Notturnonevrotico alla fragola di bosco

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Notturnonevrotico alla fragola di bosco
Proprietà letteraria riservata (Marco Valeriani)
Grafica e copertina: Stop Riccione - Sara Tordi
Finito di stampare nel mese di novembre 2008
da “La Stamperia Rimini”
Ai miei figli, Mattia e Michela
“Non c’è argine forte ai miei pensieri.
Li nutro come figli ormai grandi.
Li cullo come ossa antiche.
I miei avi rideranno con gusto”.
Notturno nevrotico alla fragola di bosco
Microracconti “al femminile”,
ovvero post tratti dal blog Inchiostro verde
2008
Un ringraziamento particolare a Manuela Gasperoni,
Nando Piccari e Sara Tordi
Questo libro, nel confermarci la consolidata attitudine di Marco
Valeriani ad essere brillante “narratore di vite vissute”, ne mette
tuttavia in mostra alcuni ulteriori tratti di capacità creativa; i
quali, almeno in parte, assumono il sapore della novità che ad
un primo, superficiale riscontro, potrebbero apparirci risiedere
essenzialmente nello stile narrativo; ma che, invece, trasudano
una tensione che è innanzitutto di contenuto e di sostanza.
La cosa è abbastanza sorprendente per chi si era ormai abituato
a conoscere il Valeriani cronista sì attento e all’occorrenza spigoloso, di quelli che non si sottraggono alla crudezza del narrare,
né conferiscono alla rotondità del loro “bello scrivere” alcunché
di consolatorio; ma che, nel farlo, paiono quasi volersi imporre
di rimanere almeno un passo al di qua del confine oltre il quale
le emozioni assumono i toni concitati del tormento esistenziale.
Al contrario, questo libro è invece un continuo “passare e ripassare” quel confine, lasciando ogni volta il segno indelebile del
graffio di una prosa che si fa aspra e insolitamente “puntuta”.
Sono racconti brevi, il cui incedere, all’inizio, ha quasi sempre il
tratto di una gradevole e rassicurante passeggiata narrativa;
salvo poi, ad un certo punto, assalirti con la veemenza di un improvviso pugno allo stomaco.
Non so se Marco condividerà quella che è soltanto una mia “impressione al buio”, ma questo suo scrivere... un po’ alla Charles
Bukowski di donne incontrate, sognate o temute, mi dà l’impressione che all’ultima pagina ci venga restituito un Valeriani
come uscito da un tunnel di fatica e di sofferenza: la fatica e la
sofferenza di chi, in realtà, ha scelto questo pretesto per calarsi in
quella che, per tutti noi, è la poco visitata profondità di se stessi;
per risalirne ora con qualche maggiore consolazione, ora più fra-
stornato di prima. Il risultato che ne consegue - potremmo dire
con un ossimoro - è quello di un “felice cortocircuito” fra il narrante e il narrato, dal quale si sprigiona la “scintilla energetica”
di una suggestiva e coinvolgente drammatizzazione, in cui il raffinato ed incisivo cronista diventa capace di osservare con crudezza momenti (o brandelli?) della propria vita, per poi riuscire
a raccontarli. Forse prima a se stesso che a noi.
Nando Piccari
GIULIA
Giulia è per me la consapevolezza del tempo che non ho
vissuto. Non ricordo nulla, o quasi nulla, dei 25 anni.
Preso com’ero dal raccontare agli altri cosa facevo, ho dimenticato di fermarmi e pensare. Non ho sostato a lungo
sul piazzale della giovinezza. Forse avvertivo già lo scricchiolare delle generazioni incombenti. All’epoca lavoravo
in un giornale. Convinto di essere “padrone del mezzo”
o del mondo. Per molti, compreso il sottoscritto, l’universo finiva davanti al portone dell’undicesimo piano del
grattacielo di Rimini. Anche gli amplessi, rubati dietro la
scrivania, diventavano fatti di cronaca comune. Nessuno
era al riparo da niente. Nel 1988, durante l’estate, arrivò
- da un quotidiano all’epoca concorrente - una bella ragazza mora: occhi grandi e azzurri. Fu una pericolosa
tentazione al tran tran delle settimane. Un’improvvisa
tempesta di passioni scosse gli uffici della cronaca. Giulia prese possesso della scrivania riservata alla Nera. E da
lì nacquero furibonde gelosie. Improbabili amori e liquefazioni di sangue. Devastante come il vento invernale,
portò al naufragio due giovani colleghi, sconvolti dalla
sua rotta. In collisione perenne.
PAOLA
Ha ragione Paola. Di stupidotti il mondo è pieno. Non ho
fatica a riconoscerle un certo savoir faire. Specie con chi nel mucchio mi ci metto anch’io - non ha un’idea precisa
del mondo femminile. Parliamo a frasi fatte. Con l’iperbole sessuale crediamo di poter santificare le nostre conoscenze in fatto di donne, invece…Invece siamo come una
masnada di feroci burattini. Ma quale conquista, suggerisce Paola, nessuna conquista è mai possibile se solo io
- sentenzia fredda - non rendo l’avventura probabile e
concepibile. Come darle torto? A 45 anni suonati - perché
un po’ invornito lo sono sempre stato - mi scopro come
quello che persi i vestiti dopo il tuffo in mare prova a nascondersi con le mani. Una faticaccia immane. Indescrivibile. Paola ora sorride. Mi osserva come il cane osserva
il padrone che ha un bel barattolo di carne a cubetti. Mi
sento uguale alla sogliola che sta per essere cucinata sulla
brace. Come la piadina che, dimenticata sul testo in ghisa,
si è bruciata malamente. Provo ad intervenire nel discorso
ma vengo zittito bruscamente. Che palle! Ora sta a vedere che solo lei sa come va il mondo...
Ci siamo. Ha finito la predica; ha ripreso a gesticolare
tranquilla. L’accompagno a casa. Parliamo del più e del
meno. Si accende un’altra sigaretta e dribbla lo sguardo
appoggiando la testa sulla mia spalla destra. Sa di selvatico (forse non si lava da qualche giorno). Sa di selvatico
ma non riesco a respingerla. Anzi, mi trattengo a stento
dal toccarla nelle parti più appetitose. Il primo passo lo fa
lei. Indaga con un bacio se sono pronto. Indaga con un
secondo ed un terzo. Poi rimango in balìa della sua eccitazione. E che sarà mai? Non c’è niente da fare. Conduce
lei il ballo e l’avanzamento. Sento le sue labbra sul…Ok
ricomincio daccapo…
FRANCESCA
È domenica. Il senso di smarrimento provato lungo tutta
la settimana mi ha finalmente abbandonato. Francesca
sta facendo la doccia. L’acqua scorre veloce, filtrando attraverso la “luce” della porta. Lentamente giro la maniglia così da potermi affacciare quel poco che occorre per
osservarla. Ha fianchi larghi, matrimoniali. Un culo perfetto, senza smagliature o cellulite. La schiena, spruzzata
di bagnoschiuma, rivela lunghe cicatrici. Due poco sotto
la spalla destra, l’altra vicino la spalla sinistra. Il chirurgo,
quella volta, non ha davvero risparmiato con il bisturi.
