Come un fiume

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Come un fiume
Elena Bono
Come un fiume
come un sogno
A cura di ANNA DE SIMONE
Elena Bono
Alzati, Orfeo,
e s’alzi dal tuo canto
Euridice bellissima
e le mortali cose perdute
e le immortali sperate.
E. BONO, Orfeo
L’8 settembre del 1943 – l’armistizio
era stato appena proclamato – i tedeschi da “alleati” dell’Italia fascista
erano divenuti invasori. Di lì a poco
su Chiavari, dove Elena Bono (Sonnino 1921) ha trascorso il più della
sua vita, e nell’entroterra ligure, si sarebbe scatenato l’inferno. In quelle
ore di angosciosa attesa, Elena, che
allora aveva solo ventidue anni, scrisse di getto la sua prima poesia. S’intitolava Dalla betulla si effonde e
avrebbe avviato una produzione imponente. Lei stessa, recentemente,
quando sono andata a conoscerla
nella sua casa di Chiavari, mi ricordava di essersi svegliata alla storia proprio in quella sera e di essersi fatta
partigiana (tra gli azzurri), impegnandosi con e per i suoi compagni.
Che non poté sottrarre al loro destino. Molti di essi sarebbero stati uccisi nei modi più atroci. Di quei ragazzi, della loro ansia di libertà e giustizia, che era anche la sua, è rimasta
una corona di poesie: “fiori rossi”
che ancora oggi “fioriscono alti /sulle montagne”. Sono, quei fiori, i tanti versi – e le tante prose – che Elena
Bono ha voluto dedicare a ciascuno
di essi. Perché “vengono i giorni /
che il cuore è una terra bruciata”. E
allora occorreva riconsacrarla, quella
terra, e restituire a quei ragazzi un
nome, un volto, il sogno che avevano
inseguito. Che lei ha inseguito per
tutta la vita e in tutta la sua opera.
Sono pagine alte, quelle di Elena
Bono, una scrittrice e poetessa tanto
grande quanto pochissimo conosciuta, per una di quelle ingiustizie causate non sappiamo se dal destino, da
editori distratti o da storici e critici
della letteratura disattenti. Certo è
che negli anni Cinquanta /Sessanta
del Novecento, la Bono è stata una
delle scrittrici di punta della Garzanti assieme a Pasolini. Poi su di lei è
calato un silenzio tanto immotivato
quanto ingiusto. Ma possiamo intuirne la ragione. Sono cose che capitano
ancora. Il silenzio su un autore che
vale molto è l’arma più usata anche
oggi da chi, temendone l’affermazione, finge che non esista. A quell’ingiustizia vorremmo, almeno in minima parte, e molto tardivamente, porre riparo.
Dalle poesie della Resistenza, forse le più intense e significative in assoluto che siano state scritte su quella pagina di storia, emergono compagni di scuola, amici dell’università,
giovani appena conosciuti e subito
perduti: oggi sono nomi di strade e di
piazze di Chiavari, la piccola città di
portici dove vissero i loro anni felici.
Come C. Talassano, che nella toponomastica cittadina indica un piccolo
parco e per questo è stato “di tutti il
più fortunato”, ci dice la sua antica
compagna di scuola, perché è “divenuto un giardino / di foglie aria bambini gridanti / che rinverdiscono il
cuore / quando è terra bruciata”.
Terra bruciata ma capace di rigenerarsi, grazie alla spiritualità radicata e
profonda di questa piccola donna, di
questa grande poetessa coraggiosa e
decisa ad affrontare temi che fanno
tremare: la lotta tra il Bene e il Male,
la ricerca di una trascendenza nell’apparente non senso della vita e
della storia. Da quest’urgenza sono
nati versi, racconti, drammi e romanzi di rara potenza. In essi il Male ha
assunto maschere di volta in volta diverse nei secoli, maschere a cui la
poetessa contrappone la forza del
Bene, l’affiorare di una traccia capace di cambiare radicalmente la vita di
ogni uomo, il volto di un cristo ancora una volta ferito e flagellato, il “povero Cristo” dei Vangeli, i tanti poveri cristi dei giorni del sangue. E la fa
risplendere “come un sogno”, quella
traccia, nel fiume limaccioso della
storia.
