Come un fiume
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Come un fiume
Elena Bono Come un fiume come un sogno A cura di ANNA DE SIMONE Elena Bono Alzati, Orfeo, e s’alzi dal tuo canto Euridice bellissima e le mortali cose perdute e le immortali sperate. E. BONO, Orfeo L’8 settembre del 1943 – l’armistizio era stato appena proclamato – i tedeschi da “alleati” dell’Italia fascista erano divenuti invasori. Di lì a poco su Chiavari, dove Elena Bono (Sonnino 1921) ha trascorso il più della sua vita, e nell’entroterra ligure, si sarebbe scatenato l’inferno. In quelle ore di angosciosa attesa, Elena, che allora aveva solo ventidue anni, scrisse di getto la sua prima poesia. S’intitolava Dalla betulla si effonde e avrebbe avviato una produzione imponente. Lei stessa, recentemente, quando sono andata a conoscerla nella sua casa di Chiavari, mi ricordava di essersi svegliata alla storia proprio in quella sera e di essersi fatta partigiana (tra gli azzurri), impegnandosi con e per i suoi compagni. Che non poté sottrarre al loro destino. Molti di essi sarebbero stati uccisi nei modi più atroci. Di quei ragazzi, della loro ansia di libertà e giustizia, che era anche la sua, è rimasta una corona di poesie: “fiori rossi” che ancora oggi “fioriscono alti /sulle montagne”. Sono, quei fiori, i tanti versi – e le tante prose – che Elena Bono ha voluto dedicare a ciascuno di essi. Perché “vengono i giorni / che il cuore è una terra bruciata”. E allora occorreva riconsacrarla, quella terra, e restituire a quei ragazzi un nome, un volto, il sogno che avevano inseguito. Che lei ha inseguito per tutta la vita e in tutta la sua opera. Sono pagine alte, quelle di Elena Bono, una scrittrice e poetessa tanto grande quanto pochissimo conosciuta, per una di quelle ingiustizie causate non sappiamo se dal destino, da editori distratti o da storici e critici della letteratura disattenti. Certo è che negli anni Cinquanta /Sessanta del Novecento, la Bono è stata una delle scrittrici di punta della Garzanti assieme a Pasolini. Poi su di lei è calato un silenzio tanto immotivato quanto ingiusto. Ma possiamo intuirne la ragione. Sono cose che capitano ancora. Il silenzio su un autore che vale molto è l’arma più usata anche oggi da chi, temendone l’affermazione, finge che non esista. A quell’ingiustizia vorremmo, almeno in minima parte, e molto tardivamente, porre riparo. Dalle poesie della Resistenza, forse le più intense e significative in assoluto che siano state scritte su quella pagina di storia, emergono compagni di scuola, amici dell’università, giovani appena conosciuti e subito perduti: oggi sono nomi di strade e di piazze di Chiavari, la piccola città di portici dove vissero i loro anni felici. Come C. Talassano, che nella toponomastica cittadina indica un piccolo parco e per questo è stato “di tutti il più fortunato”, ci dice la sua antica compagna di scuola, perché è “divenuto un giardino / di foglie aria bambini gridanti / che rinverdiscono il cuore / quando è terra bruciata”. Terra bruciata ma capace di rigenerarsi, grazie alla spiritualità radicata e profonda di questa piccola donna, di questa grande poetessa coraggiosa e decisa ad affrontare temi che fanno tremare: la lotta tra il Bene e il Male, la ricerca di una trascendenza nell’apparente non senso della vita e della storia. Da quest’urgenza sono nati versi, racconti, drammi e romanzi di rara potenza. In essi il Male ha assunto maschere di volta in volta diverse nei secoli, maschere a cui la poetessa contrappone la forza del Bene, l’affiorare di una traccia capace di cambiare radicalmente la vita di ogni uomo, il volto di un cristo ancora una volta ferito e flagellato, il “povero Cristo” dei Vangeli, i tanti poveri cristi dei giorni del sangue. E la fa risplendere “come un sogno”, quella traccia, nel fiume limaccioso della storia. I versi e le prose di Elena Bono dànno la sensazione di essere stati scritti quasi in trance, sotto dettatura, come se l’autrice seguisse sempre, camminando per sentieri nascosti, 3 una meta lontana