l’intervallo ha preso la parola il dr. Giuseppe Caruso in rappresentanza di Farmindustria, il quale ha ricordato che la spesa per la ricerca clinica in Italia ammonta a 800 milioni di Euro, una cifra certo rispettabile ma che potrebbe essere ancora maggiore. Farmindustria ha attivamente partecipato negli ultimi anni alle iniziative che hanno avuto luogo nei diversi settori della ricerca clinica. Partecipa al tavolo multidisciplinare organizzato da MinSal con la presenza del Ministero per lo Sviluppo Economico ed altre istituzioni interessate per definire le criticità tra ricerca clinica ed istituzioni, al Progetto Fast Track che si propone di eliminare gli ostacoli che impediscono il rispetto dei tempi, ha delineato uno schema di contratto da adottare per tutte le sperimentazioni cliniche nazionali. Segue da vicino anche il problema della sperimentazione nell’animale, dopo che il recepimento della direttiva europea ha introdotto in Italia norme che la penalizzano rispetto agli altri paesi europei e che andranno quindi eliminate con un ricorso alla UE. Il dr. Stefano Milleri, Direttore del Centro Ricerche Cliniche di Verona, (Continua a pagina 6) Anno X numero 54 Pagina 6 Ha chiuso la serie degli interventi il prof. Filippo Drago, Professore Ordinario di Farmacologia all’Università di Catania e Direttore del Master in Discipline Regolatorie del Farmaco. Gli studi FIM (First In Man) debbono prevedere l’imprevedibile, cioè se vi è un rischio anche solo teorico si debbono prendere tutte le precauzioni, eventualmente rinunciando a procedere. Esempi di precauzioni insufficienti sono il caso Te Genero di alcuni anni or sono in UK ed il recentissimo caso occorso in Francia a Rennes. Per quanto riguarda l’accreditamento dei centri ove si eseguono studi FIM, Drago ha ricordato che in UK l’accreditamento è volontario ed i centri non accreditati possono ugualmente operare. Le unità debbono dimostrare di essere in grado di eseguire studi clinici anche FIM e di avere staff adeguato. Il possesso dei requisiti viene accertato mediante ispezioni (validità 3 anni). Il Principal Investigator di uno studio FIM deve possedere un minimo di 2 anni di esperienza come Sub-investigator in altri studi. In Francia, invece, esiste l’accreditamento che ha validità di 5 anni e le AASS tengono una banca dati nazionale dei soggetti che si prestano come volontari. Viene quindi logico chiedersi, anche in previsione dell’entrata in vigore del Regolamento Europeo se sia necessario istituire un sistema unico di accreditamento di tutti i centri di Fase 1. Al Policlinico Vittorio Emanuele di Catania sono in corso azioni per l’adeguamento dei requisiti a quanto previsto dalla Determina. E’ seguito un acceso dibattito e da più parti è venuta la richiesta di chiarimenti e modifiche al fine di evitare errate interpretazioni. E’ stato richiesto che AIFA, quando prepara provvedimenti importanti che coinvolgono aziende, accademia, clinici, CRO ed altri professionisti, pubblichi sul suo sito, o comunque faccia circolare, una bozza del provvedimento richiedendo, come fa EMA, commenti e suggerimenti. si è soffermato sui problemi degli studi di fase 1 in Italia, specie dopo la crisi economica del periodo 20082010 che in questo settore ha determinato tra le altre cose una riduzione del personale e del numero dei letti nei centri. Quali sono questi problemi? Uno importante è rappresentato dalle dimensioni dei centri italiani, in termini di numero di letti che nel nostro Paese si aggira sui 10-15 per centro mentre nei grandi centri stranieri va da 96 a 600, come mo- merino ed un reparto di Galenica clinica a Camerino. L’oggetto sociale prevalente è lo sviluppo di nuovi servizi e prodotti ad elevato valore tecnologico: 1) Medicina personalizzata (studio del profilo individuale del citocromo 450 ai fini di un miglioramento del quadro informativo sulla sicurezza del farmaco); 2) Sviluppo dell’applicazione dei disegni adattativi agli studi clinici; 3) Sviluppo e allestimento di nuove formulazioni e sistemi di rilascio strato in una tabella presa da una recente inchiesta. Altro punto dolente, comune non soltanto alla fase 1, è rappresentato dai tempi di autorizzazione. Anche l’impossibilità di allestire un confezionamento primario da parte delle farmacie ospedaliere rappresenta un ostacolo assente in altri paesi. Milleri ritiene che la Determina avrà scarso impatto sui centri che eseguono studi in volontari sani che sono già oggi organizzati con modalità assai vicine a quanto richiesto dalla Determina, mentre maggiori difficoltà si presenteranno per i centri che svolgono studi in pazienti. Il prof. Fiorenzo Mignini, Direttore del Master in Ricerche Cliniche e Sviluppo dei Farmaci dell’Università di Camerino, ha illustrato un progetto in corso nelle Marche: è stato istituito uno spin-off universitario per la fase 1 che sorgerà a Recanati ed al quale le strutture accademiche forniranno spazi, strumenti, risorse umane. Il nuovo centro avrà a disposizione una Unità Clinica presso il Presidio Ospedaliero di Recanati, il Data Processing a Recanati e Ca- non convenzionali. La dr.ssa Valentina Sinno, coordinatrice dal Clinical Trials Center dell’Istituto Nazionale Tumori di Milano, ha illustrato la situazione dell’importante istituzione in cui lavora. L’INT è struttura pubblica e tutti gli studi condotti sono del tipo profit. Occorrerà dedicare tempo e risorse alla preparazione delle SOP ed organizzare la struttura del personale e le attrezzature mediche, il che comporterà certamente un investimento di natura economica. Ha poi chiesto cosa significhi “medico farmacologo”? Un medico con specialità in farmacologia? Un laureato in Farmacologia Clinica? Quali requisiti deve avere il personale che si occuperà di QA e monitoraggio? Attualmente si tratta di qualifiche non riconosciute dalla corrente normativa contrattuale. Occorrerà anche stabilire le modalità di coinvolgimento del personale della rianimazione quando è in corso uno Luciano M. Fuccella studio, nel caso si presenti un’emergenza. Si dovrà anche verificare la rispondenza del laboratorio centrale a quanto stabilito dalla De- Le presentazioni sono disponibili sul sito www.ssfa.it termina per gli studi di fase 1. (Continua da pagina 5) Anno X numero 55 Pagina 7 I giornali parlano spesso delle posibili conseguenze dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, facendo riferimento agli scambi commerciali. Interessante invece la riflessione sulle possibili ripercussioni in campo oncologico. Impact of Brexit on cancer care and research The Lancet Oncology http://dx.doi.org/10.1016/S1470-2045(16)30025-0 On June 23, 2016, the UK will vote in a referendum on whether to leave the European Union (EU). In The Lancet Oncology, prominent oncologists from both the EU and the UK voice their support for the UK remaining part of the EU. In so doing, they join other scientists and clinicians who have publicly declared their belief that it would be best to remain. Part of the inherent difficulty with this debate is that the repercussions of leaving can only be speculated on: this would be the first time a member state has left the EU. There is no precedent for the dissolution, or alteration, of the many thousands of ties that join UK and EU member states. These unknowns mean that points of argument are often semantic, and emotionally led. The resulting lack of structure and planning could make a UK exit potentially catastrophic for patients with cancer, and for cancer research. As discussed in the two Comments, EU–UK cancer research collaborations are numerous and strong. Dissolution could leave patients with cancer without access to treatment, as the intricacies of research funding and drug supply withdrawal or alteration are debated. Dissolution would also lead to a dearth of new trials beginning in both the UK and EU as sponsors wait to see how regulators realign their respective organisations. Large pharmaceutical companies have already warned that a UK exit from the EU would leave the UK isolated, and reduce its influence in medicine and clinical science. Finally, limiting the free movement of researchers between the EU and UK would, at best, leave the UK without access to some of the best researchers and clinicians in the world, and, at worst, cause a brain drain of the brightest international talent out of the UK. Almost all scientific researchers and clinicians who have spoken out in this debate have expressed their preference to remain in the EU, citing the need to maintain the position of strength that the UK currently occupies. To rock this solid foundation would undermine the provision of care to all patients with cancer—not just for those patients currently in multi-country clinical trials, or under the care of an EU specialist—and would weaken vital research that could save lives in the future. UN BUON MESSAGGIO Sono certo che molti lettori di SSFAoggi, di certo quelli milanesi, avranno notato nelle scorse settimane la pubblicità che compare nella foto: era in piazzale Loreto, e copriva l’intera facciata di un palazzo. A me ha colpito per due motivi: primo, perché affronta un grave problema, spesso sottovalutato. Sono molti i pazienti che non seguono le prescrizioni del medico e “fanno la tara” alla posologia: si tratta di un grave errore, potenzialmente fatale (nel caso delle infezioni, perché serve solo a selezionare i ceppi resistenti). Il secondo motivo è che – invece di usare il termine compliance molto caro a tanti colleghi - ha usato un termine italiano, cioè aderenza terapeutica. Ricordiamoci che esiste, ed usiamolo più spesso! Domenico Criscuolo Pagina 8 Anno X numero 55 Nello scorso numero di SSFAoggi abbiamo dato ampio spazio al tema della frode in ricerca: l’argomento è piaciuto, molti Soci ci hanno manifestato il loro interesse, per cui continueremo a tenervi aggiornati. Ecco, sempre sullo stesso tema, un interessante articolo che ci ha fatto avere il prof Alessandro Mugelli (Istituto di Farmacologia - Università di Firenze). Credi, ma verifica Quanto sono attendibili e riproducibili i risultati delle attuali ricerche scientifiche? “Credi, ma verifica” è il principio alla base del successo di tutta la scienza moderna: ogni risultato deve sempre essere soggetto ad attente e ripetute verifiche sperimentali. Su questo si basano gli enormi progressi che la scienza ha prodotto negli ultimi quattro secoli. Purtroppo quando al puro interesse scientifico si sovrappongono interessi di tipo economico si può tendere a credere troppo e a verificare poco, con evidente svantaggio per la ricerca scientifica. Il dibattito sulla riproducibilità della ricerca scientifica è sempre stato presente all’interno del mondo accademico, ma recentemente è uscito dai confini della comunità scientifica ed ha iniziato ad attrarre l’interesse del pubblico generale; in particolare l’attenzione si è focalizzata sulle ragioni per cui i risultati della ricerca biomedica non si traducono in effettivi miglioramenti della medicina. La necessità di una ricerca dai risultati credibili e verificabili è infatti particolarmente forte nell’area biomedica, nella quale, in linea teorica, ogni scoperta rilevante dovrebbe tradursi, prima o poi, in un miglioramento delle possibilità di cura dei pazienti. Ma la situazione è molto diversa e, come hanno dichiarato i vertici del NIH, gli scienziati troverebbero difficile replicare le osservazioni di almeno tre quarti di tutti gli studi effettuati in ambito biomedico. Su questo tema, già 10 anni fa John Loannidis, un epidemiologo greco, pubblicò un articolo su una rivista open access dal titolo significativo: “Perché la maggior parte degli studi pubblicati sono falsi” (Why most published research finding are false, http:// journals.plos. org/plosmedicine/ article?id=10.1371/ journal.pmed.0020124), nel quale esaminava i fattori chiave che influenzano la probabilità che una affermazione scientifica non fosse vera e quindi potesse essere sconfessata da successivi studi. Nell’articolo Ioannidis analizza in modo critico il ruolo della statistica in questo fenomeno, focalizzandosi sull’impatto che una statistica inadeguata o una numerosità campionaria insufficiente avevano avuto negli studi clinici, negli studi epidemiologici tradizionali ma anche nei più moderni studi di associazione genetica. Lo stesso autore, oggi all’Università di Stanford, ha pubblicato alla fine di ottobre 2014, sempre sulla stessa rivista, un articolo su come intervenire per incrementare il numero di lavori scientifici pubblicati che riportino risultati veri (How to Make More Published Research True, http:// journals.plos.org/plosmedicine/ article?id=10.1371/ journal.pmed.1001747). Il suo articolo riporta dati impressionanti: dai pochi “dilettanti” (in italiano nel testo) del passato, la scienza è diventata oggi un’attivissima industria globale che, nel solo periodo 1996-2011, ha prodotto oltre 25 milioni di pubblicazioni da parte di oltre 15 milioni di autori. Le scoperte vere e rapidamente applicabili sono ovviamente molto meno ed è stato calcolato che l’85% delle risorse impegnate nell’attività di ricerca siano di fatto andate sprecate. Sono state attivate molte iniziative, alcune di grande interesse, per affrontare questo problema nell’ambito della ricerca biomedica e degli studi clinici in particolare, per capire cioè le ragioni per cui, a fronte di enormi investimenti pubblici e privati, non siamo in grado di generare una ricerca che impatti positivamente sull’assistenza e sulle malattie. Nel 2010 la spesa totale, pubblica e privata, nel settore delle scienze della vita, è stata di 240 miliardi di dollari. Nonostante questo investimento abbia portato indubbi benefici sul sistema salute, si ritiene che i progressi avrebbero potuto essere molto più significativi se si fossero ridotti gli sprechi e l’inefficienza con cui la ricerca biomedica viene scelta, disegnata, condotta, analizzata, gestita, regolata, disseminata e comunicata. È al di fuori degli scopi di questo articolo affrontare le molte e complesse problematiche che sono implicate in questi vari aspetti della ricerca biomedica (quella clinica in particolare) e che sono mirabilmente riassunte in un articolo pubblicato su Lancet nel gennaio 2014 (http:// dx.doi.org/10.1016/S0140-6736(13) 62329-6) in cui gli autori presentano una serie di 5 articoli pubblicati sulla prestigiosa rivista sul tema: “Research: increasing value, reducing waste”. Gli articoli affrontano e suggeriscono, anche da un punto di vista metodologico, le modalità con cui si possono ridurre gli sprechi e l’inefficienza nella ricerca clinica. Come dicevamo all’inizio, il problema della non riproducibilità dei dati riguarda anche la ricerca preclinica ed è da questo punto di vista, in quanto ricercatori preclinici, che vogliamo affrontare il problema. Differenze nelle specie animali utilizzate e variazioni nelle condizioni sperimentali sono state portate da sempre a giustificazione del fatto che i risultati di lavori analoghi fossero diversi o comunque non esattamente sovrapponibili, ma la discussione rimaneva molto spesso limitata agli specialisti di quello specifico campo di ricerca che cercavano altri modi per confermare le proprie osservazioni con l’obiettivo di arrivare alla verità. L’impatto della non riproducibilità dei dati è emerso in tutta la sua importanza più recentemente, quando è stato chiaro che i ricercatori industriali, soprattutto nel campo dell’oncologia, basavano lo sviluppo clinico di alcune molecole sui dati preclinici presenti in letteratura. In particolare, alcuni ricercatori della azienda biotecnologica Amgen, prima di impegnarsi nello sviluppo della ricerca clinica, decisero di verificare la riproducibilità di 53 studi che era(Continua a pagina 9) Anno X numero 55 (Continua da pagina 8) no considerati pietre miliari nello specifico settore. Gli articoli erano pubblicati su riviste ad alto impact factor (21 su giornali con IF > 20), avevano generato numerose pubblicazioni secondarie e avevano un alto numero di citazioni. Gli esperimenti dei ricercatori Amgen, effettuati nell’arco di 10 anni, hanno però documentato la riproducibilità dei dati scientifici di solo 6 dei 53 studi (11%), un dato estremamente basso e preoccupante anche tenendo conto delle molteplici limitazioni e difficoltà della ricerca preclinica in oncoematologia (CG Begley and LM Ellis, Nature 483(7391):531-3,2012, http:// www.nature.com/nature/journal/ v483/n7391/ full/483531a.html). Ovviamente la complessità di questi studi e delle metodologie oggi utilizzate rende spesso difficile riprodurre singoli esperimenti in laboratori diversi, e pertanto la parola “riproducibilità” deve essere in qualche modo “contestualizzata” e non dobbiamo cadere nella semplificazione (che alcuni media hanno fatto) di dire che il 90% di tutta la scienza non è riproducibile. Non dobbiamo però nemmeno minimizzare il significato di questo e di altri analoghi risultati. Se ci domandiamo quali possono essere le ragioni che hanno portato alla pubblicazione di dati sbagliati o irriproducibili, dobbiamo essere consapevoli di come l’attuale sistema accademico e il sistema di “referaggio” basato sulla revisione tra pari (peer-review) tolleri o, in alcuni casi, forse inconsapevolmente favorisca questo tipo di pubblicazioni: per ottenere fondi, per avere un lavoro o un avanzamento nella propria carriera, i ricercatori devono avere un curriculum solido, con molte pubblicazioni, comprese alcune di cui devono essere primo autore, pubblicate in riviste ad elevato fattore di impatto. Gli editori delle riviste scientifiche, i revisori degli articoli, i comitati che assegnano i finanziamenti spesso sono attratti da dati scientifici semplici, chiari ed il più possibile completi. Il lavoro deve riportare una sorta di storia perfetta che, partendo dall’ipotesi iniziale, presenti dati che permettano delle conclusioni coerenti. Ecco che allora può nascere la tentazione di selezionare i dati, anche “massaggiarli” un Pagina 9 po’ in modo che soddisfino adeguatamente l’ipotesi iniziale. La conseguenza di questo sistema è che la riproducibilità degli studi è resa molto difficile: per i giovani ricercatori, la necessità di incrementare il punteggio dell’impatto e di non “provocare” le autorità scientifiche del settore, porta spesso a rifiutare di compiere studi confirmatori. Per i ricercatori più “anziani”, l’esecuzione di studi di conferma è spesso frutto di rivalità con colleghi, e pertanto è comunque macchiata dal rischio di commettere errori, essendo guidata principalmente da un senso di rivalsa. Proprio per quest’ultimo motivo non sono molti i ricercatori che rendono facile la replicazione dei propri dati, attraverso una completa descrizione dei metodi e degli esperimenti: solo il 45% dei ricercatori sarebbe infatti disposto a condividere i dati grezzi delle proprie ricerche. Il sistema di peer review è ritenuto un sistema solido per passare al vaglio i risultati scientifici, che vengono scrutinati da esperti nel settore che dovrebbero essere mossi solo dall’obbligo professionale. I problemi intrinseci nel sistema di peer review sono però stati evidenziati da alcuni “esperimenti”. John Bohannon, un biologo di Harvard, ha recentemente sottoposto un lavoro, utilizzando uno pseudonimo, in cui si descriveva gli effetti di un nuovo composto ad azione antitumorale (ovviamente inventato), contemporaneamente a 304 giornali scientifici. Ben 157 giornali, compresi giornali ad alto impatto, hanno accettato il lavoro per la pubblicazione. Per testare il sistema un editore del BMJ (Fiona Goodlee) inviò invece a 200 revisori del suo stesso giornale un lavoro fittizio con evidenti errori di disegno dello studio, di analisi e di interpretazione dei dati. Sebbene diversi errori siano stati rilevati dai revisori, nessuno di loro riuscì ad identificare contemporaneamente tutti gli errori. Raramente ad esempio i revisori ripetono l’analisi statistica ed è assai difficile quindi che riescano a identificare errori volontari o involontari. Gli errori compiuti dagli scienziati sono molto spesso involontari. In alcuni casi tuttavia si può arrivare alla malafede e a situazioni veramente imbarazzanti che mettono in pericolo la credibilità del sistema. Faremo un paio di esempi di pubblico dominio e che sono avvenuti fuori dal nostro paese, ma ovviamente questo non significa che noi ne siamo indenni. Il primo caso è stato portato alla nostra attenzione da un docente del nostro Dipartimento, il prof. Claudiu Supuran che è editore capo della rivista scientifica The Journal of Enzyme Inhibition and Medicinal Chemistry. La storia è riportata per intero su Nature del 27 Novembre del 2014 (http://www.nature.com/news/ publishing-the-peer-review-scam1.16400). In breve Claudiu Supuran aveva cominciato a sospettare di un autore sud coreano, Hyung-In Moon, perché le revisioni dei suoi lavori erano arrivate in tempi brevissimi, entro 24 ore. Sappiamo bene che spesso è difficile convincere uno scienziato molto occupato a rivedere un lavoro che non sia di suo particolare interesse. Il fatto era che Hyung -In Moon, cui il giornale aveva richiesto di indicare alcuni potenziali revisori esperti dell’argomento della sua ricerca, forniva a volte nomi di veri scienziati, a volte pseudonimi con indirizzi mail che riconducevano