Nemmeno la plastica, fatta qualche tempo dopo l’incidente stradale, è riuscita a nascondere il ricordo di una
notte, sola al volante, quando l’alcool le annebbiò i sensi
fino a farla svenire. L’auto sbandò paurosamente e in
pochi metri si rovesciò nella scarpata lungo l’autostrada.
I pezzi di lamiera la colpirono come frecce avvelenate.
Il dolore e l’odore del sangue la rianimarono in modo
aspro e violento. Francesca non riusciva a muoversi nell’abitacolo, qualcosa - non capiva cosa - le stava scarnificando la schiena. Non avvertiva più il movimento dei
muscoli.
I soccorritori arrivarono in fretta ma la piccola utilitaria
non poteva essere tirata su senza provocarle altre sofferenze. La liberarono solo due ore più trardi. Quando
ormai - compreso lo schianto - credeva di non aver altro
da fare che raccomandarsi al Padreterno. Tre mesi d’ospedale. Due fratelli mai più ritrovati, un amore spezzato.
Iniziai ad amarla per caso. L’avevo incontrata al pub in
cui lavorava. Le piaceva parlare, raccontare di sè e degli
amici che ora, durante la stagione estiva stesi sul lettino
a prendere il sole, quasi la schifavano per via delle cicatrici sulla schiena. Da allora se ne stava sotto l’ombrellone sempre con la maglietta, non arrivando mai a
scoprire più dell’ombelico, il centro del mio nuovo
mondo.
PARENTESI
Sforbiciando con la mia auto la strada che dalla Riviera
sfrigola fino alle prime colline - l’asfalto misto alla ghiaina
fa un rumore infernale sotto i pneumatici - ho imparato
a ficcare il naso in alcune cantine delle quali avevo solo
sentito ‘nominare’. I vini bianchi delle mie parti - sono
cresciuto a Sangiovese e Acquadiccia (un vinello leggero
leggero ricavato dalla sciacquatura delle botti ideale da
accompagnare a piada e radicchio verde) - si contano
sulle dita di una mano ma non per questo ho mai mancato loro di rispetto. C’è un posto, fuori Coriano, addossato al fianco di una bella e verdissima montagnola: pare
rubato ai paesaggi del Chianti ma in realtà sta ad appena
una manciata di curve, forse un tantinello polverose, dalle
vie più trafficate della costa. Questa zona la chiamano
Valle delle Lepri. Non è fantasia: le lepri ci sono, eccome!
Lungo i sentieri macchiati dalle robinie, è facile imbattersi nell’animale con il quale pare impossibile scambiare
mezza parola d’intesa. Troppa fretta. Troppa l’abitudine
a saltare da un fosso all’altro. E, soprattutto, troppa la diffidenza provata verso chi, borbottando una canzoncina
stile anni Sessanta, sgambetta - non senza fastidiosi graffi
- tra i rovi del sottobosco alla ricerca di aspri frutti spontanei. Mio nonno, da parte di madre, faceva il muratore.
Ha lavorato pure in Germania quando gli italiani non
erano proprio ben visti dai ‘locali’. Il mestiere, all’epoca
risultava difficile trovare buone maestranze, l’aveva dunque abituato ad estenuanti giornate al freddo dei cantieri.
Quando rientrò in Italia, lasciare la cazzuola per i remi da
mosconaio gli parve una gran cosa. Tuttavia, figlio di
contadini qual era, la voglia di farsi il vino da solo gli rimase attaccata addosso. Ricordo le enormi casse d’uva,
comprata dalle parti di Covignano, ferme sotto il sole e
accatastate in bell’ordine vicino ai cancelli della casa ancora al grezzo. Come ricordo l’armamentario, così lo
chiamavamo noi acerbi ragazzini, utilizzato con l’unico
scopo di produrre il Sangiovese destinato al consumo invernale dell’intera famiglia. Certo, ho provato pure il piacere di pigiare i chicchi dentro un enorme tino di buon
legno odoroso. Attorno a quella casa resistevano tre o
quattro filari e l’uva, al momento giusto, diventava ‘nera’
o bianca a seconda delle qualità. Non grosse quantità,
ben inteso. Piuttosto un centinaio di grappoli - ricchi di
acini polposi e zuccherini - da mangiare all’occorrenza,
durante la merenda del pomeriggio o dopo cena, baciati
dalla frescura ‘lanciata’ dal mare dimenticato 300 metri
più in là. Rammento altresì la cerimonia dell’imbottigliamento. Con la cannuccia immersa nella damigiana il cui
collo, nel punto più alto, conservava mezzo centimetro
d’olio quale protezione dettata da antica consuetudine. Il
vino scendeva veloce nei fiaschi panciuti. Fiaschi sui
quali spingere a forza un bel tappo di sughero liscio e lucente. Da lì a qualche mese sarebbe sbocciata la festa.
Prima per ‘santificare’ il Novello, spumeggiante e stizzoso. E più tardi ancora, silenti e speranzosi - riuniti a tavola attorno a piadina e saraghina - alla corte
dell’Invecchiato, robusto compagno delle rigide galoppate notturne.
NICOLETTA
C’è puzza di piscio nel sottoscala. L’androne del palazzo
è buio. Nemmeno una lampadina, nemmeno la luce del
finestrone lassù in alto riesce a sventrare l’oscurità. Non
vedo un accidente. Ho picchiato la fronte due volte contro lo stipite della porta, quella dello scantinato. È largo
due metri, profondo tre. Sono riuscito ad infilarci un po’
di tutto. Anche la collezione dell’Uomo Ragno che facevo quando ero al Liceo. Anche la collezione dei fumetti
de “Il Tromba”, surrogato de “Le Ore” per me che a malapena avevo 500 lire in tasca da destinare ad altro. Nicki
- in realtà si chiama Nicoletta - è una ragazza fin troppo
muscolosa. Una corpo quasi androgino non le permette
d’indossare vestiti che a certe donne farebbero impazzire.