che lei sola vedeva e faceva risplendere nelle sue parole. È una luce speciale, che si irradia dalle vicende dei più indifesi, degli “sputati” e sviliti di ogni tempo per alleviarne le piaghe, coerentemente con il messaggio evangelico. Simile alla luce da cui vengono sfiorati alcuni personaggi dei suoi romanzi, anche i più negativi. Una luce che potrebbe salvarli. Nelle poesie della Bono appare decisiva, poi – o forse prima –, la suggestione dei classici, assimilati a tal punto, grazie all’insegnamento del padre, un grecista di valore, da essere diventati parte di lei, mondo suo, miti suoi. Penso a Per un’anfora greca o al Tramonto di Elena o al Lamento degli Argonauti, con quella chiusa che implora il ritorno di Orfeo. Il dio che trascorrendo dalle rive dei vivi a quelle delle ombre potrà restituire la vita ai ragazzi che correvano su per i boschi dell’Appennino ligure e che sono stati fermati per sempre nella loro corsa dalla violenza e dall’odio dei giorni in cui vissero. Come Rinaldo Simonetti, detto il “Cucciolo”, al cui incosciente eroismo la poetessa ha dedicato una delle sue liriche più alte che ce lo restituisce. Perché in realtà, di quel ragazzino è rimasta solo una piccola armonica a bocca: “Da dove viene questo vento bianco / e il suono dell’armonica a bocca / la mazurca soffiata / fra dita intirizzite / e labbra gonfie di ragazzo, / quella mazurca di un giorno di neve / sui monti?”. La memoria di ciò che è stato, l’impegno profondamente cristiano e la volontà di testimoniare sono stati l’imperativo kantiano di Elena Bono: nella vita, nella scrittura, nelle battaglie combattute in nome di valori che i Greci per primi ci hanno trasmesso. Scegliere bisognava. Lei ha scelto. E non importa se “dicono ch’era sogno / e che per nulla più di un sogno”, quei suoi compagni di scuola e di fede politica sono morti. La partita si giocava tra umanità e ferinità, tra Bene e Male, tra uomo e superuomo. Lo sapeva bene nella sua ingenua fe- Elena Bono de il piccolo site in pace, dilaciliano Severiniati agnelli. / no, che il destiTu, Roma, non no aveva pordormire. / Il tato sull’Aptuo destino è pennino ligure sempre sottocon i suoi soterra / ed il tuo gni intatti di vero nome è bambino che catacomba… seguiva incanA mezzanotte / tato, nei teatriegli verrà / con ni dei pupari di la sua veste Sicilia, le battabianca / ed i glie di Orlando grandi occhi contro i nemineri spalancaci. Quegli stesti… ”. si nemici che Vale per queora lo torturast’io narrante vano, ma lui, in lacerato dalla quella terra pena, quanto non sua, soscrisse Ungastenne la proretti in una cepria battaglia lebre poesia con la stessa del Porto Sepolto: “Ma nel fierezza con cuore / nessucui il paladino Orlando aveva affrontato la fitta civiltà (“Israele Israele, piango io so- na croce manca. // È il mio cuore / schiera dei nemici: “ – La vita in cam- lo per te / che anch’io fui preso / il paese più straziato”. Rimane come unica salvezza, forse, bio d’un nome. / Avanti, che cosa è schiaffeggiato e battuto”). E davanti alle Fosse Ardeatine il la memoria in quel “paese straziato”. poi un nome? – / No, che cosa è la vita, / anche a Orlando / alle gole di pensiero va alle catacombe: “ Dormi- S’irradiano e giungono fino a noi echi di voci, flash di Roncisvalle / dovetluce, lampi di salte rispondergli il NOTA BIOBIBLIOGRAFICA vezza. Il passo velocuore / in piedi guardando i nemici Nata a Sonnino, nel Lazio il 29 ottobre 1921, Elena Bono ha passato i primi anni ce dei ragazzi morti Resistenza / venire come fa il di vita a Recanati dove il padre insegnava lettere classiche, per poi trasferirsi con nella la famiglia a Chiavari, dove vive tuttora. Qui ha studiato e si è dedicata a una infa“pare tanto lontamare… ”. Il mondo antico e ticabile attività letteraria nei diversi ambiti: poesia, teatro, narrativa, saggistica, tra- no… /per montaduzioni. Anni cruciali sono stati per lei quelli che vanno dall’8 settembre del 1943 quello medievale in al 25 aprile del 1945. A Bertigaro, sull’Appennino Ligure, entrò in contatto