direttamente a lui o a qualche suo amico. In questo modo era praticamente lui stesso che valutava se i suoi lavori erano degni di essere pubblicati e lo faceva molto rapidamente. La confessione del ricercatore ha portato al ritiro (retraction) di ben 28 articoli pubblicati su varie riviste di quel gruppo editoriale. Ma il caso non è isolato e negli anni passati alcuni giornali, anche di gruppi editoriali importanti, sono stati costretti a ritirare più di 110 articoli a causa di imbrogli nel sistema di revisione. Un altro caso ha coinvolto una tra le più importanti università americane, la Duke University, per il caso di un suo ricercatore, Anil Potti, accusato di frode scientifica. Il ricercatore (e il suo gruppo) è stato accusato di aver falsificato i dati relativi a delle analisi genetiche che avrebbero consentito una terapia personalizzata di pazienti con cancro; tale approccio veniva pubblicizzato anche in un video diretto ai pazienti della Duke University in cui il dr Potti faceva riferimento alle sue ricerche. Ricerche pubblicate su prestigiose riviste scientifiche tra cui il New England Journal of Medicine, JAMA, (Continua a pagina 10) Anno X numero 55 (Continua da pagina 9) PNAS, Nature Medicine, Lancet Oncology e altri. Questi lavori sono stati tutti ritirati, anche se paradossalmente alcuni continuano ad essere citati. Il caso ha avuto un grande risalto negli Stati Uniti dove è stato presentato anche nella popolarissima trasmissione “60 minutes” nel marzo 2012 (https://www.youtube. com/watch?v=W5sZTNPMQRM). Il terzo caso che presentiamo è quello di un lavoro pubblicato nel 2012 su Circulation (Cardiomyogenesis in the Aging and Failing Human Heart) dal gruppo di Piero Anversa del Brighamand Women’s Hospital di Boston e ritrattato nell’aprile 2014. Lo studio portava dati che dimostravano come il cuore fosse in grado di autoripararsi ad una velocità (23% di cellule sostituite ogni anno dalle cellule staminali) molto superiore rispetto a quella riportata in precedenza da altri autori, che è invece molto bassa. Il settore delle cellule staminali cardiache è stato oggetto di importanti tentativi di trasferire i dati dal laboratorio alla clinica con alcuni studi sull’uomo condotti da eminenti scienziati. Il caso ha avuto un grande impatto nella comunità scientifica dove le ricerche di Piero Anversa avevano sollevato grandi controversie anche nel passato ed è stato ripreso dai media. Una serie di articoli sono comparsi sul Boston Globe (http://www.bostonglobe.com/ news/science/2014/12/17/stem-cellscientistsues-harvard-formisconduct-investigation/ O6Vz5tYr8KFHm9foiUBSXM/ story.html) anche perché il laboratorio di Anversa aveva ricevuto importanti finanziamenti federali (6.9 milioni di dollari nel 2013). Anversa ed una sua collaboratrice hanno citato in giudizio davanti alla corte federale l’ospedale e la Harvard Medical School (http://c.o0bg.com/rw/ Boston/2011-2020/2014/12/17/ BostonGlobe. com/Metro/Graphics/ stemsuit.pdf? p1=Article_Related_Box_Article). Vedremo come andrà a finire. Non solo la ricerca preclinica è però oggetto di queste importanti problematiche. È informazione tristemente nota anche al grande pubblico quella che riguarda lo studio pubblicato dal dr Andrew Wakefield su Lancet nel 1998. Il lavoro riportava una ca- Pagina 10 sistica, successivamente rivelatasi manipolata, e per alcuni aspetti francamente falsa, nella quale Wakefield ipotizzava un legame tra esposizione al vaccino MMR (morbillo, parotite, rosolia) e lo sviluppo di autismo in 12 bambini da lui apparentemente valutati. In breve, il lavoro è stato parzialmente ritirato nel 2004 a seguito della scoperta di irregolarità metodologiche, conflitto di interessi e dell’assenza di consenso informato, per essere poi completamente ritirato nel 2010, dopo l’espulsione di Wakefield dall’Ordine dei Medici e la dimostrazione che parti significative della ricerca erano state completamente falsificate. L’editor in chief di The Lancet, Richard Horton, ha affermato in proposito che il lavoro era da considerarsi “completamente falso” e che la rivista era stata “imbrogliata”. Il problema principale però è che nel frattempo il lavoro di Wakefield era stato eretto a vessillo dai movimenti anti-vaccinali, causando negli anni una serie di problematiche prima di tipo amministrativo (incongrue richieste ai centri vaccinali), poi di tipo legale (cause inopportunamente vinte relative a richieste di risarcimento) ed infine di tipo sanitario (emergenza di nuovi focolai epidemici in aree precedentemente coperte). Sembra incredibile, ma purtroppo gli echi di tale pubblicazione, basata su 12 casi presunti, senza alcuna valutazione statistica, senza gruppo di controllo e senza una metodologia attendibile, continuano ancora oggi a sentirsi, nonostante lo studio sia stato ritirato, Wakefield condannato e, cosa assai più importante, siano ormai ampiamente disponibili ricerche enormemente più attendibili che hanno riguardato prima gruppi di 500 bambini, poi di 10.000, poi di 500.000 ed infine di oltre 14 milioni di bambini, senza che alcuna relazione tra vaccino MMR e autismo sia mai stata rilevata in nessuno studio al mondo. I casi che abbiamo descritto sono in gran parte avvenuti negli Stati Uniti e non è pertanto sorprendente che da lì stiano partendo iniziative tese a contrastare il fenomeno della non riproducibilità dei dati. I vertici dell’NIH hanno pubblicato le loro riflessioni sulla rivista Nature (FS Collins and LA TabaK: NIH plans to enhance reproducibility, Nature. 2014 Ja- nuary 30; 505(7485): 612–613 http:// www.ncbi.nlm.nih. gov/pmc/articles/ PMC4058759/). La loro convinzione è che alla base della irriproducibilità dei dati non vi sia necessariamente un comportamento scorretto o fraudolento da parte dei ricercatori; infatti, nel 2011 l’Ufficio per l’Integrità della ricerca dell’ US Department of Health and Human Services ha perseguito solo 12 casi riferibili a frode (http://go.nature.com/t7ykcv). Anche considerando che questi casi siano sottostimati, è loro convinzione che il numero sia comunque trascurabile rispetto alle centinaia di migliaia di articoli pubblicati ed eseguiti in modo corretto ogni anno. I fattori che contribuiscono al problema della mancanza di riproducibilità sono secondo loro altri: lo scarso training dei ricercatori a progettare un adeguato disegno sperimentale e a eseguire una autonoma analisi statistica, l’enfasi su affermazioni provocatorie piuttosto che sui dettagli tecnici, il fatto che spesso le pubblicazioni non riportano informazioni essenziali per riprodurre il protocollo sperimentale. Per continuare ad essere competitivi nel loro settore, i ricercatori tendono infatti a tenere nascoste quelle “ricette segrete” che permettono ai loro esperimenti di funzionare, ma che li rendono di fatto irripetibili, impedendo così il progresso scientifico basato sui loro dati. Da non trascurare infine il già citato fatto che è difficile pubblicare risultati negativi o anche solo confirmatori. L’NIH ha per questa ragione recentemente messo in atto una serie di azioni per contrastare e invertire questa tendenza alla non riproducibilità del dato. Anche alcuni giornali scientifici, coscienti del problema, hanno intrapreso azioni in questo senso: PLoS One ha lanciato un programma (Reproduciblity Initiative) attraverso il quale gli scienziati possono chiedere che il proprio lavoro sia validato da laboratori indipendenti, programma in parte finanziato da fondazioni senza scopo di lucro. Nature ha elaborato una checklist in 18 punti da soddisfare per favorire la riproducibilità; inoltre obbliga a depositare online tutti i dati originali su cui si basa lo studio, e di renderli disponibili a richiesta. Ma quello che ci piace sottolineare è la (Continua a pagina 11) Anno X numero 55 (Continua da pagina 10) chiamata che i vertici dell’NIH hanno fatto a tutti gli attori (università, industria, società scientifiche, case editrici) a fare la loro parte assumendosi la responsabilità dei propri comportamenti. In quest’ottica, sembra molto appropriato il richiamo alle università (solo quelle statunitensi?) a riconsiderare i loro sistemi di incentivazione e progressione delle carriere. L’enfasi sull’incrementare il numero delle pubblicazioni ha favorito infatti la rapida sottomissione dei dati ottenuti senza troppo preoccuparsi della loro replicabilità. Tale invito alle università è chiaro e forte e recita testualmente: University promotion and tenure committees must resist the temptation to use arbitrary surrogates, such as the number of publications in journals with high impact factors, when evaluating an investigator’s scientific contributions and future potential. Le carriere dei ricercatori dovrebbero basarsi di più sul contributo che il candidato ha dato all’avanzamento delle conoscenze nell’ambito delle ricerche a cui ha partecipato e dovrebbe essere valutato il suo ruolo in quelle ricerche piuttosto che fare unicamente affidamento sugli indicatori bibliometrici, che potrebbero es- Pagina 11 sere facilmente amplificati da comportamenti scorretti anche di difficile individuazione. Le agenzie finanzianti, pubbliche e private, dovrebbero incoraggiare la ripetizione degli studi finanziando progetti ben congegnati anche se non interamente innovativi. I giornali scientifici dovrebbero pubblicare anche gli studi con risultati negativi, se svolti con cura e tecnicamente impeccabili. Gli scienziati stessi, infine, dovrebbero sviluppare un nuovo sistema di valori in cui nascondere i propri errori rappresenti solo un danno a se stessi e alla scienza, piuttosto che l’unico modo per proteggere la propria reputazione. Tutto questo non appare certo facile, ma se vogliamo che la scienza rimanga capace di migliorare il mondo così come ha fatto negli ultimi quattro secoli della nostra storia, sarà un passaggio inevitabile e necessario. Aggiornamento del 21 Aprile 2015 Un ulteriore studio apparso sulla rivista JAMA ha nuovamente escluso ogni ipotetico collegamento tra la vaccinazione MPR e lo sviluppo di autismo. Jain e colleghi hanno esaminato i dati di 95.727 bambini coinvolti in una campagna di vaccinazione per morbillo, parotite e rosolia tra il 1997 e il 2012. Di que- sti, 1929, cioè il 2,01 per cento, avevano un fratello maggiore affetto da autismo e quindi erano da considerare particolarmente suscettibili e a rischio di sviluppare la malattia. Dall’analisi statistica dei dati è emerso ancora una volta che non esistono differenze nel tasso d’insorgenza di autismo tra bambini vaccinati e bambini non vaccinati. “Coerentemente con quanto emerso in altre popolazioni” scrivono gli autori “non abbiamo rilevato alcuna associazione tra la vaccinazione MPR e un incremento di rischio di autismo tra i bambini, neppure tra i bambini con un fratello autistico”. Questi dati, oltre a confermare l’assoluta inesistenza di alcun legame tra la vaccinazione MMR e lo sviluppo di autismo nella popolazione infantile, confermano l’assenza di legame anche in soggetti particolarmente suscettibili come i fratelli di bambini autistici. Alessandro Mugelli, Alfredo Vannacci, Raffaele Coppini, Elisabetta Cerbai Nota: questo articolo è stato anche pubblicato su Toscana Medica n 4, aprile 2015 Anno X numero 55 Pagina 12 Svegliatevi CRO !! Le Contract Research Organization (CRO), o Organizzazioni di Ricerca a Contratto, stanno diventando sempre più frequentemente una parte importante organizzativa ed esecutiva delle sperimentazioni cliniche in Italia e nel mondo: gli ultimi dati riportano una percentuale che varia dal 51 al 65% del volume totale dei finanziamenti impegnati dalle aziende farmaceutiche nel settore della ricerca & sviluppo, e che tale quota ammontava a circa USD 27 miliardi nel 2014 e le previsioni stimano al 2017 una crescita a USD 33 miliardi (Harris Williams & Co., 2014). In Italia, il volume totale investito delle aziende in R&S è di circa euro 1.300 milioni (dei quali circa euro 800 milioni in ricerca farmacologica) con 5.950 addetti alla ricerca (dati Farmindustria): non esistono purtroppo ad oggi dati certi sul volume degli investimenti in outsourcing relativo alle sperimentazioni cliniche, ma si ritiene che non sia inferiore al 50% della suddetta cifra. Sulla base delle ultime informazioni disponibili, il numero delle CRO in Italia è di circa 200, di cui circa il 60 % italiane o con sede legale in Italia ed il rimanente 40% con sede internazionale; in un recente congresso tuttavia, è stato presentato che il numero delle CRO oggi accreditate nel nuovo Osservatorio (OsSC) sarebbero solo 127, di cui 41 (il 33%) con sede legale all’estero, quindi che agiscono probabilmente in Italia tramite singoli professionisti o operatori (Decreto 15 Novembre 2011, art. 7, comma 4). Purtroppo la nuova versione dell’OsSC non permette più la consultazione della lista completa delle CRO auto-certificate, per cui dobbiamo attenerci al dato presentato in quella sede congressuale. L’attività delle CRO è oggi oggetto di discussione in due realtà associative: in seno alla Società di Scienze Farmacologiche Applicate (SSFA), ed in seno alla Associazione Italiana CRO (AICRO). Al 31 dicembre 2015 i soci regolarmente iscritti a SSFA erano 821, di cui 246 (29,9%) appartenenti a CRO, che rappresentano in totale 72 CRO (cioè il 56,7 % delle CRO accreditate in OsSC). Inoltre ci sono ulteriori 55 Soci (7%) che si presentano come liberi professionisti e che, nella maggioranza dei casi, espletano attività inerenti i servizi delle CRO stesse. Il GdL CRO (coordinato da Giovanni Fiori, Marco Romano e Luigi Godi) conta di circa 69 Soci SSFA che hanno espresso, al momento della loro iscrizione, interesse all’attività del GdL, ma che effettivamente non partecipano alle attività del GdL. Questo GdL ha ideato e distribuito 3 anni fa un sondaggio sulle CRO ed ha contribuito all’organizzazione di un Congresso Nazionale congiunto con AICRO nel 2014. Ma gli impegni professionali dei coordinatori non hanno permesso ulteriori attività, per cui, vista la stagnante situazione, il Consiglio Direttivo SSFA, in accordo con i tre coordinatori, ha deciso di interrompere le attività del Gruppo di Lavoro, comunicandolo alla recente Assemblea dei Soci. AICRO consta di 18 CRO associate (la lista può essere visionata su www.aicro.it): nel congresso AICRO svoltosi a Milano il 12 novembre 2015 su “Le sfumature della ricerca clinica in Italia”, la dr.ssa Mariapia Cirenei, Presidente AICRO, ha evidenziato come nelle 18 CRO associate lavorino circa 1.500 dipendenti, che hanno gestito nel 2014 ben 916 studi clinici (sia farmacologici che dispositivi medici) coinvolgendo 7.146 centri sperimentali. Numeri importanti quindi, che lasciano presupporre che i rappresentanti di AICRO siano parte integrante delle politiche di sviluppo e programmazione della ricerca in Italia. Tutti sappiamo quali siano le difficoltà degli operatori per ottenere le necessarie autorizzazioni per iniziare una sperimentazione clinica in Italia. Difficoltà di differente origine: complessità nella preparazione della documentazione necessaria, perché non esiste ancora, tranne rari eccezioni, una standardizzazione della documentazione; mancate disponibilità delle segreterie dei Comitati Etici (CE), le quali hanno accessi diretti e telefonici molto limi- tati; scarso numero di sedute dei CE, che conduce inevitabilmente allo sforamento dei 30 giorni previsti dalla normativa vigente per l’ottenimento del parere etico sulla ricerca; e quando i 30 giorni vengono rispettati, l’ottenimento del verbale scritto della seduta diventa un ostacolo insormontabile, tanto che ad alcune CRO è stato richiesta la trascrizione dell’elenco della documentazione inviata per accelerare la stesura del verbale; ulteriore tempo perduto per la stipula della convenzione per sperimentazione clinica: i famosi 3 giorni sanciti con Decreto Ministeriale 8 febbraio 2013 “Criteri per la composizione e il funzionamento dei comitati etici” (che cita testualmente al comma 9 dell’art. 2 “Il Direttore Generale della struttura sanitaria interessata ovvero un suo delegato con potere di firma, in caso di accettazione della sperimentazione, deve garantire la definizione dei contratti economici relativi agli studi contestualmente alle riunioni del comitato etico o tassativamente entro tre giorni dall’espressione del parere del Comitato Etico) non vengono mai rispettati, quando i contratti già sottoscritti e bollati non vengono perduti nei meandri delle aziende ospedaliere. e non mi prolungo perché ognuno di noi potrebbe contribuire all’allungamento della lista con altre esperienze. Tuttavia non posso esimermi dal fare un cenno all’inefficienza del nuovo (ma già inopportuno) sistema informativo dell’Osservatorio Nazionale Sperimentazione Clinica dei Medicinali (OsSC): l’ufficio più “bombardato” è sicuramente l’help desk, perché giornalmente chiamato in causa per rispondere alle centinaia e centinaia di richieste per la (Continua a pagina 13) Anno X numero 55 (Continua da pagina 12) mancata operatività del software. Quanti pazienti lasciati privi di farmaci innovativi perché la ricerca sperimentale non viene approvata !! Quanti progetti perduti a favore di sedi europee ed extraeuropee di aziende che perdono il loro budget : è inutile nascondersi dietro numeri non corrispondenti alla realtà quotidiana. Quanti posti di lavoro perduti (sia nelle aziende che nelle CRO) a causa dei ritardi ed incompetenze !!! Quanti milioni di euro dei contribuenti italiani buttati dalla finestra !!! Il nuovo Regolamento n. 536/2014 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16 aprile 2014 sulla sperimentazione clinica di medicinali per uso umano sarebbe dovuto essere alle porte (implementazione maggio 2016), ma anche a livello comunitario i ritardi di programmazione sono evidenti ed il portale unico sarà attivo e pronto solo a fine 2018. Ogni CRO sta adeguando la propria strut- Pagina 13 tura ed il proprio personale impegnato nella delicata attività regolatoria inerente la sottomissione all’ autorità competente ed al comitato etico, in vista proprio dell’enorme sforzo scientifico ed imprenditoriale a cui si andrà incontro. Le suddette problematiche come influenzeranno la vita professionale degli addetti delle CRO, la relazione con le aziende e con gli altri stakeholders della ricerca? E allora che cosa possiamo fare? Come possiamo credere ancora nella professione che quotidianamente svolgiamo con interesse e passione? L’istituzione di tavoli di lavoro e discussione delle varie problematiche e, soprattutto, delle normative e linee guida, è estremamente utile e produttivo, soprattutto quando, ma non succede, anche gli “operatori di campo” vengono invitati. Le CRO dovrebbero fare fronte comune per intraprendere insieme un’azione legale nei confronti dei comitati etici, dei direttori generali, di AIFA, per ottenere quanto sancito dalle normative vigenti in merito alle tempistiche previste (tempi certi sanciti da normative dello Stato Italiano, non da opinabili e discutibili linee guida) che sono quasi sempre disattese, lasciando l’Italia fanalino di coda nella ricerca internazionale, risultando Paese not appealing per le numerose problematiche presenti, pur avendo delle eccellenze internazionali in numerose aree terapeutiche. Ed allora ….. svegliatevi CRO: fate sistema, fate fronte unico riunendovi in un’unica associazione di categoria che possa tutelare gli interessi di aziende e professionisti validi, che assuma una valenza politica di settore, capace di diventare un punto di forza e far sentire le proprie ragioni nel sistema Italia della ricerca clinica. Luigi Godi Ridiamoci sopra……….. INPS e CUD In una lettera, pubblicata recentemente sul Corriere della Sera, una contribuente ha parlato del suo idilliaco rapporto telematico con INPS; ciò ha provocato in me un misto di invidia ed incredulità. Poiché la verità può avere molte facce, ecco che vi narro la mia esperienza. Anche io sono pensionato di 66 anni, ma continuo a lavorare come libero professionista, quindi uso quotidianamente PC, con posta elettronica, internet ed altro. Lunedì sera 7 marzo: anche se ho ancora una consulenza da concludere, decido di collegarmi ad INPS per avere il mio CUD: un presagio mi dice che è bene essere prudenti, anche se ritengo di essere fortunato. Infatti, per precedenti interazioni telematiche con INPS, ho già il mio PIN, ricevuto per la prima metà via web, per la seconda metà per posta (ma perché??). Sono le 21,00 quando entro nel sito INPS, penso che in pochi minuti avrò finito. Accedo all’area servizi on line, ed inserisco il mio PIN che avevo gelosamente custodito. Prima sorpresa! Il PIN è scaduto, ma per fortuna il sito me ne fornisce uno nuovo: ostacolo superato. Accedo con il nuovo PIN, entro nell’area CUD, e scopro con sorpresa che per avere il mio CUD non basta il PIN, ci vuole il PIN certificato. Scarico il modulo, lo compilo con tutti i dati (chiedendomi perché INPS, che mi conosce da oltre 40 anni, mi chiede sempre sesso, età, codice fiscale ed altro: ma gli archivi INPS sono fuori uso?), lo stampo, lo firmo, e poi ne faccio una scansione ( e benedico il momento in cui, quando ho comprato la stampante, ne ho presa una con scanner incorporato). Faccio anche la scansione della mia carta d’identità, perché bisogna inviare anche un documento: mi sento