Untitled - Barz and Hippo

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Untitled - Barz and Hippo
scheda tecnica
durata:
120 MINUTI
nazionalità:
FRANCIA
anno:
2010
regia:
XAVIER BEAUVOIS
sceneggiatura:
ETIENNE COMAR, XAVIER BEAUVOIS
fotografia:
CAROLINE CHAMPETIER
scenografia:
MICHEL BARTHÉLÉMY
produzione:
PASCAL CAUCHETEUX, ETIENNE COMAR
distribuzione:
LUCKY RED
attori:
LAMBERT WILSON (CHRISTIAN), MICHAEL LONSDALE (LUC), OLIVIER
RABOURDIN (CHRISTOPHE), PHILIPPE LAUDENBACH (CÉLESTIN),
JACQUES HERLIN (AMÉDÉE), LOÏC PICHON (JEAN-PIERRE), XAVIER
MALY (MICHEL), JEAN-MARIE FRIN (PAUL), ABDELHAFID METALSI
(NOUREDINE), SABINA OUAZANI (RABBIA), ABDELLAH MOUNDY
(OMAR), OLIVIER PERRIER (BRUNO), FARID LARBI (ALI FAYATTIA),
ADEL BENCHERIF (IL TERRORISTA), BENHAÏSSA AHOUARI (SIDI
LARBI)
la parola ai protagonisti
Mattia Pasquini intervista Xavier Beauvois
Come ha sviluppato interesse in questo evento?
Quando ho visto la prima stesura della sceneggiatura mi è parsa molto interessante, proprio perché andava
oltre la religione. Ci siamo messi al lavoro e sono stato sempre più attratto dalla vita di questi monaci. Tutti
sono rimasti affascinati dalla loro realtà. Gente che mette passione nella propria fede ed esistenza e che è
molto coinvolta nella questione dell’essere.
Come ha reso quell’ambiente così ‘appartato’?
Mi sono ritirato in prima persona in un monastero e questo mi ha aiutato a rendere evidenti una serie di cose
che poi mi hanno aiutato nella direzione del film. Inoltre abbiamo avuto un consulente che ci ha preparati sul
Monastero. È stato di enorme aiuto. Ciò che è mostrato nel film è esattamente ciò che avviene nel
monastero. A volte siamo stati tentati di tagliare qualcosa, ma è stato lui ad insistere che mantenessimo il
giusto ritmo di queste persone impegnate nei loro voti. Il ritmo al quale vivono.
Per questo il racconto è tanto lento, soprattutto nella seconda parte? Non teme le reazioni del pubblico?
Siamo in una società nella quale ci si deve muovere in fretta, soprattutto stando a quanto mostrano le
pubblicità ed i videoclip. Credo che lo spettatore sia intelligente, tanto da capire il ritmo del film. Non ho alcun
motivo per fare correzioni e velocizzare il racconto, soprattutto visto che rispecchia la vita dei monaci, una
vita di contemplazione... Non avrei mai cambiato il ritmo, né ho mai avuto la tentazione di velocizzarlo.
La controversia sulla fine dei monaci però di fatto è evitata…
Perché non è solo un evento, ma un dramma. Mi stava a cuore principalmente la storia degli uomini, quello
che è successo è qualcosa di molto complicato. Per quanto mi riguarda sono orientato verso l’ipotesi
dell’errore dell’esercito, ma non volevamo rischiare di avventurarci nel film. E poi ho pensato anche alle loro
famiglie…
Di certo è un ulteriore esempio di quanto la religione sia uno strumento...
Ne abbiamo tanti esempi, come quello del dibattito relativo al Burka; spesso i politici usano la religione con
fini perversi. In ogni caso esistono problemi molto più importanti, concreti, che riguardano i senza tetto, la
crisi economica, gli agricoltori sull'orlo del baratro... Ho amici musulmani che sono davvero stanchi di questo
dibattito artificioso, stanchi di tanto ostracismo nei loro confronti.
E il suo rapporto con la religione com’è, cosa ne pensa?
Non sopporto i dogmi della religione, son tutti piuttosto banali. Il film però va oltre, ha un respiro più
universale e parla di comunicazione tra le persone, al di là della propria cultura. Rispetto chi crede, e penso
che la religione possa aiutare, ma è la gente che può aiutare la gente. La religione è un cuscino che ti fa
sedere più comodo. Il sacrificio è qualcosa di più disturbante però… Non tutti sono preparati a farlo.
