“Iulm Creative Happening” dal 2 al 4 Maggio: la satira in cattedra
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“Iulm Creative Happening” dal 2 al 4 Maggio: la satira in cattedra
E 3 -2 S . 22 W PAG PAGINE 20-21 N PAGINE 18-19 Unioni civili A Milano si accende il dibattito sul registro promesso da Pisapia entro il 2012 LM Perchè la borsa italiana ha una capitalizzazione tra le più basse d’Europa IU Piazza Affari Aprile 2012 Anno IX Numero II labiulm. campusmultimedia.net Periodico del master in giornalismo dell’Università Iulm - Campus Multimedia In-formazione - Facoltà di Comunicazione, relazioni pubbliche e pubblicità Bande di città IN FUGA DAL CENTRO Giovanni Puglisi P rima o poi doveva accadere: la cultura del benessere ad ogni costo, in un mondo nel quale lo sfruttamento del meno sul più è la regola, sarebbe entrata in conflitto con la cultura dei diritti. Accade in molte parti del mondo, ogni giorno e forse ogni minuto, accade in modo più o meno vistoso, secondo la natura dei diritti violati e – ahimè!– la capacità di reazione delle vittime, accade, sempre più di sovente, senza grande scandalo da parte di una società abitualmente divisa tra i distratti e i benpensanti, che, entrambi, de minimis non curant: ogni giorno, ogni minuto una sofferenza, un delitto, un diritto negato o violato non vengono né registrati, né perseguiti. La soddisfazione degli egoismi rasenta l’oscenità: tutto ormai si compra – almeno così pensano i distratti e i benpensanti – nulla sfugge alla logica del profitto a sconto di qualcuno o di qualcosa. Eppure doveva accadere. L’indignazione ha finito con l’avere voce e volto: nella diversità delle lingue e dei colori della pelle, essa ha assunto un tono e un’immagine sempre più forti e sempre più condivisi. Aldilà dell’abuso che anche quest’espressione, così forte e così ricca di valori etici, indignazione, ha assunto nel nostro tempo continua a pag.24 Furti in casa, gang di strada, scippi in aumento. E intanto il carcere minorile si riempie di ragazzi italiani che rubano per necessità. Ma Milano non è Gotham City… SERVIZI DA PAGINA 4 A PAGINA 17 “Iulm Creative Happening” dal 2 al 4 Maggio: la satira in cattedra PAGINE 22-23 Crime and the city Pagina 4 PRIMO PIANO LAB Iulm Quanto è aumentata la delinquenza in città dal 2010? Come opera la polizia? E quanto si sentono sicuri i milanesi? Claudia Osmetti “I o sono pugliese, ma vivo a Milano da quando ero ragazzina. Una situazione come quella degli ultimi anni non l’avevo mai vista”, Caterina ha lo sguardo deluso, e probabilmente un po’ malinconico, delle persone anziane che ricordano con nostalgia la loro adolescenza, quando, seduta su una panchina di parco Solari, racconta come la vive lei questa città. “Una volta, saranno stati gli anni Settanta, tornavo in Puglia tutte le estati e mi sorprendevo del degrado della mia regione. Ovunque ti giravi c’erano piccoli atti di criminalità, scippi, aggressioni, furti. Io dicevo che quelle cose a Milano non succedevano, che Milano era una città sicura, tranquilla, così lontana dal far west pugliese… Beh, forse adesso dovrei tornare a casa e scusarmi con i miei compaesani, Milano in fondo non è tanto diversa da Taranto”. Il vigile travolto e ucciso da un Suv guidato da un cittadino serbo. L’inseguimento con la polizia a Parco Lambro finito in tragedia con la morte di un giovane cileno. Le risse delle gang sudamericane. I furti rimbalzati sui giornali perché non hanno risparmiato nemmeno personaggi famosi come Roberto Vecchioni. Probabilmente Caterina ha in mente tutto questo quando racconta perché la “sua” Milano non è più quella di una volta. Perché lei non si sente sicura, perché la sera non esce più (a meno che non la vengano a prendere i figli), perché preferisce farsi portare la spesa a casa piuttosto che andare sola al supermercato. È una tiepida mattina di inizio primavera, la giacca comincia a dar fastidio, Caterina se la toglie, ma non l’appoggia mai sulla panchina: “Non giro più con la borsa ho paura degli scippi… La mia vicina ne ha subito uno qualche settimana fa. È uscita di casa, le hanno tagliato la borsa, sono scappati, lei è caduta e si è anche fratturata un braccio”. Ce l’ha un po’ anche con la polizia, Caterina. “Non ci sono più vigili. Qualche anno fa ce n’era uno ad ogni incrocio, oggi se ti serve un poliziotto devi aspettare ore. Girano in macchina e non si fermano, a meno che non ci sia già il morto”. Si tratta, per la verità, di un sentimento abbastanza condiviso. In tanti, giovani e meno giovani, lamentano la VOX POPULI scarsa presenza delle forze dell’ordine in città. “La polizia è inesistente, la sera girano poche pattuglie e mai dove serve”, racconta Sara, 23 anni, studentessa al Politecnico. “La polizia… Le critiche più comuni: poche pattuglie per strada e sempre meno vigili di quartiere Mah!” le fa eco Sophia, una madre di famiglia che porta il figlioletto di due anni a passeggiare al parco, di mattina, “Se hai bisogno che arrivi qualcuno devi pregare che una pattuglia di servizio sia già nei paraggi…”. Anche Andrea, 32 anni, è critico: “Ci sono pochi agenti in giro, probabilmente è per quello che la gente esce sempre meno, specie la sera”. La sensazione per strada è questa, almeno da quando l’operazione “Strade Sicure” è partita a livello nazionale dal 2008 (su proposta dell’allora ministro La Russa) e a livello cittadino dal 2009. Con la nuova giunta comunale l’esercito, che prima affiancava poliziotti e carabinieri per le vie del centro, è stato confluito essenzialmente nelle periferie e a piazza Duomo. C’è chi rivorrebbe i militari sotto casa, ma i più non sono d’accordo. “Quella dei militari è una misura eccessiva, alla fine è pur sempre Milano, non Kabul!”, taglia corto Sophia prima di allontanarsi a controllare che il bambino non si sia fatto male sullo scivolo. “In realtà io sono favorevole”, ribatte Sara, “Dovrebbero ripristinarli anche in centro, non solo a Piazza Duomo. Mi sentirei più sicura la sera, al- meno”. Il problema della sicurezza è molto sentito. Anche Federico, un netturbino che sta staccando il turno e si prepara a tornare a casa, dice la sua. Lui Milano l’ha vissuta tante volte di notte, a causa del suo lavoro, eppure di incidenti gravi, aggressioni o situazioni spiacevoli non ne ha visti molti. “Comunque dipende dalle zone”, racconta, “se mi trovo alle tre di notte a Quarto Oggiaro, tutto solo, non sono tranquillo… Ma a S. Agostino mi sento sicuro. La polizia fa quello che può, ed è già tanto”. Tre ragazzi stranieri dicono, un po’ ridendo e un po’ seri, che a Milano ci sono più ladri che turisti. Uno di loro, Baral, albanese, 24 anni e un tatuaggio a forma di teschio sul gomito destro, lavora in una famosa discoteca del centro. “Ogni sera succede qualcosa, non puoi fermarti un attimo. Due setti- LAB Iulm PRIMO PIANO Pagina 5 Mezzi obsoleti, compiti confusi “Noi in strada a far numero” L’INTERVISTA LUCA, CAPORALMAGGIORE DELL’ESERCITO Soldati di pattuglia, la divisa non basta... Chiara Trombetta D mane fa mi hanno incendiato la macchina... È per quello che ho fatto il porto d’armi e mi sono comprato una pistola. Non giro armato per piacere, ma se non l’avessi rischierei grosso ogni giorno”. Borseggi, furti e rapine in aumento. Calano invece gli omicidi e i reati maggiori Baral, per la verità, è l’unico che ammette candidamente di possedere un arma da fuoco. A parte qualche signora di mezza età che assieme al rossetto nella borsa tiene sempre uno spray al peperoncino, i milanesi sembrano allergici alle armi da difesa. “Assolutamente. Non ho mai pensato di prenderne una e non la prenderò mai. Mi farebbe sentire solo più vittima”, chiarisce Daniela, 37 anni, casalinga. “Dove c’è una pistola c’è già un morto”, le fa eco Ambrogio, 72 anni, pensionato dalle idee ben chiare. Insomma, la gente per strada crede di vivere in una città sempre meno sicura, con troppi disonesti in giro e troppo pochi