Il senso del peccato nella cultura odierna

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Il senso del peccato nella cultura odierna
IL SENSO DEL PECCATO NELLA CULTURA ODIERNA
La crisi del quarto sacramento oggi
GIOVANNI DEL MISSIER1
Procederò per tesi; ne esporrò 5 in forma sintetica e cercherò di
argomentarle con chiarezza e ordine; esse sintetizzano la mia posizione
personale intorno al tema che mi è stato assegnato e desidero sottoporle
al vaglio critico del confronto in assemblea, a partire dalla prassi
pastorale della quale i sacerdoti “in cura d’anime” sono i veri esperti2!
TESI 1: LA CRISI NON È OGGI, MA È INIZIATA PIÙ DI 50 ANNI FA!
Per rendersi conto di ciò, basterebbe leggere con un po’ di senso
critico il testo lapidario della Sacrosanctum concilium, n. 72 che recita:
«Ritus et formulae Paenitentiae ita recognoscantur, ut naturam et
effectum Sacramenti clarius exprimant». [Si rivedano il rito e le formule
della Penitenza in modo che esprimano più chiaramente la natura e
l’effetto del sacramento].
Ora c’è poco da scervellarsi per interpretare un testo così conciso e
chiaro: già all’inizio del Vaticano II (la costituzione sulla liturgia viene
promulgata il 4 dicembre 1963) i Padri conciliari sono concordi nel
riconoscere che la prassi del quarto sacramento, già allora, non
rispondeva pienamente alle esigenze della chiesa. Ai loro occhi appaiono
offuscate e compromesse la sua natura e il suo effetto, e ciò richiede una
profonda revisione delle modalità celebrative in uso – nella linea del
rinnovamento giovanneo. Si noti bene: ci si riferisce all’essenza del
sacramento, poiché natura ed effetti rappresentano la sua realtà
sostanziale, non qualcosa di periferico e di accidentale. Ciò tanto per
evitare una facile deduzione spesso rilanciata che vorrebbe identificare
nel concilio la causa di molti mali ecclesiali o, perlomeno, l’inizio di un
1
Professore straordinario di Teologia Morale presso l’ISSR “mons. Alfredo
Battisti” – Udine, professore invitato presso la Facoltà Teologica del Triveneto e
l’Accademia Alfonsiana di Roma.
2
Il testo riprende la relazione tenuta presso il Seminario di Castellerio (UD)
giovedì 22 gennaio 2015 per la formazione permanete del clero dell’Arcidiocesi di
Udine. Pertanto alcune espressioni risentono dell’originario carattere orale della
comunicazione. Il testo verrà pubblicato prossimamente sulla Rivista Diocesana
Udinese; è reso disponibile esclusivamente per gli uditori. © Tutti i diritti sono
riservati e la riproduzione è vietata.
1
inesorabile declino: in questo caso affermare post hoc, propter hoc è del
tutto errato e storicamente infondato.
A ulteriore riprova del fatto, si possono riportare le valutazioni
espresse da diverse ricerche sul campo eseguite negli anni
immediatamente precedenti o successivi al concilio, che ebbero a
sottolineare come le confessioni venissero percepite dal clero e dai laici
con un carattere meccanico e abitudinario, frettoloso e monotono,
formale e legalista, impersonale e individualista, a rischio di infantilismo
e alienazione, configurando una pratica sterile e inefficace, incapace di
incidere nella vita reale.
Infatti molti fedeli nell’accostarsi alla confessione
si riducono a ripetere schemi e formule stereotipe, meccaniche e irreali, in
un’accusa frettolosa, monotona, legalistica. La loro accusa non appare un
vero segno di conversione e rimane qualcosa di avulso dalla vita, poiché
con frequenza non entrano a far parte di tale accusa i loro veri problemi, e
gli atteggiamenti morali che assumono nella sfera della loro professione, dei
loro doveri di giustizia, della loro attività e delle loro responsabilità nei
riguardi del mondo. […spesso si assiste alla ripetizione del] modo di
confessarsi imparato da bambini: ripetizione di liste di peccati senza
comprenderne la portata, per cui la confessione diventa qualcosa di
meccanico o di legalistico che, per un uomo veramente adulto, ha poco
senso3.
Ciò è particolarmente sorprendente poiché lungo i secoli non si è mai
celebrato il quarto sacramento come nella prima metà del XX sec.;
eppure tutto sembra indicare che quando il progetto ecclesiale tridentino
entra pienamente a regime (con San Pio X), già si manifestano i segni
della sua crisi che richiede l’individuazione di nuove prospettive, quelle
che solo lo Spirito può indicare affinché l’annuncio evangelico e la
prassi ecclesiale non perdano rilevanza agli occhi della cultura
contemporanea.
Possiamo aggiungere alcune considerazioni più specifiche sul senso
del peccato: secondo le analisi storiche di Paolo Prodi, il concilio di
Trento ha utilizzato il foro interno come fine strumento di formazione e
di controllo delle coscienze, in vista della moralizzazione dei costumi del
Popolo di Dio.
Non era possibile per la chiesa tridentina stabilire norme giuridiche nella
vita sociale. Fu necessaria una riconversione profonda per sviluppare il
controllo sul comportamento delle persone, non più nell’ambito della legge,
ma nel campo dell’etica. La chiesa tende allora a trasferire la totalità della
sua giurisdizione nel foro interno, il foro della coscienza, attraverso la
costruzione di un sistema alternativo, dotato di norme, grazie allo sviluppo
3
J. RAMOS-REGIDOR, Il Sacramento della Penitenza. Riflessione teologica
biblico-storico-pastorale alla luce del Vaticano II, ElleDiCi, Leumann (TO) 19744
38-39 [19711].
2
della confessione e al rafforzamento del carattere giurisdizionale di questo
sacramento, concepito come un tribunale, soprattutto attraverso la teologia
pratica e morale4.
Con ciò non s’intende negare i molti buoni frutti ottenuti sul piano
pastorale in seguito a tale operazione, ma serve a rilevare come questa
strategia avesse l’obiettivo di far fronte al primo manifestarsi
dell’autonomia del soggetto moderno. Consolidando la pratica del
sistema penitenziale stabilita a partire dal concilio Lateranense IV
(1215), con l’obbligo per i fedeli di confessarsi una volta all’anno e di
norma al proprio parroco (cf. DH 1683), i confessori emergono come
soggetti privilegiati in relazione al discernimento delle norme morali e
delle loro applicazioni, non solo come consiglieri della coscienza dei
fedeli, ma anche come giudici dei loro atteggiamenti e dei loro
comportamenti5.