Xavier Beauvois
Figlio di Francis Beauvois, farmacista, e della docente di moda Gabrielle Chovaus (che nella sua carriera si
dedicò anche alla politica come consigliera municipale socialista), nasce il 20 marzo 1967 e cresce a Pasde-Calais. Scoprirà la sua passione per il cinema durante gli anni dell'adolescenza, quando sarà spettatore
di una conferenza a Calais dello storico cinematografico Jean Douchet. Spinto da questa fortissima
vocazione, lascia il liceo prima di diplomarsi e va a vivere a Parigi, iscrivendosi all'allora IDHEC (oggi
conosciuto come Fémis). Purtroppo non verrà accettato e questo fatto metterà fortemente in discussione la
sua voglia di fare cinema, spingendolo più volte a domandarsi se il mestiere di regista è ciò che realmente
sogna di fare, non sa ancora che, decenni dopo, l'IDHEC lo richiamerà, ma non come allievo: gli affiderà una
cattedra come professore di direzione degli attori. Ottenuto un agente (Dominique Besnehard) farà amicizia
con Serge Daney che lo aiuterà ad avere una borsa di studio all'Académie de France a Roma. Nel
frattempo, comincia i suoi lavori come aiuto regista. Fortunatamente, avrà occasione di diventare il secondo
aiuto regista di un autore di serie A e intellettualmente impegnato come Manoel de Oliveira nel film Mon cas
(1986). E dopo questa piccola prova, sente già di avere tutte le carte in regola per firmare qualcosa di suo.
Comincia
così
con
il
cortometraggio Le
matou (1986).
A
seguire,
firma
il
suo
primo
lungometraggio: Nord (1991), che avrà un grandissimo successo di pubblico e critica. La pellicola, nella
quale peraltro lui recita, gli permetterà di essere nominato ai César per la migliore opera prima e come
miglior speranza maschile. Nel 1995 è tempo di un altro successo con N'oublie pas que tu vas mourir che
vince il Premio della Giuria al Festival di Cannes, cui seguirà nel 2005 Le petit lieutenant (2005) che vincerà
invece il Label Europa Cinemas. Dieci anni più tardi, firma Uomini di Dio, drammatica vicenda che narra le
gesta di sette monaci uccisi nel 1996 dal terrorismo fondamentalista islamico. Beauvois è anche un
prodigioso attore. Nel 1988 prende parte a Daniel endormi di Michel Béna, regista con il quale rimane in
buonissimi contatti. Nel 1991, infatti, tornerà davanti alla sua macchina da presa con Sotto il cielo di Parigi.
Ma lo si potrà vedere anche in: Le vent de la nuit (1999) con Catherine Deneuve, I testimoni (2007)
e Disco (2008) con Gérard Depardieu, ai quali si aggiungono i numerosi film di Jean-Paul Salomé di cui è
stato protagonista.
Filmografia
(1986) Mon cas (secondo aiuto regista)
(2000) Selon Matthieu
(1986) Le matou (corto)
(2005) Le petit lieutenant
(1988) Danier endormi (attore)
(2007) I testimoni (attore)
(1991) Sotto il cielo di Parigi (attore)
(2008) Disco (attore)
(1991) Nord (regista e attore)
(2008) Le tueur (attore)
(1995) N'oublie pas que tu vas mourir – Non
(2009) Villa Amalia (attore)
dimenticare che stai per morire (regista e attore)
(2010) Uomini di Dio
(1996) Ponette (attore)
(1999) Le vent de la nuit (attore)
Recensioni
Natalia Aspesi - La Repubblica
In settembre, nei cinema parigini, sette monaci trappisti circencensi, votati al silenzio e alla preghiera, hanno
sbaragliato i sontuosi incubi di DiCaprio (Inception), e i misteri seduttivi della Jolie (Salt). Nelle prime tre
settimane Uomini di Dio di Xavier Beauvois, ha più che triplicato il pubblico dei due filmoni americani,
sfiorando i due milioni di spettatori. È vero che per i francesi la storia, vera, è tuttora una ferita oscura e
tragica, ma ad assegnare al film a Cannes il Gran Premio è stata una giuria internazionale presieduta dal pur
bizzarro Tim Burton: e del resto al festival i monaci in saio bianco avevano già trafitto il cuore di signore
ingioiellate e critici burberi, di credenti, di agnostici e persino di atei. Nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996,