I versi e le prose di Elena Bono
dànno la sensazione di essere stati
scritti quasi in trance, sotto dettatura,
come se l’autrice seguisse sempre,
camminando per sentieri nascosti,
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una meta lontana che lei sola vedeva
e faceva risplendere nelle sue parole.
È una luce speciale, che si irradia dalle vicende dei più indifesi, degli
“sputati” e sviliti di ogni tempo per
alleviarne le piaghe, coerentemente
con il messaggio evangelico. Simile
alla luce da cui vengono sfiorati alcuni personaggi dei suoi romanzi, anche i più negativi. Una luce che potrebbe salvarli.
Nelle poesie della Bono appare decisiva, poi – o forse prima –, la suggestione dei classici, assimilati a tal
punto, grazie all’insegnamento del
padre, un grecista di valore, da essere diventati parte di lei, mondo suo,
miti suoi. Penso a Per un’anfora greca
o al Tramonto di Elena o al Lamento
degli Argonauti, con quella chiusa
che implora il ritorno di Orfeo. Il dio
che trascorrendo dalle rive dei vivi a
quelle delle ombre potrà restituire la
vita ai ragazzi che correvano su per i
boschi dell’Appennino ligure e che
sono stati fermati per sempre nella
loro corsa dalla violenza e dall’odio
dei giorni in cui vissero.
Come Rinaldo Simonetti, detto il
“Cucciolo”, al cui incosciente eroismo la poetessa ha dedicato una delle sue liriche più alte che ce lo restituisce. Perché in realtà, di quel ragazzino è rimasta solo una piccola armonica a bocca: “Da dove viene questo
vento bianco / e il suono dell’armonica a bocca / la mazurca soffiata / fra
dita intirizzite / e labbra gonfie di ragazzo, / quella mazurca di un giorno
di neve / sui monti?”.
La memoria di ciò che è stato, l’impegno profondamente cristiano e la
volontà di testimoniare sono stati
l’imperativo kantiano di Elena Bono:
nella vita, nella scrittura, nelle battaglie combattute in nome di valori che
i Greci per primi ci hanno trasmesso.
Scegliere bisognava. Lei ha scelto. E
non importa se “dicono ch’era sogno
/ e che per nulla più di un sogno”,
quei suoi compagni di scuola e di fede politica sono morti. La partita si
giocava tra umanità e ferinità, tra Bene e Male, tra uomo e superuomo.
Lo sapeva bene nella sua ingenua fe-
Elena Bono
de il piccolo site in pace, dilaciliano Severiniati agnelli. /
no, che il destiTu, Roma, non
no aveva pordormire. / Il
tato sull’Aptuo destino è
pennino ligure
sempre sottocon i suoi soterra / ed il tuo
gni intatti di
vero nome è
bambino che
catacomba…
seguiva incanA mezzanotte /
tato, nei teatriegli verrà / con
ni dei pupari di
la sua veste
Sicilia, le battabianca / ed i
glie di Orlando
grandi occhi
contro i nemineri spalancaci. Quegli stesti… ”.
si nemici che
Vale per queora lo torturast’io narrante
vano, ma lui, in
lacerato dalla
quella
terra
pena, quanto
non sua, soscrisse Ungastenne la proretti in una cepria battaglia
lebre poesia
con la stessa
del Porto Sepolto: “Ma nel
fierezza con
cuore / nessucui il paladino
Orlando aveva affrontato la fitta civiltà (“Israele Israele, piango io so- na croce manca. // È il mio cuore /
schiera dei nemici: “ – La vita in cam- lo per te / che anch’io fui preso / il paese più straziato”.
Rimane come unica salvezza, forse,
bio d’un nome. / Avanti, che cosa è schiaffeggiato e battuto”).