Uno degli effetti collaterali più rischiosi di questa impostazione,
rilevati anche da papa Francesco in Evangelii gaudium, n. 446, è di
trasformare l’esperienza della misericordia divina, immeritata e gratuita,
in un interrogatorio giudiziario segnato da un’atmosfera cupa e
inquietante, con conseguente inflizione di pene espiatorie che tendono ad
accentuare inevitabilmente la dimensione negativa del senso di colpa7.
Esso assume i connotati della voce di un’autorità inflessibile che solo
condanna, incapace di pietà e di tenerezza, «qualcosa di negativo e da
4
P. PRODI, Fourteen Theses on the Legacy of Trent, in Catholic Theological
Ethics, past, present and future, a cura di J.F. Keenan, Orbis Books, Maryknoll (NY)
2011, 41.
5
Cf. C. CAMPOS, La sfida del fare etica in un contesto di povertà e di
pluralismo, in Le sfide cruciali per la riflessione etica oggi. Atti dell’VIII Congresso
Internazionale Redentorista di Teologia Morale (Aparecida 27 luglio – 1° agosto
2014), a cura di G. Del Missier e A.S. Wodka, EMP, Padova 2015 [in stampa].
6
«Ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura
bensì il luogo della misericordia del Signore che ci stimola a fare il bene possibile. Un
piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita
esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti
difficoltà. A tutti deve giungere la consolazione e lo stimolo dell’amore salvifico di
Dio, che opera misteriosamente in ogni persona, al di là dei suoi difetti e delle sue
cadute».
7
Non si dimentichi al proposito il lungo procedimento ottocentesco riguardante
sant’Alfonso Maria de Liguori, riconosciuto prudente e benevolo patrono dei
confessori e dei teologi moralisti, che culminò nel 1871 con il conferimento del titolo
di Dottore della Chiesa da parte di Pio IX, itinerario dalle chiare intenzioni antirigoriste per arginare il fascino mai sopito di riemergenti tentazioni gianseniste! Cf.
A.V. AMARANTE – A. MARRAZZO, Santo, Dottore e Patrono. I quattro documenti
pontifici sulla glorificazione di sant’Alfonso Maria de Liguori, CSSR, Napoli 2009.
3
rifiutare, perché fonte di dolore e autopunizione che impedisce di
condurre una vita serena e gioiosa»8.
Nel corso del XX sec., quando il soggetto moderno raggiunge la piena
maturità e percepisce come inadeguata la prassi penitenziale che tende a
svalutare l’autonomia responsabile adulta, reagisce passando dalla
sottomissione al senso di colpa generato dalla proibizione, all’estremo
opposto, quello della sua negazione per liberare il proprio desiderio. Ma
«la negazione e l’ossessione della colpa, sono due modalità che risultano
entrambe problematiche anche sul piano psicologico: “Lo psicotico […]
è colui che non entra nel complesso di Edipo, mentre il nevrotico è colui
che non ne esce”»9. Pertanto, non è scontato che l’esito sia del tutto
positivo, soprattutto se la rimozione del senso di colpa genera
l’incapacità del contatto emotivo con il proprio vissuto interiore e
compromette la percezione empatica dell’altrui sofferenza. Alcune della
caratteristiche che connotano la nostra epoca – i tratti narcisistici e
nichilistici, la noia e il male di vivere connesso alle “passioni tristi”,
insieme alla violenza esplosiva e irrazionale – sono probabilmente un
segnale che il miglioramento sperato non è stato conseguito con la
semplice e illusoria negazione della colpa.
TESI 2: LA RIFORMA CONCILIARE DEL QUARTO SACRAMENTO NON È
STATA ATTUATA E QUESTO HA AMPLIFICATO LA CRISI
A fronte delle serissime problematiche rilevate, oggi noi continuiamo
a confessare (più o meno) come si faceva 500 anni fa, tanto che un
credente del XVII sec. “teletrasportato” nel presente avrebbe molte più
difficoltà a riconoscere e a celebrare gli altri 6 sacramenti – Eucaristia
compresa –, che non la Penitenza, salvo forse trovare confessori meno
insistenti nelle domande e più indulgenti nelle penitenze, e dovendo
provvedere da sé a interporre la grata tra penitente e ministro per tutelare
la propria riservatezza!
Ricordiamo che la riforma del rito della Penitenza ha conosciuto un
itinerario molto travagliato, durato 7 anni, con il rischio finale di non
venire alla luce, tanto che il primo gruppo di studio composto da insigni
teologi (tra i quali Z. Alszeghy, L. Ligier, K. Rahner e C. Vogel), dovette
essere sostituito in extremis da un secondo gruppo composto in
prevalenza da liturgisti, per assicurare l’esito del lavoro. In realtà, tra
tutti i libri liturgici quello sulla Penitenza appare quello più carico di
tensioni e, nonostante i Prenotanda presentino interessanti sottolineature
8
G. CUCCI, Il senso di colpa: una zavorra inutile?, «La Civiltà Cattolica» 165
(2014), IV, 123-136 [cit. 124].
9
Ivi, 131.
4
teologiche, appare chiaro che le istanze innovative dettate dal Vaticano II
risultano solo parzialmente recepite dal nuovo rito. Con simili premesse
non ci si poteva attendere un esito molto diverso da quello che oggi
riscontriamo: qualcosa non ha funzionato e continua a non funzionare in
tema di pedagogia morale e di pastorale della Riconciliazione… Il
motivo non è la riforma, ma la mancanza di decisione in essa e la sua
incompiutezza sul piano della prassi!