un drappello del Gruppo Islamico Armato rapisce sette (su nove, due erano riusciti a nascondersi) monaci
del monastero di Tibhirine, sui monti dell' Atlante,e due mesi dopo ne annuncia l'assassinio. Il 30 maggio
vengono ritrovate le loro teste, mai più i corpi. Il film racconta gli ultimi mesi di vita di questa comunità
religiosa, e proprio perché il regista si definisce miscredente, riesce a comunicare, anche, o soprattutto a chi
non crede, il mistero insondabile della fede. L' Algeria è in piena guerra civile, eppure i monaci vivono in
tranquillità e autosufficienza la giornata di preghiera, di canti, di lettura, di lavori agricoli e domestici: il loro
ordine non prevede il proselitismo, quindi c' è armonia, rispetto e fratellanza con gli abitanti del piccolo
villaggio musulmano. Il vecchio padre Luc (Michael Lonsdale) è medico e riceve gratis anche 150 pazienti al
giorno, il priore padre Christian (Lambert Wilson) che conosce a memoria il Corano e legge I fioretti di San
Francesco, porta il miele del convento al mercato, tutti insieme assistono alla festa per la circoncisione di un
piccino e ascoltano le parole dell'Imam, che paiono tanto simili a quelle del Vangelo. Il paesaggio che
circonda il monastero è paradisiaco, immenso, intatto, e induce a provare quel sentimento inquieto d' incanto
che oscuramente avvicina a un mistero, forse proprio quello della fede. Dopo il massacro di un gruppo di
lavoratori croati da parte dei terroristi, ai monaci viene imposto o di accettare la protezione dell' esercito, o di
tornare in Francia. «È stato il colonialismo francese la radice di questa guerra civile», dice un militare al
priore, che rifiuta «la protezione di un governo corrotto» (un governo militare imposto da un colpo di stato per
non riconoscere la vittoria elettorale del Fronte Islamico), mentre il dubbio sull' opportunità di restare
comincia a inquinare la serenità e la compattezza della comunità. Forse un quasi certo suicidio collettivo è
insensato, la fede non pretende il martirio: eppure alla fine, i monaci decidono che vale la pena di restare,
sapendo che non ci sarà futuro per loro. Ci sono scene indimenticabili: il terrorista ferito viene medicato nel
convento, e pare il Cristo del Mantegna, però con la faccia di Che Guevara; nella notte di addio alla vita, i
monaci si riuniscono attorno alla tavola come nell'Ultima Cena di Leonardo da Vinci, contro la regola si
stappano due bottiglie di vino, e il disco scelto è quello fragoroso del Lago dei cigni di Ciaikovskij. I visi
s'illuminano nel sorriso, si spengono davanti all'angoscia che li attende. In primo piano, ad uno ad uno, solo
quei volti, quelle teste, che due mesi dopo si troveranno mozzate ai bordi di una strada. È un' efferatezza
che Beauvois ci risparmia: rapiti e spinti su un sentiero di montagna i monaci a poco a poco svaniscono nel
chiarore notturno e funebre della neve. Nel suo testamento spirituale (pubblicato in Più forti dell' odio, editore
la Comunità di Bose) padre Christian scrive (e dice dallo schermo): «L'Algeria e l'Islam per me sono un
corpo e un'anima... Anche a te, amico dell'ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi, dico grazie...
e che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due». Quasi
quindici anni dopo quella strage non si sa ancora chi furono i veri responsabili. Solo l'anno scorso è stato
tolto il segreto di Stato, e l'inchiesta giudiziaria è in corso. La tesi ufficiale del governo algerino è che
colpevole fu la GIA di Djamel Zitouni; altri che lo stesso Zitouni fu manipolato dai servizi algerini per
screditare i ribelli, mentre un generale francese sostiene che fu l'esercito algerino a bombardare il campo
dove erano prigionieri i monaci, e a ucciderli. Il presidente Sarkozy ha chiesto la verità.
Roberta Ronconi - Liberazione
Arriva nelle nostre sale, dopo il sorprendente successo in quelle francesi, Des Hommes et des Dieux
("Uomini di Dio" la traduzione italiana) di Xavier Beauvois.