Ha due tatuaggi: il primo cinge come una corona la metà
superiore del braccio sinistro; il secondo sta poco più in
alto del polso e assomiglia ad un’aquila in caccia. Spesso
e volentieri c’incrociamo a metà scala: lei salta i gradini
a piedi pari, due alla volta, quasi a voler sottolineare la
sua atletica freschezza. Io, imbarbarito dal tabacco e dalle
tante sigarette fumate in passato, arranco appoggiandomi
alla ringhiera e sbuffando la maledizione per l’ascensore
sempre guasto o in eterna manutenzione. Passandole accanto è inevitabile il leggerissimo contatto con la pelle
delle sue mani, anche perché diversamente rovinerei tre
rampe più sotto in quanto senza appiglio nella salita di
fine serata. Rimango stupito dal buon profumo dei capelli; niente di speciale o di pretenzioso, piuttosto la fragranza di qualcosa che non ho mai sentito prima e che,
quasi fossi un cane al quale è stato rubato il naso, non
riesco ad associare a nulla. Quel profumo dà senso di liberazione, elimina l’inibizione del buongiorno e del buonasera. Forse, penso, su un’altra donna avrà effetto
diverso! Su un’altra femmina sfumerà in olezzo, in fetore
sudaticcio e nauseabondo. Penso…e mi emoziono.
CLOCK
“Clock”. La pietra che ho calciato rotola in avanti, anche
perché indietro difficilmente riuscirebbe a farlo. Rotola
più in là dove ambiscono i miei pensieri. Ho il cervello
umido di frasi sconnesse; più zone se ne stanno al caldo
delle meningi e sembrano non funzionare. “Clock”, l’ennesimo sasso spazzato dal piede arricchisce di polvere il
viottolo che porta a casa mia. L’estate ha fatto il giro della
boa, l’autunno non è poi così lontano come pare a qualcuno. Litigo con me stesso. Litigo con l’impazienza che
mi scava il cuore; con il bruciore di stomaco e la voglia di
una piadina alla porchetta. Mentre addento il pane all’uvetta penso a qualche caro amico lontano - o almeno così
credo - e comincio a ciondolare da un ricordo all’altro.
Oggi mi sono imbattuto in una ragazza dai seni giganteschi. Forse nemmeno lei si rende conto di quanto siano
enormi, soffocati e soffocanti. Il mio medico di fiducia ride sempre, che abbia una paralisi alla mascella! - ogni
volta che racconto queste cose mi guarda con la stessa
dose d’idiozia che io riservo a quanti - svegliato in mutande e canottiera in pieno riposo domenicale - si affaccia al cancello e mi chiede - strapazzando il dialetto - se
lì abita una certa Maria Grasia, quella che lavora come
cuoca alla pensione Cinsia a Marina Zentro. “Clock”,
gira la chiave nella toppa. Rientra mia moglie. Sudato
come un cammello le vado incontro. Piena di pacchi e
pacchetti è reduce da un incontro di boxe con le cassiere
dell’Iper. Per avere 12 euro di sconto ha comprato tagliatelle all’uovo per 50. Guadagno nuovamente il divano;
ho deciso di straripare sul morbido sorseggiando una bottiglia di minerale Uliveto (ma quanto fa pisciare st’acqua!!!); dalla credenza sbuca una scatola di amaretti.
Sono micidiali come bombe all’arsenico. Il mio stomaco
ha preso l’autostrada per incolonnarsi verso l’intestino.
Uliveto+amaretti, un connubio scacciafobie meraviglioso
e velenoso. Rivedo la ragazza con le grandi tette. Gira in
shorts e maglietta. Cribbio come riuscirà a gestire tutta
quella roba? Bah, lascio perdere…ho il testosterone a
quota 11.000. Torno sul divano, danno Magnum PI. Mi
addormento russando in cirillico. Domani è un altro
giorno.
LILIANA
L’avrò fatto 20 volte, quel maledetto corridoio. Contando
mattonella dopo mattonella. Dall’ingresso della sala operatoria alla finestra giù, in fondo agli ambulatori. Annoiato e stordito dai calmanti, fatico a respingere l’odore
del fumo che sale dalla pozzanghera di sigarette mai
spente, infilate nella sabbia color merda d’uccello. Finalmente, l’ho capito. Sono malato. Sono malato di depressione. Buio, sole, caldo, freddo. L’evoluzione delle mie
sensazioni è un’altalena fracassata a colpi di calci in culo.
Ho pensieri tremendi, abissali, così profondi da non riuscire a recuperare l’uscita, come quando sei al cinema e
all’improvviso il panico ti si attorciglia alla gola e comincia a stringere. Sono malato di paranoia, di voglia di
scomparire per sempre. Ho perso l’equilibrio dei 30 anni.
Ho dimenticato la passione dei 20. Prossimo alla soglia
dei 50 m’interrogo sul senso della vita: quante cazzate
ascolto alla radio. Stupisco, sepolto nella penombra della
camera, nel vedere tante belle signore dividersi una fetta
di calma e serenità. Assomigliano a lenzuola stese al sole.
Nella grande sala d’aspetto anche i quadri appesi alle pareti sembrano non voler disturbare il fitto e lunghissimo
conversare. Colori tenui, riflessi dagli occhiali di chi li osserva un po’ rincoglionito…“Si sta bene; dormo bene”,
mi dicono in coro tutte e tre. “Mio marito viene tutti i
giorni ma io non riesco più a parlargli. Ho dimenticato
pure il colore dei suoi occhi”. Piango come non ho mai
pianto. Infilo l’uscita del reparto, scendo le scale e mi lascio trasportare dalla frescura dell’aria condizionata. “Vo-
glio morire adesso. Voglio che qualcuno soffra per la mia
assenza”. Invece, nessuno lo farà perché sarò giustificato.
Avrò la giustificazione pure nel momento in cui Liliana
- la mia ex moglie - farà finta di addolorarsi davanti alla
bara. “Poveretto”, sussureranno i convenuti, “era cornuto
e malato di nervi”.
AMELIA
L’odore dello zolfo le sfrigolava nelle narici. Anche il cavallo di carta, ritagliato alla svelta, giusto per provare le
forbici, aveva un’aria stanca e dimessa. Non pareva affatto l’animale robusto, veloce e sinuoso che Amelia imparò ad amare sulle colline toscane. Oggi, lei, non
ricordava più il dolore - quello forte, nato e morto nel
petto - procuratole dall’incidente. In fabbrica, mentre si
puliva gli occhiali dalla polvere, un lembo della tuta s’incastrò nella cucitrice tirandola verso il grande ago metallico. Un’anima di grido e la punta arrivò a perforare il
fianco destro, sparpagliando il suo sangue sul tavolo da
lavoro. Un mese d’ospedale, un altro mese a casa, poi il
ritorno. Terrorizzata dal futuro, Amelia non esitò a licenziarsi per sempre, convinta che la vita le avrebbe riservato
qualcosa di meglio. Il suo corpo, quasi perfetto e ancora
incontaminato, lasciava trasparire una luce interiore forte
e avvolgente. Il calore dei muscoli, il profumo della pelle
sapevano - anzi, volevano - inebriare l’aria tutt’attorno.