Un vero peccato, perché alcuni aspetti del rituale appaiono molto
interessanti e andrebbero attentamente ripresi per infondere nuova linfa
al tema di cui ci stiamo occupando. In primo luogo sottolineo la cornice
teologica che viene offerta nell’introduzione: in essa la Riconciliazione è
saldamente inserita nel mistero della salvezza come rivelazione del
progetto misericordioso del Padre manifestato in Cristo e attualizzato
nella chiesa per opera dello Spirito. La dimensione della conversione,
l’esperienza della remissione dei peccati e il ministero della
riconciliazione assumono così uno spessore teologico di grande
profondità, connotano “longitudinalmente” tutta la vita di fede che,
partendo dal Battesimo e culminando nell’Eucaristia, trova nella
Penitenza la forma apicale di una molteplicità di possibilità di
riconciliazione disponibili per i Christifideles peccatori.
Già Origene sottolineava questa “sovrabbondanza di occasioni per
accedere alla misericordia” presenti nell’esperienza cristiana, a fronte
delle lamentele degli Alessandrini che si lagnavano della durezza della
Penitenza e guardavano con invidia ai sacrifici espiatori dell’Antico
Testamento come espediente molto più sbrigativo per la remissione dei
peccati.
Odi quante remissioni dei peccati ci sono nel regime del Vangelo. C’è la
prima, quella con cui siamo battezzati in remissione dei peccati. La seconda
remissione è nella passione del martirio. La terza è quella che viene data in
grazia dell’elemosina. […] una quarta remissione dei peccati avviene per
noi per il fatto che anche noi rimettiamo i peccati ai nostri fratelli. C’è una
quinta remissione, quando qualcuno riesce a convertire un peccatore
dall’errore alla verità. […] è anche una sesta remissione c’è per abbondanza
di carità […] e ancora ce n’è una settima, anche se dura e faticosa, la
remissione dei peccati per mezzo della Penitenza10.
Noi addirittura potremmo aggiungerne altre (cf. DH 1743), ma ciò che
qui interessa far percepire è che in questo modo la confessione non
appare più come un iceberg a se stante, che fluttua in un contesto
estraneo, ma piuttosto come fons et culmen di uno stile esistenziale
cristiano, necessariamente improntato all’adeguamento continuo e
progressivo della vita personale alle esigenze del vangelo (metanoia),
10
ORIGENE, In leviticum Homilia, 2,4.
5
processo vitalmente collocato in una comunità credente che non è
estranea al percorso di conversione del penitente. La proposta di forme
celebrative comunitarie, presenti nell’appendice del rituale, pertanto, non
indica un’operazione estetica o cerimoniale, quanto il recupero della
consapevolezza originaria che la realtà ecclesiale è il luogo in cui il
perdono divino si rende accessibile attraverso la mediazione non solo del
ministro ordinato, ma anche del sacerdozio comune esercitato attraverso
«la carità, l’esempio e la preghiera»11 dei fratelli e delle sorelle. Essi
sono chiamati a porsi in solidale cooperazione con il laborioso itinerario
personale del penitente che aspira a recuperare la pienezza della
comunione con il Popolo santo di Dio.
Solo scorrendo l’indice del volumetto, inoltre, si coglie l’intenzione
pedagogico-pastorale di tradurre questo orizzonte teologico assai
complesso, nella prassi feriale della comunità. Cercando di rinnovare il
rito liturgico, ci si impegna a esprimere in forme attualizzate e
convincenti il senso del peccato e della conversione (erano state previste
anche formule differenziate per l’assoluzione), riconoscendo la varietà
dei contesti esistenziali, le esigenze delle diverse età in ordine a una
formazione continua della coscienza morale, gli accenti sinfonici che
l’invito alla riconciliazione può assumere nel succedersi dei tempi
liturgici, l’opportunità di complementari modalità celebrative, alcune più
adatte a sottolineare le conseguenze sociali ed ecclesiali del peccato12,
altre più indicate per prendere coscienza della responsabilità personale e
dell’itinerario interiore da compiere per allontanarsi dal male e per
consolidare la propria coerenza cristiana. In ciò mi sembra illuminante la
sottolineatura offerta in proposito alla soddisfazione, genere e portata
della quale: «si devono commisurare a ogni singolo penitente, in modo
che ognuno ripari nel settore in cui è mancato, e curi il suo male con una
medicina efficace. È quindi necessario che la pena sia davvero un
rimedio al peccato e trasformi in qualche modo la vita»13. Così si
configura un itinerario personale che prolunga la celebrazione del
sacramento nella vita, un impegno esistenziale e non solo un obbligo
cultuale o un dazio da pagare per l’assoluzione ricevuta.
Infine, la Parola di Dio: è la grande assente delle nostre celebrazioni
(qui il mea culpa è generale!), contravvenendo in tal modo a un preciso
obbligo (previsto espressamente anche nel rito della Riconciliazione dei
singoli penitenti14) e a uno dei pilastri della riforma liturgica voluta dal
concilio che ne sottolinea l’estrema importanza: «È necessario che venga
11
12
13
14
Lumen gentium, n. 11.
Cf. Sacrosanctum concilium, n. 109b.
CEI, Rito della Penitenza, LEV, Città del Vaticano 1984, Introduzione, n. 6c.
Ivi, n. 17.
6
favorito quel gusto saporoso e vivo della sacra Scrittura, che è attestato
nella venerabile tradizione dei riti sia orientali che occidentali»15. Ciò
comporta conseguenze molto problematiche in relazione alla
celebrazione e alla comprensione del sacramento: la mancanza della
Parola di Dio aumenta il senso di estraneità rispetto a tutte le altre
esperienze liturgiche, con il rischio di oscurare la dimensione celebrativa
e di mettere in questione l’azione di Dio verso il penitente quanto
all’illuminazione della coscienza e al ruolo della grazia necessariamente
implicata nel processo di conversione, accentuando il volontarismo
individualista. Se ci mettiamo anche un po’ di fretta e un setting spesso
a-liturgico, hai voglia a dire che si tratta di un gesto che implica la fede e
non un colloquio di consulenza psicologica, perché le assomiglia proprio
tanto, anche se è gratis!!!
