L`ultimo Elfo_Capitolo 1 La pioggia cadeva da

Transcript

L`ultimo Elfo_Capitolo 1 La pioggia cadeva da
L’ultimo Elfo_Capitolo 1
La pioggia cadeva da giorni. Il fango gli arrivava alle caviglie. Anche le rane avrebbero finito per annegarci in
quel mondo trasformato in acquitrino, se non avesse smesso di piovere.
Sicuramente sarebbe morto lui, se non fosse riuscito in fretta a trovarsi un posto asciutto dove stare.
Il mondo era freddo. Il focolare di sua nonna era stato un posto caldo. Ma questo era stato tempo fa. Il
cuore del piccolo elfo si strinse per la nostalgia.
Sua nonna diceva che se sognavi abbastanza forte le cose diventavano vere. Ma la nonna non riusciva più a
sognare. Un giorno la mamma era andata nel posto da cui non si ritorna, e la nonna non era più riuscita a
sognare nulla. E lui era troppo piccolo per sognare. O forse no.
Il piccolo elfo chiuse gli occhi per qualche secondo e sognò più forte che poteva. Sentì sulla pelle la
sensazione dell’asciutto, di un fuoco acceso. Sentì i piedi che gli si scaldavano. Qualcosa da mangiare.
Il piccolo elfo riaprì gli occhi. I piedi gli sembrarono ancora più gelidi e lo stomaco ancora più vuoto. Non
aveva sognato abbastanza forte.
Si aggiustò il cappuccio fradicio sui capelli fradici. Aveva il mantello giallo da elfo. La canapa gialla, a trama
enorme, era pesante, ruvida e non riparava da nulla. Altra acqua gli si rovesciò sul collo e cominciò a
colargli lungo la schiena sotto la giubba fino ai pantaloni. Tutto quello che aveva addosso era giallo, ruvido,
fradicio, sudicio, consunto e freddo.
Un giorno avrebbe avuto vestiti morbidi come le ali di un passero e caldi come le piume di un’anatra,
colorati come l’alba e come il mare.
Un giorno avrebbe avuto i piedi asciutti.
Un giorno l’Ombra se ne sarebbe andata, il Gelo sarebbe indietreggiato.
Sarebbe tornato il sole.
Le stelle avrebbero ricominciato a brillare.
Un giorno.
Il sogno di qualcosa da mangiare ritornò a riempirgli i pensieri.
Ripensò alle focacce di sua nonna: di nuovo l’anima gli si strinse per la commozione.
La nonna aveva fatto le focacce una sola volta nella vita del piccolo elfo. Era successo all’ultima festa della
luna nuova, quando era stato distribuito mezzo sacco di farina anche agli elfi, quando la luna ancora brillava
Riparandosi gli occhi con una mano il piccolo elfo cercò di spingere lo sguardo oltre la pioggia.
La luce stava diminuendo. Tra non molto ci sarebbe stato buio. Doveva trovare un posto dove stare, prima
che la notte cadesse. Un posto dove stare e qualcosa da mangiare. Ancora un’altra notte nel fango con lo
stomaco vuoto, e non ce l’avrebbe fatta a restare vivo fino al mattino.
I suoi grandi occhi si strinsero per lo sforzo, mentre vagavano tra i grigi degli alberi che si alternavano con
quelli della terra e del cielo, poi si fermarono su un’ombra più scura che s’intravedeva. Il suo cuore sussultò.
La speranza rinacque. Si affrettò, per quello che poteva, con le gambe stanche che affondavano fino alle
ginocchia, con gli occhi fissi sull’ombra. Per un istante, mentre la pioggia si infittiva, temette fosse solo una
macchia di alberi più scura. Poi il tetto e le pareti divennero distinguibili. Sommersa dagli alberi, annegata
nei rampicanti, c’era una minuscola costruzione di legno e pietra.
Doveva essere stata un rifugio di pastori o di carbonai.
Nonna aveva ragione. Se sogni abbastanza forte, abbastanza a lungo, se la fede ti riempie, la tua speranza si
avvera.