Ispirandosi liberamente ai fatti di cronaca algerini del 1996 - la scomparsa/uccisione di sette monaci a
Tibhirine rapiti da gruppi islamici estremisti - il film parte da alcune settimane prima del tragico evento. Con
rispetto e accuratezza mostra la vita di lavoro e preghiera della piccola comunità cristiana, perfettamente
inserita in un villaggio islamico grazie all'amore - ricambiato - con cui i frati si integrano nella quotidianità e
nei bisogni dei poveri abitanti. Poi, l'arrivo della minaccia: i terroristi chiedono a tutti gli stranieri di lasciare
immediatamente il paese. Nel convento sperso tra i campi, gli animi vacillano. La possibilità di morire dà ai
monaci licenza di lasciare quel luogo e continuare l'opera di Dio da qualche altra parte? O il compito dei
pastori è proprio quello di non abbandonare il gregge quando i lupi stanno per avvicinarsi? Queste le
domande che i frati condividono. Ma ci sono anche quelle individuali, segrete, le paure e i tremori che
colgono ciascuno di loro, messo di fronte alla morte. Il resto è storia. La bravura di Beauvois e dei suoi
magnifici interpreti (guidati da Lambert Wilson) è di permetterci di vivere i percorsi interiori dei frati, dalla
gioia e la letizia, alla paura e al dubbio, dallo sperdimento alla luce e viceversa. Un film incantato, un vero
regalo per l'anima e le sue pene terrene.
Fabio Ferzetti - Il Messaggero
Erano sette ma non erano samurai. Erano monaci e non sapevano che sarebbero diventati martiri. In realtà
non erano nemmeno sette, erano nove e celavano sotto il saio età e storie molto diverse, ma quando gli
integralisti vennero a prenderli due riuscirono a nascondersi e così le vittime furono sette, un numero
ricorrente nelle mitologie sacre e profane. I sette monaci di Tibhirine, Algeria. Uccisi fra il 26 marzo 1996,
data del loro rapimento, e il 30 maggio, quando vennero ritrovati i loro resti. Solo le teste, non i corpi, come
si sarebbe scoperto grazie all'insistenza di un vescovo (???) che impose alle autorità di riaprire le bare.
Come sia andata davvero forse non lo sapremo mai, fino a un anno fa sul caso pesava il segreto di Stato.
Per il governo algerino il massacro fu opera degli integralisti di Djamel Zitouni. Per altri Zitouni era
manipolato dai servizi segreti. O forse i monaci furono vittime casuali di un bombardamento dell'esercito
algerino. Ma tutto questo nel bellissimo film di Xavier Beauvois, già visto in Francia da quasi 3 milioni di
persone, non c'è. In compenso c'è qualcosa di molto più sfumato di un'inchiesta giudiziaria, reso con una
forza,
una
sobrietà,
una
verità
d'accenti
che
sono
merce
rara
nel
cinema
d'oggi.
C'è la vita quotidiana di quegli uomini che avevano scelto un paese islamico per la loro missione. C'è il loro
impegno dentro e fuori dal monastero, le preghiere in latino e in arabo, il lavoro con gli abitanti di quel
paesino fra i monti dell'Atlante, l'incanto di un paesaggio così vasto e incontaminato da generare insieme
contentezza e sconcerto, il monaco dottore (fantastico Michel Lonsdale) che cura gratuitamente chiunque ne
abbia bisogno (compresi i terroristi, certo). E poi lo sgomento che si impadronisce dei monaci quando gli
integralisti iniziano a insanguinare la regione, e capiscono che come cristiani anche loro sono bersagli
esemplari; l'attesa trepidante di un incontro che sperano non avvenga mai; la scoperta non meno terribile
che perfino in quell'incontro possono trovare modo di confermare, chiarire, rafforzare le loro scelte. Come
dimostra la scena chiave del primo faccia a faccia fra i terroristi in armi e il priore (un magnifico Lambert
Wilson). Che tiene loro testa in una trattativa convulsa («Sì che ho la scelta!») guadagnandosi il loro rispetto
e insieme l'obbligo a non essere da meno.