poliziotti per le strade. I dati della Questura sembrano confermare questa tendenza: nel 2011, rispetto all’anno precedente, sono stati denunciati 4.419 reati in più. I borseggi sono in aumento (+18,75%), così come i furti in abitazione (+14,41%) e le rapine commesse in strada (+13,03%). Tuttavia i reati maggiori sono in calo, anche se la gente sembra non darci troppo peso: nel 2011 a Milano sono stati commessi solo 11 omicidi, 3 in meno rispetto al 2010, sono stati registrati 8 casi di associazione per delinquere (di cui uno solo di stampo mafioso) e 13 per riciclaggio di denaro sporco. La gente, al parco, spiega l’aumento degli scippi e dei reati minori come uno dei tanti effetti collaterali della crisi economica. Si registrano più furti perchè i più non arrivano alla fine del mese. “Non sono razzista, ma è ovvio che a mettere assieme più nazionalità il rischio è quello dello scontro”, aggiunge Caterina, forse dimenticando che le diversità c’erano anche quarant’anni fa, quando lei veniva da Taranto e credeva che Milano fosse sicura. opo lunghe e accese discussioni, il sindaco di Milano Giuliano Pisapia, ha deciso di eliminare dalle strade del centro cittadino i militari. Quello che però forse non tutti sanno è che l’operazione “Strade sicure” non si è interrotta: continua ancora nelle periferie della città. Lo scopo è quello di riqualificare le zone più degradate dove la criminalità è quotidiana. La domanda che ci si pone è: serve davvero l’esercito o contribuisce solo a far sembrare Milano come Beirut? Luca (il nome è di fantasia) ha 23 anni, è caporalmaggiore dell'esercito ed è da poco arrivato a Milano come volontario nell’operazione strade sicure. L’immaginario comune vuole il militare in una situazione che non si identifica con quella cittadina. Ti capita mai di sentire i commenti dei passanti? «A volte ci fermano per domandarci “Voi che ci fate qua? qui non c’è bisogno dell’esercito non siamo in guerra!”». La reazione della gente è di paura? «Paura forse è esagerato, diciamo che in molti non comprendono l’intervento dell’esercito. Vedere un poliziotto è normale, ma non appena si accorgono che sei un militare il loro volto cambia espressione. Sembra dire “perchè?” Per l’immaginario collettivo l’esercito va in guerra: “dovevate andare in Afghanistan non venire qui”. Però capitano anche alcune vecchiette che ci ringraziano per quello che facciamo». Come si svolge una vostra giornata tipo? «Il nostro compito è quello di girare e perlustrare quelle zone che da Milano arivano ai comuni della cintura milanese: Abbiategrasso, Melegnano, Corsico, San donato. Siamo in 4 su una camionetta: 3 militari e un carabiniere a capo del team. Il nostro è un lavoro di supporto, non possiamo prendere alcun tipo di iniziativa, ma dal momento in cui ci viene dato l’ordine di intervenire possiamo agire in totale autonomia». Che tipi di situazioni vi trovate a fronteggiare? «La criminalità a Milano è davvero tanta ed eterogenea: dall’ubriaco molesto che crea disordini ai furti d’auto (usate per il contrabbando di armi). La cosa che mi ha fatto più impressione arrivando qui è il quantitativo di droga che gira per le strade. Ce n’è davvero tanta: più di tutto cocaina». La droga perciò è uno tra i primi mali da sconfiggere per la riqualificazione delle aree periferiche della città? «Sicuramente. È il principale e il più difficile da smantellare. La droga riesce a infilarsi in “ In molti ci dicono che il nostro lavoro è combattere in Afghanistan e non stare in Italia ” ogni tessuto sociale. Si mettono perfino a spacciare ai ragazzini nelle scuole medie». E voi cosa potete fare per migliorare queste situazioni? «Appena notiamo qualcosa di sospetto procediamo con un controllo veloce, se risultano precedenti iniziamo con la perquisizione». Se vi capita di trovare qualcuno in flagranza di reato come vi comportate? «Noi militari in nessun caso abbiamo l’autorità di procedere con l’arresto. Solitamente vengono portati in commissariato. Non sempre però le cose sono semplici. Ad esempio l’altro giorno ci è capitato di fermare un sospetto che aveva precedenti per spaccio di 15 kg di cocaina. Condanna di soli 8 mesi e poi rilasciato per prove insufficienti. Durante la perquisizione abbiamo trovato 10 grammi di coca, ma non abbiamo potuto fare nulla perchè 10 grammi in unica busta sono da considerare “per uso personale”. Abbiamo dovuto lasciare andare. Molto probabilmente non ha mai smesso di spacciare e noi lo sappiamo benissimo, però non abbiamo potuto fare nulla». Spogliandoti dai panni del militare. Secondo te è utile l’operazione “Strade Sicure”? «Si, anche se viene fatta male. I carabinieri ci indicano le zone in cui andare, ma lo scopo è portare a casa dei “numeri”. Mi spiego meglio: ogni giorno si decide di fermare un tot di persone, 3 ad esempio, una volta fermate le 3 persone, difficilmente se ne fermerà una quarta. Funziona così anche per i posti di blocco. Hanno un determinato numero di macchine da controllare e fermare». Quante in un mese? «Più o meno 70. E quel numero non dev’essere superato. L’altro giorno ad esempio ne abbiamo fermate 5 e il carabiniere ci dice: “basta basta per oggi, siamo già a 50 e ancora ci mancano altre 2 settimane”». Perchè non potete fermare più auto? «Purtroppo lo si prende come lavoro di ufficio, si fa il minimo indispensabile. Ci si dimentica che il nostro lavoro serve per far del bene ai cittadini e allo Stato. Se in un mese arriviamo a fermare 100 macchine ad esempio, il mese dopo ne dovremo fermare di nuovo 100, quindi è meglio assestarsi su un numero base minimo, come 70 appunto». A luglio scorso, alcuni militari in servizio nell’operazione strade sicure hanno deciso di rivolgersi a un avvocato per denunciare la miseria operativa in cui sono costretti a lavorare. Tu cosa pensi al riguardo? «I mezzi che abbiamo a disposizione sono vecchissimi. Il problema maggiore sono le camionette. Ne sono arrivate 100 l’altro giorno e ne funzionano 20, senza esagerare. Capita anche che saltano i turni perchè la macchina non parte». E in questi casi? «Salta il turno e la zona rimane scoperta». Prima di andare via Luca tira fuori un volantino grande, bianco, scritto fitto fitto per tutte e quattro le facciate che lo compongono. Sembra un foglio di istruzioni per l’uso, sopra divise per punti ci sono tutte le regole che un militare deve seguire. Dal come comportarsi con i cittadini a che risposte dare ai giornalisti. E persino che parole usare: il manganello non va in nessun caso chiamato “manganello”, il suo nome è “sfollagente”. In questo modo, testuali parole, “non crea panico fra cittadini”. Nella tana del topo Pagina 6 PRIMO PIANO LAB Iulm Anche nel 2011 Milano si è confermata tra le città italiane con più furti in appartamento. Navigli, Vigentina e Corso Buenos Aires le zone da bollino rosso. Colpa della crisi o mancanza di controlli? Silvia Egiziano Luca La Mantia l cigolio di una serratura. Una porta che si apre. Una torcia per vedere nell’ombra. Passi felpati e mani avide che scrutano, rovistano, aprono cassetti e s’insinuano tra i nostri ricordi. Afferrano i beni accumulati negli anni, frutto di sacrifici o dono di una persona cara. Anche nel 2011 Milano si è confermata ai primi posti nella classifica delle città italiane con il maggior numero di furti in appartamento. Le denunce dei cittadini derubati, raccolte lo scorso anno dalle forze dell’ordine, sono state circa 7.000. Per avere una cifra più precisa bisognerà attendere settembre, quando la Prefettura di Milano otterrà la validazione dei dati dal Viminale e potrà rendere pubblico il numero esatto. Si tratta di un trend in crescita. Rispetto al 2010, quando in furti in appartamento furono 6.168, l’aumento è stato circa del 14%. Dal 2009 al 2011 l’incremento totale è stato circa del 49,2%. Unico dato positivo: analizzando i numeri degli ultimi tre anni, notiamo che nel biennio 2010-2011 i furti in casa, pur