E davanti alle Fosse Ardeatine il la memoria in quel “paese straziato”.
poi un nome? – / No, che cosa è la vita, / anche a Orlando / alle gole di pensiero va alle catacombe: “ Dormi- S’irradiano e giungono fino a noi
echi di voci, flash di
Roncisvalle / dovetluce, lampi di salte rispondergli il NOTA BIOBIBLIOGRAFICA
vezza. Il passo velocuore / in piedi
guardando i nemici Nata a Sonnino, nel Lazio il 29 ottobre 1921, Elena Bono ha passato i primi anni ce dei ragazzi morti
Resistenza
/ venire come fa il di vita a Recanati dove il padre insegnava lettere classiche, per poi trasferirsi con nella
la famiglia a Chiavari, dove vive tuttora. Qui ha studiato e si è dedicata a una infa“pare tanto lontamare… ”.
Il mondo antico e ticabile attività letteraria nei diversi ambiti: poesia, teatro, narrativa, saggistica, tra- no… /per montaduzioni. Anni cruciali sono stati per lei quelli che vanno dall’8 settembre del 1943
quello medievale in al 25 aprile del 1945. A Bertigaro, sull’Appennino Ligure, entrò in contatto con i gne di neve e bianca
quest’autrice dal- partigiani e li aiutò in maniera molto concreta rischiando ogni giorno la vita. Am- luce… Pare tanto
l’immensa cultura si pie tracce di quell’esperienza sono ravvisabili nelle poesie e nei racconti e roman- lontano: / forse, o
annodano ai testi sa- zi. Nel 1959 ha sposato Gian Maria Mazzini, che apparteneva a un ramo collatera- cari, non è. / Mecri. I Vangeli appa- le della famiglia di Giuseppe Mazzini. Autrice di punta dell’editore Garzanti, fu moria è fedeltà, / diiono incardinati nel- inspiegabilmente messa da parte negli anni Sessanta, trascorrendo il resto della sua sperato resistere da
vita quasi del tutto ignorata dalla critica e dal pubblico. In tempi recenti, la sua
la storia, antica e re- opera è stata ristampata grazie alla sensibilità e all’intelligenza critica di piccoli edi- soli… Voi cammicente, e nella realtà tori. Le sue opere sono state tradotte in inglese, francese, spagnolo, portoghese, nate, o cari, / dentro
di noi. / Memoria è
dei giorni del san- arabo, svedese e greco.
Raccolte di poesie pubblicate: I galli notturni, Garzanti, Milano 1952; Alzati Orfedeltà”. E se anche
gue e dell’ odio. Il
“Pianto del Cristo feo, Garzanti 1958; Piccola Italia, EmmeE, Recco (GE), 1981; Invito a Palazzo, questa fosse un’illusione, “sogno per
di Maidanek” è di- EmmeE 1982. Poesie. Opera omnia, Le Mani, Recco (GE), 2007.
Racconti e romanzi: Morte di Adamo, Garzanti 1956; EmmeE 1988; Come un
sogno in terra di
ventato
così fiume,
come un sogno, EmmeE 1985; Le Mani 1999; Una valigia di cuoio nero, Le
dormienti / sceglial’espressione più ve- Mani 1998; Fanuel Nuti-Giorni davanti a Dio (I tomo), Le Mani 2003.
mo il sogno da sora e radicale di un
Teatro: Ippolito, Garzanti 1954; La testa del Profeta-La grande e la piccola morte,
amore e di un dolo- Garzanti 1965; I templari, EmmeE, 1986; Le spade e le ferite, Le Mani 1995; L’om- gnare”.
re che trascendono bra di Lepanto, Le Mani 1996; Saga di Carlo V e di Francesco I (include la riedizioAnna De Simone
tempi, luoghi, razze, ne de La grande e la piccola morte), Le Mani 2005.
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Elena Bono
Silenzio e ancora silenzio
Nella Cappella Trivulzio a Milano
Hic Iohannes Iac. Triultius qui
numquam quievit, quiescit
Silenzio e ancora silenzio.
Versatelo a lungo
piano, sulle ferite.
Anche la musica duole
ad un cuore dolente.
– Conte, che mai vedete dagli alti spalti?
– D’ogni parte la mia morte nuda buia infinita.