pronto al grande momento. Accedo nuovamente all’area CUD, carico i due files ( modulo richiesta e carta identità), ma non succede nulla! Provo un paio di volte, poi mi accorgo di un messaggio che mi avverte che posso inviare un solo file, e mi suggerisce di mettere i files in una cartella, e di “zippare” il tutto. Comincio ad innervosirmi, ma persevero. Non ho mai “zippato” un file, quindi vado su internet, scarico “winzip” e faccio un paio di prove: funziona! Creo la cartella INPS, metto i due files, “zippo” la cartella, e mi sento pronto al grande momento: carico la cartella “zippata”, ma non succede nulla. Come mai? Ma certo, INPS mi dice che può accettare file di dimensione massima 1 mega, e la mia cartella, anche se “zippata”, è di 1,8 mega. Ma come, nell’era della banda larga, solo 1 mega? Mi sento in un vicolo cieco: ma, abituato a risolvere problemi ben più grandi, mi accorgo che il modulo di richiesta del PIN certificato ha molti spazi bianchi. Faccio una fotocopia della carta d’identità (sia fronte che retro), e la incollo negli spazi bianchi, ne faccio una scansione, poi “zippo” solo questo file, risultato: 1,1 mega. Confido nell’elasticità del sistema, carico il file e premo invio: evviva, INPS mi informa che ha ricevuto la mia documentazione. Con un sospiro di sollievo spengo il PC, guardo l’orologio: sono le 23,15. Avrei dovuto finire la consulenza, ma sono esausto al pensiero di aver lottato contro i mulini a vento. Subito dopo mi assale un dubbio amletico: ma INPS accetterà la mia domanda, oppure la cestinerà perché non congrua? E quando me lo farà sapere? Mentre mi addormento, penso che un contribuente sempre puntuale nei versamenti per circa 40 anni dovrebbe essere trattato da INPS come un amoroso figlio. Invece INPS si comporta come la peggiore matrigna delle ben note favole. Domenico Criscuolo Pagina 14 Anno X numero 55 NOTIZIE DAI MASTER MASTER ROMA SAPIENZA Presente e futuro della sperimentazione clinica L’inaugurazione ufficiale del master di II livello della Sapienza, diretto dal prof. Roberto Verna “ Ricerca clinica: metodologia, farmacovigilanza, aspetti legali e regolamentari”, ha avuto luogo il 24 marzo scorso presso l’auditorium della prima Clinica Medica, con la tavola rotonda dal titolo: “Presente e futuro della sperimentazione clinica”. Invitate a parlare sono state numerose personalità accademiche, istituzionali e dei vari settori della ricerca, oltre ad alcuni docenti del master; hanno partecipato all’evento, condotto dal direttore editoriale del Quotidiano Sanità, il dr. Francesco Maria Avitto, che poi ha relazionato sulla pubblicazione on line, circa 45 persone, tra di essi i 14 studenti iscritti al corso di questo anno. Il Presidente del CUM, prof. Andrea Lenzi, ha portato il suo saluto sostenendo come sia necessaria una maggiore valorizzazione dei master universitari, soprattutto di quelli che si occupano dell’area medica per il loro riflesso sulle professionalità degli studenti. Il Preside della Facoltà di Medicina e Odontoiatria, prof. Sebastiano Filetti, che ha poi preso la parola, si è impegnato a potenziare il master negli anni futuri per poter avere a disposizione professionisti che conoscano nei dettagli la materia e sappiano far fronte alle crescenti richieste di salute e di benessere dei pazienti e dei cittadini, i quali, a loro volta, saranno sempre più informati attenti e desiderosi di conoscere i risultati degli studi clinici realizzati. Successivamente, ha preso la parola il prof. Roberto Verna, che, in prima istanza, ha voluto leggere la lettera inviata dalla dr.ssa Marcella Marletta, della Direzione Generale dei Dispositivi medici e del Servizio Farmaceutico, impossibilità a presenziare per un concomitante incarico di rappresentanza. Nella sua comunicazione la dr.ssa Marletta ha messo in evidenza i punti critici del settore, riconoscendo le deficienze del sisteProf. Roberto Verna ma ed impegnandosi nell’agire per risolverli per consentire all’Italia di svolgere il ruolo che le spetta per le eccellenze presenti nel nostro Paese. Il prof. Verna ha anche ricordato come sia nata, nel 2002, l’idea di dar vita ad un master che ponesse le basi per una solida preparazione di chi intenda dedicarsi alla ricerca clinica in campo farmacologico e come poi, nel corso degli anni, il corso abbia avuto alterne vicende fino a riprendere, in questo anno, con la prospettiva di entrare nel circuito europeo della PharmaTrain Federation attraverso l’adeguamento del programma didattico al syllabus PharmaTrain. Il master si avvale di docenti sia accademici che di estrazione dal mondo farmaceutico e dei servizi; inoltre, per assicurare uno stage agli studenti, ha la stretta collaborazione del Clinical Trial Center del Policlinico Umberto I diretto dal dr. Roberto Poscia del Ministero della Salute, ed anche di alcune CRO. La dr.ssa Sandra Petraglia, direttore Ufficio Ricerca e Sperimentazione Clinica, è intervenuta in rappresentanza del Presidente AIFA, dr. Mario Melazzini e, riferendosi alla prossima implementazione del nuovo Regolamento europeo sulla sperimentazione clinica, ha osservato come sia importante la professionalità di chi si occupa di tale complessa materia e come siano opportuni e determinanti i master come quello diretto dal prof. Verna; d’altra parte anche AIFA è molto interessata a queste iniziative, avendo non solo compiti regolatori ma anche di formazione del personale dedicato alla ricerca. La dr.ssa Patrizia Popoli, dirigente ISS, è intervenuta a nome del presidente Walter Ricciardi per assicurare la piena collaborazione dell’Istituto con l’Università , con l’industria e con tutte le altre istituzioni che intervengono nell’applicazione del nuovo regolamento europeo per dare spazio all’Italia di emergere nel contesto internazionale ed ha ricordato come, negli ultimi tempi, vi sia stato un incremento del numero degli studi di fase II, ambito nel quale l’Istituto svolge un ruolo predominante. Per Farmindustria ha parlato il dr. Maurizio Agostini, in rappresentanza del presidente Massimo Scaccabarozzi; egli ha ricordato l’impegno delle aziende farmaceutiche per la ricerca farmacologica e clinica, sia in termini non solo di (Continua a pagina 15) Anno X numero 55 Pagina 15 capitali ma anche di investimenti in risorse umane. Ha quindi ricordato come l’industria del farmaco in Italia sia importante e determinante anche nella produzione, che assicura esportazione e quindi offre un contributo non indifferente alla crescita del PIL nazionale. E’ intervenuto anche il Generale dei Carabinieri, Claudio Vincelli, comandante dei NAS, che ha riepilogato l’ampio ambito di attività del suo gruppo, fornendo cifre sui vari controlli effettuati a protezione della sicurezza dei medicinali e della salute dei cittadini, delle azioni di repressione di attività illecite e di prevenzione delle stesse, operando sempre in stretta collaborazione con AIFA e con il Ministero della Salute. Hanno espresso il loro parere anche Giovanni Leonardi, direttore generale della ricerca e dell’innovazione in sanità; il direttore generale della digitalizzazione, del sistema informativo sanitario e della statistica, Massimo Casciello; il presidente della fondazione GIMBE, Nino Cartabellotta; il presidente eletto della Fondazione Fadoi, Dario Manfellotto; ed il presidente ANMCO ( Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri) Michele Gulizia. Vi sono stati poi interventi da parte del pubblico, tra di essi, quello del dr. Stefano Marini, docente del master e presidente EUCROF ( European CRO Federation), che ha ricordato il contributo della federazione nel seno della commissione per lo sviluppo del portale europeo ed il successo nel prolungare a 30 mesi , invece dei 12 iniziali, il tempo entro il quale pubblicare i risultati degli studi di fase I, e quello mio, che ha avuto lo scopo di menzionare il Progetto SMD ( Specialist in Medicines Development), che SSFA sta attivando in Italia, con la collaborazione di IMIPharmaTrain e PharmaTrain Federation, e che ha lo scopo di perfezionare la formazione di studenti che hanno già frequentato un master e che lavorano in ambito di ricerca clinica, attraverso un periodo di approfondimento e di supervisione dei capitoli essenziali della materia, della durata variabile da 2 a 4 anni, conferendo una certificazione internazionale a questi professionisti. Il prof. Verna ha chiuso la seduta ringraziando sia i relatori che i partecipanti ed auspicando una lunga serie di edizioni future a questo master. Francesco De Tomasi MASTER NAPOLI Nella prima settimana di maggio ha avuto inizio la terza edizione del master della Seconda Università di Napoli, diretto dal prof Franco Rossi. Il programma di questo master si articola in cinque moduli di una intera settimana di lezioni: gli argomenti sono quelli classici della Medicina Farmaceutica, ma il programma ha un particolare attenzione alla Farmacovigilanza ed agli Affari Regolatori. Gli studenti di questa terza edizione sono 21, con la usuale netta prevalenza di ragazze (17 a 4): la maggior parte ha la laurea in farmacia, ma sono presenti anche altre lauree ad indirizzo scientifico (medicina e chirurgia, biologia, biotecnologia, CTF). Ho avuto l’opportunità di svolgere una prima lezione nel corso del primo modulo, ed ho apprezzato la preparazione e l’attenzione di tutta la classe: di certo un buon inizio. Nella foto, tutti gli studenti del master, nella splendida terrazza della Seconda Università di Napoli (non a caso si abbrevia SUN), con splendida vista sul golfo e sul Vesuvio. Pagina 16 Anno X numero 55 MASTER DI CATANIA Il master dell’Università di Catania è un’altra realtà del panorama formativo offerto dalle Università italiane: si tratta di un programma ben collaudato, coordinato dal prof. Filippo Drago. Ho avuto occasione di svolgere due giornate di lezione, davanti a circa 25 laureati (farmacia, CTF, biotecnologie) molto attenti e preparati. Nella foto, l’aula delle lezioni. MASTER MILANO BICOCCA Lo scorso 7 aprile si è svolta la giornata inaugurale della nuova edizione del Master dell’Università di Milano Bicocca. Giunto all’ottava edizione, questo master si è conquistato molta popolarità fra gli studenti. Infatti oltre cento laureati in materie scientifiche avevano presentato la domanda di iscrizione: molto impegnativo dunque il compito della dr.ssa Elena Bresciani e del prof Antonio Torsello, che hanno svolto un colloquio di selezione a tutti i candidati, per stilare poi la graduatoria ed accogliere i primi trenta. Come di consueto, le lezioni del master si tengono tutti i venerdì ed i sabato mattina, da aprile a dicembre, con l’ovvia pausa estiva, per un totale di 267 ore di lezioni: tutti gli studenti avranno inoltre la possibilità di svolgere uno stage, per mettere in pratica, almeno per qualche mese, quanto appreso in aula. Nella foto, l’aula delle lezioni. MASTER ROMA CATTOLICA (Sistemi di qualità) Le indagini cliniche con i dispositivi medici La mia tesi tratta di metodologia e ruolo delle Indagini Cliniche (IC) con i dispositivi medici (DM) talvolta a torto ritenute “più libere” rispetto agli studi clinici con i farmaci. Il ruolo delle indagini cliniche è verificare che il DM fornisca, nelle normali condizioni di impiego, le prestazioni per cui è stato progettato e che i rischi siano prevedibili tenuto conto dei benefici apportati. Le IC sono uno dei tre pilastri della valutazione clinica. Quest’ultima, che compone una specifica sezione del fascicolo tecnico, si articola in 3 parti: una valutazione critica dei risultati delle specifiche indagini cliniche condotte sul dispositivo in esame; una valutazione critica della letteratura scientifica; l’analisi combinata dei dati ottenuti dalla letteratura scientifica e dalle indagini cliniche. La conduzione scientifica delle IC è descritta nella norma tecnica UNI EN ISO 14155:2012 “Indagine clinica dei dispositivi medici per soggetti umani. Buona pratica clinica”. Le IC devono avere: obiettivi chiari, una metodologia definita, una corretta pianificazione statistica ed un’adeguata protezione del paziente. Tutti questi aspetti vanno descritti nel piano di indagine clinica (protocollo). I risultati delle IC devono essere oggetto di relazione completa e dettagliata, descritta dalla norma ISO. Viene inoltre richiesto un adeguato sistema di qualità. La norma ISO infatti richiede che il fabbricante predisponga un insieme di procedure interne che descrivano punto per punto tutti gli aspetti relativi alla gestione dell’indagine clinica. A seconda della classe di rischio e della situazione regolatoria del DM (ossia che abbia o meno già ottenuto la marcatura CE) variano le modalità di autorizzazione presso l’Autorità Competente. In ogni caso è essenziale l’autorizzazione del Comitato Etico (CE) della struttura ove si svolge l’indagine clinica. In conclusione, le indagini cliniche con dispositivi medici richiedono una preparazione specifica del personale incaricato, sia esso del fabbricante o di una società di ricerca a contratto (CRO). Rosa Anna Grifa Laureata in Chimica e Tecnologia Farmaceutiche presso l’Università di Roma “La Sapienza”. Master in “Sviluppo Preclinico e Clinico del farmaco” ed in “Sistemi di Qualità: GXP & ISO” presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore (Roma). Attualmente Stagista presso l’unità CRO del Clinical Trial Center della Fondazione Policlinico Gemelli di Roma. Pagina 17 Anno X numero 55 ULTIME NOTIZIE Il Comitato Scientifico (CSST) incaricato dalla Agence National de Sécurité du Medicament et des produits de la santé (ANSM) di fare chiarezza sul grave incidente avvenuto lo scorso gennaio durante uno studio clinico nel centro Biotrial di Rennes (Francia) ha concluso le sue indagini. La sperimentazione di fase 1 First in Human si concluse prematuramente dopo la morte di uno dei volontari e l’ospedalizzazione di altri quattro soggetti durante il quinto giorno di somministrazione del farmaco sperimentale BIA 10-2474, un inibitore dell’enzima acido grasso ammide idrolasi (FAAH) e perciò indicato per il trattamento del dolore neuropatico. Il CSST è stato chiamato ad analizzare gli aspetti concernenti sia il meccanismo d’azione che i profili tossicologici di BIA 10-2474 ed eventualmente proporre raccomandazioni utili al processo di revisione delle norme che regolano l’esecuzione degli studi di fase 1, al fine di migliorare ulteriormente la sicurezza per i volontari coinvolti. Secondo quanto riportato nella relazione del CSST, la Investigator Brichure (IB) riporta numerosi errori ed omissioni, implicitamente ribadendo che le indagini in corso da parte sia della Magistratura che dell’Ispettorato Generale degli Affari Sociali sono necessarie a chiarire alcuni aspetti procedurali e metodologici particolarmente rilevanti (come mai un Comitato Etico ha approvato uno studio di fase 1 con una IB così lacunosa? Perché lo studio non è stato immediatamente sospeso dopo l’ospedalizzazione del primo volontario trattato nella coorte con eventi avversi?). In particolare, alcune immagini sembrano essere manipolate e non rispondenti a quanto riportato negli study report della CRO preclinica incaricata della loro esecuzione, e gli studi di farmacologia preclinica sembrano aver seguito un disegno sperimentale inadatto ad una predizione accurata della dose efficace. Per ciò che concerne il meccanismo d’azione e la caratterizzazione tossicologica, il CSST evidenzia che il BIA10-2474 è stato studiato con rife- rimento alle conoscenze biomediche attuali ed alle precedenti esperienze con composti della stessa classe. Tuttavia, si è riscontrato che il composto presenta bassa attività e scarsa specificità, oltre che una durata d’azione piuttosto lunga. Proprio questi tre aspetti potrebbero essere alla base della tragedia: secondo il comitato è plausibile l’ipotesi che nei volontari sottoposti a trattamento multiplo di 50 mg/die, BIA10-2474 o uno dei suoi metaboliti si sia accumulato fino al superamento di una “soglia trigger” che può aver scatenato l’improvvisa tossicità, probabilmente per azione di tipo offtarget. Oltretutto, la scelta delle dosi nella parte multiple ascending dose dello studio non hanno riscontro farmacologico, in quanto il farmaco inibisce il target già a concentrazioni 10 volte minori. In effetti, alcuni scienziati in maniera indipendente hanno osservato che i segni di infiammazione e danno cerebrale evidenziati dagli studi di trattamento prolungato ad alte dosi in roditore avrebbero dovuto accendere qualche lampadina: sebbene infatti in molti casi questo dato rappresenti un riscontro comune, è abbastanza inaspettato per inibitori FAAH, sia in relazione al meccanismo d’azione che a quanto riportato in letteratura. Pertanto, il CSST raccomanda che in futuro gli studi di fase 1 siano condotti ponendo una maggiore attenzione e consapevolezza alla caratterizzazione farmacologica del farmaco sperimentale sia in modelli animali che durante l’esecuzione degli studi, ponendo anche l’accento sulla rilevanza scientifica ed etica della pubblicazione completa ed integrale dei protocolli e degli risultati degli studi senza pregiudizio verso gli interessi industriali. Da un punto di vista umano rimane il cordoglio per Guillaume Molinet, il volontario deceduto nello studio la cui morte sarebbe stata evitata applicando semplicemente una più rigorosa metodologia di indagine scientifica. E’ probabilmente anche la fine degli inibitori FAAH, una classe di composti che in passato aveva goduto di ampio credito come nuova frontiera nel trattamento del dolore neuropatico e dei disordini depressivi. Infatti, dopo che l’inefficacia del target era già stata sperimentata da Pfizer e Vernalis, anche J&J ha deciso di interrompere lo sviluppo del JNJ42165279 lasciando la piccola semivirtual company FAAH Pharma con il suo IPI-940 l’unica a credere ancora in questo target. Daniele Colombo Anno X numero 55 Pagina 18 Salute, alimentazione, farmaci e ambiente Workshop Nazionale Agroalimentare di Albenga, 17 – 18 marzo 2016 Nelle date indicate, con il patrocinio SSFA, si è svolto il primo Workshop Nazionale Agroalimentare organizzato da LABCAM, Laboratorio Chimico Merceologico della Camera di Commercio di Savona, in collaborazione con il Laboratorio della Camera di Commercio di Torino. All’evento si sono dati appuntamento esperti delle principali università, centri di ricerca ed ordini professionali di tutta Italia impegnati in un ricco calendario di lavori su ricerca, innovazione dei prodotti, sicurezza ed etichettatura. A tracciare un bilancio del Workshop è Luca Medini, direttore Labcam: “Siamo decisamente soddisfatti della riuscita dell’evento che ha visto sessanta partecipanti da tutta Italia, in particolare del centro nord tra aziende, università, associazioni di categoria, Asl e industrie del comparto di primo piano”. L’iniziativa è stata pensata con l’obiettivo di fornire un panorama aggiornato sui temi più attuali. “Il comparto agroalimentare è senza dubbio al centro di un crescente interesse – ha spiegato Luca Medini – e quasi quotidianamente ci confrontiamo con notizie che riguardano la sicurezza e la qualità ’in tavola‘. Le normative e gli studi in merito sono in continua evoluzione, viste le sempre più crescenti necessità del settore e le richieste del mercato con particolare attenzione all’applicazione di tecniche innovative per l’analisi della qualità di prodotto e per il mantenimento delle sue proprietà. La nostra iniziativa ha voluto mettere a fattor comune l’esperienza e la ricerca ai massimi livelli oggi nel panorama nazionale e internazionale fornendo soluzioni innovative alle aziende e informandole sulle ultime novità legislative e sulle responsabilità che coinvolgono le imprese”. Quattro le sessioni di lavoro. Nella prima sessione è stato affrontato il tema della sicurezza alimentare con particolare attenzione alle nuove tecniche di valutazione della qualità e l’utilizzo di tecniche e applicazioni innovative. Ad aprire la prima sessione, dedicata alla ricerca e alla sicurezza alimentare, è stato Sergio Caroli della SSFA, con un focus su “residui di farmaci e loro metaboliti negli alimenti: problemi attuali e prospettive future”. “L’attuale produzione di una vastissima gamma di farmaci per uso umano e veterinario, insieme all’uso, spesso abuso e uso improprio, che se ne fa – ha detto Caroli – implica che tali sostanze siano di fatto onnipresenti nell’ambiente con possibili effetti negativi per la salute umana e l’ambiente stesso. La salute del consumatore è messa rischio da residui e metaboliti di farmaci per uso umano dispersi nell’ambiente nonché da quelli di farmaci veterinari. Le patologie di maggior rilievo che ne derivano includono allergie, forme tumorali, effetti sulla riproduzione e sullo sviluppo. La rilevazione, l’identificazione e la quantificazione dei residui e dei metaboliti di farmaci nei comparti ambientali, nel biota, negli alimenti per consumo umano nonché nei luoghi di lavoro, costituisce pertanto una sfida importante per la salvaguardia della salute del consumatore. È necessario peraltro disporre di strategie analitiche innovative in grado di quantificare in modo attendibile tali inquinanti in una grande varietà di matrici per consentire al legislatore di predisporre idonei strumenti normativi”. C’è consapevolezza crescente da parte del consumatore in