con i gne di neve e bianca quest’autrice dal- partigiani e li aiutò in maniera molto concreta rischiando ogni giorno la vita. Am- luce… Pare tanto l’immensa cultura si pie tracce di quell’esperienza sono ravvisabili nelle poesie e nei racconti e roman- lontano: / forse, o annodano ai testi sa- zi. Nel 1959 ha sposato Gian Maria Mazzini, che apparteneva a un ramo collatera- cari, non è. / Mecri. I Vangeli appa- le della famiglia di Giuseppe Mazzini. Autrice di punta dell’editore Garzanti, fu moria è fedeltà, / diiono incardinati nel- inspiegabilmente messa da parte negli anni Sessanta, trascorrendo il resto della sua sperato resistere da vita quasi del tutto ignorata dalla critica e dal pubblico. In tempi recenti, la sua la storia, antica e re- opera è stata ristampata grazie alla sensibilità e all’intelligenza critica di piccoli edi- soli… Voi cammicente, e nella realtà tori. Le sue opere sono state tradotte in inglese, francese, spagnolo, portoghese, nate, o cari, / dentro di noi. / Memoria è dei giorni del san- arabo, svedese e greco. Raccolte di poesie pubblicate: I galli notturni, Garzanti, Milano 1952; Alzati Orfedeltà”. E se anche gue e dell’ odio. Il “Pianto del Cristo feo, Garzanti 1958; Piccola Italia, EmmeE, Recco (GE), 1981; Invito a Palazzo, questa fosse un’illusione, “sogno per di Maidanek” è di- EmmeE 1982. Poesie. Opera omnia, Le Mani, Recco (GE), 2007. Racconti e romanzi: Morte di Adamo, Garzanti 1956; EmmeE 1988; Come un sogno in terra di ventato così fiume, come un sogno, EmmeE 1985; Le Mani 1999; Una valigia di cuoio nero, Le dormienti / sceglial’espressione più ve- Mani 1998; Fanuel Nuti-Giorni davanti a Dio (I tomo), Le Mani 2003. mo il sogno da sora e radicale di un Teatro: Ippolito, Garzanti 1954; La testa del Profeta-La grande e la piccola morte, amore e di un dolo- Garzanti 1965; I templari, EmmeE, 1986; Le spade e le ferite, Le Mani 1995; L’om- gnare”. re che trascendono bra di Lepanto, Le Mani 1996; Saga di Carlo V e di Francesco I (include la riedizioAnna De Simone tempi, luoghi, razze, ne de La grande e la piccola morte), Le Mani 2005. 4 Elena Bono Silenzio e ancora silenzio Nella Cappella Trivulzio a Milano Hic Iohannes Iac. Triultius qui numquam quievit, quiescit Silenzio e ancora silenzio. Versatelo a lungo piano, sulle ferite. Anche la musica duole ad un cuore dolente. – Conte, che mai vedete dagli alti spalti? – D’ogni parte la mia morte nuda buia infinita. Sopra una stele funeraria greca Europa I Per tutti è la battaglia In cui un uomo, il volto reclinato sulla mano, è seduto a prora di una nave e guarda il mare ESCHILO Le spalle al muro, combattiamo questa battaglia per i morti i vivi e coloro che nasceranno. Combattiamo per tutti anche per i nemici. Se destino è cadere, cadiamo da uomini noi che dicemmo al mondo che cos’è l’uomo. Quanto più viene sera, il mare è bianco, Democleides, e silente. Dolce è l’ora, sciolta la tua nave e il cuore che ogni cosa sofferse. E tu sei solo. Mio cuore, torna sui monti Mio cuore, torna sui monti alle tombe morbide d’erba al loro sonno di ragazzi lungo sereno. Mio lacerato cuore. Tramonto di Elena L’abbandonava la sua bellezza, chissà dove fuggiva immemore di lei spietata. E accanto le venivano i morti né ella più li scacciava: solo ad essi appariva come un tempo preziosa remota nel suo scintillare, quale appare il ghiacciolo solitario sospeso ai fastigi del tempio nella notte lunare. Lamento degli Argonauti Quando prendemmo il remo sulla spalla e corremmo alla nave solo ci venne dietro il passo scalzo ed il piccolo fiato del fratello minore: – Portatemi portatemi con voi –. Qualche fanciulla alla finestra disse: – Buona fortuna –. La madre mia restò nascosta a piangere. Nelle piazze ridevano ah come ridevano del nostro Vello d’Oro. E noi salimmo sulla rossa nave rossa folle nave cavallina del mare. Coi felici delfini e le tempeste giuocammo: l’impennata il grido il cuore a picco Cristo in Emmaus Le mani del viandante sulla tovaglia serale. Pur bianche ed inviolate così tristi apparivano esse così ferite. 