A conclusione di questa seconda tesi, voglio però aprire una finestra di
speranza con due sottolineature positive e consolanti. La prima riguarda
il grande e buon lavoro fatto da tanti parroci nella nostra chiesa locale
con il consolidarsi di vere e proprie tradizioni riguardanti le celebrazioni
comunitarie della Penitenza, collocate in momenti “strategici” dell’anno
liturgico. Forse non hanno raggiunto l’efficacia e l’evidenza sperata dai
caparbi promotori, ma hanno contribuito non poco a modificare
positivamente la percezione del sacramento e la consapevolezza dei
credenti riguardo al suo significato ecclesiale. La seconda sottolineatura
sorge nella mia esperienza personale di prete (quasi 22 anni): il modo di
confessarsi degli adulti che si accostano alla confessione è maturato
molto. Infatti, si può notare una crescita di serietà e di introspezione, di
coinvolgimento degli atteggiamenti personali e degli ambiti esistenziali
significativi: famiglia, lavoro, comunità, ecc. Se alle volte è difficile
individuare materia, numero e circostanze degli atti peccaminosi, quello
che colpisce è la chiara volontà di verificare la propria fedeltà personale
al Vangelo nell’ambito di colloqui penitenziali profondi, animati da fede
sincera e dal desiderio di vera conversione. Certo, una simile
impostazione richiede tempi e modalità di riconciliazione molto diversi
da quelli della confessione frequente di devozione, ma non per questo
risultano meno fruttuosi sul piano sacramentale e meno efficaci su quello
esistenziale16.
15
Sacrosanctum concilium, n. 24.
Si potrebbe, inoltre, aggiungere che data l’attuale situazione di “autoselezione” dei penitenti che rappresentano i partecipanti più assidui e attivi
dell’Eucaristia, tra loro la frequenza del peccato mortale sia di fatto ridotta da
un’adesione di fede convinta e coerente, prevenuta dal frequente accostarsi al «cibo
spirituale della anime [che] alimenta e fortifica, […] antidoto che libera dalle colpe di
ogni giorno e preserva dai peccati mortali» (DH 1638). È utile anche ricordare che
secondo il concilio di Trento la stessa partecipazione al sacrificio eucaristico
16
7
TESI 3: È NECESSARIO RI-SIGNIFICARE L’ESPERIENZA DEL PECCATO
IN TERMINI COMPRENSIBILI PER L’ESSERE UMANO ADULTO
POST-MODERNO
Benché sia più che legittimo dissentire dall’opinione generale sulla
qualità della “benignizzazione” dei dieci comandamenti – come ha fatto
fuori dal coro Aldo Grasso sul Corriere della Sera, denunciando la
ridondanza delle aggiunte del comico toscano17 –, per noi che abbiamo
assunto il compito dell’annuncio la Parola di Dio nella forma del
ministero ordinato non è possibile disinteressarci alla forza magnetica
che la rilettura del testo biblico ha esercitato per due serate su un
pubblico di 10 milioni di telespettatori e, soprattutto, esimerci da una
analisi della strategia comunicativa adottata per interpretare il Decalogo.
In particolare rilevo due caratteristiche formidabili: la centralità della
libertà personale come chiave ermeneutica del testo (la legge come
indicazione vettoriale degli atteggiamenti che permettono di mantenere
la libertà ricevuta da altri come dono gratuito e sorprendente18) e la
cornice di senso generale della vita buona (indicata nella perorazione
finale del monologo con l’insistente invito a ricercare senza stancarsi,
sempre e dovunque, la felicità dimenticata e nascosta da piccoli19). Se
noi riuscissimo a tener presente costantemente e a far emergere con
chiarezza queste due dimensioni nella nostra predicazione, di domenica
in prima fascia faremmo più audience di Benigni!
Quello che voglio mettere in luce è la nostra difficoltà a rivolgerci agli
adulti in maniera comprensibile e significativa quando parliamo di
peccato e di riconciliazione. Abbiamo organizzato piuttosto bene il
primo livello della formazione della coscienza collocandola all’età giusta
(magari a prezzo di introdurre un sacramento supplementare
nell’iniziazione cristiana) e fondandola sullo schema legge/trasgressione.
Gli studi di psicologia morale ormai classici di Piaget e di Kohlberg ci
dicono che questo è conforme allo sviluppo del senso morale del
bambino in quella fascia d’età. Quando i ragazzi crescono, però,
sappiamo che il loro senso morale si evolve seguendo almeno due nuove
tappe: quella della socionomia nell’età adolescenziale (nella quale i
«concedendo la grazia e il dono della penitenza, perdona i peccati e le colpe, anche le
più gravi» (DH 1743).
17
Cf. A. GRASSO, Benigni, decalogo magnetico, ma ogni aggiunta sembra
ridondante, in http://www.corriere.it/cronache/14_dicembre_16/benigni-decalogomagnetico-ma-ogni-aggiunta-sembra-ridondante-a2d32fcc-84ff-11e4-bef0810da32228c1.shtml (consultato il 9 gennaio 2015).
18
«Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete
la verità – [che è una persona] – e la verità vi farà liberi» (Gv 8,31-32).
19
«Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel
regno dei cieli» (Mt 18,3).
8
criteri etici si strutturano nel contesto delle relazioni sociali, con un forte
investimento sui rapporti orizzontali tra pari) e quella dell’autonomia nel
tempo della maturità (caratterizzata dall’autoregolazione conseguente
all’interiorizzazione delle norme morali).
Ora le nostre capacità di intervento educativo, purtroppo, sono
inversamente proporzionali all’età degli interlocutori, e spesso siamo
costretti a riconoscere l’inefficacia dei nostri interventi pur carichi di
buona volontà, fino a ridurci al silenzio. Con gli adulti spesso glissiamo
il tema del peccato, salvo invitare negli avvisi di Pasqua e Natale a non
dimenticarsi della confessione, magari delegando il compito a un
giovane sacerdote straniero che studia a Roma e non ne capisce molto di
italiano… tanto per fortuna supplet ecclesia (can. 144!).
I problemi del male e della sofferenza, della violenza e dell’infedeltà
nelle relazioni, della sicurezza personale e del riposo, dell’apertura al
senso della vita e alla trascendenza non sono però questioni secondarie
nell’esperienza umana e tanto meno in quella di fede: il problema non è
far finta che non esistano, ma affrontarle in modo credibile e non banale.
