Una ragazza dai capelli rossi, un sassofono, una grande
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Una ragazza dai capelli rossi, un sassofono, una grande
“Una ragazza dai capelli rossi, un sassofono, una grande città” di Andrea Faraone classe 1a AC, Istituto Lorenzini 1° Premio Suonava per volare; oltre lo squallido quartiere di San Giovanni, colorato ormai di uno smorto, opaco grigio metallizzato, suonava per dimenticare; chi fosse, cosa maledettamente facesse ancora lì. E usciva dalla finestra, librata nel vento dalle note del vecchio sax, suonava il Jazz; perché “se esiste un Dio, è la musica su cui balla, quando nessuno lo vede”. Dimenticare a volte è impossibile, i segni rimangono stampati sulla pelle, come marchi a fuoco. Se ne rendeva conto ormai, era una verità che, fino a qualche istante prima, cercava di rinnegare a se stessa. Ma ciò che è stato, prima o poi si riversa irreversibilmente fuori, esige spiegazioni, verità. Giustizia. Si guardò ripetutamente allo specchio, nelle pupille completamente dilatate dalle lacrime. L'aveva abbandonata anche il bisogno di piangere da qualche tempo, prosciugata di qualunque percezione sensoriale ed emotiva. Solo quel verme dava segni di vita, all'interno di una ventenne che distruggeva lentamente, proiettando ricordi, immagini. Dolori. Fece una doccia. Tra le mani tremolanti i lunghi capelli rossi sembravano ormai fogli di carta di giornale, la doccia piastrellata aveva lasciato ogni colore ad un'orrenda sfumatura biancastra. Ma l'istante era scoccato. Aveva finito di soffrire. Spostò con furia le tendine della doccia e tutto riprese forma e colore. Ma non ci badò granché. “AAAAAAAH” Seguito da un violento cazzotto sul muro. Aveva ripreso a lacrimare. Questo era un bene. Osservò la mano sporca di sangue: era morta per sette giorni, ma ora, in quel gesto, in quel livido che andava formandosi, qualcosa era tornato. Dopo ore, mattinate passate a fissare il muro, lo aveva capito. Era pronta. E, mettendosi la prima cosa che trovò nell'armadio, con il sax sotto braccio, Sarah aprì dopo 146 ore, 32 minuti e 43 secondi di completo isolamento. Erano le 11:55 di un'afosa mattinata di agosto. Il sole scintillava sull'asfalto di Corso Garibaldi e sui cofani delle auto in coda. Evitò il caos urbano e prese il lungomare, sfrecciando d'avanti gli stabilimenti balneari pieni di gente. Il pulito cielo estivo. Le urla dei bambini dalle spiaggie. Un vecchietto in camicia hawaiiana che giocava a carte ad un tavolino di una gelateria. Sarah vide tutto ciò che era possibile vedere. Ascoltò tutto ciò che era possibile ascoltare a finestrino aperto arrivava l'odore di salsedine, di frittura di pesce dai ristoranti. Strinse forte il volante e, forse per la prima volta, la sua vita. Scese dall'auto e si avviò verso una spiaggia libera. Il sassofono risplendeva come oro sotto un sole davvero cocente. Camminò sugli scogli fino alle ultime pietre, quando sembra che la riva sia ormai lontana anni luce, che il mare ti circondi completamente. Un respiro intenso e portò il sassofono alla bocca. Sotto le note di “What a wonderful world” contemplò la boa che segnava il limite di balneazione. Non pensava che avrebbe mai potuto superare la cosa. Sentiva il verme strisciare più forte che mai, nei suoi pensieri, nei suoi progetti futuri, nella sua vita. Terminò il brano. Pensò di gettarsi in acqua. Non aveva mai imparato a nuotare: sarebbe morta cullata dalle onde ed il verme sarebbe scomparso per sempre. Non avrebbe più sofferto. Ore 13:02, Caserma dei Carabinieri. “Mi dica” “Sono stata... violentata”. “Una ragazza dai capelli rossi, un sassofono, una grande città” di Simone Grossi classe 2a F, ITIS Fedi Pistoia 2° Premio Si sentiva sotto pressione, non poteva negarlo. Il Capo il giorno precedente era stato chiaro: “Fallisci e sei licenziata”. Il che, visto il lavoro che svolgeva, prevedeva una pallottola in fronte per chiuderle la bocca. Tutto sommato, considerando lo stipendio che riceveva, valeva la pena rischiare. I