5 Elena Bono mancante negli abissi il riso sotto le sferzanti schiume. Come remoto a prua il volto di Giasone, chiuso pallore ed occhi consapevoli. E nelle notti quiete che tutti fingevamo di dormire e guardavamo muti le freddissime stelle, il giovanetto Orfeo solo cantava. Molti di noi non sono ritornati col Vello d’Oro, ossa dimenticate chissà dove e d’ogni cosa dimentiche. Il Vello d’Oro fu venduto o donato a quelli che dicevano non esistesse e la gente va in piazza per vedere e per ridere ancora. Io siedo in casa indifferente se mia madre sospira o il sole s’alza e cade inutilmente. Ma talvolta il vento o il mio cuore, non so, mi reca un canto come di giovanetto nella notte e trasalisco e un affanno mi prende di gridare: – Non più –, di piangere: – Ritorna, Orfeo, ritorna –. di mano alla sorte è vietato: Orlando può solo morire da Orlando e del suo stesso fuoco una stella morire. – Chiddi so’ grandi persuni. – Quelle sono grandi persone, tu un qualunque ragazzo di Ustica o di Acireale. Su quella piazza quel giorno davanti alla chiesa, a cavalcioni sopra una sedia le mani legate la faccia rigonfia poggiata sullo schienale, i mitra già dietro puntati la gente d’intorno a vedere il terrone che muore ma com’è lungo a morire. Com’è lungo morire tenere la bocca serrata ancora una volta ancora una volta e ancora alla voce che dice: – La vita in cambio d’un nome. Avanti, che cosa è poi un nome? – No, che cosa è la vita, anche a Orlando alle gole di Roncisvalle dovette rispondergli il cuore in piedi guardando i nemici venire come fa il mare egli stringendo la spada, tu con le mani legate dietro la schiena. – Chiddi so’ grandi persuni. – Quelle son grandi persone, tu un qualunque ragazzo di Ustica o di Acireale. Severino Muoiono anch’essi i Paladini di Francia, muoiono anche le stelle. Quante volte vedendo alle gole di Roncisvalle giungere Orlando altissimo biondo lucente più d’un diadema volevi gridare: – Ah! non entrasse Vossia! – e all’uomo dietro le quinte togliere i fili di mano. Togliere i fili “Questa lirica rievoca il primo partigiano fucilato nell’entroterra chiavarese, un siciliano cresciuto all’ombra della poesia cavalleresca, grazie a quelle popolari rappresentazioni di “pupi” durante le quali ingenuamente il pubblico interloquisce, esprimendo odi e amori e, attraverso i sentimenti, una scelta etica di fondo. Il parlar siciliano è stato adattato alla comprensibilità e al ritmo del testo”. 6 Elena Bono Di tutti il più fortunato biondino di lungo viso, tu divenuto un giardino di foglie aria bambini gridanti che rinverdiscono il cuore quando è terra bruciata. Vengono i giorni Vengono i giorni che il cuore è una terra bruciata, polvere e fumo nuvole basse di piombo. Voi divenuti nomi di piazze e di strade corso Gastaldi largo Cesare Crosa via Buranello giardini pubblici C. Talassano. Ma il tempo è una casa di innumerevoli stanze sorvegliate e severe dove tutto è per sempre; chi ne possiede le chiavi può ritrovare ogni cosa: gesti e parole di un giorno qualunque. I vostri giorni di prima, il vostro andare e venire in queste piazze e strade divenute ora voi per ricordare la scelta che voi avete fatta a quelli che vengono e vanno con gesti e parole qualunque dove sta chiusa la scelta che anch’essi hanno fatta in queste stanze severe che non consentono fuga, ma tutto è per sempre. I vostri giorni di prima. Cesare Crosa il suo passo di vento e la musica dentro: Vivaldi, “Le quattro stagioni”, l’elettrico “Inverno” quegli aghi di ghiaccio e di gioia. Buranello che parla a un compagno battendo il giornale sul dorso a un leone del grande scalone di marmo dell’ateneo genovese. Aldo Gastaldi la fronte tranquilla più su della folla, quegli occhi di spada. Talassano il biondino di mento appuntito sempre piegato dal riso sul banco di scuola; fu allegro davanti alla morte, e tenne allegri i compagni. 