Spesso i codici che noi possediamo per comunicare sono di tipo mitico e
religioso-naturale, ma alla luce del secolarismo essi risultano
incomprensibili o, peggio, ridicoli. Faccio solo un esempio: ricorrere alla
figura del diavolo quando si parla del peccato è certamente corretto sul
piano della teologia tradizionale (e forse per noi più semplice per cavarci
d’impiccio), ma può essere fuorviante se agli orecchi dei riceventi della
comunicazione la questione serissima del male nella storia si trasforma
in una favola horror o in una caricatura della responsabilità personale…
Altrettanto vale per il peccato: se si tratta solo di trasgredire una norma
rischia di risultare insignificante per la persona adulta; se invece
riuscissimo a far cogliere che si tratta di corrispondere a dimensioni che
strutturano le basi dell’esperienza umana e contribuiscono a realizzare
l’identità piena del soggetto, la cosa sarebbe un po’ diversa, poiché è in
gioco qualcosa di fondamentale come la libertà e la felicità del soggetto
umano adulto!
In questo senso, un recupero più consapevole delle categorie bibliche
rispetto a quelle della teologia razionale offre maggiori opportunità di
comunicazione efficace, come ha suggerito anche l’Instrumentum laboris
dell’ultimo Sinodo straordinario sulla Famiglia in merito alla legge
naturale. Penso concretamente alla ricchezza di significati sottesi alle
diverse espressioni bibliche che designano il peccato come tradimento di
un’alleanza con la potenza liberatrice del Dio vivente e operante nella
storia; come interruzione del rapporto con la fonte della vita che conduce
a un esito fallimentare con l’alienazione della persona; come negazione
della costitutiva relazionalità dell’essere umano, che nell’autosufficienza
radicale sperimenta l’incapacità di realizzare il proprio desiderio più
profondo; come debole accondiscendenza alla fascinazione del male che
9
conduce al ripiegamento sterile su se stessi e all’isolamento egoistico
dalla comunità; come connivenza con realtà strutturali che si basano
sulla violenza e sull’ingiustizia, ostacolando il progresso del genere
umano nella solidarietà e nel rispetto della dignità umana. Mi riferisco
anche alle opportunità che certi testi dell’Antico e del Nuovo Testamento
ci possono offrire in ordine alla formazione e alla catechesi degli adulti,
se opportunamente attualizzati in forme non ingenue o favolistiche.
Insomma, è una questione di educazione permanente del Popolo di Dio:
bisogna imparare sempre e daccapo a incrociare la sensibilità e la cultura
delle donne e degli uomini del nostro tempo, parlando loro di libertà e di
responsabilità, di compromessi consapevoli con il male e di infedeltà alla
propria dignità, in termini rinnovati e adeguati a chi ha raggiunto un
discreto livello di maturità umana e intellettuale, senza ripetere troppo
automaticamente stereotipi ormai datati.
Di questa sensibilità contemporanea è qui opportuno richiamare
almeno due aspetti importanti. Il primo riguarda la componente non
razionale del discernimento morale: le nostre azioni volontarie non sono
il prodotto di semplici ragionamenti logici, asettici e rigorosi, ma
nascono da una complessa interazione tra emozioni, sentimenti,
condizionamenti ambientali, convinzioni, abitudini, ecc. Le neuroscienze
ci confermano un dato della morale tradizionale20, spesso messo in
secondo piano da una prevalente impostazione razionalista dei nostri
discorsi morali: l’educazione affettiva ed emotiva, la capacità di dare
nome al proprio vissuto interiore, la possibilità di confrontarsi con il
comportamento coerente di figure di riferimento significative e la pratica
ripetuta di azioni moralmente buone (abiti virtuosi) sono elementi
fondamentali nella determinazione del carattere morale del soggetto, al
pari – e forse di più – della capacità di motivare in termini razionali le
proprie decisioni. Non serve che vi dica io, quanto analfabetismo in
proposito si riscontri oggi in giovani e adulti, ma anche quanto sia
carente l’offerta formativa in questo campo, anche da parte nostra!
Il secondo aspetto riguarda il modo di concepire oggi la responsabilità
morale. Per giungere ad affermare con convinzione: «Io ho peccato!»,
l’uomo contemporaneo di preferenza percorre una via negativa. È più
propenso a constatare gli esiti fallimentari della proprie scelte sul piano
esistenziale, rendendosi conto a posteriori di aver mancato il bersaglio
che si era prefissato. Percepisce più facilmente la frattura che si produce
fra oggetto del volere e ciò che costituisce un vero bene per sé, cogliere
l’inevitabile esito deludente degli atti rispetto al desiderio che li ha
ispirati, segno di una componente seduttiva e ingannevole del male che
20
Cf. M.M. CÚNEO, Decisioni, emozioni e bioetica. Contributi delle
neuroscienze, in Le sfide cruciali per la riflessione etica oggi, [in stampa].
10
non appare tale agli occhi di chi lo sta compiendo. Insomma, egli deve
toccare con mano come l’agire volontario non mantiene le sue promesse
quando si orienta al male, producendo invece l’esito di «una
deprivazione delle proprie possibilità di vita»21. Ed è proprio in questa
“delusione” generata dalla distanza tra volere originario ed esito
distonico finale che si può aprire lo spazio per l’assunzione della
responsabilità e per la richiesta di perdono. Questa, però, può nascere
solo da un’esperienza di fede, da una speranza religiosa: quella che il
male non abbia l’ultima parola sulla vita personale e che la promessa di
bene insita nella vita possa definitivamente compiersi come senso ultimo
della realtà.
È l’esperienza di Paolo di Tarso, che rende grazie a Cristo che gli ha
usato misericordia in quanto «è venuto nel mondo a salvare i peccatori, il
primo dei quali sono io» (cf. 1Tm 1,12-15). È l’esperienza di Ignazio di
Loyola che trovandosi in pericolo di morte, «pur esaminandosi con
diligenza per disporsi a morire, non riusciva a sentire timore dei suoi
peccati o di una eventuale condanna, ma provava grande confusione e
dolore ritenendo di non aver impiegato bene i doni e le grazie che Dio
nostro Signore gli aveva concesso»22. È l’esperienza di chi, già inserito
per grazia nell’orizzonte del Bene, non è più prigioniero della colpa
commessa, ma guarda a grandi potenzialità disattese, alle capacità e alle
risorse mal impiegate e chiede di poter ripartire, di avere un’altra chance,
un immeritato nuovo inizio.