Di nuovo la testa dell’elfo si riempì del sogno di un fuoco che lo scaldava. L’odore del fumo caldo con il
profumo di resina delle pigne gli riempì la mente al punto da riscaldarlo per qualche secondo. L’abbaiare
ringhioso di un cane lo risvegliò bruscamente. Si era confuso. Non era un sogno. C’erano davvero il caldo
del fumo e il profumo del fuoco di pigne. Non era solo nella sua testa. Si era avvicinato a un fuoco di
uomini.
Ora era tardi.
Le fantasticherie possono uccidere.
L’abbaiare del cane gli esplose nelle orecchie. Il piccolo elfo cominciò a correre. Forse poteva farcela. Se
fosse riuscito a correre abbastanza in fretta avrebbe messo abbastanza terra e fango tra lui e il cane.
Altrimenti gli uomini lo avrebbero preso e quello di poter morirsene in pace di freddo e di fame sarebbe
diventato un impossibile sogno. Uno dei suoi piedi inciampò in una radice, Ci si incastrò dentro. La sua
faccia cadde nel fango. Il cane gli fu addosso. Era finita.
Il piccolo non osava neanche respirare.
Gli attimi passarono.
Il cane gli alitava sul collo bloccandolo, ma non gli aveva ancora piantato i denti da nessuna parte.
– Lascialo stare- disse la voce.
Era una voce secca, autoritaria. Il cane mollò la presa. Il piccolo elfo riprese a respirare. Alzò gli occhi.
L’umano era altissimo. Sopra la testa aveva dei capelli giallastri avvoltolati come un cordone da tenda. Non
aveva nessun ti pelo sulla faccia. Eppure la nonna era stata categoria. Gli umani hanno pelo sulla faccia. Si
chiama barba. Era una delle numerose cose che li distinguono dagli elfi. Il piccolo elfo si concentrò per
ricordare, poi si illuminò.
– Tu essere un uomo femmina- concluse trionfante.
– Si dice donna, imbecille. – disse l’umano
– Oh, io chiedere perdono, donna imbecille, io fare più attenzione, ora ti chiamo giusto, donna imbecille. –
disse il piccolo, volenteroso. Era un problema la lingua degli umani. Lui la conosceva poco e loro erano
sempre così terribilmente suscettibili. Anche su questo la nonna era stata categorica.
– Ragazzo, vuoi finire male? - minacciò l’umano.
Il piccolo Elfo restò perplesso.
Secondo la nonna, l’assoluta mancanza di pensiero logico, più rapidamente riassunta nel termine stupidità,
era la fondamentale caratteristica che differenziava la razza umana da quella elfica, e sembrava ancora più
granitica di come la nonna la avesse mai descritta.
L’abissale scioccaggine della domanda lo disorientò.
– No, io non desiderare, donna imbecille- assicurò il piccolo elfo, – io non anelare finire male. Questo non
stare trai miei programmi- insistette.
– Se pronunci ancora la parola imbecille ti scateno addosso il cane: è un insulto- spiegò la donna
esasperata.
– Ah, adesso io comprendere- mentì il piccolo elfo cercando disperatamente di capire quale potesse essere
il senso del discorso. Perché l’umano aveva voluto essere insultato?
– Sei un elfo, vero? –
Il piccolo annuì. Meglio parlare il meno possibile. Dette un’occhiata al cane che, in rimando, ringhiò.
– Io non amo gli Elfi- disse l’umano.
Il piccolo annuì di nuovo. La paura si fuse con il freddo. Cominciò a tremare. Nessun umano ama gli elfi. Lo
diceva sempre sua nonna.
– Cosa volevi? Perché ti sei avvicinato? - chiese la donna.
– Freddo. - la voce del piccolo elfo si stava spezzando. Il freddo, la stanchezza, la paura si misero insieme. La
voce cominciò a tremargli. – La capanna…-La voce gli si spezzò di nuovo.
– Non farmi la scena del morto di freddo. Sei un elfo no? Hai i tuoi poteri. Gli elfi non soffrono né freddo né
fame. Possono non provare né freddo né fame quando vogliono. –
Il piccolo impiegò un mucchio di tempo a capire il senso delle parole, poi si illuminò.