essendo aumentati di numero, sono cresciuti meno in percentuale rispetto al 2009-2010. Non è un paradosso. Tra 2009 (4694 denunce) e 2010 (6.168) i furti d’appartamento erano saliti del 31,40%. Milano può almeno vantarsi di non avere il primato italiano dei furti in casa, detenuto da Roma. Nella Ca- I pitale nel 2011 le denunce di furti in casa sono state circa 8.000, il 15% in più rispetto l’anno precedente. Nel 2009 i casi sono stati 6028, nel 2010 ben 7017. A Roma il record di furti d’appartamento è stato raggiunto nel 2007, con 7412 casi. Magra consolazione in ogni caso per Milano. Magrissima se si tiene conto del dato della popolazione. Il capoluogo lombardo ha circa 1milione e 400mila residenti. Significa che nel 2011 ha subito un furto in casa più o meno 1 milanese su 200. Le zone più colpite sono quelle più vicine al centro storico. Secondo uno studio condotto da Transcrime, centro interuniversitario sulla criminalità transnazionale, presso la Cattolica di Milano, e pubblicato a gennaio, tra le aree maggiormente interessate dai furti in appartamento ci sarebbero, fra le altre , i Navigli, Vigentina, Città Studi e buona parte del quadrante di corso Buenos Aires. Rischio medio alto a piazzale Loreto, corso Lodi, piazza del Duomo, via Washington e al quartiere Isola. Meglio va alle zone intorno alla stazione Centrale, a Porta Romana e a viale Monza. Pochi colpi messi a segno nelle periferie, con qualche eccezione qua e là, Comasina e Quarto Oggiaro. Occorre precisare che lo studio condotto da Transcrime ha preso in considerazione solo i dati relativi al periodo 2007-2010. Spiegare i risultati di questa analisi è semplice. Si colpiscono le zone “borghesi” della città, presumendo che il bottino sarà più ricco. Spesso non è così, ma i ladri ragionano per sommi capi. Così è più facile trovare una cassaforte piena di oggetti di valore in centro piuttosto che in periferia. Il maggior numero di colpi viene messo a segno il venerdì, seguito dal sabato. L’orario più “di moda” tra i “topi d’appartamento” desta curiosità. Con un’incidenza di furti che si verifica soprattutto nel weekend ci si sarebbe aspettati che la fascia di punta fosse quella che va dalle 23.00 e all’1.00 di notte. E invece no. Un furto su cinque si verifica tra il tardo pomeriggio e la sera: a cavallo fra le 18.00 e le 21.00. Ma le stranezze non finiscono qui. A Milano in agosto il tasso di furti è sceso in drasticamente, mentre è salito a dicembre, divenuto il mese più “caldo” da questo punto di vista. Colpa della crisi o mancanza di adeguate politiche di sicurezza? Se l’aumento di scippi e IL RAPPORTO TRA FURTI E RESIDENTI Milano 1/200 Roma 1/350 LE DENUNCE NEL TRIENNIO 2009-2011 LAB Iulm PRIMO PIANO Pagina 7 LA TESTIMONIANZA ROBERTO VECCHIONI “Ci hanno rubato la serenità E’ come essere violentati” e subisci un furto in casa, ti senti profanato nella tua intimità. Roberto Vecchioni, grande cantautore italiano, è stato derubato due volte. L’ultima a Capodanno, mentre, ignaro, festeggiava con la moglie e gli amici. S L’Assessore comunale alla Sicurezza Marco Granelli Furti cresciuti? Colpa della crisi Per arginare il fenomeno occorre lavorare per la legalità nei quartieri popolari e dare risposta alle situazioni di precarietà aver dubbi Marco Granelli, assessore alla sicurezza del Comune di Milano. Riprendendo il commento di fine anno del questore Alessandro Marangoni, anche per Granelli i furti in appartamento rientrano nel gran calderone dei reati “legati alla ricerca di soldi” che sarebbero una diretta conseguenza della crisi. Secondo l’assessore, infatti, non si tratterebbe di furti seriali commessi da professionisti, ma di fenomeni di microcriminalità legati a situazioni di degrado e necessità. “C’è un aumento di persone che vivono alla giornata – spiega Granelli –. Si tratta spesso di sinti italiani, siciliani, napoletani e talvolta rom. È un problema di sicurezza, di bande microcriminali che in queste situazioni di precarietà dispongono di maggior manovalanza”. Situazione questa che rende più difficile l’attività di contrasto e prevenzione da parte delle forze dell’ordine. E allora quali misure intraprendere per arginare il fenomeno? “In primo luogo – afferma Granelli – vi è la necessità da parte delle vittime di denunciare i furti, cosa che spesso non avviene. In secondo luogo occorre individuare e combattere gli insediamenti di persone che vivono ai margini della società e che spesso vengono reclutate per queste attività. Lavorare nei quartieri popolari per dare maggior legalità e risposte alle situazioni di precarietà serve a ridurre quel substrato che la criminalità usa facilmente per questi reati”. “ Sono riusciti a entrare nonostante il caos di via Moscova, la vigilanza e la stazione dei Carabinieri davanti casa “ “ rapine per strada e nei supermercati può essere facilmente ricondotto all’attuale crisi economica, infatti, più difficile appare l’analisi dei furti in appartamento. Un reato, questo, che richiede “competenze” criminali non semplici da improvvisare. Eppure sembra non Professor Vecchioni, come ci si sente quando si scopre di aver subito un furto in casa? «Violentati. La casa diventa una parte essenziale di te stesso. Una parte del tuo corpo. Diventa la persona in più che vive con te e la tua famiglia. Acquista un corpo e un’anima. Quando entrano in casa tua, ti portano via le cose e ti mettono a soqquadro tutto fa un male tremendo. E’ come se fossi stato colpito tu.» Molte persone derubate per qualche tempo avvertono un senso di repulsione nei confronti della propria casa. E’ successo anche a lei? «Quello non mi è successo. Non mi hanno lasciato segni così evidenti da dire questa non è più casa mia. Però ho avuto per giorni la sensazione che la casa fosse un po’ estranea. Che non fosse quella di prima. Che ci fosse qualcosa di diverso. Non la riconoscevo più com’era prima. Questo sì.» Quando ha subito l’ultimo furto? «La sera di Capodanno.» Ci può raccontare la dinamica? “ I primi tempi non mi sembrava più casa mia. Ho sempre paura che possa riaccadere “ Luca La Mantia «Io e mia moglie siamo usciti per un paio d’ore con degli amici a mezzanotte. In questo lasso di tempo i ladri si sono arrampicati su un albero, hanno sfondato la finestra, sono entrati, ci hanno derubato e sono usciti dalla porta. E questo nonostante il caos di via Moscova a quell’ora, la vigilanza privata e una stazione di Carabinieri che si trova davanti casa mia.» Cosa le hanno preso? «I gioielli che in quarant’anni avevo regalato a mia moglie. Devo dire però che qualche colpa in quel che è successo l’ abbiamo anche noi.» Perché? «Mia moglie aveva tirato fuori dalla cassaforte i gioielli per scegliere quelli da indossare per la sera di Capodanno e ha lasciato gli altri nei cassetti del bagno e poi non ho messo l’allarme.» Ha qualche idea su chi possa averla derubata? «Sono convinto sia qualcuno che era già entrato. Casa mia è grande e piena di cassetti. Era difficile trovare subito i gioielli. Loro sono andati direttamente in bagno, come se sapessero che mia moglie li lasciava spesso in quella stanza. Non hanno rubato quadri o altro.» Quindi non hanno messo niente in disordine come avviene di solito? «Poco. Anche se il concetto di disordine è soggettivo, soprattutto se calpestano il suolo di casa tua.» Ha superato il trauma? «Non ancora. Ho sempre paura che possa riaccadere. Come è già successo.» Non era la prima volta che i ladri le entravano in casa? «No. Era già successo nella mia casa fuori città. Ma lì è più facile entrare. Ci vado solo durante le vacanze e in qualche weekend. Comunque in quel caso non hanno rubato niente perché è praticamente vuota. Non pensavo potesse riaccadere. Come si dice, è come chiudere la stalla quando sono passati i buoi.» Il cantautore Roberto Vecchioni 69 anni a giugno vincitore del Festival di San Remo 2011 con la canzone “Chiamami ancora amore” Tra i suoi grandi successi “Luci a San Siro” e “Samarcanda” “ Gangs of Milan PRIMO PIANO Pagina 8 LAB Iulm Un fenomeno arrivato in Italia a fine anni ‘90. Le prime bande si formano a Genova ma in poco tempo si dif fondono in tutto il Nord. Dal 2006 Milano conosce l’escalation di violenza legata alle pandillas ilano come Quito, Santo Domingo e San Juan. Capitale della moda e sempre più capitale delle gang sudamericane, un titolo che il capoluogo lombardo si sta guadagnando a colpi di machete. Siamo alla fine degli anni '90 e l'Ecuador sta vivendo una grave crisi legata al fallimento del sistema finanziario, complici la caduta del prezzo del petrolio e alcuni accordi fra il governo e delle banche corrotte. Il 27% della popolazione, più di 3 milioni di persone, lascia il Paese. A Genova ne sbarcano 20.000, fra loro ci sono anche esponenti di Latin King, Vatos Locos e Los Diamantes: bande violente che lottano per spartirsi il territorio e col passare del tempo affinano gli interessi diventando sempre più pericolose. Nel novembre del 2003 davanti alla discoteca "Victor Latino" di Genova Josè Miguel Gutierrez, un ragazzo di 21 anni arrivato dalla Colombia, muore accoltellato in pieno petto da un suo coetaneo ecuadoriano. Gli amici lo chiamano "Marino". Verrà condannato a 18 anni. È il primo omicidio legato a scontri tra pandillas in Italia. Dalla Lanterna alla Madonnina il passo è breve. Ci si sposta in cerca di lavoro e si ricrea, ancora una volta, il proprio mondo. Chi ha problemi a Genova trova rifugio a Milano e viceversa. Un filo rosso che tra maggio e giugno del 2006 le forze dell'ordine cercano di interrompere con alcune operazioni che M portano all'arresto di 32 persone, tra cui i capi storici di Latin King e Neta. Nel 2007 sociologi e mediatori sociali organizzano un convegno, sostenuto dalla Provincia di Milano, che sancisce la pace fra le pandillas. Una pace destinata a durare poco. Il 7 giugno del 2009 David Stenio Betancourt Noboa, capo del capitolo milanese dei Latin King New York viene accoltellato a morte davanti la discoteca Thini Cafè di Milano, in via Brembo, da 4 membri dei “ L’INTERVISTA Latin King Chicago, poi condannati a pene comprese tra i 18 e i 26 anni. Da questo momento l’escalation di violenza delle gang milanesi non ha conosciuto battute d’arresto. Il 12 febbraio 2011, Hamed El Fayed Adou, 19 anni, viene ucciso da alcuni giovani sudamericani in via Padova perché si è lasciato scappare un’occhiata di troppo alla ragazza sbagliata. La comunità nord africana dà vita ad una guerriglia urbana. Un anno dopo Luis Alberto Bautista, un Trebol, cade sotto le 18 coltellate infertegli da un gruppo di Comando e Dangerz, gang rivali alla sua. Nell’ultimo anno gli episodi di violenza e reati contro il patrimonio ad opera di appartenenti alle gang latine si sono moltiplicati coinvolgendo anche il centro città, con il membro degli MS13 aggredito a colpi di mannaia in via Torino a fine novembre 2011. A fine gennaio un ragazzo di origini sudamericane viene picchiato e derubato alla fermata della metro Missori di pieno giorno. Il culmine con il caso del cittadino cinese Hu Ke Chang, morto dopo due settimane dal pestaggio subito in via Baldinucci da parte di un 16enne ecuadoriano, alterato dal troppo alcool bevuto durante la festa da cui stava tornando. Un trend che il 7 febbraio scorso l’operazione “Secreto” del Commissariato di Mecenate ha smorzato: 25 arresti che hanno coinvolto membri di Luzbel, Neta, MS 13 e Chicago, a cui vengono imputate rapine, aggressioni e tentati omicidi. Fra loro otto minorenni e MASSIMO CONTE, ESPERTO DI DEVIANZE GIOVANILI “Il gruppo dà un’identità a questi ragazzi” “ Andrea Rossi Tonon Massimo Conte, fondatore di Codici Ricerche Anche ai media fanno comodo per vendere Alessandro Bartolini assimo Conte non ama chiamarle gang, ma “gruppi di strada latinoamericani”. Da anni lavora con ragazzi che cercano di uscirne ed è socio fondatore di Codici Ricerche, agenzia indipendente di ricerca sociale e consulenza. Il suo lavoro parte da un presupposto: “Non ci troviamo davanti a organizzazioni criminali ma a ragazzi”. Chi sono questi ragazzi? «Nella maggior parte dei casi si tratta di adolescenti ricongiunti recentemente ai genitori dopo che in patria hanno vissuto abbandonati a se stessi. Sanno cosa vuol dire essere immigrati in un paese straniero e sanno che essendo giovani e immigrati, in una società come quella italiana, sono emarginati». M Cos’è la gang? «Una risposta I ragazzi si rinchiudono in un mondo proprio che offre legami stretti, adrenalina e status sociale. Nel gruppo pensano di ritrovare quello che non hanno. Farne parte fornisce un’identità a ragazzi che altrimenti non ne avrebbero una. Senza dimenticare il contributo apportato dai media». Cioè? «Quello delle “bande” è un brand vincente: offre vita spericolata, ragazze e notorietà. I membri sanno che prima o poi i media li etichetteranno come parte di un fenomeno collettivo e riconosceranno la loro patente di “cattivi”: per loro vorrà dire esistere. Dall’altra parte anche i mezzi d’informazione ricevono un vantaggio». Quale? «I toni con cui parlano di questa realtà sono sempre estremi e criminalizzanti, viene il sospetto che questi ragazzi facciano comodo per vendere». Faranno vendere, ma stiamo parlando di un contesto particolarmente violento. «Attenzione a non mettere insieme cose che sono molto diverse tra loro. La realtà è che non esiste la violenza dei gruppi di strada, ma esistono diverse violenze all’interno di diverse forme di interazione». Sono omogenee per nazionalità? «Sono aperte e trasversali. Quello che le unisce non è il passaporto ma la comune esperienza di essere giovani e stranieri in una città poco accogliente come Milano». Aperte anche agli italiani? «Si. I nuovi gruppi stanno perdendo i loro accenti latinoamericani». PRIMO PIANO LAB Iulm Pagina 9 LA TESTIMONIANZA “Il rispetto lo difendo con il coltello” Carlos, 17 anni, equadoriano racconta la sua storia violenta o, non sappiamo niente delle pandillas”. Ma non si ritrovano sempre qui, al parco? Questa non è la zona dei Latin Kings? Non smette di buttare lo sguardo a destra e a sinistra. Non ci vuole guardare in faccia. Lo sa: non si parla né con i giornalisti, né con i poliziotti. “Tu a che banda appartieni?”. “Non lo posso dire”. Si zittisce, di colpo. Si è fregato. Per la prima volta ci guarda in faccia. Cerca subito di nascondere gli occhi sotto la visiera del cappellino da baseball viola dal quale spunta un groviglio di capelli neri. “N Cosa spinge un ragazzo italiano ad entrare in una banda di latinoamericani? «Sia latinoamericani che italiani hanno in comune alcuni tratti. Tutti provengono da percorso scolastico faticoso, soffrono l’assenza di figure adulte di riferimento, subiscono la lontananza sia educativa che emotiva dai propri genitori, e la cosa più triste: tutti trascinano dietro di sé lo spettro del proprio fallimento». Cosa rimane a chi esce da questa realtà ? «L’esperienza delle bande è un’esperienza di transito: si entra, se ne vive l’epopea, se ne esce. A volte, però, restano le cicatrici, le denunce e le condanne. Sono queste spesso a pesare di più. Noi lavoriamo con ragazzi che per un cappellino rubato in una rissa hanno perso il permesso di soggiorno». “ no, di questo è meglio che non vi dica niente, anche la polizia ci rompe le palle. Si, ora hanno arrestato questi, ma altre bande stanno nascendo: filippini, marocchini, tipi dell’est…”. Pochi giorni fa anche per questo episodio hanno arrestato 25 ragazzi delle pandillas. Tu hai mai avuto problemi con la polizia? “Si”. Lo sguardo ricomincia a girare intorno a parco Trotter pieno zeppo di mamme e bambini arabi, sudamericani e asiatici, che dondolano sulle altalene, che si godono il sole. Lo smartphone bianco passa compulsivamente da una mano all’altra. Cosa hai fatto? Ci pensa. “Beh la prima volta in Ecuador. La polizia ci ha fermato mentre andavamo contro