merito alla dispersione ambientale – deliberata, non intenzionale ed inevi- tabile – di farmaci. Basti citare tra le numerose iniziative tese a sensibilizzare l’opinione pubblica quella recentemente realizzata dalla Commissione europea nell’ambito del Seventh Framework Project. Le norme vigenti nell’Unione Europea impongono controlli rigorosi per quanto riguarda residui e metaboliti di farmaci negli alimenti di origine animale ai fini del rispetto dei Maximum Residue Limits (MRLs) e lo sviluppo di adeguati metodi qualitativi, di conferma e di identificazione (si vedano, ad esempio, la Council Directive 96/23/EC e la Commission Decision 2002/657/EC). Tali contaminanti si ritrovano a livelli non trascurabili in alimenti come carne, pesce, latte, uova e miele. La loro presenza deve quindi essere costantemente monitorata per proteggere la salute umana ed animale, garantire la sicurezza degli alimenti stessi e ridurre quanto più possibile ogni contenzioso negli scambi commerciali. Le autorità sanitarie nazionali, comunitarie e internazionali ritengono pertanto essenziale disporre di metodi di indagine pienamente affidabili per la determinazione di residui di farmaci negli alimenti destinati al consumo umano. Tramite l’esame della letteratura scientifica pubblicata nel triennio 2013-2015, per un totale di circa 1000 lavori, è stato possibile eviden(Continua a pagina 19) Anno X numero 55 Pagina 19 (Continua da pagina 18) ziare quali siano le metodologie analitiche cui oggi maggiormente si fa ricorso per il rilevamento, l’identificazione e la quantificazione di residui e metaboliti di farmaci per uso umano e veterinario nei prodotti agroalimentari, essenzialmente riconducibili a tecniche di cromatografia liquida ad altissime prestazioni in vario modo combinate con la spettrometria di massa ad alta risoluzione ed a saggi immunologici, come l’ELISA. La sicurezza alimentare richiede oggi una crescente attenzione ai problemi posti dalla dispersione ambientale di farmaci per uso umano e dall’uso massiccio di farmaci veterinari allo scopo di contenerne gli effetti dannosi non solo nell’immediato, ma anche – e soprattutto – nel lungo termine. Per garantire la salute umana e ambientale sotto questo profilo è indispensabile che il consumatore venga messo in grado di comprendere sempre meglio quali rischi comporti l’uso sconsiderato dei farmaci e si adoperi per contribuire attivamente a prevenirli. All’interno della sessione di lavoro della prima giornata, moderata da Giovanni Minuto, direttore del Cersaa, si sono avuti anche gli interventi di Lanfranco Conte del dipartimento di scienze agro-alimentari, ambientali e animali dell’Università di Udine circa le nuove acquisizioni sulla valutazione di qualità e purezza degli oli alimentari; di Carlo Brera dell’Istituto Superiore Sanità sugli aspetti innovativi ed i nuovi orizzonti nella valutazione del rischio da micotossine; di Andrea Giomo della divisione Food Euranet sui modelli innovativi per lo sviluppo del prodotto; di Paolo Oliveri del dipartimento di farmacia dell’Università di Genova su “spettroscopia NIR e chemiometria: un importante binomio nell’analisi agroalimentare”; di Andrea Ghiselli del centro di ricer- ca per gli alimenti e la nutrizione su “alimenti e salute: quali proprietà preservare e sviluppare?”. Sempre durante la prima giornata, una sessione è stata interamente dedicata all’analisi sensoriale con interventi di Maria Piochi, dell’Università degli Studi di Firenze, Lanfranco Conte dell’Università di Udine, Giovanni Minuto del Cersaa e Pierpaolo Nebuloni dell’azienda ThermoFisher Scientific. ”L’analisi sensoriale – ha sostenuto Luca Medini – è un metodo di misura oggettivo per la valutazione merceologica degli alimenti caratterizzati attraverso la vista, l’udito, il tatto, il gusto e l’olfatto. Fa oramai parte a tutti gli effetti dei criteri oggettivi necessari per dare una carta d’identità a un prodotto, affiancandosi ai rilevamenti chimici. L’industria alimentare utilizza ormai l’analisi sensoriale sia come verifica del rispetto dei disciplinari imposti per legge, ad esempio nell’attribuzione delle denominazioni di origine o volontari che come vero e proprio strumento di marketing”. Durante la seconda giornata, una sessione è stata interamente dedicata all’aggiornamento tecnico e legislativo in ambito agroalimentare. Moderata da Franco Macchiavello dell’Ispettorato centrale della tutela della qualità e repressione frodi dei prodotti agroalimentari, la sessione ha affrontato il tema della protezione del marchio in Italia ed all’estero per l’impresa agroalimentare, la nuova etichettatura dei pro- dotti alimentari, la responsabilità delle imprese e gli aspetti sanzionatori e le linee guida per la conformità dei materiali a contatto con gli alimenti. Sempre nella seconda giornata di lavori, grande interesse tra i partecipanti è stato registrato dalla “Shelf life degli alimenti: determinarla, prolungarla, garantirla”. La sessione, moderata da Luca Medini di Labcam, ha affrontato, con Sonia Calligaris dell’Università di Udine e con Elisabetta Razzuoli dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta gli indici microbiologici nella predizione della shelf life; con Andrea Giomo, divisione Food Euranet i modelli predittivi sensoriali; con Lucrezia Lamastra dell’Istituto di chimica agraria e ambientale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore lo studio della cessione di contaminanti da imballi alimentari e in chiusura, un case study presentato dall’Azienda Olearia di Nasino (SV). Luca Medini Anno X numero 55 Pagina 20 The new OECD GLP advisory document “The Application of GLP Principles to Computerized Systems” The OECD GLP consensus document “The Application of the Principles of GLP to Computerized Systems”, has been in use since 1995. The revision of the document was initiated by the OECD GLP working group in 2012. A subgroup consisting of experts from several countries drafted proposals that were discussed and commented by all members of the OECD GLP working group. In a global public hearing process OECD considered stakeholder opinions of all member countries around the world. The new Guideline was published in April 2016. As key elements of computerised system validation are similar to all GXPs the document is based upon the systematics of the EU GMP Guideline Annex 11 in consideration of the PIC/S PI 11-3 Good Practices for Computerised Systems taking into account specific requirements of GLP. It considers the preceding version of OECD document no. 10 as published in 1995 in all instances where changes appeared unnecessary. The new guideline introduces a life cycle approach to the validation and operation of computerized systems. It emphasizes risk assessment as the central element of a scalable, economic and effective validation process with a focus on data integrity. The validation approach should be risk-based and test facility management has the freedom to choose any appropriate life cycle model. The intention is to provide guidance that will allow to develop an adequate strategy for validation and operation of any type of computerised system in a GLP environment. The guidance applies to all types of computerised systems used in GLP regulated activities regardless of their complexity. Qualification rather than validation is considered acceptable for Commercial Off the Shelf systems (COTS), automated equipment of low complexity or small systems. Test facility management must decide and define criteria for when to apply computerised system vali- dation and/or qualification approaches. Computerised systems should be designed and demonstrated to be fit for purpose and introduced in a pre-planned manner. Risk management is considered a pivotal element of validation. It should be applied throughout the life cycle of a computerised system taking into account the need to ensure data integrity and the quality of the study results. Risk assessment should be used to develop an adequate validation strategy and to scale the validation effort in order to adapt to the type of system. Test facility management may rely on best practice guidance when scaling the validation effort. Test facility management has overall responsibility to ensure that the facilities, equipment, personnel and procedures are in place to achieve and maintain validated computerised systems. To validate a system and to operate a validated system, there should be close cooperation between all relevant personnel if possible such as the test facility management, the study director, quality assurance personnel, IT personnel and validation personnel. Written agreements between the local test facility management and the parent organisation should clearly assign responsibilities for validation, maintaining the validated status and GLP compliant operation of computerised systems. The study director’s responsibility for electronic data is the same as that for data recorded on paper. Quality assurance personnel should be aware of GLP-relevant computerised systems at their test facility or test site. Study directors and quality assurance personnel should have sufficient training to understand the relevant procedures in adequate use of GLP-relevant computerised systems. Quality assurance should be able to verify the valid use of a system. The competence and reliability of a supplier should be evaluated by test facility management and written agreements should exist between the test facility and the supplier. Suppliers need not conform to GLP regulations, but must operate to a documented quality system verified as acceptable by test facility management with input from the quality assurance unit. Hosted services (e.g. platform, software, data storage, archiving, backup or processes as a service) should be treated like any other supplier service and require written agreements describing the roles and responsibilities of each party. Change control should cover any item that undergoes review, approval and test and that are relevant for a defined configuration of a computerised system. The depth of documentation of a computerised system necessary will vary dependent on the complexity and validation strategy. Any GLP study result should be traceable to the relevant and validated system configuration to allow the verification of settings as provided by the study plan or the relevant method. Data migration should be part of the test facility management's validation scope if GLP-relevant data are affected regardless of the status of any GLP study project. Migrated data should remain usable and should retain its content and meaning. Data storage should be considered for each computerised system used to perform GLP studies during the study phase and archiving period. Test facility management should have a policy to explain how data are stored and how storage requirements are satisfied. If the test facility hands over the electronic study data to a sponsor, the responsibility for the data transfers to the sponsor. If data are printed to represent raw data, all electronic data including derived data as well as metadata and (information about data changes if such changes are necessary to maintain the correct content and meaning of the data) should be printed. Audit trail for a computerised system should be enabled, appropriately configured and reflect the roles and responsibilities of study person(Continua a pagina 21) Anno X numero 55 (Continua da pagina 20) nel. A system should be in place that can ensure a risk based review of the audit trail functions. Computerised systems should be periodically reviewed to confirm that they remain in a validated state, are compliant with GLP and continue to meet stated performance criteria (e.g. reliability, responsiveness, capacity). Computerised systems of less criticality and less complexity may be excluded from the review if the exclusion is justified based on risk. The study director, test facility management, quality assurance and, if appropriate, the sponsor should be informed about incidents requiring remedial action. The study director is responsible for defining the criticality of incidents for assessing the impact on the study. It is test facility management’s decision to rely on an electronic signature function if other means are possible (e.g. printing and signing by hand). An electronic signature function of a computerised system should be addressed in the requirements for the system and validated and described in the system procedures. A person’s role in a GLP study should be reflected by the meaning of the cor- Pagina 21 responding electronic signature applied by a study relevant computerised system and should be traceable to the system`s authorization policy. Metadata which are associated with the electronically signed record should be clearly identified (e.g. method settings and system configuration if relevant for the electronically signed analytical result). The archivist, who holds sole responsibility, may delegate tasks during the management of electronic data to qualified personnel or automated processes (e.g. access control). Ronald Bauer With regards to archiving, the advisory document supplements OECD GLP advisory document number 15 “Establishment and Control of Archives that Operate in Compliance with the Principles of GLP”, [ENV/ JM/MONO(2007)10]. Electronic archiving should be regarded as an independent procedure which should be validated appropriately. Any GLP-relevant data may be archived electronically. The GLP Principles for archiving must be applied consistently to electronic and nonelectronic data. Electronic data should be accessible and readable, and its integrity maintained, during the archiving period. If a hybrid solution is chosen (i.e. “paper-based” data and electronic data maintained in parallel) the test facility management should specify the regulated records for relevance in archiving. Ronald Bauer Dr. Ronald Bauer is the Head of the Austrian Pharmaceutical Inspectorate. He joined the national inspection unit in 2004. Since then he has been in charge of the national GLP monitoring program for pharmaceutical substances. Responsibilities extend to the inspection of computerized systems in all GxPs. Experience covers inspections of preclinical and clinical trials. He represents one of Austria’s GLP monitoring authorities in the OECD GLP working group and was appointed chair of the OECD IT subgroup in 2012. Dr. Ronald Bauer has a degree in chemistry from the Technical University Graz. Anno X numero 55 Pagina 22 Oggi parliamo di…. Qualità, efficacia e sicurezza di prodotti per terapie avanzate I prodotti medicinali di terapia avanzata (ATMP), che comprendono i prodotti di terapia genica, di terapia (cellulare) genica somatica ed i prodotti di tessuti ingegnerizzati, sono all’avanguardia dell’innovazione biomedica e rappresentano la principale, se non l’unica, speranza di cura per molte patologie, genetiche e acquisite, per le quali le opzioni terapeutiche disponibili sono di efficacia limitata, oppure del tutto inefficaci o inesistenti. Grazie a questa prospettiva, gli ATMP sono da tempo oggetto di notevole interesse e vivace dibattito. A seguito della Direttiva Europea sugli ATMP (Regolamento CE n. 1394/2007 (1)), si è venuto consolidando un quadro normativo regolatorio per queste terapie innovative, al cui centro c’è il Committee for Advanced Therapies (CAT), presso EMA, che si avvale di un comitato scientifico multidisciplinare di esperti, nel quale sono rappresentati gli Stati membri europei e le regioni aderenti alla European Free Trade Association (EFTA), insieme ad associazioni di pazienti e medici. Il CAT è aperto alla discussione delle problematiche sollevate dalle società del settore che ricercano, inventano, brevettano e sviluppano gli ATMP ed evidenzia l’opportunità, per queste società e gruppi di ricerca, di interagire con EMA e CAT, in veste di consulenti regolatori, nel corso dello sviluppo e dell’industrializzazione dei loro prodotti. Per quanto riguarda la qualità, l’efficacia e la sicurezza dei prodotti di terapia genica e terapia genica somatica, due sono le linee guida di riferimento, emanate da EMA/CAT nel 2008 (2) e nel 2014 (3). La seconda, in particolare, definisce principi scientifici e fornisce guida e indirizzi 1) per lo sviluppo e la valutazione dei prodotti medicinali di terapia genica (GTMP) avanzata destinati all’uso umano, e 2) per la produzione e raccolta della necessaria documentazione a supporto della richiesta per ottenere l’autorizzazione all’immissione in com- mercio nei Paesi UE ed EFTA, da presentare all’Ente Regolatorio al momento del deposito della domanda stessa. Sono tre le principali sezioni di questa linea guida: quella sulla qualità si occupa, in particolare, delle richieste specifiche riguardanti lo sviluppo e la fabbricazione, in GMP, dei GTMP. La sezione non clinica affronta gli aspetti relativi agli studi di R&D non clinici, allo scopo di massimizzare l’informazione ottenuta nella selezione dell’intervallo di dosi da testare negli studi clinici e per supportare la via e lo schema di somministrazione proposti nell’uomo. La sezione clinica affronta la richiesta di studiare, per quanto possibile, le proprietà farmacologiche del GTMP propriamente detto e del transgene. Gli studi clinici devono dimostrare chiaramente se gli effetti osservati sono attribuibili al GTMP. Le richieste per gli studi di efficacia sottolineano che, per questi prodotti, valgono gli stessi principi che regolano lo sviluppo clinico di qualunque altro prodotto medicinale: in special modo le richieste delle linee guida vigenti relative a specifiche aree terapeutiche. La parte finale di questa sezione, dedicata alla valutazione della sicurezza del Terapia genica somatica (cellulare) prodotto, enuncia i criteri da tener presenti negli studi di follow up e nelle richieste relative alla farmacovigilanza. I progressi della biologia molecolare e delle biotecnologie, associati ad una crescente comprensione dei processi patologici e dei meccanismi di protezione immunitaria, hanno reso possibile lo sviluppo di nuovi vaccini progettati razionalmente, utilizzando proteine ricombinanti, naked DNA, live vector, tossine geneticamente modificate e cellule dendritiche e tumorali, sia per la profilassi che per la terapia di un ampio numero di patologie. Queste tecnologie vaccinali, associate a nuovi e originali adiuvanti, sistemi di rilascio, formulazioni, vie e regimi di somministrazione, presentano molte sfide nel percorso volto a dimostrare la loro sicurezza ed efficacia a supporto dei test previsti nell’R&D clinico. La linea guida EMA, dedicata alla valutazione della qualità, efficacia e sicurezza di vaccini ricombinanti (4), passa in rassegna questi nuovi vaccini e le tecnologie adiuvanti ed evidenzia le istanze di sicurezza potenzialmente connesse. (Continua a pagina 23) Anno X numero 55 Pagina 23 (Continua da pagina 22) Inoltre, si occupa degli approcci finalizzati a dimostrare la sicurezza dei vaccini tramite la valutazione della loro tollerabilità/tossicità locale e sistemica, della biodistribuzione (ADME) e persistenza, dell’immunogenicità e immunotossicità, del potenziale tumorigeno, della tossicologia della funzione riproduttiva, della safety pharmacology e genotossicità. Inoltre, il disegno del vettore, le sequenze geniche del transgene, i materiali di partenza, le packaging cell lines, il cell banking, la validazione delle banche cellulari e del processo di isolamento e purificazione del principio attivo in scala ridotta, le specie animali usate nei modelli di malattia per studi di farmacodinamica, e come test in tossicologia, sono tutti argomenti le cui scelte vanno giustificate ed il cui comportamento in vivo va indagato. Particolare attenzione va anche posta all’eventualità che lo strumento di terapia genica possa infettare i soggetti che vengono a contatto del paziente (personale sanitario, parenti) e contaminare l’ambiente. Poiché i vaccini sono classificati come farmaci, devono subire la stessa rigorosa valutazione non clinica di sicurezza richiesta per i farmaci. Il contesto del loro uso profilattico richiede che ogni sforzo sia fatto per assicurarne un impiego sicuro. La valutazione della sicurezza di questi vaccini è complessa, perché essi agiscono attraverso un meccanismo multistadio nel quale il vaccino funziona da pro-farmaco, mentre anticorpi e linfociti attivati sono i veri effettori. Di conseguenza, varie tossicità poten- ziali devono essere prese in Terapia genica (AAV: Adeno-associated virus) considerazione: la tossicità diretta del prodotto, la tossicità lega- dovrebbero essere adattati alle speta alla sua attività farmacodinamica, cifiche proprietà del vaccino ed agquella derivante dall’attivazione di giunte a questo tipo di studio. I vaceventuali patologie preesistenti, la cini destinati a donne incinte, o in tossicità/immunogenicità di possibili età fertile, impongono che si esecontaminanti ed impurezze ed altre guano, durante la R&D non clinica, reazioni avverse causate dall’inte- studi embrio-fetali e post-natali, con razione tra i vari componenti. Tra le un disegno adattato per assicurare linee guida che si occupano dei vac- un’appropriata esposizione al vaccicini ci sono quelle generali, applica- no, della madre e del feto, durante la bili a tutti i farmaceutici, come la ICH gestazione, con estensione al perioS6, ma anche documenti più specifi- do post-natale (allattamento). Ci soci che lasciano spazio ad una certa no test appositi per rilevare ipersenflessibilità nel disegno dello studio. sibilità o reazioni autoimmuni, ma Tra i vari studi, se quelli di singola richiedono una validazione più apsomministrazione fanno, general- profondita e ampia. Oltre a questo mente, parte della batteria di test per approccio “su misura”, qualunque il controllo di qualità, i test tossicolo- adiuvante o componente attivo aggici di dose ripetuta sono pivotali. Il giunto alla formulazione del vaccino modello animale, la selezione dello richiede una sua propria valutazioschema di trattamento ed i parametri ne, che va fatta usando studi di roudi valutazione (alterazioni del com- tine per i nuovi farmaci. Da questa portamento, peso corporeo, analisi review, la tossicologia dei vaccini cliniche ed ematochimiche, mortali- apparirebbe disciplina separata a sé tà, necroscopia, istopatologia, con- stante, la cui predittività sarà potensumo di cibo e acqua) sono aspetti ziata con lo sviluppo di nuovi metodi critici per la valutazione della sicu- validati. rezza (in GLP). L’immunologia e i Domenico Barone parametri di safety pharmacology Bibliografia 1- Regolamento (CE) n. 1394/2007 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 novembre 2007, sui medicinali per terapie avanzate recante modifica della direttiva 2001/83/CE e del regolamento (CE) n. 726/2004 (G.U. L 324 del 10.12.2007, pag. 121). 