Ritorno a Casa di Mauro Muscas

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Ritorno a Casa di Mauro Muscas
RITORNO A CASA
Era da più di mezz’ora che la stava aspettando sotto la pensilina del terminal degli autobus,
all’esterno dell’aeroporto. Dal cielo cadeva una pioggia mista a neve, fitta ed insistente. Con le
mani infilate nelle tasche e il bavero del cappotto tirato su, fino a coprire le orecchie, ogni tanto
guardava l’orologio, temendo di non fare in tempo e che l’aereo sarebbe inevitabilmente partito
senza di loro. Finalmente la vide arrivare correndo lungo il marciapiede che costeggiava il terminal.
I lunghi capelli neri le ondeggiavano sulle spalle e portava un lungo giaccone in pelle che teneva
sbottonato per metà, lasciando scoperta la corta gonna del tailleur e le lunghe gambe, contenute in
calze, anche queste nere. “Scusa per il ritardo, ma con questo tempo c’è un traffico tremendo”, le
disse appena raggiunto. La saluto con un lieve bacio sulle labbra poi la prese per mano e, raccolte le
valigie, cominciarono a correre verso l’ingresso dell’aeroporto. Centinaia di persone affollavano la
hall, ma facendosi spazio a gomitate si diressero verso il check-in. Dopo pochi minuti erano a
bordo, destinazione Italia. L’aereo imboccò la lunga pista di decollo e messi i motori al massimo
inizio la folle corsa, poi continuando la sua ascesa puntò decisamente verso il cielo. Le nubi sotto di
loro sembravano un mare di panna montata, mentre il cielo era di un azzurro cobalto, come la volta
della Cappella Sistina. Con la testa poggiata al sedile, che aveva leggermente reclinato, ripensava a
quanto gli aveva comunicato il giorno prima sua sorella con la voce strozzata dal pianto, che
cercava di contenere alla meglio: “ Il babbo è stato portato d’urgenza all’ospedale, ti prego torna
prima possibile”. Poi gli aveva raccontato cos’era successo: durante la notte la mamma si era
svegliata di soprassalto dopo che aveva udito un tonfo sordo, era scesa dal letto aspettandosi il
peggio, e infatti trovò il babbo sdraiato per terra, con le braccia tese verso di lei e lo sguardo perso
nel vuoto, con gli occhi chiedeva aiuto, un aiuto che lei non poteva dargli. Da allora suo padre non
aveva più ripreso conoscenza. Lui intanto non riusciva a prender sonno, il pensiero di suo padre,
steso nel letto ad attendere che la nera morte venisse a portarlo via, e il dolore di sua madre che in
quel momento gli era sicuramente accanto, il non poter essergli vicino per abbracciarla, confortarla
e piangere insieme non gli dava pace. Poggiò di nuovo la testa al seggiolino e socchiuse gli occhi.
Un’infinità di immagini gli si ammassavano nella memoria, bei ricordi, brutti ricordi, momenti che
valeva la pena richiamare alla mente e altri che dovrebbero invece essere stati cancellati. Guardò
l’orologio, erano passate appena due ore, il viaggio sarebbe stato ancora lungo. Osservava
distrattamente gli altri compagni di viaggio: chi dormiva, chi leggeva, belle signore con addosso
capi firmati, con vicino i rispettivi mariti, o qualsiasi altra cosa potessero essere, a lui questo non
importava, non era mai stato uno a cui interessavano i fatti degli altri. Sua moglie gli domandò
come si sentisse. La sua voce provocò in lui un dolce piacere, un qualcosa di conosciuto, che ridava
vigore, si voltò e sorridendo gli rispose che andava tutto bene. Ma il tono evidentemente non la
convinse perché si avvicinò a lui stringendogli il braccio e baciandolo sulla guancia. “Non va per
niente bene, sai”, disse lui, “Ho come un presentimento, non credo di riuscire ad arrivare in tempo
per vedere mio padre vivo ancora una volta, sento qualcosa dentro, mia madre diceva sempre: “il
sangue tira”, ecco io provo una cosa del genere, quasi una premonizione che mi anticipa il
distacco”. Le lacrime gli bagnarono occhi, ma non uscirono, rimase all’interno, come se una diga
cercasse di contenerle. “Hai un calmante nella borsa? Da quando siamo partiti non ho chiuso
occhio”. “No non ho niente, possiamo sempre chiedere ad una hostess, se vuoi”. lei prontamente si
alzò e si diresse verso la cabina dove alloggiava l’equipaggio. Ritornò poco dopo, con una capsula
gialla in mano ed un bicchier d’acqua che gli porse. In poco tempo sentì le palpebre appesantirsi e
crollò in un sonno profondo, ma inquieto. Si svegliò solo dopo che sua moglie lo aveva scosso per
avvertirlo che ormai l’aeroporto era vicino. In lontananza scorse la costa che lentamente diventava
sempre più vicina. Il mondo stava riacquistando la sua dimensione naturale man mano che si
avvicinava a terra. Poteva già vedere la foce del fiume, con ormeggiate all’ingresso alcune piccole
barche di pescatori, mentre lungo le rive prossime al mare pendevano grandi reti appese a paranchi,
pronte per essere calate in acqua. L’aereo virò e allineandosi alla pista si preparò all’atterraggio.
Dopo poco finalmente le ruote toccarono la pista. “Ci siamo”, pensò, facendo un grosso respiro,
“Sono finalmente a casa”. Presero il bagaglio a mano e si diressero verso la scaletta, lei gli stringeva
dolcemente la mano. Scesero velocemente, non vedeva l’ora di salire sul treno e poi con un taxi
sarebbero andati direttamente all’ospedale. Non sarebbe nemmeno passato da casa di sua madre,
tanto sapeva che la avrebbe trovata li, accanto al suo uomo, che “nella buona e nella cattiva sorte”
aveva avuto vicino a se per quasi cinquant’anni.