un’altra Quando mi hanno arrestato mia madre ha pianto. Voglio uscirne, ma se lo faccio mi ammazzano “ due ragazze. Il fenomeno continua ad evolversi coinvolgendo ragazzi di altre etnie: arabi, filippini, cinesi, slavi e italiani. Giovani attrati dalla dinamica della banda, dalle feste a base di alcool, droga e sesso. Ragazzi che non sopportano un futuro grigio, piatto, troppo simile a quello dei loro genitori che escono all’alba e tornano la sera con la schiena a pezzi e che spesso non sanno, o non vogliono sapere, cosa fanno i loro figli quando escono con gli amici. hanno menato, erano in cinque. Allora un altro ragazzo sudamericano è intervenuto, mi ha difeso e mi ha chiesto se volevo entrare nella sua banda. Nessuno mi ha più rotto le palle”. In quanti siete? “Più di cinquanta”. Ci sono italiani? “Si, non tantissimi, ma ci sono”. E come si entra? “Non scrivete il mio nome. Se mi scoprono mi ammazzano, non dovrei parlarvi”. Tranquillo. “Si entra se hai coraggio. Gli altri della banda ti picchiano per quattro minuti, devi resistere. Se resisti, entri. E poi devi fare delle prove, tipo scippi o rapine, oppure pestare qualcuno. Io ne ho fatta una sola”. Cosa? “Non lo dico”. Come si esce? “Non si esce. Ridacchia imbarazzato. Carlos – il nome è di fantasia - ha l’aria timida, se ne sta stravaccato su una panchina con una birra incollata alla mano insieme al suo amico Juan, seduto accanto. 17 anni uno, 16 l’altro. Parco Trotter è il loro dopo scuola, soprattutto quando c’è un sole così bello, nonostante l’inverno. “Se sei latinos è sicuro che fai parte di una banda”, interviene Juan, anche il suo è un nome inventato. La pelle più scura. Magro come un chiodo. Viso tagliente. Capelli nerissimi. Ah si, e voi di che banda siete? “Questo non lo possiamo dire, davvero. Solo fra noi sappiamo a che gruppo appartengono gli altri ragazzi. Io sono entrato l’anno scorso, grazie a un amico”. Dà una bella sorsata alla birra da poco e la passa a Carlos che si lascia andare: “Io sono entrato tre anni fa”. Perché? “Dopo due settimane che sono arrivato in Italia dall’Ecuador, a scuola, un gruppo di ragazzi più grandi mi rompeva. Un giorno mi si fa parte di una banda? “Durante la settimana andiamo a scuola. Il sabato e la domenica ci ritroviamo al parco o in qualche posto. In centro non ci andiamo quasi mai”.“Il venerdì sera andiamo a ballare al Bahia, proprio qua dietro, in via Padova”, dice Juan. Siete tutti minorenni? “La maggior parte. Il capo è maggiorenne, sempre”. Cosa decide il capo? “Eh – Carlos tira giù un sorso il capo decide tutto. Bisogna fare quello che dice”. E se non lo fai? Strabuzza gli occhi, nemmeno avesse sentito una bestemmia. “Non puoi! Devi fare per forza quello che ti dice. Vi ricordate l’egiziano di via Padova nel 2010, quando successe tutto quel casino? Quello aveva alzato la voce con qualcuno dei nostri, e questo non ci piace”. Cosa non vi piace? “Che qualcuno faccia l’arrogante con noi. Questo si era subito alterato perché qualcuno aveva guardato la tipa che stava con lui, il capo ci odinò “ L’egiziano di via Padova ha alzato la voce contro uno dei nostri per una donna ed è stato accoltellato Non si può tradire la banda, gli altri ti picchierebbero ogni volta che ti vedrebbero. Non ti rispetterebbe più nessuno. Sei un traditore e basta. Neanche se ti nasce un figlio puoi uscire. Tu abbandoni i tuoi fratelli? È una questione di rispetto”. Perché vi scontrate con altre bande? “Per il rispetto. A noi non piace quando ci guardano male o alzano la voce: quando incontri quelli dei gruppi rivali ti devono guardare con rispetto. Devono sapere che tu non hai paura di loro, devono lasciare stare le tue donne. Non ti devono rompere le palle, altrimenti….” Altrimenti succede come alla Fnac di via Torino? “Già”. Ma cos’è successo per scatenare tutta quella violenza? Hanno aggredito un ragazzo con un machete, no? “Io conosco un ragazzo che…. banda. Ci hanno trovato armi addosso, io avevo un coltello, e allora i miei mi hanno fatto venire in Italia”. Quanti anni avevi? “Dodici”. Con chi vivevi? “Con i miei zii”. E adesso le usi le armi? “Beh, nello zaino ho sempre un coltello e a scuola ho nascosto una mazza”. E la seconda volta? “La seconda volta ho colorato una macchina della polizia”. Qui in Italia? “Si, fuori da scuola”. Torna il sorriso. Come colorata? “Si, con la bomboletta. Di verde. Ma qualcuno ha fatto la spia, è arrivato lo sbirro, l’ho spintonato e gli ho tirato un pugno in faccia”. Ti hanno condannato? “Il giudice ha chiuso un occhio. Solo una multa.”. I vostri genitori lo sanno che siete dentro una pandilla? “Ormai i miei si”, Juan invece scuote la testa. Ma come si passano le giornate se “ Alessandro Bartolini Andrea Rossi Tonon di partire e noi partimmo. Tutti insieme. Ed è successo quello che è successo”. E’ successo che Ahmed Abdel Aziz el Sayed è morto per una coltellata al torace in mezzo alla strada, aveva 19 anni. Tu hai partecipato all’aggressione? “No no, io non ho partecipato. Non l’ho nemmeno vista. Il capo mi chiese di andare a chiamare altri dei nostri che stavano qui al Trotter. Andai per dirgli che stava succedendo casino con gli arabi che erano molti più di noi”. Carlos, non sembri contento. “Non vorrei più starci dentro. Vorrei uscire. Dopo la cazzata della macchina colorata, mia mamma ha pianto quando mi ha visto nella cella di sicurezza della questura. Mi sono sentito in colpa verso mio padre e i miei fratelli più grandi. Ma se esco non so come va a finire”. Bad boys made in Italy Pagina 10 PRIMO PIANO LAB Iulm Sono sempre di più i ragazzi italiani che finiscono dietro le sbarre. Don Gino Rigoldi, storico cappellano dell’IPM “C. Beccaria” di Milano, ci spiega il perchè ono giovani, anche troppo, e di rispettare la legge proprio non ne vogliono sapere. S Rubano, spacciano, rapinano. Per disperazione, per povertà o anche solo perché è l’unica cosa che hanno imparato a fare. E, soprattutto, sono per la maggior parte italiani. E’ questo l’identikit dei detenuti del carcere minorile “Cesare Beccaria” di Milano, istituto che più di ogni altro fotografa la realtà di una delinquenza minorile ad alto contenuto italiano. Sì perché, a finire dietro le sbarre con maggiore frequenza negli ultimi anni, sono proprio i nostri connazionali. A lanciare l’allarme è la “Relazione 2011 sull’amministrazione della giustizia” presentata dal guardasigilli Paola Severino lo scorso 17 gennaio in Parlamento. Un documento dal quale traspare a chiare lettere l’inquietante ripresa del “made in Italy” nella criminalità under 18. Sono adolescenti, per il 93% maschi, con un comune segno particolare: una vita fatta di miseria e malessere sociale, per i quali delinquere sembra essere l’unica strada possibile. Alcuni di loro hanno ereditato l’esperienza della galera dai genitori, che hanno vestito i panni dei carcerati prima di loro, sono cresciuti in quartieri in cui le gang la fanno da padrona, periferie nelle quali avere una spiccata mentalità criminale fin da giovanissimi è la prassi. Altri invece vivono all’ombra del gruppo del quale fanno parte che li protegge da un mondo Don Gino Rigoldi: “Io, che con i grandi, L’INTERVISTA Silvia Pagliuca on Gino, cosa è successo ai ragazzi italiani? «Sono poveri, gli italiani sono molto più poveri di prima. Tanti dei ragazzi che arrivano al Beccaria rapinano per dar da mangiare alle famiglie. Sono ragazzi che crescono in ambienti difficili, che li deprivano rispetto alle aspettative.» Sono le aspettative ad essere cambiate rispetto al passato, ad essere meno realizzabili? «Tanti anni fa bastava una casa di 2 stanze, una bici e andare a ballare il sabato sera per essere sereni. Oggi ad essere cambiato è il vissuto dei ragazzi. Anche ciò che sarebbe normale, per alcuni di loro è complicato. Pensiamo alla casa, abitare a Quart Oggiaro o in quartieri simili di Milano, vuol dire vivere in un appartamento occupato abusivamente da 20 