suoi occhi indugiavano ancora una volta sulle tre monete poggiate sul cruscotto dell'auto: con quelle avrebbe potuto comprarsi una macchina nuova, se la “Ditta” non gliene avesse fornita una dotata di tutti i confort. Sorrise pensando che un paio di secoli prima con quegli spiccioli avrebbe potuto prendersi giusto un gelato. Ma ormai le risorse minerarie del pianeta erano esaurite da anni e la Seconda Guerra Atomica del '98 non aveva certo migliorato le condizioni di vita della gente. La vita di qualcuno, però, era migliorata: senza il crollo della civiltà pre-atomica, Montecatini non sarebbe certo diventata una metropoli che andava dal Tirreno all'Adriatico. “Il prossimo passo è il mondo!” recitava un battagliero manifesto elettorale appeso davanti all'ex cinema Excelsior, ora adibito a bunker anti-atomico. Era vicina, questione di minuti ormai, quando si rassettò alla meno peggio i lunghi capelli rossi, osservandosi nello specchietto retrovisore: era stanca morta, lo dicevano le occhiaie ben marcate sotto gli occhi viola acceso. Aveva sentito dire che prima della Terza Guerra Mondiale, rinominata poi Prima Guerra Atomica, nessuno aveva gli occhi di quel colore. E nemmeno sei dita per mano! Naturalmente non ci credeva... stava divagando, per poco non aveva passato la destinazione senza vederla. Parcheggiò la vettura pochi metri più avanti, disattivo il sistema di levitazione e prese la grossa cassa nera che si trovava nel portabagagli, per poi dirigersi da Gomma. Il viso pacioccone del gelataio era sorridente come al solito. Da 248 anni. Le radiazioni a lui avevano fatto bene. Non c'è che dire. Si sarebbe volentieri fermata a chiacchierare ma lei era sempre stata una ragazza diligente: prima il dovere. “Ciao Gomma, vediamo di sbrigarci” esordì. “Dopo preparami un gelato alla fragola”. Sentendo la parola d'ordine, il volto del gelataio si fece serio, mentre questi premeva un pulsante sotto il banco, facendo scendere le saracinesche e bloccando le finestre: erano isolati. “In che condizioni è?” chiese allora l'uomo “Buone, a occhio e croce, ma ci serve la tua analisi” “Capisco, non avete molta confidenza con le armi di distruzione di massa pre-atomiche, voi giovani, eh?” rispose lui con un sorriso “Comunque nemmeno io ero a conoscenza di affari simili, probabilmente la CIA li teneva ben nascosti” “Vorrei vedere! Un'arma del genere renderebbe inutili le atomiche. I nostri ricercatori hanno appurato che serve a distruggere le strutture in cemento armato tramite le onde sonore, probabilmente serviva a questo...” “Ma non sapete come si usa” concluse il gelataio “Su, fa vedere” la esortò. Quando però lei aprì la cassa, l'uomo rimase interdetto. “Credo che abbiate preso un granchio, voi dei servizi segreti...” cominciò “È un sassofono”. “Una ragazza dai capelli rossi, un sassofono, una grande città” di Giulia Giacomelli classe 1a D, Anzilotti Pescia 2° Premio Tutti credeva che il terribile e rossissimo Malpelo, figlio del grande lavoratore Mastromisciu, fosse morto, dopo aver fatto la stessa fine, tragica e assai triste del padre. Egli, abile ingannatore fece credere a tutti di essere morto nella cava assassina, dopo un pericoloso intervento per il quale si offrì volontario, ovviamente dopo aver già calcolato tutto. Nessuno seppe più nulla di lui, venne dato per disperso, poiché il suo corpo non era stato più ritrovato. Il suo cadavere, a quanto pare sparito, terrorizzò generazioni e generazioni di piccoli e grandi scavatori. Ma nessuno sapeva che Rosso, il grande Rosso, non era né morto, né scomparso. Egli aveva semplicemente cambiato vita, e non di poco. Infatti Malpelo, dopo aver finito la sua missione non volle più tornare indietro nella sua terra, così tanto crudele, e decise di andare avanti. Per molti giorni continuò a stare sotto terra, e solo Dio sa come possa averlo fatto. Un giorno, non è chiaro se mattina o sera, crollò un pilastro di arena, mancando per poco Rosso. Uno spiraglio di luce e aria fresca veniva da sopra la sua testa, quasi