2 - EMA/CAT/GTWP/671639/2008 - Committee for Advanced Therapies (CAT). Guideline on quality, non-clinical and clinical aspects of medicinal products containing genetically modified cells 3 - EMA/CAT/80183/2014 - Committee for Advanced Therapies (CAT). Guideline on the quality, non-clinical and clinical aspects of gene therapy medicinal products (Draft) 4 - EMA/CHMP/VWP/141697/2010 - Committee for Medicinal Product for Human Use (CHMP). Guideline on quality, non-clinical and clinical aspects of live recombinant viral vectored vaccines Anno X numero 55 Pagina 24 IFAPP & SMBF Lo scorso 18 e 19 aprile, a São Paulo (Brasile), si è svolto congiuntamente il 18° Congresso Internazionale di Medicina Farmaceutica (ICPM) ed il 38° Congresso Brasiliano di Medicina Farmaceutica, organizzati da IFAPP e dalla società brasiliana di medicina farmaceutica (SBMF). Nel prossimo numero di SSFAoggi troverete ampie relazioni di alcune sessioni: oggi pubblichiamo solamente alcune foto di questo evento, che ha avuto un grande sucSessione inaugurale con personalità brasiliane del ministero e dell’industria cesso. I partecipanti alla sessione su Medical Affairs (Global Medical Directors di Bayer, MSD, Pfizer ed il segretario della WMO, il dr Otmar Kloiber, con Honorio Silva nel ruolo di moderatore.) Anno X numero 55 Pagina 25 Pensate che la felicità sia il miglior elisir di lunga vita? Purtroppo questo articolo vi smentisce! Leggere per credere. Happiness and unhappiness have no direct effect on mortality The Lancet DOI: http://dx.doi.org/10.1016/S0140-6736(15)01222-2 What defines a good life? If in answering this question you included happiness in your list, you are not alone. Indeed, the pursuit and enjoyment of happiness is a common goal and desire in life for most people. Adults of all ages, including those in old age, frequently report the experience of happiness as a determinant of a good life. Since both happiness and health are crucial aspects of quality of life, medical work about the potential positive effects of happiness on a person's health and longevity is a growing area that has received increasing attention in the past decade. In The Lancet, Bette Liu and colleagues use data from a cohort of women in the UK Million Women Study, mean age 60 years, to examine whether happiness was associated with good health and with reduced mortality risk after an average follow-up of about 10 years. The strongest correlates of unhappiness were treatment for depression and anxiety (odds ratio [OR] 0·224 [99% group-specific CI 0·218–0·229]) and self-reported poor health (OR 0·298 [0·293–0·303]). In crude analyses of 719671 women without chronic health disorders from the cohort, unhappiness was significantly associated with an increased risk of all-cause mortality (age-adjusted rate ratio [RR] 1·29, 95% CI 1·25–1·33). However, in multivariate regression models adjusted for age, personal characteristics, treatment for illnesses, and self-reported health (the key factor) there was no significant association (0·98, 0·94–1·01). Other researchers have found that hedonic wellbeing (ie, a viewpoint that defines wellbeing through experiences of pleasure vs displeasure and that can be roughly summarised as happiness) is not a good predictor of mortality in women, when baseline levels of health and health behaviours had been taken into account. A Japanese cohort study (n=88175) showed that high levels of enjoyment in life appeared to protect against cardiovascular mortality in men but not in women aged 40–69 years. However, another study with 97253 women from the USA aged 50–79 years showed that high levels of optimism were associated with reduced mortality risk. Reviews and a metaanalysis8 on the associations between happiness (hedonic wellbeing, subjective wellbeing, or positive psychological wellbeing) and longevity support the notion that happy people live longer. Although most studies on this topic did not adjust their analyses for self-reported health, they suggest that the associations between happiness and longevity are strongest among healthy individuals. Liu and colleagues' main finding does not support this association, since no significant relation was shown between happiness and mortality risk within the subgroup of people reporting good or excellent health (indeed, Liu and colleagues' analysis of only people reporting excellent health showed all-cause mortality risk to be slightly higher in the unhappiest individuals compared with the happiest). The happiness–mortality association seems to be, to some extent, sex-specific, with higher positive effects reported in men than in women. Previous research shows different profiles of psychological wellbeing according to sex; for instance, women's wellbeing would rely more on positive interpersonal relations than men's. Moreover, in older adults, the difference between men and women on reported wellbeing and happiness increases with advancing age. Therefore, men and women probably define happiness differently, which might explain, at least partially, sexspecific differences for the associations between happiness and medical outcomes, including mortality. Further qualitative research that allows separate content analysis for men and women about happiness across different age ranges is needed to improve understanding of the complex concept of happiness. Although mortality is one of the most well documented outcomes in reports on happiness, happiness has also been shown to be associated with other medical disorders, particularly a reduced risk of both incident cardiovascular diseases and disability levels12 (see Diener and Chan for a review). Research about happiness of older adults should focus on medical outcomes other than mortality, particularly the incidence and prognostic value of disabling diseases and disability, the most important clinical issues faced by elderly populations. For example, an important gap exists in knowledge about the potential associations of happiness with the incidence of cognitive decline and dementia; indeed, happiness is associated with healthy lifestyles, such as exercise and abstinence from smoking, which, in turn, are protective factors against dementia. Therefore, it is plausible to suggest that happiness could be associated with a reduced risk of incident dementia. Moreover, further research from a lifecourse perspective is needed since happiness during critical periods of development, such as in childhood, could have important consequences on health in adulthood. Irrespective of caveats (eg, happiness being measured by a single-item questionnaire, no adjustment for physical function or functional ability, and no adjustment for major life events) and limitations (ie, studying only middle-aged women), Liu and colleagues' study provides extremely valuable and robust information about happiness, health, and mortality. Its robustness relies on the very large sample size—indeed, the largest population so far in happiness studies—and the well conducted analyses, which took into account several factors associated with both happiness and mortality risk. Epidemiological evidence on associations between happiness and medical outcomes has been accumulating over the past two decades. Randomised controlled trials are needed. Although a methodological challenge, interventions should be operationalised to examine the direct effects of happiness on health outcomes in both healthy and clinical (eg, people with depression) populations, particularly in old age; happiness interventions have (Continua a pagina 26) Anno X numero 55 Pagina 26 (Continua da pagina 25) already been operationalised in the research field. Such studies should be powered to allow comparisons to be made across age ranges and between men and women. Cross-cultural studies could also shed light on the generalisability of interventions to promote happiness. References King, LA and Scollon, CN. What makes a life good?. J Pers Soc Psychol. 1998; 75: 156–165 Liu, B, Floud, S, Pirie, K, Green, J, Peto, R, Beral, V, and for the Million Women Study Collaborators.Does happiness itself directly affect mortality? The prospective UK Million Women Study. Lancet.2015; (published online Dec 9, 2015. Ryan, RM and Deci, EL. On happiness and human potentials: a review of research on hedonic and eudaimonic wellbeing. Annu Rev Psychol. 2001; 52: 141–166 Shirai, K, Iso, H, Ohira, T et al. Perceived level of life enjoyment and risks of cardiovascular disease incidence and mortality: the Japan public health center-based study. Circulation. 2009; 120: 956–963 Tindle, HA, Chang, Y-F, Kuller, LH et al. Optimism, cynical hostility, and incident coronary heart disease and mortality in the Women's Health Initiative. Circulation. 2009; 120: 656–66 Veenhoven, R. Healthy happiness: effects of happiness on physical health and the consequences for preventive health care. J Happiness Stud. 2008; 9: 449–469 Diener, E and Chan, MY. Happy people live longer: subjective well-being contributes to health and longevity. Appl Psychol Health Well Being. 2011; 3: 1–43 Chida, Y and Steptoe, A. Positive psychological well-being and mortality: a quantitative review of prospective observational studies. Psychosom Med. 2008; 70: 741–756 Koivumaa-Honkanen, H, Honkanen, R, Viinamäki, H, Heikkilä, K, Kaprio, J, and Koskenvuo, M.Self-reported life satisfaction and 20-year mortality in healthy Finnish adults. Am J Epidemiol. 2000;152: 983–991 Pinquart, M and Sörensen, S. Gender differences in self-concept and psychological well-being in old age: a meta-analysis. J Gerontol B Psychol Sci Soc Sci. 2001; 56: 195–213 Davidson, KW, Mostofsky, E, and Whang, W. Don't worry, be happy: positive affect and reduced 10-year incident coronary heart disease: the Canadian Nova Scotia Health Survey. Eur Heart J. 2010;31: 1065–1070 Collins, AL, Goldman, N, and Rodríguez, G. Is positive well-being protective of mobility limitations among older adults?. J Gerontol B Psychol Sci Soc Sci. 2008; 63: 321–327 Lyubomirsky, S, Dickerhoof, R, Boehm, JK, and Sheldon, KM. Becoming happier takes both a will and a proper way: an experimental longitudinal intervention to boost well-being. Emotion. 2011; 11:391–402 Giornata mondiale contro la Tbc: l’eradicazione è ancora lontana Più di quattromila persone perdono la vita ogni giorno a causa della tubercolosi. Lo ricorda AIFA, in occasione della giornata mondiale contro la tubercolosi, che solo nel 2014 ha colpito circa 9,6 milioni di persone, secondo un rapporto dell’OMS. Fino a oggi molti passi avanti sono stati fatti, sia in termini di progressi scientifici sia di vite salvate, se si pensa che dal 2000 a oggi 43 milioni di persone sono state salvate e che la mortalità si è ridotta del 47% dal 1990 al 2015. Ma il traguardo di eradicazione della malattia, che OMS si era posto tra gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibili (SDGs, Sustainable Development Goals) entro il 2030 è ancora lontano. Senza contare che un’ulteriore complicazione è sorta in questi anni dalla resistenza ai farmaci. Esiste infatti una forma difficilmente curabile della tubercolosi, detta multiresistente (MDR-TB), che non risponde ai principali farmaci antitubercolari. Due nuovi farmaci sono stati immessi sul mercato per la cura di questa forma più aggressiva, ma solo il 2% delle persone che ne avrebbe bisogno ha accesso alla cura. In Europa, secondo gli ultimi dati diffusi dal Centro Europeo per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie (ECDC), nel 2014 si sono registrati 340.000 casi di tubercolosi, con un calo del 4,3% dal 2010 al 2014. Purtroppo, però, se da una parte diminuiscono i casi della classica tubercolosi, dall’altra aumentano quelli multiresistenti: un quarto dei 480.000 pazienti nel mondo malati di tubercolosi con resistenza multifarmaco si sono infatti registrati proprio in Europa.Un nuovo aiuto per la lotta alla tubercolosi arriva dall’Università di Nottingham dove i ricercatori in collaborazione con IBM hanno avviato un progetto “Help Stop TB” su World Community Grid, che servirà per studiare gli aspetti del comportamento dei batteri responsabili della tubercolosi. L’obiettivo è scovare potenziali vulnerabilità dei batteri che potrebbero un giorno essere usate come target farmacologico. Il progetto prevede la collaborazione di migliaia di volontari che metteranno a disposizione dei ricercatori la potenza di elaborazione dei loro dispositivi, quando non vengono utilizzati, per eseguire i milioni di calcoli necessari per queste simulazioni. Grazie al crowdsourcing di un supercomputer virtuale, sarà possibile conseguire risultati più rapidi e di maggiore portata rispetto all’impiego delle risorse computazionali tradizionali di cui i ricercatori dispongono. “La Tbc è una delle malattie infettive più letali al mondo, insieme all’HIV – spiega Anna Croft, ricercatrice a capo del progetto Help Stop TB e professore associato presso la facoltà di ingegneria dell’Università di Nottingham – ed un terzo della popolazione mondiale ospita il batterio responsabile. Il mio gruppo utilizzerà World Community Grid per aiutare la scienza a comprendere meglio il batterio, con l’obiettivo di sviluppare trattamenti più efficaci ed eliminare questa minaccia per la salute umana. Grazie all’enorme potenza computazionale del World Community Grid, possiamo studiare molte strutture di acidi micolici diverse, anziché limitarci ad alcune. Un tipo di analisi altrimenti impossibile su questa scala”. Anno X numero 55 Pagina 27 Health and happiness The Lancet DOI: http://dx.doi.org/10.1016/S0140-6736(16)30062-9 What makes some individuals and countries happier than others? Whether associated with increased personal wealth, social support, freedom of expression, or longer healthy life, the search for happiness varies as widely as the definition of happiness itself. How to measure individual or national happiness, or related indices of wellbeing, is subject to debate. In the 2014 Lancet Series on Ageing, Andrew Steptoe and colleagues distinguished between three aspects of wellbeing—life satisfaction (evaluative), recent happiness or sadness (hedonic), and purpose (eudemonic). However, happiness is already recognised as an important concept in global public policy. March 20 was declared by the UN to be International Happiness Day, Bhutan has a Gross National Happiness Index, and Bhutan, Ecuador, United Arab Emirates, and Venezuela have appointed Ministers of Happiness. Efforts to assess and improve wellbeing might, by using broader indicators than measures of income, poverty, health, education, and good governance viewed separately, help countries to understand and improve what really matters to people. The fourth World Happiness Report 2016, released on March 16, aims to survey the science of measuring and understanding subjective wellbeing. Using life evaluations from Gallup World Poll annual surveys of 1000 residents per country (157 countries), people were asked to evaluate satisfaction with life (evaluative happiness) on a scale of 0 to 10 (Cantril ladder). The commonest answer was 5; worldwide, about a sixth were 0–3 (lowest) and a sixth were 8 –10 (highest). Other variables—gross domestic product (GDP) per head, social support, healthy life expectancy, freedom to make life choices, generosity, and perceptions of corruption were investigated to account for national differences in life satisfaction. Scandinavia topped the rankings, with Burundi, undergoing severe political unrest, last. In North America, Australia, and New Zealand, 6% answered at the lower end (0–3) compared with 49% (8–10) at the higher end. At the opposite extreme, in sub-Saharan Africa, 32% answered 0–3 and only 7% answered 8–10. Unsurprisingly, multiple regression confirmed that this national average happiness score was strongly positively correlated with log GDP and healthy life expectancy. As to which factors determine average life satisfaction in countries, this is less clear. Richard Peto, University of Oxford, UK, told The Lancet that “the multiple regressions actually obscure the crudeness of the evidence”. Therefore, it is difficult to draw national conclusions beyond what we might already expect based on social economic and life expectancy data. Furthermore, from a purely medical viewpoint, Bette Liu and colleagues recently reported from the prospective UK Million Women Study that although chronic illness causes unhappiness, unhappiness itself has no direct effect on mortality (unless it leads to damaging health behaviour, such as smoking). After allowing for differences in health and lifestyle, the overall death rate in those who reported being unhappy was the same as the death rate in those who did not. Further research is required to make results generalizable cross culturally and to inform across age range and between sexes. In this context, while in support of deepening global understanding of the study of happiness and health, The Lancet identifies two areas to focus priority attention on. First, the opportunity to reduce premature deaths globally must be taken. In 2015, Ole Norheim and colleagues showed that with continued international effort, the number of premature deaths (death in childhood or before age 70 years) could be reduced by 40% by 2030, where mortality is not dominated by new epidemics, political disturbances, or disasters. Continuing efforts to control the targets of the Millenium Development Goals, non-communicable diseases, and injuries, will improve healthy life expectancy, and contribute to improving individual and collective wellbeing. The second priority is reducing inequality within and between countries in access to health care, including mental health. The World Happiness Report 2016 indicates that some regions have in recent years been experiencing progressively greater inequality of happiness. The Global Burden of Disease 2013 study reported mental and substance disorders (including tobacco and alcohol) as leading causes of the average number of years of life lost to premature death and disability. Further understanding of the association between happiness and health should contribute to progress in sustainable development. However, indices of overall wellbeing must not obscure the need for ongoing progress in reducing disease, mental illness, and premature death. Without life, there is no happiness to be realized. XV Italian-Hungarian Symposium on Spectrochemistry Pharmacological Research and Analytical Approaches University of Pisa, 12-16 giugno 2016 La XV Edizione del Simposio, organizzato sotto l’egida della SSFA e dedicato alla ricerca farmacologica ed alle metodologie analitiche più innovative, si terrà presso l’Università di Pisa. L’evento fa parte di una serie iniziata nel 1983 nell’ambito degli accordi di collaborazione scientifica vigenti tra Italia ed Ungheria. Il programma scientifico ed ogni informazione sono desumibili dal sito https://www1.dcci.unipi.it/ihss2016/index.html. Anno X numero 55 Pagina 28 Le donne per la farmaceutica donne Il 7 marzo Farmindustria, in collaborazione con “Europa Donna Italia”, con Onda, con Telethon, con SIF e FIGO, ha celebrato, a modo suo e con un breve anticipo, presso il tempio di Adriano in Roma, la festa delle donne. La manifestazione, che ha avuto una larga partecipazione, ha voluto dimostrare come nel settore del farmaco, della ricerca e nel sistema salute, in generale, il contributo delle donne sia determinante e vincente, in tutte le fasi della vita ( prevenzione, cure, assistenza) ed anche nelle condizioni più difficili. Francesca Fialdini, coordinatrice della manifestazione, ha introdotto subito la dr.ssa Enrica Giorgetti, Direttore