TESI 4: È NECESSARIO RI-METTERE AL CENTRO LA MISERICORDIA DI
DIO: GRATUITA, PREVENIENTE E SOVRABBONDANTE
Questa priorità si può riscontrare con evidenza assoluta nei racconti
evangelici. È il caso di Zaccheo la cui conversione è resa possibile
dall’iniziativa autonoma di Gesù che si auto-invita a casa sua: è da
questo “moto primo” che si produce l’esperienza della gioia e si rende
accessibile la salvezza per il peccatore (cf. Lc 19,1-10). È il caso dei
discepoli nei racconti post-pasquali dove l’iniziativa è sempre del
Risorto: essa cancella il timore, produce gioia e attiva un processo di
rinnovamento della vita (cf. Gv 20,19-23). Pertanto dobbiamo affermare
che la causa efficiente della conversione è il rivelarsi sorprendente della
misericordia di Dio in Cristo Gesù, evento che investe la libera
disposizione di sé del peccatore, orientandolo alla riconciliazione. Infatti,
senza l’intervento discreto e preveniente della grazia, non si dà
21
G. CUCCI, Il senso del peccato, «La Civiltà Cattolica» 165 (2014), IV, 243256 [cit. 250].
22
IGNAZIO DI LOYOLA, Autobiografia, n. 33.
11
possibilità alcuna di accedere alla coscienza del peccato e alla richiesta
del perdono (a meno di non cadere in una forma di volontarismo semipelagiano!).
Alcuni teologi, per affermare la priorità dell’azione di Dio, vorrebbero
un’inversione della parti del sacramento23, in analogia a quanto accaduto
nel passaggio tra il I e il II millennio: se dalla penitenza canonica che
prevedeva la scansione confessione-penitenza-riconciliazione si è passati
alla forma auricolare di confessione-riconciliazione-penitenza, perché
non approdare alla sequenza riconciliazione-confessione-penitenza,
mettendo così al primo posto il perdono gratuito di Dio?
Non intendo sostenere questa richiesta e nemmeno articolare qui una
risposta, faccio solo rilevare che qualcosa di simile sul piano della prassi,
ma meno dirompente sul versante dogmatico, era sotteso alla proposta
formulata dal card. C.M. Martini sul finire degli anni ‘80, che suggeriva
di scandire la celebrazione della Penitenza in tre momenti: confessio
laudis, confessio peccati et confessio fidei. Il suggerimento pastorale
mirava a sottolineare che solo a partire dal riconoscimento del bene
presente nella vita e ricevuto gratuitamente (confessio laudis) è possibile
percepire il carattere profondamente problematico del peccato come
rifiuto consapevole della relazione con la Fonte del Bene (confessio
peccati), e che da esso non è possibile sollevarsi e prendere le distanze
senza affidarsi totalmente all’azione di Dio (confessio fidei).
Dobbiamo pertanto riconoscere che l’impertinente interrogativo
teologico pone una questione pastorale rilevante. Infatti, a partire da
quale esperienza è mai possibile che il peccatore inizi il suo percorso di
conversione e giunga a formulare la sua sincera richiesta di perdono per
essere riammesso nella relazione vitale con Dio e con la comunità, se
non chiamando in causa l’azione dello Spirito santo che opera lungo
tutto il processo che coinvolge la libertà del soggetto e culmina con la
celebrazione del quarto sacramento? Infatti, solo facendo esperienza
dell’amore senza condizioni offerto dal Padre a chi non ne vuole sapere
di esser suo figlio e lo ha considerato come morto (cf. Lc 15,24-32) è
possibile riconoscere efficacemente la portata distruttrice della
connivenza con il male. Ed è solo facendo esperienza dell’amore
paziente offerto dal Padre a chi non vuole saperne del proprio fratello e
non riesce a condivide la gioia del perdono paterno (cf. Lc 15,25-32),
che è possibile uscire da una falsa concezione religiosa improntata alla
paura, al giudizio e all’illusione dell’auto-giustificazione.
Come tematizzare questa che è certezza di fede e prima verità
salvifica, per comunicarla e renderla accessibile al Popolo di Dio?
23
Cf. p.es. M. MANZONI, La penitenza del cristiano. La radice sacramentale
della riconciliazione, Cittadella, Assisi (PG) 2004.
12
Lettori ben più autorevoli di me hanno raccomandato il volume di W.
Kasper, Misericordia24, al quale non posso che rimandare anch’io! Lo
studio del teologo tedesco muove dalla constatazione – a prima vista
sorprendente – che la buona notizia della misericordia divina, pur
occupando un posto centrale nel mistero della salvezza, appare trascurata
ampiamente nella vita, nella riflessione e nell’annuncio della comunità
credente. Risulta praticamente assente dalla trattazione sistematica della
teologia occidentale anche contemporanea; è stata fortemente offuscata
da un’ascesi improntata alla paura del castigo (salvo riemergere nella
devozione al Sacro Cuore di Gesù); marginalizzata nella prassi pastorale
almeno fino al concilio Vaticano II, la cui indole pastorale intende
tradurre proprio questa istanza nel concreto della vita della chiesa in
dialogo positivo con il mondo contemporaneo. Il rischio, ovviamente, è
quello di cadere nell’estremo opposto: predicare un buonismo che tutto
lascia correre e giustifica superficialmente, offrendo la caricatura di un
“buon dio”, tollerante e piccolo-borghese, al quale “va bene tutto”;
giungendo così a deresponsabilizzare il soggetto. Kasper, invece,
propone di riscoprire la compassione e la misericordia come «specchio
dell’intima essenza trinitaria»25, eminente attributo di Dio rivelatosi in
Gesù Cristo come Amore che si auto-comunica in modo gratuito e
condiscendente.
La misericordia è il lato visibile ed efficace verso l’esterno dell’essenza di
Dio, che è amore (Gv 4,8.16); essa esprime l’essenza di Dio benignamente
disposta verso il mondo e verso gli uomini, e di continuo, storicamente
piena di premure per essi, esprime la sua specifica bontà e il suo specifico
amore. La misericordia è la «caritas operativa et effectiva» di Dio, per cui
dobbiamo dirla la sua proprietà fondamentale. [… Al punto che la stessa]
onnipotenza di Dio si manifesta soprattutto nella misericordia e nel
perdono. Essa è l’onnipotenza del suo amore e della sua misericordia26.