30 aprile 1981 Stanze per Rinaldo Simonetti “Cucciolo” I Quel giorno come oggi gelidamente febbraio gocciava dai castagni; tu salisti a piedi nudi questa strada di sassi che a precipizio scendevi coi tuoi scarponetti da festa facendo scintille la domenica mattina tante volte tante volte, e la prima fu quando nel tulle del battesimo bianco venisti alla pieve sul seno ansante e fiorito della madrina orgogliosa – Voglio morire con loro Voglio morire coi grandi – abbracciando quelle ginocchia e fosti accontentato: dieci corpi più uno, undici corpi ed una corda su per la salita, a questa costa dove parlavi coi castagni cercando fragole e funghi i tassi e le lumache il muschio del presepio con le dita arrossate quante volte perdendoti a guardare le nuvole fumanti via tra i rami così tacite e diverse da ogni cosa della terra che nessuno le può imprigionare. Oggi si dice Messa fra i castagni all’altarino dell’Addolorata coi vostri nomi in oro e se tu potessi vedere le fiammelle che i parenti hanno acceso 7 Elena Bono per le balze sull’erba che è soltanto il sudore gelato di febbraio oggi a bagnare. O Bisagno O Bisagno, i tuoi occhi chiari ci guardano ancora. Ancora ci sta davanti invalicabile il tuo vasto petto ogniqualvolta ci chiami cosa che non sia libertà né diritto, né umano sentire dell’uomo. II Aldo Gastaldi, “Bisagno” che guidò la Resistenza ligure. Fucilato è una parola importante e tu te ne fai bello nel tuo cimiterino fra i candidi vecchioni e i bambini lattanti e le ragazze che invece dell’arancio ebbero una corona di fiori di carta. T’ascoltavano tutti con grave attenzione ammirati, ma che cos’è la libertà questo non ci riesci per quanto ti provi a spiegarlo e finisce che sempre con un grosso sospiro ti smarrisci a guardare nuvole e nebbie che vanno insieme alla luna. I morti nella terra i vivi nelle case, gli altri prendono sonno e soli ad ora ad ora gridano i galli. Supino ancora guardi quelle lunari nuvole andare di là dai castagni come una volta. Rappresaglia Ci sono dieci morti sulla strada. Il prete non li può benedire, le loro madri non li possono lavare. Stasera in ogni casa si prega per loro, ogni madre li piange come figli. Il cavallino nero a Cesare Crosa di Vergagni, “Micky” Un cavallino nero mi sembrasti la prima volta che ti vidi. Tra l’ombra e il sole te ne andavi per quella strada di montagna, il passo veloce gli occhi scintillanti e lo sten che portavi come un fiore. Non ci amavamo eppure tremavo sempre per te. Io lo sapevo lo sapevo da allora che non saresti ritornato insieme agli altri. III Nessuno te l’ha detto che un animo da re ci vuole per entrare negli alti palazzi della morte, non da qualunque porta alla rinfusa gettati ma dalla grande entrata a testa dritta graziosamente recando le ferite come fiori in dono mentre il Signore si affretta all’incontro giù per la scalea aprendo le braccia. Nessuno te l’ha detto, ragazzo di campagna. Ma così tu sei entrato. Molte favole Molte favole so per Rinaldo. Io racconto per te, ragazzo che non dormi. * Fucilato per la libertà nei boschi di Càlvari dove era nato pochi anni prima 8 Elena Bono Su una piccola armonica a bocca Fiori rossi Il vino Fiori rossi fioriscono alti sulle montagne. Il vento li muove lentamente li accarezza il vento che ricorda. Io bevo sola questo vino nero che insanguina la bocca, io piango sola di voi non ritrovando che le mute cose rimaste. D’uno il palazzo ed i ritratti tristi degli avi ad aspettare l’ultimo di quel nome; e d’un altro le reti con le scaglie di sole luccicanti e l’orto alla marina; di Berto la medaglia; di Cucciolo nient’altro che l’armonica, la piccola mazurka coraggiosa nelle sere di fame e di paura. E del pretino di Valletti il nudo Crocifisso levato a benedire le bocche già puntate dei moschetti. Rimangono le cose ed i vigneti sotto la neve, i vigneti del vino chiaro e cantante che v’accese le vene giovanette ed ora ha così amaro così greve gusto di sangue. Dicevi: – A primavera – Dicevi: – A primavera a primavera faremo un gran ballo sul prato di fianco alla chiesa, aprile dovrà ben venire –. Aprile è venuto: trenta e più primavere passate, non ci fu poi quel ballo dei partigiani sul prato, tu non lo sai. Tu non