fosse stato illuminato da una potenza divina. Fu così che, con le sue corde e picconi riuscì ad uscire dalla terra. Forse era mattina quando si svegliò o meglio, fu svegliato da una strana figura; una persona? Molto probabilmente era un uomo, vestito da straccione, con una barba talmente increspata e sporca da sembrare la rete di un pescatore. Non aveva niente, era molto povero, forse quanto Rosso, ma Malpelo si accorse subito dell'oggetto scintillante alle sue spalle, che era dorato. Un sax. Il barbone lo fece alzare. Egli si chiamava Solone e lo accompagnò nella sua “casa”, che non era altro che un insieme di scatole e cenci disposti in un angolino, alla periferia della grande città di Palermo. Solone e Rosso, strinsero fin da subito amicizia. Il vecchio accattone, viveva così seguendo una scelta di vita, volendo fuggire dalla sua famiglia, detta da lui “troppo snob e possessiva”. Solone suonava il sassofono a destra e a manca per tutta la città, riuscendo a guadagnare il minimo indispensabile per lui e per il suo cane, Zecca (un nome una verità). Rosso era molto affascinato dalla vita cittadina. Tutti sembravano più felici e meno “bestie” rispetto alla campagna. Cominciò da subito a girovagare con Solone spostandosi da un angolino a un altro. Era proprio bella la vita cittadina: Rosso era sempre all'aria aperta, giorno e notte; d'altronde non avrebbe potuto fare altrimenti. Rosso si imbambolava a vedere passare flotte di donzelle al passeggio, con i loro copricapi e tutte quelle piume e gli venne la curiosità di provarli a sua volta. In quel periodo Malpelo era davvero molto incuriosito tanto che quando Solone faceva qualche osservazione maliziosa sulle donne, lo metteva a tacere sottolineando invece la bellezza dei loro costumi. Il barbone si cominciò a preoccupare per Rosso e la sua paura crebbe, e fu confermata quando un pomeriggio, Rosso, dopo essere sparito per una mattinata intera, tornò vestito da... donna! Rosso attuò questo cambiamento dopo aver invidiato per anni sua sorella, che veniva sempre privilegiata in famiglia, fino a far sparire Rosso nell'oscurità della noncuranza da parte della madre. Malpelo, ormai cambiato dalla vita cittadina, era un'altra persona: si era fatto crescere i capelli in una rossa chioma folta, e adesso ondeggiava come le canne di bambù su quegli sconosciuti tacchi, facendosi chiamare Maria. Adesso godeva della vita di una donna, era quasi più attraente e veniva adocchiata/o da uomini di alta classe mentre accompagnava Solone ai suoi “spettacoli” di sax. Visse così i suoi anni migliori, tra una compagnia e un'altra. Fu così che entrò nell'alta società diventando una star del cabaret, fino a innamorarsi di una donzella, una vera, di nome Rosanna. Misero su una bella famiglia e ai suoi nipoti, ancora oggi, racconta la sua strampalata vita. Questa storia è per tutti quelli che credono sempre in un lieto fine e sono aperti alle novità e alle “diversità” . Con la speranza che Verga non si offenda, io finisco qui la mia storia, di un/a ragazzo/a dai capelli rossi, che visse in una grande città accompagnato/a dal suono di un sax. “La famiglia che perse tempo” di Giulio Mazzantini classe 1a C, Anzilotti Pescia Menzione speciale Di famiglie che non passano molto tempo insieme per colpa del lavoro ce ne sono molte, si sa, ma nessuna è come questa. Già perché la famiglia Spaghetti si vede solo mezz'ora al giorno: un quarto d'ora al mattino e uno la sera. La cosa strana è che questa famiglia è anche piuttosto numerosa; cinque membri: il signore e la signora Spaghetti, il primogenito Marco, la seconda Melissa, l'ultimo arrivato Pasquale detto “Pasqualino” e il cane; un meticcio di nome Tempo. Una sera a cena il padre si alzò in piedi e urlò: − Questa famiglia ha perso tempo! Tempo che abbiamo sprecato a lavorare, studiare e a fare altre diavolerie del genere. Tutta la famiglia, compreso il cane, lo guardava un po' sorpresa e un po' impaurita per la sua uscita: − Cara famiglia – continuava il padre a voce più bassa – quanto