Si tratta, allora, di far partire da qui, una “nuova evangelizzazione”,
cioè annunciare chiaramente con la parola e testimoniare con scelte
personali e comunitarie coerenti il volto di Dio che «si prende cura della
nostra povertà congenita e abissale»27, vicino alla nostra miseria e
partecipe delle nostre difficoltà, Dio amico delle donne e degli uomini
concreti, che possono trovare proprio nella sua misericordia: giustizia,
consolazione e piena realizzazione di sé. Un amore del genere suscita nel
24
W. KASPER, Misericordia. Concetto fondamentale del Vangelo – Chiave della
vita cristiana, Queriniana, Brescia 2013. «Questo libro del cardinal Kasper sulla
misericordia mi ha fatto tanto bene, tanto bene…» FRANCESCO, Angelus (17 marzo
2013) primo del suo pontificato.
25
KASPER, Misericordia, 144.
26
KASPER, Misericordia, 136; 138-139.
27
KASPER, Misericordia, 147.
13
credente stupore e gratitudine, ed è proprio riconoscendo che per noi, per
me Dio ha sofferto liberamente facendosi peccato per la nostra, per la
mia colpa, che può iniziare il cammino della conversione autentica.
Sulla stessa lunghezza d’onda, si esprime l’esortazione apostolica
Evangelii gaudium:
La salvezza che Dio ci offre è opera della sua misericordia. Non esiste
azione umana, per buona che possa essere, che ci faccia meritare un dono
così grande. Dio, per pura grazia, ci attrae per unirci a Sé. Egli invia il suo
Spirito nei nostri cuori per farci suoi figli, per trasformarci e per renderci
capaci di rispondere con la nostra vita al suo amore. La Chiesa è inviata da
Gesù Cristo come sacramento della salvezza offerta da Dio28.
Si tratta dell’aspetto esistenziale e sociale dell’annuncio della
misericordia, che ritengo opportuno e urgente non passare sotto silenzio.
L’opera della riconciliazione, infatti, corre il serio rischio di essere
marginalizzata nell’esperienza credente non solo perché è stata confinata
nel buio dei confessionali, ma anche perché l’abbiamo ormai delegata in
larga parte ad altri: agli psicologi per quanto riguarda i conflitti
personali; ai giudici per i conflitti interpersonali; ai sindacalisti e ai
politici per i conflitti sociali; ai mediatori culturali per i conflitti etnici e
religiosi; alla diplomazia per i conflitti internazionali; ai consultori e agli
avvocati per i conflitti familiari; ecc. Eppure la chiesa è con tutta se
stessa sacramento di riconciliazione, in quanto presenza permanente ed
efficace di Cristo nella storia dell’umanità, «segno e strumento
dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano»29.
La sua missione originaria è opera di riconciliazione; così come la
intende con estrema chiarezza S. Paolo: «Dio ci ha riconciliati con sé
mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era
Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli
uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. In
nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio
stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi
riconciliare con Dio» (2Cor 5,18-20). E non è un caso che il riferimento
ultimo dell’unità ecclesiale sia chiamato anche “sommo pontefice”:
artefice di ponti, capaci di unire versanti opposti e di resistere alla
tumultuosa corrente della divisione. A quanto pare, però, oggi nella
comunità chiamata ad accogliere e a riconciliare tutti, a rendere
testimonianza della misericordia definitivamente rivelata nel mistero
pasquale, scarseggiano proprio i “pontieri”, mentre si fanno sentire con
forza e frequenza maggiore gli zelanti fautori della contrapposizione.
Per questo papa Francesco ci ricorda con rinnovato slancio profetico:
28
29
Evangelii gaudium, n. 112.
Lumen gentium, n. 1.
14
Essere Chiesa significa essere Popolo di Dio, in accordo con il grande
progetto d’amore del Padre. Questo implica essere il fermento di Dio in
mezzo all’umanità. Vuol dire annunciare e portare la salvezza di Dio in
questo nostro mondo, che spesso si perde, che ha bisogno di avere risposte
che incoraggino, che diano speranza, che diano nuovo vigore nel cammino.
La Chiesa dev’essere il luogo della misericordia gratuita, dove tutti possano
sentirsi accolti, amati, perdonati e incoraggiati a vivere secondo la vita
buona del Vangelo30.
La nostra chiesa locale ha una lunga e fulgida storia in tema di
incarnazione del Vangelo nel tessuto umano e di apertura accogliente
verso le persone in difficoltà, avendone dato testimonianza anche in
situazioni drammatiche come quella del terremoto del 1976 che ha visto i
preti in prima linea nell’emergenza e nella ricostruzione, non solo come
funzionari del sacro, ma come fratelli e padri presenti in mezzo al
proprio popolo. Farne memoria ci è indispensabile per non dimenticare il
nostro stile pastorale peculiare e per continuare ad agire così senza
scoraggiarci (il “tipicamente friulano”: vê a cûr e stâ cu la int), anche al
fine di ispirare l’azione delle nuove generazioni nel senso di una
misericordia vissuta e sofferta, di una riconciliazione fatta non di parole
o di atteggiamenti di facciata, ma di opere concrete e di coinvolgimento
umano e cristiano insieme.
Tanto per chiarire che la proclamazione della misericordia divina e
della riconciliazione che punta all’unità, non può ridursi solo a scelta
comunicativa strategica o a proclamazione cultuale, ma deve essere stile
ecclesiale ed esistenziale, perché solo così si offre un fondamento
credibile all’annuncio evangelico!
TESI 5: È NECESSARIO RI-PENSARE E METTERE IN PRATICA NUOVE
MODALITÀ CELEBRATIVE DELLA RICONCILIAZIONE
Il quarto sacramento è davvero un tesoro sempre collocato in fragili
vasi di argilla: le diverse modalità celebrative che si sono susseguite
lungo la storia, di volta in volta sono riuscite a valorizzare solo alcuni dei
molteplici aspetti sottesi al grande dono della Riconciliazione,
lasciandone sempre altri sullo sfondo. Ciò però non deve scoraggiare
rispetto alla necessità del serio ri-pensamento delle modalità celebrative
che oggi s’impone. E non abbiamo bisogno di cercare lontano:
basterebbe ri-prendere in mano il rituale e sfruttare al meglio tutte le
possibilità che in esso sono contenute. Ovviamente non in forma di
stanca ripetizione di moduli pre-confezionati, ma come modelli da
attualizzare nelle diverse circostanze di vita delle nostre comunità. Mi
permetto di esporre solo qualche ingenua suggestione pronunciata “in
30
Evangelii gaudium, n. 112.