Generale di Farmindustria, che ha illustrato le ragioni dell’evento (focus sulle donne nell’industria farmaceutica, sulla parità di genere, sulla medicina di genere), e l’importanza del valore della donna nell’industria farmaceutica, e poi ha illustrato i temi delle presentazioni e presentato i relatori: Benessere per le donne: un modello vincente di relazioni industriali, illustrato da - Massimo Scaccabarozzi (Farmindustria), che ha riportato i dati più rilevanti del settore: il 43% degli addetti è costituito da donne (nell’industria manifatturiera è del 25%), il 90% di esse è laureato (nell’industria manifatturiera è il 63%). Nell’industria farmaceutica si annoverano imprenditrici, manager, direttori di funzioni apicali, per cui è lecito affermare che, nella farmaceutica, le pari opportunità non sono solo uno slogan. Altro aspetto rilevante è che nelle imprese del farmaco il benessere aziendale è diffuso ed è a misura di donna; oltre ai comuni servizi quali aspettativa, medicina preventiva, mense, asili nido aziendali, alcune aziende hanno iniziato a consentire lo smart working per le neo mamme. - Susanna Camusso (CGIL), Annamaria Furlan (CISL), Tiziana Bocchi (UIL), hanno tutte riconosciuto i notevoli risultati raggiunti, ma, nel contempo, hanno dichiarato che ancora c’è molto da fare, soprattutto per ciò la farmaceutica per le che riguarda l’età pensionabile. - E’ intervenuta anche Beatrice Lorenzin, Ministro della Salute, presentatasi con una delle gemelle, vestita tutta di rosa, molto applaudita dal pubblico presente; il Ministro, tra l’altro, Il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca ha insistito sul Stefania Giannini tema del sup( dal laboratorio ai pazienti) sulle porto alla genitorialità, anticipando malattie rare, come sia necessario proposte legislative a sostegno ulteun lavoro di ricerca, della durata riore delle famiglie con bambini ed anche di 20-25 anni, per arrivare invitando tutti alla manifestazione ad un farmaco efficace, come sulla salute della donna in programl’associazione sia prevalentemenma per il 22 aprile 2016. te una squadra al femminile, come x Nicoletta Luppi, nuovo Presisia stato elaborato un percorso di dente e Direttore di MSD, ha tracselezione dei progetti di ricerca, ciato il suo percorso professionale che poi vengono finanziati, come, da informatrice del farmaco a diinfine, sia importante il contributo versi altri ruoli di crescente redelle madri nell’assistere i pazienti sponsabilità, fino all’attuale posie come ciò porta alla valorizzaziozione, ed ha tenuto a sottolineare ne della persona, non più e solo come il lavoro non le abbia impedel malato; la dr.ssa Pisanelli ha dito di svolgere un importante ruoinfine elogiato la lungimiranza di lo in famiglia come moglie e mamqueste madri nell’ investire in un ma. futuro che può non appartenere Il farmaco delle donne: la ricerca per alla propria situazione. la medicina di genere Sono state poi invitate ad illustrare la Su questo tema sono intervenute: x Caterina Simonssen (autrice loro esperienza per “L’impegno delle del libro “Respiro dopo respiro” e imprese” nella ricerca per la medicitestimone di Telethon con “Io esi- na di genere, quattro giovani donne sto”) che con dignità, umiltà e fer- che rivestono ruoli di responsabilità mezza, ha testimoniato le difficoltà nelle proprie aziende: Nathalie Domnell’affrontare le sue 4 patologie pè (Dompè Farmaceutici) ha citato rare, nonostante la disponibilità di la collaborazione con il premio Nobel alcuni farmaci che le permettono Rita Levi Montalcini, con gli studi sul di essere ancora in vita, sottopo- NGF; Franziska Khevennhller (IBI nendosi costantemente a cure ed Giovanni Lorenzini) ha affermato di esercizi respiratori, sempre più aver affrontato questo impegno per prolungati che condizionano la passione e per seguire il lavoro della nonna; Chiara Montingelli (Kedrion) sua vita di relazione e di riposo. x F r a n c e s c a P a s i n e l l i ha presentato il concetto di marke(Telethon), che ha ricordato come ting sociale, con l’obiettivo di eradiTelethon sia stata fondata da una care la malattia emolitica del neonadonna, Susanna Agnelli, come la to con un farmaco che è già dispo(Continua a pagina 29) fondazione sia rivolta alla ricerca Anno X numero 55 differenze, ed ha fatto richiesta alle aziende di presentare dati di “genere” nella preparazione dei dossier registrativi. x Rosanna D’Antona (Europa Donna) e Francesca Merzagora (Onda). La prima, Presidente di Europa Donna, ha Il Presidente Massimo Scaccabarozzi consegna il ricordato come Premio alla dr.ssa Jenny Sassone l’associazione sia nata 21 anni fa da nibile, diffondendolo anche nei paesi un’idea del prof. Veronesi; meno sviluppati e, soprattutto, faessa ha come missione la cendo prevenzione; Anna Maria Portutela dei diritti delle donrini (Boehringher Ingelheim), prima ne affette da tumore al donna a ricoprire il ruolo di Presidenseno. Opera in tal senso te nella storia di questa azienda farsu due direttrici: la premaceutica in Italia, è impegnata venzione (esiste ancora nello sviluppo di aree terapeutiche molto divario tra nord e molto importanti anche per le donne, sud), e la qualità delle quali le patologie cardio-cerebrocure, che si può miglioravascolari, oncologiche, metaboliche re attraverso la costituzioed infettive e delle malattie rare quane di centri di senologia le la fibrosi polmonare idiopatica. specializzati e multidisci- Paola Testori Goggi (AIFA), plinari, un ulteriore compiPresidente del comitato to dell’associazione è prezzi e rimborsi, ha sofferquello di attivare una mato l’attenzione sulle diffescuola per il volontariato, renze di genere che comin modo da armonizzare i portano differenze nella diarapporti tra i vari interlocugnosi e nella terapia, ed antori; la seconda, Presidencora differenze sull’efficacia te di Onda, ha parlato dele sulla sicurezza dei farmala pubblicazione biennale ci; tali differenze devono di un libro bianco sulla essere opportunamente fatsalute delle donne, libro te conoscere ai medici ed che ha l’obiettivo di preagli studenti di medicina con sentare un quadro comappositi corsi; come esempleto ed aggiornato sul pio di queste differenze ha tema specifico, offrendo citato un fatto riportato dalle anche approfondimenti e cronache nei giorni scorsi: spunti di riflessione, su una donna di 59 anni, sindavari aspetti quali la clinica co di un comune del nord, è e l’epidemiologia. deceduta per infarto; nei In chiusura vi è stata la premiazione giorni precedenti aveva ac- di tre giovani ricercatrici, selezionate cusato dei dolori al collo, da ben 450 domande giunte alla non bene interpretati come commissione, composta da membri cordialgie (nell’uomo tali della Fondazione Telethon, della SIF sintomi sono differenti); AI- e dalla Fondazione Multimedia OnFA, in questo settore, ha lus. I premi (10.000 euro ciascuno prodotto alcune linee guida, ed una targa ricordo) sono stati conuna finestra sul sito segnati da Francesco De Santis “Farmaci e donne”; si prodi- ( Farmindustia), Massimo Scaccabaga, inoltre, per sensibilizzare rozzi e Stefania Giannini, Ministro l’opinione pubblica a queste dell’Istruzione, dell’Università e della Pagina 29 Ricerca, a Donatella Puliti (ISPRO, Firenze) per un lavoro sulla medicina di genere, riguardante le condizioni sociali che possono modificare l’adesione allo screening per il tumore della mammella, Jenny Sassone ( Istituto Neurologico Carlo Besta, Milano) per un lavoro sul ruolo del gene PARK2 nella patogenesi della malattia di Parkinson e Maria Nicastro (Azienda Universitaria Ospedaliera di Parma) per un lavoro sulla terapia della malattia di ErdheimChester, una patologia rara. Stefania Giannini, nelle conclusioni, si è complimentata per l’attivismo scientifico del settore, per i risultati straordinari di donne per le donne, per il sistema integrato per la ricerca, per l’orientamento scientifico verso la valutazione ed la consapevolezza delle diversità, ed ha indicato la necessità di estendere, per il bene del Paese, queste caratteristiche positive ad altri settori, principalmente la scuola e l’università: ma per ottenere ciò è necessario un cambiamento culturale. Francesco De Tomasi Anno X numero 55 Pagina 30 Corso di formazione, addestramento ed aggiornamento sulla Buona Pratica di Laboratorio. Una nuova edizione del corso sulla interpretazione, adozione ed utilizzazione dei principi di Buona Pratica di Laboratorio (BPL) si è svolta dal 2 al 3 febbraio scorsi presso il plesso “Giorgio Tecce” della Università La Sapienza di Roma, facendo così seguito a quello di identica impostazione tenutosi alcuni mesi prima (1516 settembre 2105, stessa sede), per permettere a chi non aveva potuto partecipare allora per saturazione dei posti disponibili di poter avere un’ulteriore possibilità di iscriversi. Il corso è stato ancora una volta organizzato, diretto e condotto da M. M. Brunetti, S. Caroli e V. A. Sforza in qualità di esponenti del Gruppo di Lavoro GIQAR, ed è stato, come il precedente, dedicato all’esame di tutte le funzioni previste da un Centro di Saggio (CdS) che voglia operare in conformità ai principi suddetti, vale a dire Assicuratore della Qualità (AQ), Direttore di CdS, Direttore di Studio (DdS), Ricercato- zione, impiego e revisione delle Procedure Operative Standard (POS), i rapporti tra l’unità per la AQ, il DdS ed il personale a questi affidato, soprattutto sotto il profilo degli audit interni, le criticità che possono manifestarsi nel corso dello svolgimento degli studi e l’analisi dei comporta- re Principale, Archivista e personale a vario titolo afferente allo studio nonché la committenza. Il corpo docente è stato formato da Paola Bottoni (ISS), Maria Mercede Brunetti (RTC), Sergio Caroli (SSFA), Enrico Invernizzi (Merck Group), Maurits-Jan Prinz (European Commission) e Valentine Anthony Sforza (QMA). Ogni lezione ha trattato in maniera estesa, completa ed articolata i compiti essenziali per la gestione di un CdS, in primis la preparazione del piano di studio e della relazione finale, l’elaborazione di deviazioni ed emendamenti, la prepara- menti individuali in essere tra le due controparti - CdS e autorità di monitoraggio BPL - durante le verifica ispettiva per il superamento positivo di quest’ultima, per poi esaminare l’armonizzazione a livello comunitario dei vari programmi di monitoraggio della BPL in vigore negli Stati Membri e l’evoluzione di questa materia in ambito internazionale, in particolare nel contesto dell’OECD. Opportuni spazi dedicati alla discussione degli argomenti esposti di volta in volta sono stati intercalati alle lezioni allo scopo di meglio chiarire dubbi interpretativi anche attraverso lo svolgimento di esercitazioni pratiche basate sulla compilazione di formulari con quesiti a risposta multipla, la valutazione critica di materiale documentale autentico (ma reso anonimo) consistente di piani di studio, relazioni finali e POS ed un esempio di compilazione della scheda elettronica preliminare richiesta dalla Unità di Monitoraggio per la BPL, prima che l’ispezione possa aver luogo. Mediante queste esercitazioni si è fornito ai discenti uno strumento efficace per permettere loro di confrontarsi con le difficoltà che un CdS deve più comunemente fronteggiare, di sviluppare in modo concreto soluzioni adatte alla molteplicità dei casi che in pratica possono occorrere e di comprendere come meglio cercare di superare gli ostacoli che con maggiore frequenza possono avere effetti negativi sulla operatività di un CdS. Il numero totale di partecipanti a questo corso ha raggiunto le 38 presenze sul massimo previsto di 30 ed a ciascun discente sono stati rilasciati 16 crediti formativi ECM. Come per la precedente edizione, anche questa può essere quindi considerata di piena soddisfazione. Buona parte del merito di tale successo va peraltro riconosciuto con gratitudine alla Sig.ra Sabrina Lucioni per la competenza, l’efficienza e la simpatia umana con cui ha saputo gestire il corso in ogni sua fase. Grazie di cuore, Sabrina! Maria Mercede Brunetti Sergio Caroli Valentine Anthony Sforza Anno X numero 55 Pagina 31 Riportiamo un interessante editoriale sui problemi etici e pratici che si pongono nel cambiare il disegno di uno studio a metà cammino. ICON-6: the danger of changing study design midstream The Lancet DOI: http://dx.doi.org/10.1016/S0140-6736(16)00658-9 Jonathan Ledermann and colleagues report the ICON-6 randomised trial findings for the tyrosine kinase inhibitor cediranib in relapsed platinum-sensitive ovarian cancer. Cediranib offered the prospect of improved efficacy with tolerable side-effects, and ICON-6 was a pragmatic trial to provide real-world evidence of the effectiveness, safety, and acceptability of cediranib plus chemotherapy (either concurrent or concurrent plus maintenance as long as patients were deriving benefit), compared with chemotherapy plus placebo. ICON-6 found ”meaningful improvement in progression free survival” (hazard ratio 0·56, 95% CI 0·44–0·72) for concomitant plus maintenance cediranib compared with placebo, as well as significantly more diarrhoea, hypothyroidism, and voice changes. However, after unexpected and major design changes were enforced, we still await data for overall survival; the safety data are less informative than might be necessary, and there are no convincing data yet for patient acceptability and quality of life, which can be particularly relevant to inform trade-offs between improved efficacy and increased side-effects. These design changes should not have been necessary, and clinical trials should be better structured to make sure this does not recur. The original study design promised more reliable evidence, but instead of randomly assigning roughly 2000 participants, the study underwent a major revision with just 387 participants randomly assigned because the drug company involved (AstraZeneca) decided (on Sept 14, 2011) to cease commercial development of cediranib, owing to negative findings for overall survival in three pivotal phase 3 studies on different cancers. With insufficient remaining drug stock and its short shelf life, as well as AstraZeneca being unwilling to manufacture additional supplies, a fundamental redesign (or complete abandonment) became necessary. The researchers, in partnership with the independent Data Monitoring Committee (iDMC), and the funders should be congratulated on having the vision and creativity to redesign the study, within the constraints of the remaining drug available. They redefined the primary outcome from overall survival to progression-free survival, focused on comparing concomitant plus maintenance cediranib with placebo, and reduced power from 90% to 80%, with overall survival, toxic effects, and quality of life becoming secondary outcomes. This change meant that a revised sample size of 440 patients (for those on cediranib, 20 mg after the initial 30 mg dose was dropped) was used. The study finally randomly assigned 486 patients, of whom 456 receiving the 20 mg dose were analysed. Designing and executing large multinational trials is challenging, with many stakeholders (patients, clinicians, funders, regulators, ethics committee members, drug companies, health-care providers) to accommodate and many reasons for why a study might not be completed as planned (stopping early for safety, efficacy, or so-called futility reasons). Over the past few decades, statistical methods for sequential and Bayesian designs7 and more recently a plethora of innovative adaptive designs, coupled with improved remits and increased experience within iDMCs, and funders looking for better and more efficient designs, have allowed clinical trialists to deliver more efficient and responsive clinical trials. So there are many legitimate reasons to redesign or terminate trials on scientific grounds, and well established statistical methods to achieve this in an orderly fashion. However, having to terminate or majorly redesign a trial because a stakeholder decides to cease manufacturing the relevant drug is not, in our view, a legitimate reason—from a scientific perspective insight is lost into that compound and mechanism of action, and we are letting down participants who agree to take part in research by allowing this to happen. When trials are redesigned midstream, there are ethical challenges in consenting future participants, and also potentially re-consenting those recruited under the original process of informed consent, to make sure the participants are properly aware of the reasons for the redesign and the scientific value of the new study. Here, the redesign was driven by the cessation of manufacture of the drug, but likewise a public funder might withdraw support for a study midstream due to a change in policy or a re-assessment of the evidence value for the health-care system. Often, it is just as valuable to know with good precision that an intervention doesn't work, particularly if it is expensive or associated with considerable side-effects. Most importantly, we must do everything we can as clinical trialists to reassure the patients and the public that their participation is always considered with the utmost care and constant vigilance around the emerging risk–benefit ratio, and never taken for granted. To get patients to participate in research is already challenging, and we are too permissive of stakeholders changing their minds midstream. This issue could be avoided by requiring all stakeholders to commit to seeing the study through, backed by the required resources to complete this study (and with adequate insurance cover for the case of commercial failure), with subsequent changes to design only occurring through agreed scientific criteria mediated through appropriate statistical procedures. We owe participants this protection to properly safeguard their contribution, as well as improving the scientific yield of our trials. Interestingly, after the initial conference presentation of the potentially positive findings in 2013, and more recent promising early phase findings, interest from AstraZeneca appears to have been rekindled, and after company review of the outcomes and survival methods, the possibility now exists of using these data for regulatory submission. However, these data will obviously be less convincing for that purpose than if the trial had continued under its origi- Anno X numero 55 Pagina 32 nal design—in terms of evidence of effectiveness, safety, and acceptability. It appears to us that now this situation has been fully played out, no one has gained any advantage from the 2011 decision to stop manufacturing cediranib. We should try hard to make sure—particularly for the sake of patients—that this type of avoidable problem isn't allowed to happen again. References Ledermann J, Perren TJ, Raja FA, et al. Randomised double-blind phase III trial of cediranib (AZD 2171) in relapsed platinum sensitive ovarian cancer: results of the ICON6 trial. European Cancer Congress; Amsterdam, Netherlands; Sept 27–Oct 1, 2013. Abstr 10. Ledermann, JA, Embleton, AC, Raja, F..., and on behalf of the ICON6 collaborators. Cediranib in patients with relapsed platinum-sensitive ovarian cancer (ICON6): a randomised, double-blind, placebo-controlled phase 3 trial. Lancet. 2016; 387: 1066–1074 Schmoll, HJ, Cunningham, D, Sobrero, A et al. Cediranib with mFOLFOX6 versus bevacizumab with mFOLFOX6 as first-line treatment for patients with advanced colorectal cancer: a double-blind, randomized phase III study (HORIZON III). J Clin Oncol. 2012; 30: 3588– 3595 Hoff, PM, Hochhaus, A, Pestalozzi, BC et al. Cediranib plus FOLFOX/CAPOX versus placebo plus FOLFOX/CAPOX in patients with previously untreated metastatic colorectal cancer: a randomized, double-blind, phase III study (HORIZON II). J Clin Oncol. 2012; 30: 3596–3603 Batchelor, TT, Mulholland, P, Neyns, B et al. Phase III randomized trial comparing the efficacy of cediranib as monotherapy, and in combination with lomustine, versus lomustine alone in patients with recurrent glioblastoma. J Clin Oncol. 2013; 31: 3212–3218 Jennison, C and Turnbull, BW. Group sequential and adaptive methods for clinical trials. 2nd edn. Chapman & Hall, New York; 2010 Spiegelhalter, DJ, Abrams, KR, and Myles, JP. Bayesian approaches to clinical trials and health-care evaluation. John Wiley & Sons, Chichester; 2003 US Department of Health and Human Services, Food and Drug Administration, Center for Drug Evaluation and Research (CDER), and Center for Biologics Evaluation and Research. Guidance for Industry: adaptive design Clinical Trials for Drugs and Biologics.http:// www.fda.gov/downloads/Drugs/…/Guidances/ucm201790.pdf; 2010. ((accessed Feb 22, 2016). Symonds, P, Gourley, C, and Davidson, S. Cediranib combined with carboplatin and paclitaxel in patients with metastatic or recurrent cervical cancer (CIRCCa): a randomised, double-blind, placebo-controlled phase 2 trial. Lancet Oncol. 