sai tante cose da allora. Tu ed io seduti ancora sopra il muretto a picco sulla vallata, lo sten qui posato tra noi, tu dondolando impaziente le gambe nel vuoto battendo indietro i talloni contro il muretto, il sole rosso negli occhi addosso l’odore di neve i verdi anni che hai sempre. La scelta Dicono ch’era sogno e che per nulla più di un sogno siete morti. E sia. Sogno per sogno in terra di dormienti scegliamo il sogno da sognare. Chi di bruto chi d’uomo. Sulla prescelta barca fare il viaggio e ritornare dove tutto ritorna. Né fiume può sostare né luna né musica. Può soltanto fuggire questa mazurca sperduto addio battendo l’ali ancora contro il mio viso e dileguare. Pensando ai ragazzi morti nella Resistenza in un giorno di neve del gennaio 1987 a Genova Pare tanto lontano il vostro passo adolescente per montagne di neve e bianca luce di questo nostro andare vacillante e senilmente cauteloso lungo camminamenti di ghiaccio ammonticchiato ed annerito, sotto pendenti ragnatele 9 Elena Bono di fumo rugginoso, e così lacerato, triste intorno è lo stridìo della città, questo sbattere d’ali uncigliate, vischiose come di grande, cieco pipistrello ferito. che anch’io fui preso schiaffeggiato e battuto. Agnello che non parla fui portato dove l’uomo voleva. Come schiavo ti han marchiato, Israele. Ridono nel vederti e ti mostrano a dito. Come bianco lebbroso ti hanno chiuso in un cerchio di spine. Israele Israele, piango io solo per te che fui deriso da quelli che passavano. Appesero una scritta sul mio capo. Strinsero le mie tempie con un cerchio di spine. T’han spogliato, Israele e ricoperto di panni senza nome. Le tue vesti hanno vendute e spartito i tuoi averi. Israele Israele, piango io solo per te che su un ciglio di strada anch’io fui denudato. Come pazzo mi avevano ammantato. Spartirono le vesti che mia madre aveva filate. Israele Israele, piango io solo per te. Pare tanto lontano; forse, o cari, non è. Memoria è fedeltà, disperato resistere da soli, comprimendo nel cuore ira schifo pietà paura fame di giustizia ma più forte la fame di giustizia che la paura. Tutto e sempre è resistere. Voi camminate, o cari, dentro di noi. Memoria è fedeltà, regno indiviso, spazio non violato dove va il vostro passo adolescente in sogno ancora ed in sorriso per montagne di neve e bianca luce. Israele Israele, io guardo e vedo bruciate le tue carni. Come sterpo e sarmento tieni accese le fornaci. Rosso il cielo di Maidanek, bacile che gronda sangue. O mia carne mia carne Israele. Io vedo le tue ossa fare bianca la terra. La tua cenere ingrassare le erbe lungo i campi. Ogni giorno tu mangi di quell’erba, Israele, che è tuo padre e tua madre e il tuo bambino che sorrideva. Tu mangi ed i tuoi occhi guardano le fornaci. Guardano gli occhi tuoi e non piangono più. Israele Israele, piango io solo per te che alle tue spalle sto piangente e seduto. E tu non volgi il viso a me che piango. O mio pianto mio pianto, Israele. Pianto del Cristo di Maidanek* Volgi il viso Israele, guarda se mi conosci. Israele Israele, chi siede accanto a te nel recinto spinato? Figlio del Re, tu non mi hai accolto nelle tue ricche tende. Io per te sono entrato nel tuo campo di morte. Sto seduto e piangente accanto alla tua spalla. Volgi il viso, Israele. Guarda se mi conosci. * Lager nazista situato nei pressi di Lublino, in Polonia. Come l’aquila dal Sairon sono scesi i tuoi nemici. Come il corvo sul carname. Con una mano i tuoi vicini ti hanno consegnato, con l’altra ricevono il tuo prezzo. Ti rinnega scuotendo il capo chi sedeva alla tua mensa. Israele Israele, piango io solo per te che per poca moneta anch’io fui consegnato. Disse: “Non lo conosco” chi mangiò di me alla mia mensa. Come bue che l’uomo porta ad essere sgozzato come bestia che grida nella rete t’hanno preso, Israele schiaffeggiato e battuto. Israele Israele, piango io solo per te Ancora un poco Restiamo ancora un poco sulla terrazza lunare. Più tardi scenderemo nella valle brumosa. Da Poesie. Opera omnia, Editrice Le Mani, Recco (GE), 2007 10