è che non facciamo una vacanza insieme? − Mai – disse Melissa. − Giusto ed è per questo che domani partiremo... no domani no devo avvertire il mio capo; partiremo tra tre giorni per l'Africa; no no troppi animali... l'India no no troppa povertà... intanto la famiglia lo guardava perplessa. Dopo alcuni minuti di rantolio incomprensibile il padre disse con aria trionfante: − Antille andremo alle Antille. E così la famiglia decise di partire e decise di portarsi dietro anche Tempo, il quale poverino avrebbe anche fatto a meno di partire con loro: quella famiglia dalla vita così frenetica non lo aveva mai considerato; non gli aveva mai dato amore, affetto e a volte non gli dava nemmeno da mangiare. Povero Tempo! Lasciato sempre da solo a volte scappava per cercare cibo e poiché faceva pena a tutti riceveva sempre qualcosa. Tuttavia Tempo pensava nel suo cervello canino che se la famiglia era partita per recuperare il tempo perso, lui avrebbe ricevuto un po' d'affetto, ma purtroppo non fu così: la famiglia continuò a vedersi un quarto d'ora la mattina e uno la sera, perché i genitori continuavano a lavorare al computer e i figli si facevano gli affari loro così il cane stressato decise di scappare. Il piccolo Pasqualino lo vide e provò a dirlo ai genitori, che erano impegnati e quindi non gli dettero ascolto; quando venne il momento di partire la famiglia cercò Tempo per un po' poi il padre infuriato disse: − Quell'ingrato di cane! Lasciamolo qui quell'ammasso di pulci! Pasqualino che era l'unico che voleva bene al cane cominciò a piangere, ma la famiglia si avviò comunque verso l'aeroporto dell'isola che era chiuso. La signora Spaghetti protestò e un addetto dell'aeroporto le spiegò che nessun aereo sarebbe volato perché era in arrivo una tempesta molto grande, la madre disse: − Ma ci dovrà pur essere un modo per partire! La famiglia venne indirizzata da un certo McCrackers un tipo decisamente strano che per vivere raccoglieva perle sui fondali e girava sempre con un pappagallo sulla spalla destra. McCrackers, quando vide gli spaghetti andò loro incontro e li invitò ad accomodarsi in casa sua per sentire cosa volevano! Quando lo seppe però urlò: − Voi siete matti! Nemmeno io volo con quella tempesta in arrivo, ma posso vendervi l'aereo. Il padre accettò e benché non sapesse pilotarlo si mise in volo, ma quando arrivò la tempesta il padre perse il controllo e si schiantò su un'isola deserta dove la famiglia è ancora naufraga e ha imparato a stare insieme anche se Pasqualino non perdonerà mai ai suoi genitori di aver perso Tempo, il quale fu trovato da McCrackers, che lo prese con sé e adesso probabilmente sta raccogliendo perle con il suo nuovo padrone. “La famiglia che perse tempo” di Thomas Alberti classe 4a Agp, Sismondi 1° Premio Salve a tutti belli e brutti magri e grassi alti o bassi. A chi si sveglia molto presto a chi cucina sempre pesto a chi si veste tutto in nero a chi vive sopra un pero a chi tace all'ingiustizia a chi non conosce la pigrizia a chi si droga notte e giorno a chi parte senza un ritorno a chi per vivere ha premuto play a chi nasconde il suo essere gay. E di me voglio parlare ascoltate senza criticare la mia vita in una famiglia con due fratelli e una morta figlia. Un padre autoritario una madre senza salario che avendo dei sospetti su certi miei aspetti James Bond son diventati alla ricerca sono andati con petulanza e curiosità per scoprir la mia omosessualità. Ovviamente lo sapevo ma impaurito io tacevo quatto quatto li guardavo dalla porta origliavo li vedevo rufolare nell'armadio verde mare che cercavano nel cassetto? Qualche smalto e un rossetto? Nella scatola sotto il letto ecco lì, il gran sospetto pensa mamma indubbiamente senza poi trovarci niente “Quel biglietto del concerto?” “Quel romanzo semi-aperto?” “... e quelle scarpe colorate?” Le domande più ascoltate, mi uscivan solo risate, ma in silenzio devo stare e questo sketch voglio ammirare. Una lampada mi abbagliava e la mamma che ringhiava “Domani vai dalla