Prima o poi un uomo, di quelli sereni e posati, si sarebbe
accorto di lei, del suo bisogno d’amore infinito. Il giorno
della Pentecoste la spiaggia risuonava come in alta stagione. La sabbia, intiepidita dal sole, massaggiava la
pianta dei piedi infondendo coraggio. Amelia si tolse gli
abiti, si sistemò il bikini perché coprisse quell’orribile sfregio e cominciò a camminare lungo la battigia persa nei
pensieri più lunghi e tristi. Un viaggio di qualche
ora...lontano dal caos e dal caso. Nessuno la rivide mai
più.
ORTENSIA
Il caldo afoso di quel maledetto luglio le stava rosicchiando le tempie. Come un orribile ratto - grigio e velenoso - le mangiava ogni forza residua, lasciandola
ciondolante. Ortensia si spostava da una stanza all’altra
in cerca di un respiro che l’aiutasse ad ossigenare i polmoni, sporchi e puzzolenti di tabacco. Sul soffitto friggeva il ventilatore comprato all’Iper. Consumava energia
senza imbrattare l’aria nemmeno con un semplice refolo.
Il suo compagno - Matteo - si era lasciato sfiancare dall’alcool la sera prima. Sdraiato a pancia in giù pareva più
pronto a vomitare che a risvegliarsi dal torpore etilico.
Grattandosi la pancia, scoreggiò con forza liberando il
fetore del suo intestino grasso e pidocchioso.
REGINA
“Non devo aver fretta. Nessuno, poi, riuscirà a capire che
sono stata io”. Regina ripeteva da ore sempre la stessa
frase. Come un automa sbullonato, sgangherava da una
parete all’altra in preda ad un’adrenalinica bulimia di parole, frasi sconnesse, pensieri ora tenui ora furibondi. Il
coltello che aveva usato per uccidere riluceva nell’angolo
destro dello studio, un po’ coperto dalle foglie di un fiore
strano, rosso, del quale, pur sforzandosi, non ricordava il
nome. “Cazzo, cos’ho combinato! Renato era così bello,
affettuoso, dolce e sensuale. Un atleta della scopata. Sapeva chiavare una donna per ore, senza stancarsi. No, al
volto non l’ho colpito. Voglio ricordarlo così, bianco e
con le guance un po’ bagnate di sangue”. Regina raccolse
le forze, allungò le mani in avanti per stiracchiarsi come
fanno i gatti dopo un lungo sonno. Capì la sua follia.
Capì che il cervello era ormai fuori contatto, dimesso da
ogni speranza di recupero. Spappolato dall’alcol e dalla
coca che ancora le sporcava il vestito. “E’ stata una notte
tremenda, amore mio. E’ stata una notte da incubo ed
ora sono sola. Incapace di scendere all’inferno. Incapace
di punirmi per l’atrocità commessa”. In un barlume di
lucidità aprì la finestra, osservò l’alba spruzzare il profilo
delle colline. Si asciugò un paio di lacrime, le ultime gettate in quella melma d’emozioni. Scavalcò il parapetto e
provò a volare, togliendosi la vita con schianto metallico.
CONSUELO
“Che schifo!”. Consuelo guardò il pene flaccido di Andrea e provò a pensarlo in erezione. Un membro enorme,
catartico, pronto ad invaderle la più piena intimità. A scavarle dentro fino a raggiungere la sua anima, ora furibonda per essersi portata a letto un individuo tanto rozzo
e antipatico. “Che schifo!” ripetè davanti allo specchio,
chiusa in quel minuscolo bagnetto che aveva tanto amato.
Che lei, solo lei, era riuscita a disegnarsi nelle mille notti
insonni in quell’estate di 4 anni fa. Consuelo veniva da
una storia d’amore convulsa. Uno strappo al cuore che
non aveva mai conosciuto prima e che la rendeva felice,
impaziente dell’orgasmo. Poi, il nulla le invase le membra. I muscoli non rispondevano più. La testa sembrava
una trottola senza rotta, disarmata. E dire che di uomini
ne frequentava fin dall’età dell’adolescenza. Così minuta
e flessibile, quasi un ramo d’olmo, eppure tanto resistente,
forte, cocciuta al pari di un mulo. Andrea si svegliò all’improvviso e non trovandola capì, da dietro la porta serrata, che Consuelo voleva dimenticarlo, allontanarsi il più
possibile da quel pene, da quel mondo fatto di dolore. Il
colpo di pistola risuonò secco, pungente, decisivo. In un
angolino di sangue color rubino Consuelo lentamente
moriva.
PAOLA 2
Settanta chili. Un metro e 50 d’altezza. Paola portava con
coraggio ed ostinazione quel corpo tanto ingombrante e
massiccio. Un coraggio che le aveva insegnato la madre,
donna tra le più ricche e capricciose della città. La piega
dei pantaloni era perfetta.
Le scarpe, di cuoio nero e lucido, riverberavano il tono
cobalto dei neon aziendali. Lungo il corridoio, superato
l’ingresso dell’archivio, Paola sostò un attimo accostando
l’orecchio alla porta. Distingueva perfettamente la voce
del direttore e della sua segretaria. Erano voci di piacere,
di un orgasmo ormai prossimo e liberatorio. Non seppe
rinunciare e rimase lì, come intontita dal caldo che le saliva dal pube e le irrorava energicamente le tette fino a
farla quasi soffocare.
FLAVIA
L’odore del gas si sentiva fin dalla tromba delle scale.
L’appartamento di Flavia era proprio sopra il mio, al secondo piano. Il custode provò a bussare. Un colpo, due
colpi, poi la prova si trasformò in un appello insistente a
mano aperta. Niente. Solo l’odore del gas. Nessuna risposta dall’altra parte. Allarmato dal silenzio, Enrico allertò i vigili del fuoco. Dieci minuti più tardi la porta
venne abbattuta. Finestre sigillate, rubinetti del forno
senza controllo. Flavia stesa a terra. Ancora in slip e reggiseno. Il corpo imbrattato dagli escrementi. Solo il
giorno prima, Flavia aveva conosciuto Enrico, studente
modello all’Università. Occhiali, giacca a righe, pantaloni di fustagno pesanti color nocciola. Certo non un fotomodello, eppure simpatico, cordiale. Di quelli ancora
capaci di gentilezze e passioni forti, travolgenti. Si sarebbe laureato in un paio di mesi al massimo e Flavia,
così sola e timida, le apparve all’improvviso, come la
neve a fine primavera. A lei piaceva toccarlo su una
spalla, lui sembrava gradire. Mancavano però le carezze.