Sopra una stele funeraria greca
Europa I
Per tutti è la battaglia
In cui un uomo, il volto reclinato sulla mano,
è seduto a prora di una nave e guarda il mare
ESCHILO
Le spalle al muro, combattiamo questa battaglia
per i morti i vivi e coloro che nasceranno.
Combattiamo per tutti anche per i nemici.
Se destino è cadere, cadiamo da uomini
noi che dicemmo al mondo che cos’è l’uomo.
Quanto più viene sera, il mare è bianco,
Democleides,
e silente.
Dolce è l’ora, sciolta la tua nave
e il cuore che ogni cosa sofferse.
E tu sei solo.
Mio cuore, torna sui monti
Mio cuore, torna sui monti
alle tombe morbide d’erba
al loro sonno di ragazzi
lungo sereno.
Mio lacerato cuore.
Tramonto di Elena
L’abbandonava la sua bellezza,
chissà dove fuggiva
immemore di lei
spietata.
E accanto le venivano i morti
né ella più li scacciava:
solo ad essi appariva
come un tempo preziosa
remota
nel suo scintillare,
quale appare il ghiacciolo
solitario sospeso
ai fastigi del tempio
nella notte lunare.
Lamento degli Argonauti
Quando prendemmo il remo sulla spalla
e corremmo alla nave
solo ci venne dietro il passo scalzo
ed il piccolo fiato
del fratello minore:
– Portatemi
portatemi con voi –.
Qualche fanciulla alla finestra disse:
– Buona fortuna –.
La madre mia restò nascosta a piangere.
Nelle piazze ridevano
ah come ridevano
del nostro Vello d’Oro.
E noi salimmo sulla rossa nave
rossa folle nave
cavallina del mare.
Coi felici delfini e le tempeste
giuocammo:
l’impennata il grido
il cuore a picco
Cristo in Emmaus
Le mani del viandante
sulla tovaglia serale.
Pur bianche ed inviolate
così tristi apparivano esse
così ferite.
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Elena Bono
mancante negli abissi
il riso sotto le sferzanti schiume.
Come remoto a prua
il volto di Giasone,
chiuso pallore
ed occhi consapevoli.
E nelle notti quiete
che tutti fingevamo di dormire
e guardavamo muti
le freddissime stelle,
il giovanetto Orfeo
solo cantava.
Molti di noi non sono ritornati
col Vello d’Oro,
ossa dimenticate chissà dove
e d’ogni cosa dimentiche.
Il Vello d’Oro fu venduto
o donato
a quelli che dicevano
non esistesse
e la gente va in piazza
per vedere
e per ridere ancora.
Io siedo in casa indifferente
se mia madre sospira
o il sole s’alza e cade
inutilmente.
Ma talvolta il vento
o il mio cuore, non so,
mi reca un canto
come di giovanetto nella notte
e trasalisco
e un affanno mi prende
di gridare: – Non più –,
di piangere: – Ritorna,
Orfeo, ritorna –.
di mano alla sorte
è vietato:
Orlando può solo
morire da Orlando
e del suo stesso fuoco
una stella morire.
– Chiddi so’ grandi persuni. –
Quelle sono grandi persone,
tu un qualunque ragazzo
di Ustica
o di Acireale.
Su quella piazza quel giorno
davanti alla chiesa,
a cavalcioni sopra una sedia
le mani legate
la faccia rigonfia
poggiata sullo schienale,
i mitra già dietro puntati
la gente d’intorno a vedere
il terrone che muore
ma com’è lungo a morire.
Com’è lungo morire
tenere la bocca serrata
ancora una volta
ancora una volta e ancora
alla voce che dice:
– La vita in cambio d’un nome.
Avanti, che cosa è poi un nome? –
No, che cosa è la vita,
anche a Orlando
alle gole di Roncisvalle
dovette rispondergli il cuore
in piedi guardando i nemici
venire come fa il mare
egli stringendo la spada,
tu con le mani legate
dietro la schiena.
– Chiddi so’ grandi persuni. –
Quelle son grandi persone,
tu un qualunque ragazzo
di Ustica
o di Acireale.
Severino
Muoiono anch’essi
i Paladini di Francia,
muoiono anche le stelle.