I (rari) detrattori rimproverano a Beauvois di aver trascurato il contesto storico dell'ex-colonia e le vicende
che stavano dietro ogni monaco (così belle che meriterebbero un film a parte). Ma lo sguardo limpido e
fermo con cui seguiamo l'attesa dei monaci, la ridda di sentimenti umanissimi e contraddittori, il dibattito
insieme pubblico e interiore che infine decide tutti a restare, hanno la forza di un film di Dreyer e la
schiettezza, l'umanità, il senso del gruppo di John Ford. Un'esperienza rara. E non solo al cinema.
Valerio Caprara - Il Mattino
Chi segue la rubrica sa che non siamo succubi dei film che si pretendono metaforici e metafisici (magari
sonnolenti) solo per intimidire lo spettatore. Sarà dunque più facile crederci se consideriamo straordinario
«Uomini di Dio» (Gran Premio della giuria a Cannes), film arduo e austero, tessuto di vibrante spiritualità e
cadenzato dai silenzi, preghiere, canti e umili lavori quotidiani di una comunità di monaci. Il francese Xavier
Beauvois («Nord», «Non dimenticarti che stai per morire») non appartiene alla schiera dei registi snob e il
suo è un segno stilistico limpido, un tentativo sincero e appassionato d'illuminare in termini storici e
universali alcuni dei tragici conflitti che dilaniano la convivenza degli uomini con gli altri uomini. Ambientato a
metà anni '60, nel clou di uno dei più feroci scontri tra governo algerino e terrorismo islamico, il film rievoca i
tre anni precedenti la strage del monastero di Tibhirine, quando i trappisti che si erano rifiutati di lasciare il
paese in preda alla violenza furono rapiti e quasi tutti massacrati (furono ritrovate solo sette teste mozzate).
Questi santi uomini abituati a praticare la più operosa e solidale fraternità con gli abitanti musulmani del
villaggio diventeranno martiri senza esibire fanatismo, mantenendo salda e nello stesso tempo semplice,
naturale la loro fede a dispetto della faida interreligiosa e contro qualsiasi opzione integralista. Un peso
decisivo che fa pendere la bilancia del film verso la tradizione francese dei Bresson e Pialat lo assumono le
recitazioni: capeggiati dal padre Christian di Lambert Wilson e il padre Luc di Michael Lonsdale gli attori
conferiscono ai religiosi una gamma affascinante di prerogative umane (paura, solitudine, vecchiaia,
malattia, scetticismo) in grado, però, di nutrire al massimo grado la percezione del Divino. Il metodo di
Beauvois esclude la morbosità e, anziché i dettagli dell'eccidio (ancora avvolti dal sospetto di coinvolgimento
dei servizi segreti governativi), mostra gli ostaggi che marciano verso le montagne mentre le candide
tonache si dissolvono nella coltre di neve. Ed è icastica come in un western la battuta-epigrafe di Wilson
«Non temo la morte, sono un uomo libero».
Maurizio Porro - Il Corriere della Sera
Asserragliati in un eremo sulle montagne algerine, nove «monaci senza frontiere» si chiedono se resistere
alla violenza fondamentalista islamica o scappare. Buona la prima, ma intanto sono presi ostaggi morituri.
Ispirato a storia vera, nobile per trama, assunto, forma e morale (e quindi un po' troppo) il film di XBeauvois
mira al cuore d' un tema attuale. Momenti di interiore riflessione, sospesi tra il grande silenzio e un ben
sofferto western in tonaca.