– Davvero? - si informò contento – davvero io sapere facere quelle cose? E come si fa a farcela? – Non lo so- urlò la donna, sei tu l’elfo. Siamo noi, gli squallidi umani, i tonti, i sottosviluppati, quelli che
sono stati fatti per il freddo e per la fame. – La voce dell’umano divenne veramente cattiva.
Il piccolo elfo sentì la paura che straripava, gli arrivava alla gola, secca come un deserto, fino alla faccia che
si mise a piangere. Era un pianto senza lacrime, fatto di lamentazioni e singhiozzi terrorizzati. La donna ne
sentì la disperazione e la paura, come una sensazione di gelo tra le vertebre e la pelle della schiena.
– Ma cosa ho fatto di male? - si chiese la donna. Si sedette, Il piccolo continuava a piangere. Era un suono
straziante che penetrava dentro l’anima, con tutto il dolore del mondo.
– Tu sei un piccolo, vero? - chiese la donna
– Uno nato da poco- confermò il piccolo. – signore umano- aggiunse dopo avere cercato un termine che
non potesse suonare offensivo.
– Hai qualche potere? - chiese la donna – Dimmi la verità.
L’elfo continuò a guardarla. Nulla di quello che diceva la donna aveva un senso.
– Poteri? – Tutto quello che puoi fare-
– Ah quello. Be’, molte cose. Respirare, camminare, guardare, io sapere anche correre, parlare, …mangiare
quando ci essere qualcosa da mangiare…- il tono del piccolo elfo si fece nostalgico e vagamente
speranzoso.
La donna si sedette sulla soglia della capanna. Chinò la testa e se ne restò lì. Poi si tirò su.
-Tanto non avrò mai il coraggio di lasciarti qui fuori. Puoi entrare. Puoi stare vicino al fuoco. –
Gli occhi del piccolo elfo si riempirono di orrore e cominciò a indietreggiare.
– Ti prego signore umano, no…– E adesso che ti prende? – Il fuoco no: sono stato buono. Ti prego umano signore, non mangiarmi. – … Cosa? – Non mangiarmi.
– Mangiarti? E come?
– Con il rosmarino credo. La mia nonna dire così, quando lei stare viva. Se tu non stare buono arriva umano
e ti mangia con rosmarino.
– Diceva questo di noi tua nonna? Gentile!
La parola gentile entusiasmò il piccolo elfo. Quella la conosceva. Ebbe l’impressione di muoversi sul sicuro.
Si illuminò e sorrise.
– Sì, è vero, è così. Nonna dire: “Umani anche cannibali e questa essere la più gentile cosa che potere dire
su loro”. Questa volta era andata bene. Era riuscito a dire la cosa giusta. L’umano non si arrabbiò. Lo guardò a lungo,
poi si mise a ridere.
– Per stasera ho già da mangiare- garantì la donna, - puoi entrare.
Lentamente il piccolo elfo si trascinò dentro. Tanto fuori lo avrebbe ucciso il freddo. Morto per morto…
Un fuoco di pigne ardeva con tutto il suo profumo di resina.
Per la prima volta da giorni si trovava in un posto asciutto.
Sul fuoco c’era una vera pannocchia che abbrustoliva.
Il piccolo la fissò quasi in trance.
Poi successe il miracolo.
L’umano tirò fuori un coltello e invece di usarlo per scannare lui e farlo a spezzatino, ci tagliò la pannocchia
e gliene diede un pezzo.
Al piccolo qualche dubbio sull’umano restò. Forse non era così cattivo, ma forse lo stava solo mettendo
all’ingrasso in attesa di imbattersi nel rosmarino. Però la pannocchia la mangiò lo stesso. Se la mangiò
chicco per chicco, per farla durare il più a lungo possibile. Era notte alta quando finì. Rosicchiò anche il
torso, poi si avvolse nel suo mantello ruvido e umido e si addormentò come un cucciolo di ghiro vicino alle
fiamme che danzavano.