zia? O ti dirigi al Mammamia?” Recitando a dismisura con la voce mia più pura “Ho comprato anche i cioccolati per gli zii ed i cugini”. Qualche giorno calma, quiete poi a casa arriva il prete e con aria superficiale in confession mi vuol parlare “Caro mio”, mi dice l'anziano, sulla gamba mi mette una mano “ai tuoi la rabbia sale voglion che tu torni uno normale! Hanno in mente tanti progetti da te vorrebbero pargoletti. Tutto faranno senza timore, dicon di farlo per il tuo amore. Figlio mio segui il tuo pensiero Dio ti guarderà anche nel giorno più nero.” Son passati anni dalla benedizione e nella casa solita situazione. A tavola lo sguardo incrocio di mio padre che mi chiama “frocio”. Una lacrima è già scesa ora aprir la bocca sarà un'impresa invocando la via più sicura potrebbe essere l'unica cura la soluzione è la verità fiero della mia omosessualità. Con dolci parole gli voglio insegnare che non conta il sesso quando si vuole amare non c'è il malato e il normale tutto ciò si chiama naturale se bacio un uomo ho delle emozioni come Gloria Gaynor nelle sue canzoni. Loro mi guardano arrabbiati o per meglio dire sconsolati le lacrime scendono giù io qua non ci voglio star più! Ad un tratto sento un calore mia madre capisce il mio dolore mi abbraccia mio padre un po' imbarazzato forse da ora mi sentirò amato. In modo maturo con i miei ho parlato e come la morale del racconto vuol dire e che ogni uomo deve capire non serve discriminare il figlio si deve amare, ma ora di baci io riempio la famiglia che perse tempo. “Una ragazza dai capelli rossi, un sassofono, una grande città” di Doriana Tobaldo classe 4a ATS 2° Premio VIA DEI SOGNI Laura era scappata con un vestito azzurro addosso e fiori rosa e bianchi dentro. Aveva lasciato la sua casa e portato con sé solo il suo cane, Libertà, insieme a tanti sogni chiusi in una piccola scatola color mogano. Scorgeva ogni giorno, riflesso sul finestrino di un treno in galleria, il proprio volto pallido, ma non appena ne indovinava gli occhi si girava dall'altra parte e stringeva a sé la scatolina. “La casa è qui dentro”, pensava. Ma più passava il tempo e meno la scatola pesava; e più passava il tempo, più Laura si spegneva. I suoi capelli, un tempo rossi come la rabbia giovane, il desiderio e la forza delle possibilità, pian piano si sbiadivano. “Forse è colpa della pioggia...”, diceva guardandosi le trecce quasi spente e sospirando. Ma un giorno dei suoi troppi uguali giorni fatti di fumo, aghi e morte che alitava accanto, Laura, con Libertà al guinzaglio, scoprì Bologna. “Sì, qui mi posso fermare!”, pensò con una piccola scintilla di sorriso (solo) dentro. Perché Bologna, con i suoi portici, è coperta asciutta e soffitto su cui proiettare i sogni la sera, prima di addormentarsi; e poi i desideri, lì sotto, non scappano via ma si fermano come palloncini sfuggiti dai polsi esili dei bimbi e restano ancorati lassù, a colorare un po' la notte. E proprio sotto un portico, appoggiata alla soglia di un portone, Laura vide, una sera, una sacca di velluto nero da cui sbucava qualcosa di luccicante... Con sorpresa riconobbe un sassofono e, con le mani tremanti, lo estrasse dal suo involucro. Lei... lei... lo sapeva suonare! Guardando il sax rivide le sue mani incerte di bambina sui tasti, ogni sabato pomeriggio alla scuola di musica del “Villone”, e le mani dolci di sua madre che l'accarezzavano, e quelle forti di suo padre che l'accompagnavano, e quelle enormi del mondo che la invitavano a ballare... Prese la scatola dei sogni, l'aprì e... si accorse che era vuota. Infondo, in un angolino, c'era rimasto, però, un piccolo seme. Laura lo prese con delicatezza tra le labbra, vi appoggiò l'ancia ed iniziò a suonare. Chiunque passi sotto quel portico, che oggi vien chiamato “Via Dei Sogni”, da quel giorno può sentire musica nell'aria, se ascolta con attenzione, e gli vien voglia di vivere e danzare. Laura non si è più vista. Qualcuno, ogni tanto vede il suo corpo incolore viaggiare per la città. Solo. Senza Libertà.