Il loro amore si nutriva di sguardi, silenzi e piccole confessioni, fatte sottovoce, in punta di piedi…
FRANCA
La Fiat 500 color caffèlatte sfiata all’ultima curva. Il
borgo è in alto. Da lì, il mare è ancora più lontano, irraggiungibile. Sul portapacchi della piccola utilitaria un
grosso baule pieno di libri. Franca e Massimo si sono
contagiati a vicenda e lo hanno riempito fino all’ultimo
centimetro. L’enciclopedia - quella regalata dai nonni
quando lui aveva soltanto 9 anni - è rimasta intatta. La
copertina è di un delicato viola. I caratteri grandi e ben
leggibili. Sfogliata una volta o due - giusto perché col
tempo non se la mangiassero i topi - adesso era inutile,
sorpassata. Internet fioriva in ogni scuola e anche i libri,
prima o poi - azzardavano alcuni - sarebbero spariti. Massimo non la pensava così. Attaccato a quelle pagine, gialle
e un po’ ammuffite, ricuciva i suoi giochi, le sue avventure, le paure e le speranze. Lei, Franca, donna pratica e
rompiscatole, lo guardava con un alito di passione. La
vecchia casa della zia stava aggrappata alla collinetta d’argilla. In tanti l’avevano data per persa, scivolata giù, in
un canalone, assieme alla frana del ’59.
Invece si manteneva, scricchiolando nelle porte, sopra
quella schiena fatta di sassi e ginestre. Nello stesso, identico punto in cui, lo zio, la costruì 50 anni prima. Le
stanze enormi - nessuna con il termosifone - risuonavano
dei passi. Il soffitto, affumicato agli angoli, ora sembrava
più basso, avvicinabile. Anche il camino, che i due ragazzi rammentavano immenso, sopportava l’incuria riflettendosi nella grande specchiera sistemata sulla parete.
Il bimbo sarebbe nato fra un paio di settimane. Ma una
notte, Franca devastò quell’attesa pugnalandosi a morte.
Un’enorme chiazza di sangue rendeva scivolosa la salita
delle scale. Il commissario oltrepassò la porta d’ingresso
e si fermò di lato per osservare meglio la posizione del
cadavere. “Un altro delitto passionale” sbottò infastidito.
“un’altra storia maledetta”, ripetè ancora cupo in volto. Il
corpo di Massimo venne trovato 48 ore dopo, a testa in
giù nel pozzo. Nessuno lo cercava proprio lì e i vigili del
fuoco non ebbero vita facile per recuperarlo. L’odore del
fango, in quei giorni di pioggia, aveva coperto il fetore
della decomposizione. La casa della zia venne sigillata e
tornò all’oblìo, sopra quella schiena d’argilla fatta di sassi
e ginestre…
SILVANA
Il Cavaliere sapeva il fatto suo. Agitava le mani, anzi le
manone, rastrellando nell’aria pomposità incomprensibili ad altri. Silvana se ne stava zitta in un angolo. Ferma
e dritta sugli stivali dai tacchi mozzafiato, osservava la
platea, gremita da vetuste signore ingioiellate, ormai
soffocata dall’impazienza e dal dolore alla pianta dei
piedi. Quel tormento, per fortuna, non durò ancora a
lungo e così, salita in auto, recuperò a tutta birra la via di
casa, già assopita nei ricordi dell’orgasmo subito la sera
prima. Sulle mani si erano allargate due chiazze violacee, rammentandole un’allergia ai metalli della quale
aveva segreto solo di rado. Il tepore della casa la contaminò fin all’elastico degli slip. Il caldo la baciava sui seni,
sulla pancia e ancora più giù, tra le cosce troppo ossute,
disarmoniose e maldestramente cerulee. Il cellulare ebbe
un sussulto. Un tenero richiamo poteva spaventarla e renderla ancora più inospitale. “No” - disse a se stessa - “questa sera non posso”. Immersa dentro la grande vasca da
bagno, Silvana si spinse ben oltre la soglia degli affetti,
graffiando le mura del passato. Vide sua madre, ormai ridotta ad un cencio, ingoiare le ultime pillole rosse. Non
un gemito, non un’imprecazione. Il cellulare ritentò l’aggancio ma lei già galleggiava a culo in su.
KYCCA
Kycca scostò le lenzuola e scese dal letto. Come una furia
infilò la porta del bagno e girò la chiave nella toppa. Voleva rimanere sola. Muta. Annusare l’aria della notte che
le si faceva incontro da una finestra semichiusa. Agosto
ed un’incazzatura bestiale le intorpidivano i sensi, la
mente. Angelo - “vaffanculo lui e tutti gli stronzi del baracchino” - quel week end non sarebbe rientrato da Milano. Kycca provò a toccarsi un seno. Nell’oscurità del
bagnetto ne percepiva la forma, l’odore. Sentiva ancora le
carezze ed i baci di Angelo. Sentiva la lingua correre da
un poro all’altro. Sentiva i denti sgranocchiare quel piccolo monte di bontà. Eppure ora ne era disgustata, impaurita. “Non posso continuare a vederlo così”,
domandò a se stessa. Lo domandò tante volte fino a
quando, terrorizzata dall’astinenza delle risposte, cadde a
faccia in giù sul pavimento, colpita a morte nei sentimenti. L’indomani mattina, l’amica la rintracciò - completamente nuda - mentre rantolava qualche bestemmia
accanto al lavandino. I capelli biondi le si erano attorcigliati al collo. “Basta”, interrogò la compagna di casa,
“non voglio vederlo mai più”. Il cuore le si chiuse a soffietto. Pompò ancora 35 secondi. Fu così che cadde a
terra, colpita a morte da un infarto vero.
CLAUDIA
Tre colonne in cronaca. Taglio basso, a sinistra della pagina. Marco impaginò quella storia in tutta fretta. Il supermercato stava per chiudere. Si voltò appena a salutare
il capo che dal fondo della stanza, consunto dal tabacco,
stava gracchiando qualche rimbrotto. Il buio della piazza
lo sorprese. Fine novembre, nemmeno le 8 di sera. Pazienza, pensò, a casa ho un bel film da vedere. Al supermercato, nonostante l’ora tarda, Claudia resisteva dietro
al bancone dei salumi. Alta, fulva e formosa era la commessa che preferiva. Adorava i suoi gesti, anche i più insignificanti. L’eccitazione lo rendeva umile e sottomesso
al solo pensiero di lei che, unghie laccate e anellini al mignolo, stendeva le fette di prosciutto sulla carta oleata.