2015; 16: 1515–1524 Trial registration 10 years on BMJ 2015;351:h3572 The single most valuable tool we have to ensure unbiased reporting of research studies This month marks the tenth anniversary of the landmark decision by the International Committee of Medical Journal Editors to make journals require “registration of any clinical trials in a public trials registry at or before the time of first patient enrolment as a condition of consideration for publication.” It has been a long journey. The idea of prospective registration was first suggested in 1986, but it took two decades for the idea to become reality. Since then both the United States and the European Union have passed legislation making registration a legal requirement for most types of clinical trials. Accordingly, the number of registered trials has gone up dramatically—ClinicalTrials.gov currently lists 189ௗ473 studies, the EU register has 25ௗ829, and the Chinese Clinical Trial Registry has 5199. As medical journal editors we are convinced that the requirement for prospective trial registration is the single most valuable tool we have to ensure unbiased reporting. It allows us to make sure that the published paper accurately reports the prespecified trial outcomes, samples sizes, and other planned analyses. It is the only way to identify outcome reporting bias and other deviations from the planned study to prevent such distortions from reaching publication. Before registration outcome reporting bias was widely accepted as being a major problem that deserved more attention. Research suggests that the requirement has improved the quality of reporting,although some disciplines seem to do better than others. Problems remain. Despite the registration requirements, The BMJ still receives a substantial number of papers reporting trials that were not prospectively registered. Since spring 2013 we have been keeping an informal tally of randomised trials submitted to The BMJ that were unregistered or registered late—as at 1 July, the list contained 69 entries. Most authors’ explanations for non-compliance are not persuasive, and we reject those papers. The reasons cited for lack of compliance are varied, but at least two worrisome themes have emerged. Firstly, some senior authors do not take responsibility for ensuring prospective trial registration and identify junior study personnel as the reason registration did not occur—for example, stating that “our project coordinator was responsible for all registration related tasks.” Secondly, some academic authors believe that registration requirements should not or do not apply to trials that are not funded by industry, despite considerable evidence that publication bias affects all types of studies. Other explanations for non-registration that we have received from academic investigators include being too busy, lacking the resources needed to comply with regulations, or the belief that the rules should not apply to investigators working in less developed countries. One author asked us to overlook (Continua a pagina 33) Anno X numero 55 Pagina 33 the failure to register a large foundation funded trial because the reason to require trial registration was “mainly to stop drug companies. [The principal investigator] is a developing country scientist doing this important study alongside a very busy job. Drug companies have whole departments devoted to compliance with regulations and processes like this.” Fortunately, the great majority of trials submitted to The BMJ are properly registered, and we do our best to ensure that the published report is in accordance with the registration. A recent study confirms that we are doing a reasonable job, although it is still far from perfect. The main problem is that it takes a substantial amount of editorial and reviewer time—large journals are staffed to do this, but smaller medical journals struggle. Recent research shows that many journals still do not adhere to the International Committee of Medical Journal Editors’ trial registration policy. Others that do may be very generous in allowing exceptions. Even more worrisome, many editors do not feel that prospective registration and adherence to the registered plan is important. This is a worrying trend, because non-adherence is not confined to low impact journals. We need ways to enforce this requirement. Given that for many types of trials the policy is backed by legal requirements, this should be possible. The trial registration process must be improved. Registries should implement better quality checks on data entry into the registry, as these are often inadequate. The time required to process registrations in some registries is too long, and this may lead to misclassification of some trials as retrospectively registered. Another way clinical registries can promote unbiased reporting of clinical trials is to accept (or even require) posting of the complete original protocol and statistical plan and any amendments, all with a time stamp. We have made this suggestion to the National Institutes of Health, when it asked for public comments on its draft policy to promote registration and results submission to ClinicalTrials.gov. Prospective registration of clinical trials is now an ethical and, in many cases, a legal requirement. Registries, public health agencies, funders, and journals must ensure compliance with these requirements to avoid biased and incomplete reporting of clinical research studies. References DeAngelis CD, Drazen JM, Frizelle FA, et al. Clinical trial registration: a statement from the International Committee of Medical Journal Editors. JAMA2004;292:1363-4 Simes RJ. Publication bias: the case for an international registry of clinical trials. J Clin Oncol1986;4:1529-41. ClinicalTrials.gov. Trends, charts, and maps. May 2015. Mathieu S, Boutron I, Moher D, Altman DG, Ravaud P. Comparison of registered and published primary outcomes in randomized controlled trials. JAMA2009;302:977-84. To MJ, Jones J, Emara M, Jadad AR. Are reports of randomized controlled trials improving over time? A systematic review of 284 articles published in high-impact general and specialized medical journals. PLoS One2013;8:e84779 Killeen S, Sourallous P, Hunter IA, Hartley JE, Grady HL. Registration rates, adequacy of registration, and a comparison of registered and published primary outcomes in randomized controlled trials published in surgery journals. Ann Surg2014;259:193-6 Su CX, Han M, Ren J, et al. Empirical evidence for outcome reporting bias in randomized clinical trials of acupuncture: comparison of registered records and subsequent publications. Trials2015;16:28. Dwan K, Gamble C, Williamson PR, Kirkham JJ. Systematic review of the empirical evidence of study publication bias and outcome reporting bias—an updated review. PLoS One2013;8:e66844. van Lent M, IntHout J, Out HJ. Differences between information in registries and articles did not influence publication acceptance. J Clin Epidemiol 29 Nov 2014, Hooft L, Korevaar DA, Molenaar N, Bossuyt PM, Scholten RJ. Endorsement of ICMJE’s clinical trial registration policy: a survey among journal editors. Neth J Med2014;72:349-55. Wager E, Williams P, Project Overcome Failure to Publish Negative Findings Consortium. “Hardly worth the effort”? Medical journals’ policies and their editors’ and publishers’ views on trial registration and publication bias: quantitative and qualitative study. BMJ2013;347:f5248 Zarin DA, Tse T. Trust but verify: trial registration and determining fidelity to the protocol. Ann Intern Med2013;159:65-7. Selective clinical trial reporting: betraying trial participants, harming patients BMJ 2015; 350 doi: http://dx.doi.org/10.1136/bmj.h2753 Reporting biases found in trials of cardiovascular devices Reporting biases in published trials were first identified in 1986. Published randomized studies of combination chemotherapy compared with treatment with an alkylating agent as first line treatment for ovarian cancer showed a significant survival advantage for combination chemotherapy. Unpublished cancer trial registry data from the same studies, however, showed no such advantage. Similarly, in the treatment of multiple myeloma, registry data suggested a smaller survival advantage for combination chemotherapy (over prednisone and an alkylating agent) than the results of published studies. The author who reported the discrepancy concluded that his findings “demonstrate the value and importance of an international registry of all clinical trials.” Subsequent evidence for biased and selective reporting included prompt or delayed publication depending on whether trial results were positive or negative and more favorable results and conclusions in published studies funded by industry than in those funded independently. The linked paper by Chang and colleagues (doi:10.1136/bmj.h2613) shows similar reporting biases in trials of medi(Continua a pagina 34) Anno X numero 55 Pagina 34 cal devices. The authors found worrying differences between trial information submitted to the US regulator (the Food and Drug Administration) and trial information reported in medical journals. Among 177 studies of 106 high risk cardiovascular devices submitted to the FDA, fewer than half were published, and fewer than half the published studies (45%) reported primary results that precisely matched the results in submissions to the regulator. Among the published primary results, 11% (17) were judged to be “substantially different” from those submitted to the FDA. The authors concluded that “even when trials are published, the study population, primary endpoints, and results can differ substantially from data submitted to the FDA.” Most studies of reporting biases have examined differences in efficacy between unpublished clinical trial data and journal publication data but evidence now exists of under-reporting of adverse events. A recent BMJ editorial cites “the growing body of research on reporting biases, which documents the gross under-reporting of adverse event data in such [medical journal] sources.” Unfortunately, selective reporting of clinical trial data in medical journals also extends to companies’ selective nonreporting of safety data to the FDA. In 2012, the US Department of Justice announced that “GSK [GlaxoSmithKline] has agreed to plead guilty to failing to report data to the FDA and has agreed to pay a criminal fine in the amount of $242,612,800 for its unlawful conduct concerning Avandia . . . The United States alleges that, between 2001 and 2007, GSK failed to include certain safety data about Avandia, a diabetes drug, in reports to the FDA that are meant to allow the FDA to determine if a drug continues to be safe for its approved indications and to spot drug safety trends.” Efforts to increase the public availability of clinical trial data to prevent the serious public health consequences of overstating benefits and understating risks have triggered strong industry opposition. In 2012 the former executive director of the European Medicines Agency (EMA), Guido Rasi, committed the regulator to “proactive publication of clinical-trial data, once the marketing-authorisation process has ended.” He added “We are not here to decide if we publish clinical-trial data, but how.” Two pharmaceutical companies sued the EMA to prevent disclosure, and the EMA has watered down its original plans. Beyond adverse effects on patients of selective reporting in medical journals, the absence of publicly available data from clinical trials violates an important ethical principle of the Declaration of Helsinki: “Researchers have a duty to make publicly available the results of their research . . . Negative and inconclusive as well as positive results must be published or otherwise made publicly available.” Many people participate in research because they trust that the published results might improve the health of the general population. Ignoring the Declaration of Helsinki, in 2013 the Pharmaceutical Research and Manufacturers of America (PhRMA) urged the US government to influence the European Union against the EMA’s data disclosure policy. In a letter to a US trade representative, PhRMA wrote that “Disclosure of companies’ non-public data submitted in clinical and preclinical dossiers and patient-level data risks damaging public health and patient welfare.” It is clear that the reverse is true. Non-disclosure is far more damaging. The letter of rebuttal from leaders of the high profile campaign for public registration and reporting of all trial results (AllTrials) reads, “The world is moving towards a recognition that hiding information about what was done and what was found in clinical trials is an abuse of trial participants’ trust and exposes patients to unnecessary harm.”12 References Simes RJ. Publication bias: the case for an international registry of clinical trials. J Clin Oncol 1986;4:1529-41. US Department of Health and Human Services: compilation of experimental cancer therapy protocol summaries. NIH publication, Government Printing Office, 1977-1983. Stern JM, Simes RJ. Publication bias: evidence of delayed publication in a cohort study of clinical research projects. BMJ1997;315:640. Lundh A, Sismondo S, Lexchin J, Busuioc OA, Bero L. Industry sponsorship and research outcome. Cochrane Database Syst Rev 2012;12:MR000033. Chang L, Dhruva SS, Chu J, Bero LA, Redberg RF. Selective reporting in trials of high risk cardiovascular devices: cross sectional comparison between premarket approval summaries and published reports. BMJ2105:350;h2613. Doshi P, Zito J, dosReis S.Digging for data on harms in duloxetine trials. It’s time for policy makers to get serious about drug related harms. BMJ 2014;348:g3578. Office of Public Affairs. GlaxoSmithKline to plead guilty and pay $3 billion to resolve fraud allegations and failure to report safety data. US Department of Justice, 2012. European Medicines Agency. Workshop on access to clinical-trial data and transparency kicks off process towards proactive publication of data. EMA, 2012. Torjesin I. European Ombudsman ramps up action against European Medicines Agency over data transparency plans.BMJ2014;348:g3733. World Medical Association. Declaration of Helsinki—ethical principles for medical research involving human subjects. WMA, October 2013. www.wma.net/en/30publications/10policies/b3/. PhRMA. www.plos.org/wp-content/uploads/2014/05/PhRMA_Comments_to_USTR_on_TTIP.pdf. Goldacre B, Godlee F, Heneghan C, et al. Letter. AllTrials campaign, 2104. Anno X numero 55 Pagina 35 When drugs don’t make it to market We need to know why, and regulators should tell us BMJ 2015; 350 doi: http://dx.doi.org/10.1136/bmj.h2852 Drug regulation aims to protect public health by ensuring that only medicines that are effective and safe are marketed. The key regulatory innovation after the thalidomide tragedy was the requirement for systematic evidence of efficacy before marketing approval, with the understanding that no drug exposure is worth risking without evidence of benefit. Over 50 years later, premarket evaluations remain much needed but imperfect, with efficacy standards not always ensuring clinical benefit for patients, and inadequate public communication on the available evidence and how it has been assessed. The United States Food and Drug Administration (FDA) is more open than many regulatory agencies, but, when it comes to non-approvals, the linked study by Lurie and colleagues (doi:10.1136/ bmj.h2758) shows that commercial confidentiality continues to trump public health. If the FDA rejects an application, the letter to the manufacturer stating the reasons is confidential. Lurie and colleagues are FDA staff members who compared the content of FDA non-approval letters (n=61) with the firms’ press releases. This is the first published study to compare what regulators say in confidence to pharmaceutical manufacturers and what those manufacturers then say to the public. The differences are damning: 85% of the regulator’s safety concerns and 84% of efficacy concerns went unreported in manufacturers’ press releases, as did 96% of regulatory concerns about trial conduct or design. Increased death rates were not mentioned in six out of seven cases in which the FDA stated this as a reason for non-approval. In total, 87% of the FDA letters in this study cited efficacy or safety concerns as reasons for non-approval, and nearly half cited both. Secrecy concerning non-approval of drugs has a similar potential to harm the public as trials with negative results that fail to see the light of day. Drugs are often approved in one country but not another. The fact that a drug is considered too ineffective, too unsafe, or too poorly tested to be marketed is highly relevant to treatment decisions elsewhere. In Canada, for example, the safety of the acne drug cyproterone-ethinylestradiol (Diane-35; Dianette) has been controversial, in part because of advertising to the public of questionable legality. This drug was not approved in the US. Knowledge of whether it was considered for approval, and, if so, why the FDA did not approve the drug, could help to inform the debate in Canada. Many initially rejected drugs are eventually approved. Of 302 new drug applications in the US from 2000 to 2012, 151 (50%) were initially approved and 71 (24%) were approved after resubmissions. Some of the latter drugs became “blockbusters,” including gabapentin, pregabalin, duloxetine, aripiprazole, and rosuvastatin. Initial concerns over safety or efficacy might be only partially resolved during successful resubmission, and it is important that clinicians and the public are fully aware of all remaining issues as they might guide a more judicious approach to prescribing. Trials of unapproved drugs are also much less likely to be published than trials of licensed drugs, limiting the scientific knowledge that supports further drug development. Unlike the FDA, the European Medicines Agency (EMA) posts reasons for non-approval in European Public Assessment Reports (EPARs) on its website. A loophole that allowed non-disclosure if manufacturers withdrew applications before rejection was closed in 2012.6 International trade agreements are often cited as a reason that regulators must respect commercial confidentiality agreements. The EMA’s ability to publish the basis for decisions not to approve new drugs, however, strongly suggests that this argument need not prevent publication of the FDA’s non-approval letters. Non-approval decisions account for just one of many differences between what the regulators know and what the public can see. Published trial reports of evidence submitted to regulators can also be highly misleading. High profile examples include the publication of interim results of the celecoxib CLASS trial as though these were the full clinical trial results, trials of antidepressants with negative results spun to look positive in publications, and a published pooled analysis of otherwise inaccessible unpublished oseltamivir trials, which misleadingly concluded that the drug prevented complications of flu. Internationally, regulators had full access to the data in each of these cases but did not correct omissions or inaccuracies in publicly available information. Also missing from the public domain is the totality of evidence required to accurately judge a drug’s effectiveness and safety. Wieseler and colleagues compared 101 clinical study reports submitted to regulators with published articles on the same trials and found that many important outcomes were missing, including mortality, which was reported adequately in all clinical study reports measuring this outcome (n=92) but only 30% of corresponding articles or 53% of articles and clinical trial registry reports combined. How can readers interpret trial results without knowing how many people have died in each treatment arm? The FDA’s judgments of trial misconduct are also inadequately reported in the published literature. If the FDA finds serious misconduct when it inspects a clinical trial site, data from that site are usually excluded from drug reviews. Among 71 published articles on 57 trials with serious infractions, however, 68 (96%) made no mention of the infraction and included no corrections, retractions, or omissions of data linked to infractions. In 39% of cases the infractions included uncorrected falsified results. What is the solution? Lurie and colleagues’ analysis points to two much needed steps. The FDA should follow the EMA’s lead and make non-approval decisions public. Commercial confidentiality has no place in the evaluation of the health effects of medicines. Secondly, although hampered by lack of disclosure of specific product and manufacturer names, this study is a welcome first step by regulators towards analysing and publishing data about discrepan- Anno X numero 55 Pagina 36 cies between the information they have available in pre-market and post-market submissions and reports that are in the public domain. Such engagement is welcome, must continue, and could contribute substantially to the quality and accuracy of information available to doctors and patients on the benefits and harms of medicines. References Sacks LV, Shamsuddin HH, Yasinskaya YI, Bouri K, Lanthier ML, Sherman RE. Scientific and regulatory reasons for delay and denial of FDA approval of initial applications for new drugs, 2000-2012. JAMA2014;311:378-84 Lurie P, Chahal H, Sigelman D, Stacy S, Sclar J, Ddamulira B. Comparison of content of FDA letters not approving applications for new drugs and associated public announcements from sponsors: cross-sectional study. BMJ2015;350:h2758. Society of Obstetricians and Gynecologists of Canada. Position statement: Diane 35 and the risk of venous thromboembolism. Feb 19, 2013. Mintzes B, Morgan S, Wright JM. Twelve years’ experience with direct-to-consumer advertising of prescription drugs in Canada: a cautionary tale. PLoS ONE2009;4:e5699. Hakala A, Kimmelman J, Carlisle B, Freeman G, Fergusson D. Accessibility of trial reports for drugs stalling in development: a systematic assessment of registered trials. BMJ2015;350:h1116. European Medicines Agency. Procedural advice on publication of information on withdrawals of applications related to the marketing authorisation of human medicinal products. 