Alberto Crespi - L'Unità
C'è un paragone che incombe su Uomini di Dio, ed è quello con il celebre documentario Il grande silenzio di
Philip Groning. Un paragone letale al box-office, perché non sono poi molti gli spettatori disposti ad entrare
metaforicamente in convento per tutta la durata di un film. Ebbene, Uomini di Dio non è un documentario, e
non è un film punitivo. È un apologo civile e religioso in forma di film, girato con un pudore degno di Robert
Bresson, ma anche con una tensione emotiva e narrativa degna, qua e là, di un thriller. Se un titolo classico
torna alla memoria, è Missione in Manciuria, opera ultima e altissima di John Ford. Là in scena c'erano 7
donne (7 Women era il titolo originale), qui ci sono 8 uomini. Un passo indietro. Uomini di Dio ha vinto, con il
titolo originale Des hommes et des dieux (alla lettera «di uomini e di dei»), il Gran Premio della giuria
all'ultimo festival di Cannes. Avrebbe meritato la Palma d'oro, inopinatamente regalata al film tailandese Lo
zio Bounmee uscito in Italia lo scorso weekend, ma questa è un'altra storia. Rappresenterà la Francia
all'Oscar. È diretto da Xavier Beauvois, regista originale e anomalo, spesso attivo anche come attore,
pochissimo conosciuto in Italia. Racconta un episodio storico: nel 1996 alcuni monaci francesi, che
servivano Dio e gli uomini in un monastero a Thibirine, sull'Atlante algerino, vennero uccisi da un commando
di terroristi islamici. Messa così, potrebbe sembrare un instant movie, un film-verità su un fatto di cronaca
sulla falsariga dell'hollywoodiano Fair Game del quale parliamo, molto brevemente, qui sopra. Niente di tutto
questo. Xavier Beauvois non è un cineasta capace di far film sull'onda emotiva di un evento. Tale onda deve
sedimentare, diventare riflessione, farsi messinscena. Dopo una lunga elaborazione, la storia dei martiri di
Thibirine diventa una storia a molti livelli. Il primo livello è apparentemente documentaristico. Beauvois ci
porta dentro il monastero e ci fa condividere la quotidianità dei monaci. Che è fatta di preghiere e di canti
(musiche stupende), ma anche di colazioni mattutine e di pranzi molto parchi, di piccole ripicche e di
innocenti gelosie. Sono 8 uomini, in fondo, prima che 8 monaci. Li capeggia padre Cristian (Lambert Wilson),
ma è forte l'autorità morale di padre Luc (Michel Lonsdale): sono loro i leader di questa «famiglia». Una volta
che gli spettatori si sono insediati nel convento, Beauvois ci racconta il contesto: fuori dalle mura c'è un
villaggio dell'Atlante, povero e rigorosamente musulmano. E qui c'è la prima sorpresa: il convento è
perfettamente integrato nella comunità che lo circonda. Uno dei monaci è un medico e tutti i paesani, uomini
donne e ragazzi, si fanno volentieri curare da lui.
INTOLLERANZA E POLITICA
Pur nella differenza religiosa, i monaci detengono nel villaggio un'autorità ancora più alta, fatta di umanità e
di rispetto. Ma tutt'intorno al villaggio c'è l'Algeria, e alla metà degli anni '90 la situazione politica precipita e
anche il convento viene investito dall'intolleranza. «Guerrieri» islamici armati fino ai denti cominciano a
visitare periodicamente i monaci, minacciandoli, tentando di impedir loro qualsiasi contatto con la
popolazione. Da religioso e morale, il film si fa politico. E la domanda, per i monaci, è: rimanere e lottare –
con le armi della preghiera, s'intende – o fuggire? Il finale è quello che sappiamo, ma il modo in cui Beauvois
lo gira è mirabile. Uomini di Dio è una toccante riflessione su come la religione possa, da fonte d'amore,
trasformarsi in odio. Il titolo italiano è paradossalmente illuminante: sono uomini di Dio i monaci, ma si
credono uomini di Dio anche i terroristi che li uccidono. Sono sempre gli uomini a far parlare gli dei in base ai
loro desideri, alla loro bontà o alla loro crudeltà. Sono gli uomini a decidere, a fare la storia. Gli dei hanno
altro a cui pensare.
Maurizio Cabona - Il Giornale
Uomini di Dio falsifica il titolo originale Des Hommes et des Dieux (Uomini e Dei), che esprime la pluralità
delle forme del divino. Convento di Tibhirine, Algeria, 1995: i monaci rifiutano la guerra civile. Finti integralisti
al servizio dell'esercito li rapiscono per ritorsione. Gran premio della giuria a Cannes, questo lungo e
monotono film ha avuto due milioni di spettatori in Francia, attratti dalla sintesi di tre anni di convivenza fra
monaci e musulmani. Raccontata con rispetto. Quel rispetto mancato al distributore italiano che ha voluto un
titolo per il pubblico cattolico.