Quante volte vedendo
alle gole di Roncisvalle
giungere Orlando
altissimo biondo
lucente
più d’un diadema
volevi gridare:
– Ah! non entrasse Vossia! –
e all’uomo dietro le quinte
togliere i fili di mano.
Togliere i fili
“Questa lirica rievoca il primo partigiano fucilato nell’entroterra chiavarese, un siciliano cresciuto all’ombra della poesia cavalleresca, grazie
a quelle popolari rappresentazioni di “pupi” durante le quali ingenuamente il pubblico interloquisce, esprimendo odi e amori e, attraverso i
sentimenti, una scelta etica di fondo. Il parlar siciliano è stato adattato
alla comprensibilità e al ritmo del testo”.
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Elena Bono
Di tutti il più fortunato
biondino di lungo viso,
tu divenuto un giardino
di foglie aria bambini gridanti
che rinverdiscono il cuore
quando è terra bruciata.
Vengono i giorni
Vengono i giorni
che il cuore è una terra bruciata,
polvere e fumo
nuvole basse di piombo.
Voi divenuti
nomi di piazze e di strade
corso Gastaldi
largo Cesare Crosa
via Buranello
giardini pubblici C. Talassano.
Ma il tempo è una casa
di innumerevoli stanze
sorvegliate e severe
dove tutto è per sempre;
chi ne possiede le chiavi
può ritrovare ogni cosa:
gesti e parole
di un giorno qualunque.
I vostri giorni di prima,
il vostro andare e venire
in queste piazze e strade
divenute ora voi
per ricordare la scelta
che voi avete fatta
a quelli che vengono e vanno
con gesti e parole qualunque
dove sta chiusa la scelta
che anch’essi hanno fatta
in queste stanze severe
che non consentono fuga,
ma tutto è per sempre.
I vostri giorni di prima.
Cesare Crosa
il suo passo di vento
e la musica dentro:
Vivaldi, “Le quattro stagioni”,
l’elettrico “Inverno”
quegli aghi di ghiaccio e di gioia.
Buranello che parla a un compagno
battendo il giornale
sul dorso a un leone
del grande scalone di marmo
dell’ateneo genovese.
Aldo Gastaldi
la fronte tranquilla
più su della folla,
quegli occhi di spada.
Talassano il biondino
di mento appuntito
sempre piegato dal riso
sul banco di scuola;
fu allegro davanti alla morte,
e tenne allegri i compagni.
30 aprile 1981
Stanze per Rinaldo Simonetti “Cucciolo”
I
Quel giorno come oggi
gelidamente febbraio
gocciava dai castagni;
tu salisti a piedi nudi
questa strada di sassi
che a precipizio scendevi
coi tuoi scarponetti da festa
facendo scintille
la domenica mattina
tante volte tante volte,
e la prima fu quando
nel tulle del battesimo bianco
venisti alla pieve
sul seno ansante e fiorito
della madrina orgogliosa
– Voglio morire con loro
Voglio morire coi grandi –
abbracciando quelle ginocchia
e fosti accontentato:
dieci corpi più uno,
undici corpi ed una corda
su per la salita,
a questa costa dove
parlavi coi castagni
cercando fragole e funghi
i tassi e le lumache
il muschio del presepio
con le dita arrossate
quante volte perdendoti
a guardare
le nuvole fumanti via tra i rami
così tacite e diverse
da ogni cosa della terra
che nessuno le può imprigionare.
Oggi si dice Messa fra i castagni
all’altarino dell’Addolorata
coi vostri nomi in oro
e se tu potessi
vedere le fiammelle
che i parenti hanno acceso
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Elena Bono
per le balze sull’erba
che è soltanto il sudore
gelato di febbraio
oggi a bagnare.
O Bisagno
O Bisagno, i tuoi occhi chiari ci guardano ancora.
Ancora ci sta davanti invalicabile il tuo vasto petto
ogniqualvolta ci chiami cosa che non sia libertà
né diritto, né umano sentire dell’uomo.
II
Aldo Gastaldi, “Bisagno” che guidò la Resistenza ligure.