anni, avere arretrati nell’affitto, essere sempre a rischio sfratto.» Anche al Beccaria sono aumentati gli ingressi degli italiani? «Si. Ne abbiamo mediamente 20 in più rispetto a prima. Ora ci sono anche problemi di so- D IL CAPPELLANO DEL CARCERE MINORILE vraffollamento perché per una capienza di 40 posti, ospitiamo circa 60 persone.» Lei ha detto che italiani delinquono per povertà, ma la povertà non riguarda anche gli stranieri? «Certo, la povertà riguarda anche loro, ma in certi casi gli stranieri hanno una marcia in più, hanno per esempio, un obiettivo preciso da raggiungere, sognano di poter costruire un futuro.» E gli italiani no? «I ragazzi italiani di oggi pur avendo delle qualità straordinarie,hanno un’immagine del loro futuro non molto brillante. Del resto hanno in casa l’esempio del fallimento del papà e della mamma che passano da uno status perenne di occupati/disoccupati; sotto gli occhi hanno un futuro modesto, davanti hanno uno scenario discutibile, come quello portato dai media, a cui si aggiungono i bisogni indotti come per esempio avere l’i pad dell’ultimo modello, il cellulare ecc…tutte cose che oggi sono diventate importanti e che portano a cercare una scorciatoia per poterle ottenere. Inoltre in alcuni quartieri ci sono figure storiche che sono ancora dei miti, pensiamo ad un Vallanzasca per esempio, con le sue avventurose rapine…» Cioè sta dicendo che Vallanzasca è il loro modello? «Si, si. Ora lui è in carcere da 20anni, ma si raccontano sempre i successi non gli insuccessi! Il carcere è visto da chi non c’è mai entrato come un luogo per gli iniziati, per quelli veramente tosti. Personaggi di quel genere hanno ancora una loro attrattiva. A questi poi si aggiungono i modelli locali come gli spacciatori di successo con i loro grossi macchinoni...» A quali quartieri si riferisce? «A Milano le situazioni più difficili sono a Corvetto, Quarto Oggiaro, Comasina, Rozzano e Gratosoglio. Lì gli italiani creano delle vere e proprie bande. Sono però realtà particolari, si tratta di ragazzi che fuori dal loro territorio sono completamente perduti. Se, per esempio, dicessi ad uno di questi ragazzi del corvetto che fa le rapine, di andare a Porta Garibaldi, non saprebbe cosa fare, ci metterebbe mezza giornata senza saper dove andare.» E le ragazze che ruolo hanno in tutto questo? «La gran parte delle ragazze detenute al Beccaria sono rom. Le italiane di solito si mettono nei guai perché avevano in mente di salvare un ragazzo, di fare le crocerossinee poi invece vanno a finire nella stessa maniera.» Cosa le chiedono i ragazzi italiani quando parlano con lei? “ Sono in continuo aumento i ragazzi italiani che rubano. Lo fanno per povertà e perchè si sentono inadatti. Vecchi miti come Vallanzasca affascinano ancora. ” «Io sono al Beccaria da 40 anni, prima di loro ho visto passare i loro padri. Di solito questi ragazzi chiedono un aiuto pratico su come trattare con l’avvocato. Poi si fa in modo che si accorgano che c’è un adulto disposto ad ascoltarli. Questa è una cosa nuova per molti di loro.» Non sono ostili con lei che è un prete? LAB Iulm PRIMO PIANO LE NAZIONALITA’ DEI DETENUTI ALL’IPM “C.BECCARIA” Pagina 11 Il carcere minorile “C.Beccaria” di Milano, ospita 57 ragazzi, tutti maschi.* Negli ultimi anni è notevolmente aumentato il numero di detenuti di nazionalità italiana, colpevoli per reati contro il patrimonio, come furti e rapine. Durante il periodo di detenzione, i ragazzi sono impegnati in attività scolastiche volte a favorire la formazione e l’inserimento professionale. La permanenza media all’IPM “C.Beccaria” è di 7-8 mesi. *(Dati relativi al 5 marzo 2012) che ai loro occhi è sconosciuto e molto spesso non hanno coscienza del reato commesso fino a quando le porte del carcere non si chiudono alle loro spalle. Una situazione, quella della criminalità dei minori italiani che rischia di uscire dalla marginalità sociale nella quale fino ad ora si è alimentata, arrivando a coinvolgere fasce sempre più ampie di popolazione, gravate da una crisi finanziaria senza precedenti. Ma è davvero solo la difficoltà economica a far sì che i ragazzi scelgano la delinquenza? Oppure c’è qualcos’altro che ha cambiato gli adolescenti italiani nel profondo? Per rispondere alle nostre domande, abbiamo deciso di parlare con chi, del binomio “giovani - galera” se ne intende: Don Gino Rigoldi, da oltre quarant’anni cappellano del carcere minorile “C. Beccaria” e fondatore di Comunità Nuova, associazione no profit nata per aiutare i più deboli. Don Gino è stato la nostra guida nel viaggio alla scoperta del mondo della delinquenza minorile, per farlo ci ha aperto le porte di casa sua, una cascina fuori Rozzano su cui le stelle brillano come a Milano non succede più da tanto tempo. Lì vive con i ragazzi che hanno alle spalle le storie più difficili, quelli per cui la parola “casa” non ha mai significato “famiglia” e che per la prima volta scelgono di cambiare. (S.P) i grossi e i cattivi ci divido casa...” «No, anzi. Nonostante la pessima immaginedella Chiesa ufficiale, c’è unagrande voglia di catechesi.» Come riesce a creare un rapporto con loro? «E’ fondamentale partire da una propria sicurezza emotiva, i ragazzi più sensibili lo capiscono e si creano rapporti di amicizia sincera fatta anche di espressioni fisiche molto te- “ Non esistono ragazzi cattivi. Esistono ragazzi che hanno fatto cose cattive. Ciò che mi stupisce ogni volta è vedere quanto siano bisognosi di affetto. ” nere, come baci e abbracci tanto che a volte devo cercare di contenere queste richieste di affetto. Ormai è una vita che guardo le persone, imparo a capire come si muovono, cosa pensano...» E in loro cosa vede? «Una grande solitudine.» Di ragazzi soli, Don Gino, deve averne aiutati tanti, almeno a giudicare dalle decine di dediche che firmano uno striscione grande quanto un’intera parete su cui si legge: “Grazie don Gino per questi 70 anni.” Non un crocefisso, non un’immagine sacra. Solo fotografie, e libri nell’ufficio in cui ci riceve, una stanzetta nella sede di Comunità Nuova, l’associazione no profit da lui fondata nel 1973 allo scopo di aiutare i più deboli. Quanti di loro dopo il carcere riescono a fare una vita diversa e quanti invece lei ha visto ritornare dentro? «Se riusciamo a risolvere problemi essenziali come la casa o il lavoro, la recidiva è molto bassa. Parliamo di un 10-12%. Se invece passano direttamente dal carcere alla libertà, più della metà di loro ritorna dentro. Sono troppo esposti.» I passaggi in comunità non aiutano? «Non sempre perché molte di queste comunità hanno regole troppo rigide, mentre dovrebbero riuscire a fare proposte adulte. A maggio per esempio, abbiamo mandato in comunità 15 ragazzi e abbiamo avuto esattamente 15 ritorni in carcere.» Cosa si dovrebbe fare secondo lei? «Bisognerebbe patteggiare, non regolamentare. Io parlo per esperienza, prendo a vivere con me i cosiddetti “grandi, grossi e cattivi” ovvero quei ragazzi che hanno commesso reati pesanti come omicidi o rapine. Con loro faccio una sorta di “gentlemen agreement”, poi viene da sé che ognuno ha il proprio turno per i piatti o per tenere in ordine la camera…Alla fine da casa mia non se ne andrebbero più!» Lei qualche anno fa aveva detto che il carcere per i minori non serve a molto. Lo pensa ancora? «Certo. Bisogna fare una precisazione però. Un carcere come il Beccaria, in cui i ragazzi escono alle 7.30 dalla cella e vi fanno rientro alle 21.00 perché durante il giorno sono impegnati in diverse attività, funziona. In questi casi, il carcere ha un senso perché insegna e i ragazzi imparano qualcosa.» E non è sempre così? «No, in molte carceri minorili, specialmente al sud, si vive come nel regime del 41bis ovvero con 2 ore d’aria e 22 ore di chiusura.» Cambierebbe qualcosa al Beccaria? «L’avviamento professionale. Per com’è gestito ora, credo sia da buttare. Ha modalità didattiche vecchie e prepara a