Ampie geometrie della mano da cui non staccare mai gli
occhi. L’affettatrice fischiava alle sue spalle. La carne s’arrendeva al filo di metallo, affilato e luccicante. Un flash
scattò sghembo. L’urlo di dolore frantumò l’attimo di
contemplazione regalato dalle splendide caviglie della
donna. La corsa concitata s’arrestò alle porte del Pronto
Soccorso. Claudia dolorante e stranita dall’effetto dei calmanti riposava su un fianco, semi addormentata. Il grembiule da lavoro ancora addosso, le macchie di sangue
schizzate a mò di ventaglio scarabocchiavano le gambe…
SONIA
“Oddio, il tram!”. Milano d’agosto è arroventata da un
sole metallico e bianco. Sonia, rossa e robustella, abitava
dall’altra parte della città “da bere”. Sua madre, ingiallita dal fumo di sigarette, non le risparmiava mai un secondo di ritardo. Sembrava godere delle mancanze della
figlia. Tre stanze più la cucina. Niente di esagerato, di lussuoso. Pochi soldi e poche manfrine…Sonia comprava i
vestiti al mercato. Stesso banco da anni e stesso chilometrico conto da sempre. “Ti pagherò. Un giorno ti pagherò”. Alessio sorrideva e le perdonava ogni cosa,
sapendo benissimo che mai sarebbe riuscita a saldare il
suo debito. La spensieratezza della ragazza lo rassicurava. Forse Alessio ne subiva pericolosamente il fascino.
Forse ne rimpiangeva, seduto sulla tazza del cesso, la geometria del culo, tanto imponente da metter su un condominio di 10 piani. Fu nell’agosto del 2000 che Alessio
provò ad interrogare Sonia per un invito “a pizza e pub”.
Stufo della stupidaggine degli amici cercava un’ancora
alla noia e alla solitudine. Sonia accettò senza esitare. Appoggiati al muretto del pub, Sonia restituì il bacio - doloroso e aromatico - che Alessio le spalancò in bocca.
Un’astinenza prolungata rischiava di avere la meglio sulla
civiltà dell’approccio. Qualche ora più in là i due ragazzi
precipitarono nel letto di lui, incasinato come incasinata
risuonava quell’esistenza. Si rubarono ogni goccia di
linfa. Amplesso dopo amplesso i loro corpi ammainarono l’armonia. Poi, grondanti di umori, si ferirono a
consonanti…
SIMONETTA
L’unica terrazza della casa di Simonetta dava verso la
spiaggia. Era un’abitazione semplice, dipinta in giallo.
Il giardino, sistemato un po’ a lato dell’edificio, nella stagione estiva pulsava dei colori di magnolie, gerani, ortensie, rose e piccoli fiorellini rossi, i boccadilupo. Simonetta
faceva la cameriera in un bar sul lungomare. Di lei rammento lo sguardo, spento e imbruttito da larghe occhiaie.
Il volto, tempestato dall’acne, raramente riluceva. Anche
i capelli, furbescamente riccioluti, non sembravano mai
desiderare la carezza di un uomo. Simonetta di ciò non
pareva soffrirne. Lei, raccontavano le amiche, non perdeva mai il desiderio di inoltrarsi alla vita. Di reagire alle
avversità e mostrare un coraggio fuori misura, a volte oltremodo inconcepibile, anche nelle situazioni più difficili
e intricate. Nonostante respingesse il desiderio alla femminilità il suo corpo cresceva e maturava. Da aspro e bitorzoluto era via via, quasi improvvisamente, diventato
tondo, soffice e vellutato. Ma, incattivita dall’odio e dalla
paura, mordeva come una vipera indemoniata al solo
pensiero che qualcuno la potesse amare o semplicemente
sfiorare…
MATILDE
Matilde, ispettore superiore in un istituto di vigilanza privata, si considerava appena “un pezzo di carne umana”.
Una donna scialba, spronata dal rancore. Dalla paura
della vita e dal fastidio - maturato fin da piccola - nei confronti di un padre violento e vomitevole. Calzava quasi
sempre stivali in cuoio nero, sopra ai quali lasciava scivolare pantaloni abbondanti, senza forma. Un petto vistoso,
fianchi esagerati, capelli ricci e scuri. A quindici anni
provò ad innamorarsi. Stefano, geometra del comune, sapeva il fatto suo. Intrigante e fascinoso, viziato e peccaminoso. Matilde lo incontrò durante un’esercitazione della
Protezione civile. Inguardabile, come al solito, quel
giorno ebbe un sussulto quando il ragazzo, perfetto nel
completo grigio scuro, le rovinò addosso all’improvviso.
Fu uno scambio chimico rapido, eppure indelebile. Il profumo dei due corpi si unì in una sola fragranza, ammorbando e scuotendo i sensi della donna. Gli occhi
rilanciarono l’intesa acciuffando fino all’ultimo respiro
di luce...Stefano ne ebbe coscienza. Intuì il disagio della
prematura femmina e affondò i canini, lunghi e spigolosi,
nelle cosce bagnate dalla pioggia...
VIOLA
Viola Antoine era una splendida ragazzina francese.
Padre italiano, madre d’oltralpe, aveva sempre vissuto,
fino all’età di 16 anni, alla periferia di Lille. Fu nel 1978,
o giù di lì, che i genitori, rammentando parenti marchigiani, s’affacciarono alla costa riminese pronti a regalarsi
la prima vera vacanza dopo anni di matrimonio non sempre felice. Viola, perfetta ed armoniosa in ogni più piccolo dettaglio, aveva la pelle di un bianco alabastrino
accecante. Una lunga chioma, color miele, osava appoggiarsi alle spalle, rese più robuste da una assidua frequentazione delle piscine. Lei, occhi verdi imbarazzanti,
guance dolcemente graffiate dal carminio, amava nuotare
per ore. Immersa nei suoi pensieri, capricciosi e volubili
al pari delle nuvole d’inizio giugno. Il mare, o meglio il
costume da bagno, la rendeva ancora più bella. Di un
candore irresistibile. E’ facile, ritornando al periodo delle
vacanze, ritrovare in memoria il disegno delle sue mani
affusolate, leggere…Un balsamo naturale…
TERESA
Teresa è di Capua. Ha il viso pieno di lentiggini. Indossa
pantaloni bianchi. Ai piedi stravaganti scarpette rosse.
Lucide. Il sangue delle sue vene tambureggia come la dinamite. Fa la giornalista. Piace agli uomini. È indipendente. Ama ritagliarsi ampi spazi di libertà. Arriva a
Rimini - siamo agli inizi degli anni ’90 - proveniente da
Piacenza. Sembra un alieno. Non ha confidenza con nessuno ed anche i suoi colleghi - specie i maschi - non l’apprezzano. Teresa ha un’arma segreta. Quando le piaci
diventa una garbata felina. Gira in tondo, più volte. Va
avanti e indietro come gli squali attorno ai naufraghi. Osserva, scruta. Sfotte l’antagonista. Lo deride. Lo rende
inoffensivo. Nei pantaloni, quasi sempre bianchi e strettissimi, si compone un culo nervoso, scattante. Sembra il
culo di una centometrista. Teresa ne fa un punto d’orgoglio. Lo esibisce, lo offre e lo ritrae, smarcandosi all’ultimo istante, neanche fosse un centravanti pronto a
calciare a rete. È astuta, insaziabile di notizie. È forte, determinata. Di una tenacia appenninica, quasi marmorea.