Fucilato è una parola importante
e tu te ne fai bello
nel tuo cimiterino
fra i candidi vecchioni
e i bambini lattanti
e le ragazze che invece dell’arancio
ebbero una corona di fiori di carta.
T’ascoltavano tutti
con grave attenzione ammirati,
ma che cos’è la libertà
questo non ci riesci
per quanto ti provi
a spiegarlo
e finisce che sempre
con un grosso sospiro
ti smarrisci a guardare
nuvole e nebbie che vanno
insieme alla luna.
I morti nella terra
i vivi nelle case,
gli altri prendono sonno
e soli ad ora ad ora
gridano i galli.
Supino ancora guardi
quelle lunari nuvole andare
di là dai castagni
come una volta.
Rappresaglia
Ci sono dieci morti sulla strada.
Il prete non li può benedire,
le loro madri non li possono lavare.
Stasera in ogni casa si prega per loro,
ogni madre li piange come figli.
Il cavallino nero
a Cesare Crosa di Vergagni, “Micky”
Un cavallino nero
mi sembrasti
la prima volta
che ti vidi.
Tra l’ombra e il sole
te ne andavi
per quella strada di montagna,
il passo veloce
gli occhi scintillanti
e lo sten che portavi
come un fiore.
Non ci amavamo
eppure
tremavo sempre
per te.
Io lo sapevo
lo sapevo da allora
che non saresti ritornato
insieme agli altri.
III
Nessuno te l’ha detto
che un animo da re ci vuole
per entrare negli alti
palazzi della morte,
non da qualunque porta
alla rinfusa gettati
ma dalla grande entrata
a testa dritta
graziosamente
recando le ferite come fiori in dono
mentre il Signore si affretta all’incontro
giù per la scalea aprendo le braccia.
Nessuno te l’ha detto,
ragazzo di campagna.
Ma così tu sei entrato.
Molte favole
Molte favole so per Rinaldo.
Io racconto per te, ragazzo che non dormi.
* Fucilato per la libertà nei boschi di Càlvari dove era nato pochi anni prima
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Elena Bono
Su una piccola armonica a bocca
Fiori rossi
Il vino
Fiori rossi
fioriscono alti
sulle montagne.
Il vento li muove
lentamente
li accarezza il vento
che ricorda.
Io bevo sola questo vino nero
che insanguina la bocca,
io piango sola
di voi non ritrovando
che le mute cose rimaste.
D’uno il palazzo ed i ritratti
tristi degli avi
ad aspettare
l’ultimo di quel nome;
e d’un altro le reti
con le scaglie di sole luccicanti
e l’orto alla marina;
di Berto la medaglia;
di Cucciolo nient’altro che l’armonica,
la piccola mazurka coraggiosa
nelle sere di fame e di paura.
E del pretino di Valletti
il nudo Crocifisso
levato a benedire
le bocche già puntate dei moschetti.
Rimangono le cose
ed i vigneti
sotto la neve,
i vigneti del vino
chiaro e cantante che v’accese
le vene giovanette
ed ora ha così amaro
così greve
gusto di sangue.
Dicevi: – A primavera –
Dicevi: – A primavera
a primavera faremo un gran ballo
sul prato di fianco alla chiesa,
aprile dovrà ben venire –.
Aprile è venuto:
trenta e più primavere passate,
non ci fu poi quel ballo
dei partigiani sul prato,
tu non lo sai.
Tu non sai tante cose
da allora.
Tu ed io seduti ancora
sopra il muretto
a picco
sulla vallata,
lo sten qui posato tra noi,
tu dondolando impaziente
le gambe nel vuoto
battendo indietro i talloni
contro il muretto,
il sole rosso negli occhi
addosso l’odore di neve
i verdi anni che hai sempre.
La scelta
Dicono ch’era sogno
e che per nulla più di un sogno
siete morti. E sia.
Sogno per sogno in terra di dormienti
scegliamo il sogno da sognare.
Chi di bruto
chi d’uomo.
Sulla prescelta barca fare il viaggio
e ritornare
dove tutto ritorna.
Né fiume può sostare
né luna
né musica.