professioni che non ci sono più. Io sto cercando di attrezzare uno spazio per far imparare a questi ragazzi ad usare i quadri elettrici industriali, per esempio, facendo non solo tecnica ma anche formazione.» Come avviene l’immissione nel mondo del lavoro? «Attraverso la borsa lavoro che è un sistema con il quale il datore di lavoro non spende niente perché i 300-400 euro di paga li dà l’ente che la eroga. La maggior parte delle borse lavoro sono usate dai datori di lavoro per far fare a questi ragazzi le pulizie o il trasporto pesante, raramente troviamo imprenditori che insegnano per esempio a fare la pizza o il verniciatore.» Don Gino, pensa che davvero per tutti possa esserci una seconda possibilità? «Non esistono ragazzi cattivi. Esistono ragazzi che hanno fatto cose cattive. Un omicidio uno se lo porta dietro tutta la vita. In questi anni ho visto almeno un centinaio di omicidi, specialmente tra i ragazzi di Bollate. E’ difficile che a quarant’anni queste persone abbiano dimenticato tutto. Quando è arrivata Erika (Erika De Nardo, NdR) al Beccaria, le abbiamo dedicato un’educatrice personale e un neuropsichiatra infantile. Adesso è laureata in filosofia. Certo, è sempre un po’ scompensata però...» Si ferma Don Gino. Durante la nostra chiacchierata il telefono non ha smesso un attimo di squillare. Prima di congedarci, legge l’ennesimo sms. Poi, occhi bassi, commenta: «Ecco, questa qui ha fatto venti rapine.. ora stanno per cacciarla di casa. Chiede aiuto.» Pagina 12 LAB Iulm “Spacci a v o a 12 anni, mi sembrava norma le ” Dalla strada al carcere. Ricominciare a vivere a vent’anni, fuori dal ‘Beccaria’. I ragazzi raccontano le loro storie Adele Grossi lla fine, quella sera, il Milan ha vinto. Ha rifilato all’Arsenal ben quattro gol. I ragazzi devono averla presa non troppo bene: in casa sono tutti interisti, come don Gino. Sono interisti, hanno circa vent’anni -tranne Ilir, che ne ha trenta. Lavorano, cucinano, lavano i piatti, tengono in ordine una tra le case più accoglienti in cui sia mai entrata. Qualcuno sta studiando per prendere la patente. Qualcun altro ringrazia il cielo d’aver smesso di studiare, perché solo al pensiero di dover riprendere i libri in mano, gli verrebbe un colpo. C’è chi da poco ha trovato una ragazza; chi sogna di sposarsi perché la sua donna aspetta un bambino. A Christian, 19 anni “Ho iniziato a spacciare da ragazzino. Lo facevano tutti. Ho il fermo due giorni a settimana. Dicono che sono pericoloso”. Chi desidera fare il lavoro che ha in mente da un pezzo; chi ha in cuore di scrivere e ha una storia già pronta. Ilir, Christian, Liu e Alehandro hanno lasciato il carcere minorile di Milano qualche tempo fa. Quando le porte dell’istituto si sono chiuse alle loro spalle, Don Gino Rigoldi, il cappellano dell’istituto, non c’ha pensato un attimo e li ha accolti in casa sua: una bella cascina a due piani, vicino a Rozzano, dove ora vivono in tredici; quattordici con Don Gino; più quattro cagnolini: Clair, Katty, Pacco e Pepe. E’ lì che abbiamo incontrato i ragazzi. Lì, che ci hanno raccontato la loro storia, invitandoci a cena, alle otto di sera, una volta spenta la tv, mentre il Milan vinceva contro l’Arsenal e noi, seduti in sedici attorno ad una tavola, mangiavamo riso con la zucca. Memorizzare i loro nomi è stata dura: i ragazzi sono quasi tutti stranieri, anche se vivono in Italia da un pezzo; i più sono cresciuti a Milano. Christian, per esempio: italiano a metà, perché il padre era brasiliano. “Oggi ha telefonato mia madre. Ti saluta, don Gino”, dice rivolto al prete, poi ci spiega: “Mia mamma è venuta qui l’ultima volta un anno fa. Mio padre non c’è più”. Christian ha 19 anni; “quasi 20”, tiene a precisare. Oggi lavora come giardiniere. Si sveglia alle 5.30, prende il motorino e da Rozzano, tutti i giorni, arriva fino a Quarto Oggiaro, in quello stesso quartiere di Milano dove ha passato la sua infanzia. Lavora sempre, tranne il sabato e la domenica: “In quei giorni ho il fermo”, ci dice e allora Alehandro, appoggiato al camino, chiarisce: “Vuol dire che si deve comportare bene. Ogni due settimane deve andare dagli assistenti sociali a farsi controllare”. Già, aggiunge Christian: “Dicono che sono pericoloso per la società”. La sua storia è iniziata a 12 anni, quando per la prima volta è entrato al Beccaria. Ci è restato 6 mesi, per spaccio. Poi, di nuovo, qualche anno dopo, ha commesso 5 rapine ed è tornato dentro; questa volta per 1 anno e 8 mesi. “Mi hanno dato poco perché abbiamo fatto continuato: vuol dire che ti danno il privilegio perché l’ho fatto in poco tempo. È la legge”. Ma perché ha cominciato? Perché le rapine, perché lo spaccio? “A 12 anni, quando ho iniziato a spacciare, nella mia zona lo facevano tutti: mi sembrava una cosa nomale. A un certo punto dici: cosa faccio nella vita?” Ha cominciato così. Per soldi. Con i soldi, poi, usciva con gli amici.“Mia madre sapeva: litigavamo, lei urlava forte, diceva di non fare ‘ste cose”. La scuola, intanto, l’aveva mollata quando era uscito dal carcere. Faceva l’istituto tecnico, ha lasciato al secondo anno “perché tanto non serviva a niente”. Fatto sta che, soprattutto la prima volta, entrare in carcere è stata dura. “E’ brutto perché quando ti chiudono stai solo”. Fortuna che lui, in cella, aveva Alehandro, 19 anni “Sono arrivato qui da piccolo. I miei speravano di far soldi. Sono cresciuto tra una comunità e l’altra” ritrovato qualche amico. “C’erano i ragazzi della mia zona e poi comunque dentro si fa amicizia. Ci sono tante attività: cucina, pasticceria giardi- naggio. Mi piaceva cucina, perché mangiavo”. Poi è finita. “E’ arrivato Don Gino e mi ha portato qui. Questo è il posto in cui volevo stare”. Oggi vuole fare il cameriere o il cuoco. “Mi piace e sono bravo a servire”, ci dice. Al Beccaria, Christian ha conosciuto Liu, 19 anni anche lui, cinese. Dice che è stato in carcere perché ha fatto “un po’ di tutto: spaccio, rapine prostituzione”. Ha gli occhi neri e profondi; un’espressione riservata. In metro, diretti verso la cascina di Rozzano, sedeva di fronte a me. Ci siamo ritrovati in casa senza accorgerci di aver fatto il viaggio insieme. Oggi, Liu lavora in una pelletteria ed è lì che vorrebbe restare. Non ha troppa voglia di raccontarci del suo passato, come se ormai fosse abbastanza lontano da non meritare nemmeno il ricordo. Alehandro, invece, seduto vicino a lui, non vede l’ora. Vive lì da un anno e mezzo. Al Beccaria c’è stato nel 2009, per rapina. Il padre è ecuadoriano, la mamma romena, ma lui è passato da una comunità all’altra e la famiglia non la vede quasi mai. Dove sei cresciuto? “In giro, qua e là. Sono stato quattro anni in una comunità, due in un’altra, due in un’altra ancora; l’ultima era a Calvairate”. Sono state forse proprio quelle comunità e il confronto con i suoi coetanei a spingerlo a finire in un brutto giro. “Sono arrivato qui da piccolo; i miei speravano di far soldi. Io ho iniziato con le rapine per questo. Un lavoro non ce l’avevo. Vedevo gli altri che avevano vestiti, tutto e allora… Non mi ha coinvolto nessuno, però. Scelta mia”. Una precisazione, questa, che tutti tengono a fare. Per un pelo, Alehandro non ha conosciuto Christian in carcere: “Io sono uscito prima che lui arrivasse. Sono fuori per sospensione pena. Significa che Liu, 19 anni “Ho fatto un po’ di tutto: spaccio, rapine, prostituzione. Ma ora è tutto diverso, è tutto cambiato” entro 5 anni non devo fare nessun reato”. E poi aggiunge: “L’ambiente del Beccaria alla fine è tranquillo”. Qualcuno ride, ma Alehandro insiste. “Il carcere non è stato difficile. E’ una prova mentale e mi ha aiutato a pensare. In fondo, lì, non c’è niente da fare e così pensi soltanto. Per il resto, però, non serve niente. Non riabilita nessuno; esci e ritrovi tutto esattamente com’era. La comunità neanche ti rivuole più. Qualcuno finisce per pensare: quasi quasi me ne torno in carcere, almeno lì ho