Roberto Silvestri - Il Manifesto
Il cineasta Xavier Beauvais, beniamino dalla critica transalpina pensante, perché crea atmosfere e forme
plastico-dinamiche originali, era in competizione a Cannes 2010 con questo suo quinto lungometraggio, dal
titolo francese, molto più pagano e bello, Degli uomini e degli dei. Un'opera dai lunghi silenzi e dagli orribili
improvvisi frastuoni di mitraglia che rende l'estremo omaggio funebre - e non c'è niente di male, anzi - a sette
coraggiosi frati trappisti francesi del monastero di Atlas (Algeria), missionari in Maghreb, trucidati dalla Gia
islamista (non islamica) nel 1997, durante quella furibonda e incompiuta lotta per il potere e per la
disintegrazione del partito unico, il Fln (Fronte nazionale di Liberazione), burocratizzato e inefficiente ormai,
e diventato d'ostacolo alla globalizzazione.
Fu una guerra imposta. Se non istigata certo bramata dai poteri forti internazionali, sia per fluidificare i flussi
di merci e di merci umane, sia per schematizzare in un solo atto e sintetizzare in una sola immagine forte la
«guerra di civiltà» a venire (foriera di profitti elettrizzanti), e sia per dare finalmente una lezione, anche se
con 40 anni di ritardo, a Ben Bella, Boumedienne e Co. cioè a chi aveva osato sbeffeggiare la spocchia
imperialista di Charles De Gaulle, creando una Algeria libera e per un po' di tempo perfino socialisteggiante
e anti-imperialista.
Una guerra civile per il potere e «per bande», certo programmata ma non facilmente decifrabile (altro che
sinistra/destra, altro che laici/fondamentalisti), fin troppo scurrilmente «libanese» o «balcanica» o
«ruandese», che ebbe dunque ben poco di teologico e spirituale, nonostante l'uso e abuso di versetti
coranici e l'esibizione di martiriologia religiosa, anzi arricchì il quadro delle psicopatologie maschiliste e
scioviniste.
Una serie interminabile di eccidi tremendi e disgustosi, ma non «inutili», che colpì donne, artisti, sindacalisti,
musici e anime belle della società civile, e dunque anche questi 7 indifesi sacerdoti cattolici (uno solo si è
salvato) che, in un convento lontano, sotto le montagne berbere, aiutavano la poverissima popolazione
locale con professionali opere di carità, dall'emergenza sanitaria (distribuzione di farmaci di base incluso),
alla produzione di miele e di mille altre leccornie. Ovvio che nella ricostruzione filmica Xavier Beauvais sia
ricorso, per la scena madre, a La parola ai giurati di Lumet (tutti i monaci, dopo le iniziali minacce,
vorrebbero tornare a casa, perfino Michel Londsdale, ma il superiore, Lambert Wilson, li convince, uno a
uno, con la logica ragionante e seducente di Henry Fonda, che è più cristiano restare, cioè «porgere l'altra
guancia»), creando il climax giusto, però, per svicolare nei territori della suggestione agiografica. Con
tecnica sofista Beauvais elogia i nostri, visualizzando l'abisso tra martirio introverso e disinteressato
cristiano, rispettoso sempre dell'altro, e martirio estroverso islamista (certo, di chi mal interpreta il Corano)
smanioso, ma per opportunismo edonista, di sfide all'ok Corral con l'infedele.
Ma non si va molto avanti, in Afghanistan e Iraq, se si continua a mistificare un micidiale gap economico e
militare con una superba superiorità etico-culturale. La nostra civiltà contro la loro, degli islamisti. Così loro
sparano, i nostri pregano. Loro sgozzano brutalmente gli inermi, e i nostri s'inebriano di sonorità gregoriane
(rimodernate). E se loro hanno gli occhi sbarrati da «manicomio cercasi», i nostri studiano, rispettosi, a
bassa voce, il Corano. E se i militari di Algeri si avvicinano per proteggere i monaci, non basta allontanarli,
come fa il padre superiore perché «questo governo è corrotto, non possiamo farci difendere da lui», senza
spiegare al pubblico che chi corrompe il governo di Algeri sono le compagnie francesi, per garantire i propri
lauti superprofitti. E che anche Parigi entrò, e non poco, in quella sinistra pianificazione di eccidi di massa
nelle aree (specialmente quelle berbere) più indocili al controllo sociale di Algeri dopo il disfacimento
dell'Fln... Porgere l'altra guancia è un grido di guerra anti sfruttamento, non di pace. È nostro ed è loro.