25 June 2013. EMA/599977/2012. Juni P, Rutjes AWS, Dieppe P. Are selective COX 2 inhibitors superior to traditional non-steroidal anti-inflammatory drugs? Adequate analysis of the CLASS trial indicates that this may not be the case. BMJ2002;324:1287-8. Turner EH, Matthews AM, Linardatos E, Tell RA, Rosenthal R. Selective publication of antidepressant trials and its influence on apparent efficacy. N Engl J Med2008;258:252-60. Doshi P, Jones M, Jefferson T. Rethinking credible evidence synthesis. BMJ2012;344:d7898. Wieseler B, Wolfram N, McGauran N, Kerekes MF, Vervolgyi V, et al. Completeness of reporting of patient-relevant clinical trial outcomes: comparison of unpublished clinical study reports with publicly available data. PLoS Med2013;10:e1001526. Seife C. Research misconduct identified by the US Food and Drug Administration: out of sight, out of mind, out of the peer-reviewed literature. JAMA Intern Med2015;175:567-77 The BMJ requires data sharing on request for all trials BMJ 2015; 350 doi: http://dx.doi.org/10.1136/bmj.h2373 (Published 07 May 2015) The movement to make data from clinical trials widely accessible has achieved enormous success, and it is now time for medical journals to play their part. From 1 July The BMJ will extend its requirements for data sharing to apply to all submitted clinical trials, not just those that test drugs or devices.1 The data transparency revolution is gathering pace.2 Last month, the World Health Organization (WHO) and the Nordic Trial Alliance released important declarations about clinical trial transparency.3 4 These announcements come on the heels of the US Institute of Medicine’s (IOM) report on sharing clinical trial data, which called for a transformation of existing scientific culture to one where “data sharing is the expected norm.”5 The efforts of industry, too, must be acknowledged, some of which caught many people by surprise. In particular, Medtronic’s cooperation with the Yale University Open Data project and GlaxoSmithKline’s leadership on data disclosure efforts stand out.6 7 WHO’s statement on public disclosure of clinical trial results and the accompanying rationale reiterate the organisation’s support for registration of clinical trials.8 WHO declares that the main results of clinical trials should be posted on a clinical trial registry or other acceptable website and submitted for journal publication within a year of study completion. The expectation is that results will be “made available publicly at most within 24 months of completion.” The statement does not call for mandatory sharing of primary data from trials but instead “encourages” sharing of research datasets “whenever appropriate.” In a move that is particularly welcomed by Ben Goldacre, cofounder of the AllTrials campaign,2 WHO also recommends disclosure of previously conducted but unreported clinical trials in a searchable and free registry and says it is “desirable” that these trials should be published in a peer reviewed journal. Goldacre notes that this is important because “the overwhelming majority of prescriptions today are for treatments that came onto the market—and were therefore researched—over the preceding decades rather than the past five years.”9 The Nordic Trial Alliance report is bolder and far more visionary than the WHO statement. Its authors declare their ambition “to make clinical research conducted in the Nordic region the most trusted clinical research in the world.” They outline the current state of data transparency in individual Nordic countries and then provide a detailed account of what needs to change. This includes “public upload of . . . individual participant data” after the report of the clinical trial is published. The alliance envisages a “Nordic transparency council” to serve as a “central, trusted public party” that would oversee the storage and dissemination of trial data. Finally, it calls on a range of public, private, and academic institutions and citizens to “formulate clear laws, regulations, and guidelines.” Such regulations “must specify that lack of transparency and trial registration is a serious offense and that attempts to re-identify . . . participant data are a breach of law, with severe consequences.”4 Extending The BMJ’s data sharing policy to all clinical trials The BMJ was one of the first medical journals to require sharing of individual patient data for trials of drugs or devices. That policy took effect in January 2013 and specified that such trials would be considered for publication only (Continua a pagina 37) Anno X numero 55 Pagina 37 if the authors agreed to make the relevant anonymised patient level data available on reasonable request.10 We are very pleased that, to date, all authors have agreed, and we have not rejected a single paper for non-compliance. The Dryad data repository is an option for any authors who want a place to store their open, anonymised datasets.11 Our initial data sharing policy focused on trials of drug and devices because many high profile, serious allegations of selective or non-reporting of trial results related to such products.12 13 Growing experience and evidence show, though, that reporting problems are not limited to the corporate sector but affect academic and government sponsored trials as well.14 Additionally, tighter regulation of drugs and devices has produced an explosion of commercial interest in more lightly regulated “apps” and other non-pharmacological treatments.15 It is difficult to argue that these studies should be exempt from the imperative to share data. Hoarding data and limiting access to them is inimical to the data sharing society envisioned in the IOM report. Making anonymised patient level data from clinical trials available for independent scrutiny allows other researchers to replicate key analyses, reduces the possibility that studies will be unnecessarily duplicated, and maximises use of the information from trials—an important moral obligation to trial participants. An initial investment of time and money is needed to prepare trial data for sharing, but after the first use there are few additional costs; in essence, the value of the data increases with each use. References 1. Godlee F, Groves T. The new BMJ policy on sharing data from drug and device trials. BMJ2012;345:e7888. 2. AllTrials. Latest campaign updates. 2015. www.alltrials.net/news/. 3. WHO statement on public disclosure of clinical trial results. 2015.www.who.int/ictrp/results/ WHO_Statement_results_reporting_clinical_trials.pdf?ua=1. 4. Nordic Trial Alliance Working Group. Report on transparency and registration in clinical research in the Nordic Countries. 2015. http://nta.nordforsk.org/projects/FINALNTAWPG30032015.pdf. 5. Institute of Medicine. Sharing clinical trial data: maximizing benefits, minimizing risks. Accessed 17 April athttp:// www.iom.edu/Reports/2015/Sharing-Clinical-Trial-Data.aspx. 6. Yale University Open Data project. http://yoda.yale.edu/. 7. GSK clinical study data request site. www.clinicalstudydatarequest.com/. 8. Moorthy VS, Karam G, Vannice KS, Kieny M-P. Rationale for WHO’s new position calling for prompt reporting and public disclosure of interventional clinical trial results. PLoS Med2015;12:e1001819. 9. Goldacre B. how to get all trials reported: audit, better data, and individual accountability. PLoS Med2015;12:e1001821. 10. The BMJ’s policy on drugs and devices trials. 2015. www.bmj.com/about-bmj/resources-authors/article-types/research. 11. Khan K, Weeks AD. Example of retrospective dataset publication through Dryad. BMJ2015;350 :h1788. 12. Vedula SS, Bero L, Scherer R. Outcome reporting in industry sponsored trials of gabapentin for off-label use. N Engl J Med2009;361:1963-71. 13. Jones CW, Handler L, Crowell KE, Keil LG, Weaver MA, Platts-Mills TF. Non-publication of large randomized clinical trials: cross sectional analysis. BMJ2013;347:f6104. 14. Anderson ML, Chiswell K, Peterson ED, Tasneem A, Topping J, Califf RM. Compliance with results reporting at ClinicalTrials.gov. N Engl J Med2015;372:1031-9. Husain I, Spence D. Can healthy people benefit from health apps? BMJ2015;350:h1887. Le novità sulla malattia di Alzheimer suscitano sempre enorme interesse. Ecco un esempio di come una notizia scientifica sia stata manipolata dai giornalisti inglesi. Alzheimergate? When miscommunication met sensationalism The Lancet http://dx.doi.org/10.1016/S0140-6736(15)00246-9 On Sept 5, The Lancet was alerted by a UK Government source to the impending publication of a Nature paper allegedly about the possible transmission of Alzheimer's disease. The source was anxious about the likely media coverage and the potential for a public health scare. Although the UK's Science Media Centre was involved in helping to communicate the findings reported in the paper accurately, our source urged us to consider what we might do to reduce further the risk of a scare. We wrote to the Science Media Centre, explaining our understanding of the potential alarm and asking if (Continua a pagina 38) Anno X numero 55 Pagina 38 we could help in some way. The Science Media Centre did not think the paper by John Collinge and Sebastian Brandner was unduly alarmist. It noted that several highly experienced press officers were working hard on the communication of the research findings to prevent any possibility of a scare. They added that if there were alarmist headlines, it would not be for the want of trying to prevent them. On Sept 10, the UK newspapers took a very different angle than predicted, or hoped for, by our colleagues at the Science Media Centre. Ranging from “Alzheimer's may be a transmissible infection” in The Independent to “You can catch Alzheimer's” in The Daily Mirror or “Alzheimer's bombshell” in The Daily Express, the general tone of the headlines was indeed deeply alarmist. Some news sources tried to redress the harm done. The BBC ran a story on its website saying there was “No evidence to support the headlines”. Meanwhile, in many other countries, the story was either not covered at all, or news headlines at least included a question mark. Question marks were wise and judicious additions, if one reads what the published study actually showed (and did not show). The title promises “Evidence for human transmission of amyloid-ȕ pathology and cerebral amyloid angiopathy”. But the study does not provide evidence of human transmission, as the authors acknowledge themselves in their final paragraph—”there is no suggestion that Alzheimer's disease is a contagious disease and no supportive evidence from epidemiological studies that Alzheimer's disease is transmissible.” What John Collinge and Sebastian Brandner's elegant autopsy study of eight patients shows is that some patients treated with cadaveric human growth hormone who subsequently developed iatrogenic Creutzfeldt-Jakob disease also showed evidence of amyloid ȕ deposition in their pituitary glands. The study does not show whether these patients would have actually developed Alzheimer's disease had they lived longer (they died from Creutzfeldt-Jakob disease and they had no sign of tau protein pathology characteristic of Alzheimer's disease). The study does not demonstrate that these patients' amyloid ȕ deposits were caused by growth hormone contaminated with “amyloid ȕ seeds”. As the authors state in the paper, “Analysis of any residual archival batches of c-hGH [cadaveric-derived human growth hormone] for both prions and Aȕ [amyloid ȕ] seeds might be informative in this regard”— informative, and actually crucial to support their hypothesis. Controlled experiments injecting cadaveric human growth hormone into animals to discover whether amyloid deposits develop as a consequence are also needed to support their theory. The much overused phrase “paradigm shift” was quoted in some news reports. But the findings, although certainly interesting, were a long way from a true “paradigm shift”. The use of this phrase likely heightened the interest and attention of journalists—and headline writers. Was “Evidence for human transmission” an appropriate title for this paper? The report does not describe human transmission of amyloid pathology. Rather, it reports amyloid pathology in patients with iatrogenic Creutzfeldt-Jakob disease. Therefore, such a strong statement in a title also seems misleading and potentially alarmist. Neuropathology experts, including those selected by the Science Media Centre, were left with the difficult task of balancing plausible explanations against tenuous extrapolations. The public ended up being warned about “Alzheimer's link to blood transfusions” or “You can catch Alzheimer's”, thereby generating unnecessary anxiety and potentially diminishing years of effort against patients' stigmatisation. Taking these events together, this episode of scientific reporting was handled poorly. One senior protagonist in this affair felt “upset and bewildered” by the outcome. Despite the best efforts of some, the system in place to assist science journalists broke down through a mix of inattention and perhaps even complacency. Preventive actions by the UK's public health authorities were too weak and too late. The lesson that might be learned from this episode is that goodwill and hope are insufficient to prevent a public health scare. Anno X numero 55 Pagina 39 Societies can both grow old and lower dementia burden The Lancet Neurology, http://dx.doi.org/10.1016/S1474-4422(15)00223-9 That long life might be worse than death—at least in terms of societal burden of brain disease and its associated costs—could be the gloomy, and wrong, interpretation from two highly anticipated reports. On Aug 25, 2015, Alzheimer's Disease International released their analysis of the global impact of dementia in their World Alzheimer Report 2015; the next day, the Global Burden of Disease Study 2013 (GBD 2013) collaborators published their newest estimates. Any dismal conclusions from these two sets of findings are mistaken. The reports not only provide useful global health measures that highlight the scale of dementia burden, but also pinpoint the areas for which further epidemiological research is needed to guide public health policies. The World Alzheimer Report 2015 states that the number of people with dementia “will almost double every 20 years”, which will translate into a staggering figure of over 130 million patients with dementia worldwide by 2050 (a number roughly equivalent to the entire population of today's Japan). But most people with dementia will not live in a high-income country such as Japan, where dementia care might be attainable; almost 70% of patients will dwell in low or middle income regions, where health systems might not be able to cope with their needs. These dire estimates are based on the assumption that changes in dementia prevalence (ie, the percentage of the population with dementia) and its incidence (ie, new dementia cases per year) will directly reflect population growth and ageing. Ageing is indeed the most important risk factor for dementia—and for other chronic, non-communicable diseases— and this assumption is therefore at the core of most epidemiological projections. For instance, the Report assumes that dementia incidence doubles with every 6·3 years of increase in age, regardless of years of education, diet, physical activity, or other factors that can also influence dementia risk. Hence, the analysis predicts an enormous upsurge of dementia cases over the next three decades, particularly in East Asia and Africa, driven by demographic growth and increases in life expectancy. The findings from the GBD 2013 study confirm that people worldwide are living longer: life expectancy at birth rose by 6·2 years (95% uncertainty interval 5·6–6·6) from 1990 to 2013. However, in most regions, gains in life expectancy have been greater than those for healthy life expectancy, which rose globally by 5·4 years (4·9–5·8) and was accompanied by an increase in years lived with non-communicable diseases. The burden of brain disorders, measured as years lived with disability, has also increased worldwide, and this higher burden seems to be linked with higher sociodemographic status (an index including not only population age and fertility rates, but also income per capita and years of schooling after age 15). In summary, the projections of the GBD 2013 findings suggest that more of our old age will be stricken by disability and illness, including dementia. However, this global epidemiological sketch of an ageing world with extended years of disability becomes difficult to discern when digging into findings at the country level. The measures of health loss reported in countries with comparable sociodeomographic status can be substantially different (for instance, out of all high-income countries, only in Japan and Singapore had men attained a healthy life expectancy of more than 70 years by 2013, when healthy life expectancy was about 66 years in Finland), and further research is needed to understand the causes of this large variability. For such a complex clinical syndrome as dementia, multiple factors beyond demographics must contribute to determine disease risk, and more detailed epidemiological data are needed to guide policy and inform research priorities in every region. In western Europe, only a few population-based studies have compared the number of people with dementia between two time points using consistent methods (using the same diagnostic classification and study design is crucial to obtain robust findings). Despite the ageing of their populations, data from these studies in the Netherlands, Spain, Sweden, and the UK show that prevalence and incidence of dementia have either fallen or stabilised across generations in these regions. These remarkably encouraging findings challenge the notion of an inevitable future wave of disability due to dementia in the elderly, and point towards changes in living conditions and lifestyle as modifiable targets for interventions. According to this robust epidemiological evidence, tackling modifiable risk factors across the life course will prevent or delay dementia in old age. Policies to improve cognitive reserve for populations will have a substantial long term effect on reduction of dementia risk later in life, and also on population health more generally. Anno X numero 55 Pagina 40 NUOVI SOCI AMBROSO PAOLA SINTESI RESEARCH BONOMELLI MARTA INNOPHARMA BONOMI ELENA PFIZER BRUNO GIULIA ANTONIETTA SIGMA TAU CANEPA BARBARA BIOINDUSTRYPARK SILVANO FUMERO CILIA ANTONIO RECORDATI FRAZZETTO ANGELA MARIA ELENA ONCOLOGIA MEDICA OSPEDALE S.VINCENZO GIORDANO GENNARO CLINTEC MARCON PAOLA BIOGEN MARINONI NADIA SANOFI MELEO PAOLA BRISTOL MYERS SQUIBB PANECALDO SIMONA BRISTOL MYERS SQUIBB LAVIERI ROSA IRCCS SAN MARTINO IST SANZI ELEONORA STUDENTE SAVOLDI LUISA IRCCS ASMMO DI REGGIO EMILIA SCARPARO GABRIELLA MEDPACE ITALY SIRESSI VITO BRISTOL MYERS SQUIBB VILLANI WALTER SINTESI RESEARCH Hanno collaborato a questo numero: DOMENICO BARONE RONALD BAUER MARIA MERCEDE BRUNETTI SERGIO CAROLI ELISABETTA CERBAI DANIELE COLOMBO RAFFAELE COPPINI CORSO BASE SULLA SPERIMENTAZIONE CLINICA Milano, 29 - 30 settembre e 10 ottobre 2016 Il corso è indirizzato ai laureati che iniziano ad occuparsi di studi clinici, o che hanno pochi anni di esperienza nella sperimentazione clinica. Giunto alla sedicesima edizione, ha formato grazie alle competenze dei docenti SSFA oltre 500 professionisti della ricerca clinica. Non perdete questa occasione! DOMENICO CRISCUOLO FRANCESCO DE TOMASI LUCIANO M. FUCCELLA LUIGI GODI LUCA MEDINI ALESSANDRO MUGELLI MARCO ROMANO VALENTINE A. SFORZA ALFREDO VANNACCI CONSIGLIO DIRETTIVO Presidente: Marco Romano Vice—presidente: Anna Piccolboni Segretario: Salvatore Bianco Tesoriere: Luigi Godi Consiglieri: Giuseppe Assogna, Rossana Benetti, Marie-Georges Besse, Sergio Caroli, Domenico Criscuolo, Gianni De Crescenzo, Paolo Primiero. Direttore Responsabile: Domenico Criscuolo Comitato editoriale: Giovanni Abramo, Salvatore Bianco, Sergio Caroli, Domenico Criscuolo, Luciano M. Fuccella, Marco Romano Segreteria editoriale: Sabrina Lucioni Segreteria Organizzativa: Viale Abruzzi 32—20131 MILANO Tel. 02-29536444 Fax. 02-89058506 E-mail [email protected] SSFA oggi Stampa: MEDIA PRINT, Livorno Registrazione del Tribunale di Milano, N. 319 del 14/05/2007 “Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - 70% DCB PRATO” Numero progressivo 55 Periodicità: bimestrale WWW.SSFA.IT