È capace di passarti sopra come un rullo compressore.
Poi di spostarsi e chiederti scusa. Chi le ha messo le mani
addosso ha dovuto fare atto di pentimento. È stato massacrato e sputtanato. Teresa difficilmente bacia. I suoi orgasmi sono spari nella notte. Violenti, assordanti. Tritolo
allo stato puro. Inondazioni in grado d’aprire crepe nella
determinazione del maschio latino. È bella, seducente,
profumata in modo fin troppo sfacciato. È una figa pazzesca!
LIVIA
Sorretta da un’intelligenza fuori dal comune, Livia studiava Storia antica all’Università. Il padre, commerciante
di stoffe a Cesena, voleva fare di lei, imbranata ed occhialuta femmina, la professoressa dei futuri scolari. S’iscrisse
alla Facoltà di Lettere solo in un secondo tempo, ormai
esausta per le notti insonni passate a trascrivere epigrafi
romane dal libro al quaderno, dal quaderno al libro. Posò
gli occhi su Matteo, invidiato studente di Farmacia, più
per necessità, fisica ed impellente, che per scommessa con
le amiche. Non fece in tempo a maturare il suo sogno d’amore che Matteo, giovincello sbruffone dall’arroganza
inquieta, volle fare di Livia il suo bersaglio. Una sorta di
tiro a segno psicologico contro il quale scagliare tutte le
sue frustrazioni. Fu un rito atroce quello a cui Livia si
sottopose, sperando nella clemenza del suo carnefice.
Matteo voleva sfidare i limiti della perversione e chiese
agli amici più fidati - il terribile branco - di trasferire la
ragazza, debole come un agnello, nella casa in collina
dove, per l’occasione, aveva organizzato una festa senza
regole né spettatori. Abusò della piccola Livia strappandole ogni briciolo di dignità. La ferì al volto, la sodomizzò ripetutamente fino a farla svenire, sanguinante, sul
pavimento. La notizia dell’accaduto fulminò le compagne del corso. Nelle maestose aule della biblioteca universitaria non si parlava d’altro. Matteo finì in manette il
giorno seguente. Livia, invece, scomparve dalla circolazione per oltre un anno. Di lei, diventata poi professoressa come il padre voleva, non si ebbero altre notizie fino
a quando, nel 1980, rossa di capelli, si trasferì a Riccione
per lavorare in una libreria accanto al porto. Non riuscì
più ad amare nessuno. E nessuno desiderò più amare
lei...
ALICE
Non c’era verso di tenerla ferma. Alice, biondina tutto
pepe innamorata del mare d’inverno, conosceva Rimini,
la sua Marina, le discoteche della collima meglio di
chiunque altro. Alice veniva da Torino, anzi da Settimo
Torinese. Occhi grandi, azzurri e liquorosi. Un’ombra di
rossetto le ingentiliva sempre le labbra, rosse e un poco
strette. Anche il naso la rendeva unica: narici felicemente
aquiline dalle quali sbuffare impazienza. Scese in spiaggia nella prima metà del giugno 1978. Pareva timida, impacciata. I capelli, all’epoca lunghi, scivolosi, sottilissimi,
svolazzavano attorno al corpo, perfetto, intonso come
una mela d’azzannare. I bagnini del 66 si voltavano al
suo passaggio. La spremuta di femminilità che era capace
d’iniettare nelle vene mascoline raccontava dettagli piccanti. E mentre Torino arruginiva lontano, tra i metalli
delle auto messe in fila sotto la calura piemontese, lei metà Sibilla e metà Sirena - addomesticava i muscoli al
sole della Riviera, nell’attesa. Così fu. Tra gli ombrelloni
sguazzò Alberto, marinaio lampedusano. Un giovanottone cresciuto a sgomberi e seppie. Il leopardo a caccia
d’antilopi; il lupo intento a scovare qualche boccone
ghiotto e confortante...
FEDERICA
Federica: 1 metro e 55 d’appagante, flessuosa, accogliente
burrosità mediterranea. Su quel corpo dalle forme felliniane, madre natura aveva scolpito due grandi seni.
Caldi, fragranti. Appena appena profumati di ciliegia. Ricordo il suo lento incedere dal fondo del corridoio. L’andatura millimetricamente dosata. Un piede avanti l’altro
perché il reggiseno rispondesse al meglio. Facendo vibrare verso l’alto quelle ampie colline dal profilo troppo
ingombrante. Federica amava in modo passionale. Si concedeva senza freni. Non conosceva argini ai suoi desideri.
Sfiniva gli uomini, anzi li sottometteva. Ne faceva schiavi,
convincendoli ai giochi più temerari. Il nostro primo incontro avvenne alla stazione della metropolitana. Io,
stanco e maleodorante, rientravo da un impegno in Fiera.
Lei, ritta sulle scarpe dai tacchi vertiginosi, fumava poco
distante. I suoi gesti s’arrotondavano attorno ai fianchi,
larghi e comodi. Pochi metri avanti e indietro, in attesa
del treno. Il sorriso le sgorgò imprevisto. Forse atteso da
chi, come me, durante il giorno aveva ingoiato chili di
polvere. Da chi, come me, si era letteralmente “sbriciolato” le palle nell’attesa dei clienti e desiderava ora un’anima di silenzio e un’ostia di riposo.
ANTONELLA G.
Antonella G. era quella che ancora oggi si dice “una
donna sgraziata”. Niente trucco. Niente cura per i capelli.
Nessuna crema. Nessun vestito adatto al corpo prosperoso. Antonella aveva un culo matriarcale. Degno di nota
solo quando, da primavera in avanti, osava posarlo sul
sellino della bicicletta provando a macinare, inquieta ciclista, oltre 30 chilometri fino al picco di Torre Pedrosa.
L’ho incontrata, una prima volta, alla Festa dell’Unità di
Loggio, un paesino striminzito, accerchiato da mura e
aperto al mondo attraverso un’antica porta medievale. Lei
stava al banco delle bevande, quasi apparecchiata sul minuscolo sgabello che i più dispettosi, convinti di crearle
disagio, le riservavano al lavoro (militante). Io, ancora
acerbo studente liceale, le stavo quasi davanti, contento
del mio posto di assistente alla cottura della piada. D’estate, quando il caldo era insopportabile e le mutande si
appiccicavano ai jeans, girare e rigirare la piadina sul testo
di ghisa sapeva di faticaccia. Eppure, memore dei consigli della nonna, tenevo duro. La festa s’affollava in genere
dopo le 8 della sera. Un lento serpentone di uomini e
donne raggiungeva l’area del campo sportivo - costruito
in barba alle leggi di gravità - ed iniziava a fare la fila per
assaggiare ora questo ora quello, magari sconfinando in
un po’ di brodetto di pesce, in qualche ciotola di poveracce o, perché no, di cozze nere e sbrodolose. I miei
occhi incrociavano quelli di Antonella ad ogni spazio che
la fila, involontariamente, lasciava. Erano occhi, i suoi,
dolci e profondi. Cominciai a corteggiarla una sera che il
lavoro (militante) languiva e che il cielo, più buio del solito, faticava a restituire la luce di timide stelline.