Può soltanto fuggire
questa mazurca
sperduto addio
battendo l’ali ancora
contro il mio viso
e dileguare.
Pensando ai ragazzi morti nella Resistenza
in un giorno di neve del gennaio 1987 a Genova
Pare tanto lontano
il vostro passo adolescente
per montagne di neve e bianca luce
di questo nostro andare
vacillante
e senilmente cauteloso
lungo camminamenti
di ghiaccio ammonticchiato
ed annerito,
sotto pendenti ragnatele
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Elena Bono
di fumo rugginoso,
e così lacerato,
triste intorno
è lo stridìo della città,
questo sbattere d’ali
uncigliate, vischiose
come di grande, cieco
pipistrello ferito.
che anch’io fui preso
schiaffeggiato e battuto.
Agnello che non parla fui portato dove l’uomo voleva.
Come schiavo ti han marchiato, Israele.
Ridono nel vederti e ti mostrano a dito.
Come bianco lebbroso ti hanno chiuso
in un cerchio di spine.
Israele Israele, piango io solo per te
che fui deriso da quelli che passavano.
Appesero una scritta sul mio capo.
Strinsero le mie tempie con un cerchio di spine.
T’han spogliato, Israele
e ricoperto di panni senza nome.
Le tue vesti hanno vendute
e spartito i tuoi averi.
Israele Israele, piango io solo per te
che su un ciglio di strada anch’io fui denudato.
Come pazzo mi avevano ammantato.
Spartirono le vesti che mia madre aveva filate.
Israele Israele, piango io solo per te.
Pare tanto lontano;
forse, o cari, non è.
Memoria è fedeltà,
disperato resistere da soli,
comprimendo nel cuore
ira schifo pietà
paura fame di giustizia
ma più forte la fame di giustizia che la paura.
Tutto e sempre è resistere.
Voi camminate, o cari,
dentro di noi.
Memoria è fedeltà,
regno indiviso,
spazio non violato
dove va il vostro passo adolescente
in sogno ancora
ed in sorriso
per montagne di neve
e bianca luce.
Israele Israele, io guardo e vedo bruciate le tue carni.
Come sterpo e sarmento tieni accese le fornaci.
Rosso il cielo di Maidanek, bacile che gronda sangue.
O mia carne mia carne Israele.
Io vedo le tue ossa fare bianca la terra.
La tua cenere ingrassare le erbe lungo i campi.
Ogni giorno tu mangi di quell’erba, Israele,
che è tuo padre e tua madre e il tuo bambino
che sorrideva.
Tu mangi ed i tuoi occhi guardano le fornaci.
Guardano gli occhi tuoi e non piangono più.
Israele Israele, piango io solo per te
che alle tue spalle sto piangente e seduto.
E tu non volgi il viso a me che piango.
O mio pianto mio pianto, Israele.
Pianto del Cristo di Maidanek*
Volgi il viso Israele, guarda se mi conosci.
Israele Israele, chi siede accanto a te nel recinto spinato?
Figlio del Re, tu non mi hai accolto nelle tue ricche tende.
Io per te sono entrato nel tuo campo di morte.
Sto seduto e piangente accanto alla tua spalla.
Volgi il viso, Israele. Guarda se mi conosci.
* Lager nazista situato nei pressi di Lublino, in Polonia.
Come l’aquila dal Sairon sono scesi i tuoi nemici.
Come il corvo sul carname.
Con una mano i tuoi vicini ti hanno consegnato,
con l’altra ricevono il tuo prezzo.
Ti rinnega scuotendo il capo
chi sedeva alla tua mensa.
Israele Israele, piango io solo per te
che per poca moneta anch’io fui consegnato.
Disse: “Non lo conosco”
chi mangiò di me alla mia mensa.
Come bue che l’uomo porta ad essere sgozzato
come bestia che grida nella rete
t’hanno preso, Israele
schiaffeggiato e battuto.
Israele Israele, piango io solo per te
Ancora un poco
Restiamo ancora un poco
sulla terrazza lunare.
Più tardi scenderemo
nella valle brumosa.
Da Poesie. Opera omnia, Editrice Le Mani, Recco (GE), 2007
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