15
punta di piedi”, entrando qui in munere alieno, come si conviene nei
campi minati della liturgia e della teologia pastorale (soprattutto perché
in diocesi abbiamo persone preparate e molto più competenti di me in
proposito).
Concretamente mi riferisco all’utilità di rilanciare le celebrazioni
comunitarie del Sacramento, collocandole in momenti specifici dell’anno
liturgico, soprattutto infondendo nuova linfa alla modalità celebrativa
(spesso eccessivamente ripetitiva e modellata sullo schema della S.
Messa) e rivisitando la riflessione intorno a misericordia e peccato. Sulla
base di quanto ho detto sin qui, ciò richiede una ripresa dalle fondamenta
quanto ai contenuti e un adeguamento delle modalità comunicative
quanto alla qualità dei destinatari. La modalità comunitaria, inoltre,
dovrebbe orientare a far emergere la particolare rilevanza delle
dimensioni sociali ed ecclesiali del peccato e della conversione,
permettendo al Popolo di Dio di acquisire consapevolezza in ordine
all’importanza dell’esercizio del sacerdozio comune anche per la
riconciliazione dei peccatori.
Penso poi alla possibilità di celebrazioni penitenziali o di catechesi di
tipo esperienziale non immediatamente collegate alla celebrazione del
Sacramento (seppur a esso ultimamente destinate), occasioni capaci di
far maturare e riflettere le persone intorno al tema della conversione
(metanoia) come dimensione feriale della sequela di Cristo e della
testimonianza evangelica. E ciò si ricollega da un lato alla necessità di
una formazione permanente della coscienza morale dei giovani e degli
adulti adeguata allo specifico sviluppo psico-morale (cf. tesi 3), dall’altro
lato all’utilità di riflettere sul tema del male e del perdono sganciandolo
dall’immediata destinazione alla celebrazione del sacramento, scoprendo
i diversi livelli di compromissione con il peccato (atto veniale e mortale;
opzione fondamentale e categoriale) e le molteplici possibilità di
accedere al perdono divino, che possono meglio disporre, orientare e
valorizzare la Penitenza sacramentale. Così si eviterebbe di portare al
confessionale ciò che peccato non è: fragilità, stanchezze, dubbi,
difficoltà quotidiane, bisogno di confronto e consiglio, situazioni per le
quali la tradizione spirituale rende disponibili anche altri mezzi efficaci
di carattere non sacramentale.
Queste celebrazioni o catechesi penitenziali avrebbero come ricaduta
immediata una riscoperta della centralità della Parola di Dio nel processo
di presa di coscienza della colpa e nella sua salutare elaborazione in
senso di peccato, processo reso possibile unicamente dall’iniziativa della
grazia e dalla conseguente risposta della libertà. Permetterebbe, in
seconda battuta, di acquisire una migliore consapevolezza dell’identità
ecclesiale come “famiglia di peccatori perdonati”, la cui azione
missionaria è animata dalla gioia del perdono gratuitamente ricevuto e
dalla necessità di estenderlo a tutti, secondo logiche inclusive e non
16
emarginanti. In terzo luogo, potrebbe favorire un recupero dell’antica
forma della penitenza canonica, intesa come cammino laborioso di
impegno personale (ma non individualistico) per conformare la propria
vita alle esigenze del Vangelo. Attraverso un susseguirsi di appuntamenti
comunitari di annuncio, catechesi e gesti penitenziali, si potrebbero
utilmente attivare itinerari dilazionati sul breve periodo per la comunità
tutta o per gruppi mirati (p.es. nel tempo quaresimale); o su periodi più
lunghi per alcune esigenze specifiche: il ritorno alla fede di giovaniadulti battezzati non-credenti anche in vista della celebrazione di altri
Sacramenti (Confermazione o Matrimonio) oppure in vista della
riammissione alla piena partecipazione dell’Eucaristia di coloro che
pubblicamente e in modo particolarmente grave hanno compromesso la
propria coerenza cristiana. Stando a quanto è emerso dal Sinodo
straordinario sulla Famiglia, se verrà accolta la proposta di itinerari
penitenziali rivolti ai divorziati risposati31, analoghe esperienze potranno
essere pensate e realizzate per altre circostanze che richiedono di
sottolineare l’importanza di un discernimento prolungato, di un
cambiamento di vita che non può essere improvvisato, di una riparazione
delle ingiustizie e dei danni provocati ad altri.
Tali iniziative dovrebbero svolgersi non per iniziativa di singoli, ma
sotto la responsabilità dei Vescovi (o ancor meglio delle Conferenze
Episcopali) e non in forma isolata, ma con un contatto costante con il
resto della comunità locale e dovrebbero ovviamente concludersi con la
celebrazione del Sacramento. Meglio ancora si può prevedere una forma
particolarmente solenne del perdono, ispirata ai riti di riconciliazione dei
penitenti che nel Medio Evo erano collocati in prossimità del Triduo
Pasquale, magari con l’intervento del Vescovo nelle catechesi
intermedie, nella celebrazione conclusiva e nelle eventuali catechesi
mistagogiche che potrebbero seguire. In questo mutato contesto, con la
debita prudenza e in base alla decisione di chi è investito in autorità, non
vedrei priva di significato la ripresa della terza modalità celebrativa del
sacramento prevista dal rito, quella con l’assoluzione generale, al
momento di fatto limitata a situazioni del tutto eccezionali, ma che
opportunamente collocata accanto alla altre forme, potrebbe assumere il
ruolo di una ulteriore risorsa pastorale, atta a sottolineare la dimensione
ecclesiale della Penitenza e l’assoluta gratuità del perdono divino.
31
Cf. SINODO DEI VESCOVI, Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto
dell’Evangelizzazione. Relazione del Sinodo, n. 52, LEV, Città del Vaticano 2014.
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