LA CUGINA DI ENZO
Come prima cosa ricordo il culo della cugina di Enzo.
Non era la parte anatomica alla quale tutti possiamo pensare. Bensì un trono barocco, un balcone amalfitano, un
comodo divano in cuoio da cui ammirare il paesaggio che
sta dietro le spalle. Lei lo sapeva. Anzi, sapeva perfettamente che i maschietti come noi si attaccavano a quel
culo, con gli occhi sgranati dietro la ringhiera, sperando
forse d’iniziare un viaggio che mai e poi mai nessuno
aveva osato sperare. Quel culo stava fasciato dentro ad
un camice a righe sottili. Un lembo di stoffa cucito alla
svelta, senza troppi fronzoli…Ma non capivamo se quella
florida, luminosa palla di muscoli e carne venisse inglobata da mutande extralarge o se le chiappe, di un vigore
mussoliniano, fossero appena baciate da striminziti fascicoletti di cotone. Cotone così elastico da diventare pericoloso nel momento del cambio della biancheria intima.
Si faceva, dunque, a gara per capire se e come quelle mutande potessero resistere all’impeto delle cosce, specie
quando tra una scorribanda e l’altra, all’interno della sala
da pranzo, qualche ospite, più alticcio del dovuto, si lasciava andare ad un’imprevista pacca. Così la fantasia
non smetteva mai di galoppare. Le nostre menti proseguivano nell’assedio adolescenziale, per nulla impauriti
dagli adulti che ci guardavano a vista consapevoli degli
ormoni in circolo alla velocità del vento.
PATRIZIA
Mia madre fingeva di non sapere. In realtà capiva - anzi
sapeva - che le mie scorribande pomeridiane, intraprese
pedalando come un matto sulla bicicletta da cross - avevano quale traguardo la casetta sul porto dove abitava Patrizia. Molto più grande di me - io stavo alle Medie, lei già
al Liceo Classico - Patrizia cercava d’esaltare quel poco di
femminilità sfoggiando due belle tette e un culo faraonico. Più che a un culo assomigliava all’armadietto a due
ante dove i miei tenevano i medicinali. Un culo importante, diciamo. Un culo non dirigenziale ma comunque
capace d’incutere timore e rispetto. Occorreva il suo permesso prima di passare la mano da una natica all’altra e
viceversa. Uno spazzolamento virtuale che l’accendeva
a tal punto da far rigare di rosso fuoco le guance. Era il segnale, preciso e inequivocabile, dell’arrivo del bacio. Intimo eppure delicato. Con quel grado di erotismo
sufficiente a provocare in me - appena dodicenne ma già
maliziosetto - una vistosetta erezione...
MONICA
Ho memoria anche di un altro culo. Quello di Monica.
Napoletana trapiantata a Rimini. Anche lei, nella stagione dei bagni, si concedeva un periodo lontano dalla
famiglia. Faceva la cameriera all’Hotel Cavalluccio d’Oro
a Marina Centro. Lo sapevo con assoluta certezza: non
indossava mai slip, né mutandine colorate. Nulla di nulla.
Quel culo, sodo e magnificamente formato, sfogava un’intima generosità. Un desiderio difficile da comprendere.
Monica racchiudeva in sé ogni raggio di sole, ogni sfumatura e aroma della sua profonda terra. Capelli scuri,
occhi grandi, impossibili. Labbra tagliate dai baci, carnose. I suoi seni, magistrali vocali di felicità, le donavano
una simpatia unica, irresistibile. I ragazzi - specie i romagnoli di 20 anni - al solo sguardo già sognavano di possederla furiosamente. Magari sul cofano dell’auto. Appena
appena coperti da un asciugamano. Nell’impossibile frescura di metà luglio, sotto i pini del grande giardino, c’è
chi rimase rapito dalla morbidezza dei suoi fianchi, dal
sobbalzare aitante delle sue frenetiche tette. Dai mugolii
di piacere - ora più forti e concentrici ora più tenui e sussurrati - che si mischiavano alla salsedine e al frinire delle
cicale. Un cuoco di Santarcangelo - alto e molto muscoloso - un giorno ebbe la disavventura d’incrociarla lungo
il corridoio del magazzino. La camicetta sbottonata, il
reggiseno nero e vistoso, le gambe lucide di sudore suonarono come un irresistibile invito. Non indugiò oltre
quando lei - scaldata dalla calura - indicò il rifugio tra le
cassette di frutta. Lui, ancora esitante, s’accorse dell’in-
credibile vigore che animava Monica - ormai ferocemente
scapigliata - allorché lasciati gli ultimi panni a terra s’offrì con la parte più zuccherosa del corpo.
CHANTAL
Il conflitto, mai risolto, con la madre lo porta spesso a
pensare al suicidio. Mirco ha un’aria struggente. Da bambolotto. Nessun lampo di vitalità striscia e ruga il volto.
Mai un accento fuori posto. Mai un’esagerazione. Garbato, assonnato nei complimenti. Maniaco dell’ordine.
Forse un po’ noioso o addirittura scontato. Chantal è, invece, l’altra faccia di un mondo che non tutti riescono a
percepire: ha l’irruenza, fresca e seducente, dei 30 anni;
un magnetismo artigianale, al quale risulta difficile sottrarsi; occhi di un azzurro cangiante. Feroci nel loro indagare. Chantal scruta. Parla a voce alta. Ride a gola piena.
Una risata profonda. Tambureggiante. Con l’eco. Mirco
ne è attratto, ma non sa come vendicarsi di quel sentimento, nato chissà come e chissà quando, che lo tortura
ora dopo ora fin dalla bocca dello stomaco. In preda alla
paura – sviene al solo contatto con la pelle della ragazza
– si rifugia di tanto in tanto nell’ultimo bagno della
scuola. Il più lontano dal corridoio. Il più silenzioso.
L’appartamento dell’animo. E qui fuma. Vomita sangue
e fuma. Vomita catarro e si dispera perché il suo sesso,
immobile quasi fosse una larva di sale, pur pulsando non
si convince ad indurirsi. “Flaccido membro. Inutile pertica!”, bestemmia. Chantal non lo cerca. Lo aspetta sul
primo gradino della scala a chiocciola che dal laboratorio di Fisica scende al giardino... Si sporge in avanti.
Prova a scuoterlo. Indugia nel ritrarsi quando lui, ormai
stravolto dal sudore, scosta con violenza il suo braccio
per poi precipitare nel vuoto. Clock…