un posto dove stare. Io l’ho pensato. Don Gino diceva che mi avrebbe preso con sé; io non ci credevo e invece”. LAB Iulm Pagina 13 In sei Stati, la pena di morte è ancora applicabile anche ai minorenni Adolescenti dietro le sbarre la cattiva pagella dell’Italia I penitenziari “contenitori di marginalità sociale” ono dieci milioni i minorenni italiani. Nel 2007, 27.803 adolescenti sono stati denunciati alle procure della Repubblica. Nel 2010, 1.358 si trovano nelle comunità di recupero. Nel 2011, 762 attendono nei ventisette centri di prima accoglienza, la convalida dell’arresto o il rilascio. S In carcere, sempre nel 2011, ne sono finiti 339, a fronte di 164 stranieri. Hanno tra i quattordici e i diciotto anni. Italiani, appunto, in maggioranza. Alcuni hanno già compiuto i ventun anni e stanno aspettando insieme ai ragazzi più giovani, che l’amministrazione penitenziaria si decida a trasferirli in un carcere per adulti, ora che, in carcere, sono diventati grandi. Su un totale di 503 minori, solo 193 di loro stanno scontando una vera e propria condanna. Gli altri 310, dietro le sbarre, aspettano la sentenza che deciderà del loro futuro. La giustizia italiana, dopotutto, I NUMERI Gli chiedo se oggi tornerebbe a fare quel che faceva. “Il rimorso non c’è perché non ti danno altre possibilità visto che non c’è il lavoro, però non lo rifarei perché non vorrei tornare in carcere. Non che mi faccia paura il carcere in sé. E’ che ho paura di perdere tempo in carcere”. “Ora vorrei solo trovare lavoro e sposarmi”. Vorrebbe fare il magazziniere o lavorare nel sociale, con gli anziani o con i bambini. La sua fidanzata è siciliana; è incinta di quattro mesi. Aspettano una bambina: la chiameranno Desirè. Ci invitano a tornare, magari per pranzo. Ilir ci accompagna fino alla fermata della metro. E’ albanese ed è il terzo figlio di Don Gino. Già, perché anche un prete può adottare dei ragazzi e Don Gino l’ha fatto. Proprio oggi il tribunale ci ha messo la firma: ora Ilir di cognome fa Rigoldi. Gli domando com’è l’Albania. “Come l’italia”, risponde. “Tanta corruzione; miseria e corruzione”. Qui, lui adesso lavora in un locale, ma il suo sogno è quello di fabbricare gioielli e spera proprio di riuscirci. Magari la storia che uno dei ragazzi spera di riuscire a scrivere parlerà proprio di questo. Di chi ha un sogno e riesce ad avverarlo. Perché, diamine, a 20 anni una storia deve avere un lieto fine. In fondo, come scrive qualcuno “non è mai troppo tardi per avere un’infanzia felice”. In Italia ci sono 19 carceri minorili. Si tratta degli istituti di Acireale (Catania) , Airola (Benevento), Bologna, Bari, Cagliari, Catania, Caltanisetta, Firenze, Catanzaro, Milano, Nisida (Napoli), Palermo, Roma, Pontremoli (Massa Carrara), Potenza, Torino e Treviso. Carcere di Nisida (Na) A questi vanno aggiunti gli istituti di Lecce e L’Aquila, attualmente chiusi per ristrutturazioni. Sezioni femminili riservate alle ragazze si trovano a Milano, Nisida, Roma e Torino. Pontremoli è l’unico istituto per minori esclusivamente femminile ed è in funzione dal 2010. Nel complesso, lo stato delle carceri in cui si trovano i giovani detenuti è decisamente migliore di quello che caratterizza gli istituti di pena per gli adulti. In ogni istituto si svolgono attività didattiche e formative per l’avviamento al lavoro. Negli anni, tuttavia, non sono mancati episodi di abusi sui minori detenuti. E’ attualmente in corso il processo contro nove agenti di polizia penitenziaria del minorile di Lecce, per diverse presunte violenze verificatesi nella struttura tra il 2003 e il 2005. In attesa di giudizio è anche un agente di custodia del carcere minorile di Torino, accusato di lesioni gravissime nei confronti di un minore marocchino. Il carcere minorile è stato al centro delle note di due grandi cantautori. Proprio del “Ferrante Aporti” di Torino scrisse Lucio Dalla, in una sua canzone degli anni ‘70, mentre Edoardo Bennato, nel 1982, dedicò i suoi versi al minorile di Nisida. Carcere “Ferrante Aporti” (Torino) quando vuole è uguale per tutti e in certi casi è talmente uguale che il nostro sistema penale non fa differenza tra ragazzi e adulti, tra l’opportunità di applicare la pena detentiva e quella di pensare a misure alternative, magari rieducative: chi sbaglia finisce in cella, punto, anche quando non si è proprio sicuri al cento per cento che abbia sbagliato e di certo non sta lì a badare all’età. Talmente uguale che se non fosse stato per la Corte Costituzionale che nel 1994 lo cancellò per i minori, anche loro e ancora oggi potrebbero persino beccarsi l’ergastolo. Poca cosa. Negli Stati Uniti, in Iran, in Pakistan, in Arabia Saudita, nello Yemen e in Nigeria, i ragazzi possono anche essere condannati a morte e negli ultimi 15 anni lo sono stati effettivamente. L’Italia però non ha da rallegrarsi. Le nostre carceri sono diventate “contenitori di marginalità sociale”, o almeno così le ha definite il primo rapporto sui 19 istituti penitenziari minorili, condotto dall’associazione Antigone, dopo un tour iniziato nel 2008. A scorrere i dati raccolti, si scopre che i giovani italiani presenti sono perlopiù provenienti dalle periferie del meridione; poi ci sono rom e stranieri. E non è tutto. Più del sessanta per cento dei minori detenuti sta aspettando una condanna definitiva Leggi lacunose; gravi differenze di trattamento da Regione a Regione; finanziamenti insufficienti; mancanza di un sistema organico di protezione dei minori: è solo parte di quello che il Comitato delle Nazioni Unite ha rimproverato al nostro Paese appena lo scorso ottobre, osservando lo stato d’attuazione della Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989, che l’Italia, dal 1994, è obbligata a rispettare. Come dire: quel che si fa per i minori è poco. Troppo poco. E il carcere, così com’è oggi, non è una soluzione. (AG) Pagina 14 Viaggio fra i diversi approcci alla sicurezza urbana: Francia, Usa, Inghilterra, Danimarca. Ogni paese ha un metodo per prevenire la criminalità Stefano Taglione n Inghilterra i poliziotti di quartiere vanno in giro senza pistole se non in casi eccezionali, ma in molti altri stati, come Francia, Germania e Italia, sono armati fino ai denti. Le modalità di presidio del territorio sono molto diverse, ma in tutto il mondo i pericoli di strada sono dietro l’angolo e le autorità sono chiamate ad interventi sempre più frequenti ed estesi. Le strategie dei governi per combattere la criminalità sono fra le più disparate e non riguardano solo gli armamenti, ma anche le politiche sociali e di sicurezza urbana. Nel mondo ci sono diversi approcci alla prevenzione dei reati. Negli Stati Uniti si combatte soprattutto ciò che, alla vista, fa trasparire delinquenza. Le tracce della criminalità devono sparire. La polizia è intransigente e prevale il metodo I L’ESPERTO Amato Lamberti, docente di politiche della sicurezza sociale dell’Università “Federico II” ed ex presidente della Provincia di Napoli della “tolleranza zero” verso chi commette illegalità e arreca disturbo. In Europa la situazione è un po’ diversa e non c’è mai stato un modello di “tolleranza zero” da parte delle forze dell’ordine. Generalmente le politiche sociali hanno un peso maggiore rispetto agli Usa, dove comunque non mancano iniziative di questo tipo. In Europa dare aiuto a chi ne ha bisogno è la via d’uscita principale per prevenire episodi di micro-criminalità. L’approccio europeo si differenza da zona a zona. “Esi- L’Europa scommette sul PRIMO PIANO LAB Iulm welfare stono vari metodi – afferma il professor Amato Lamberti, docente di politiche della sicurezza sociale presso l'Università “Federico II” di Napoli –. Io tendo a privilegiare un approccio che coinvolga tutte le strutture sociali esistenti sul territorio. La sicurezza non è solo un problema di polizia, bensì di partecipazione collettiva alla vivibilità del territorio. Le associazioni continua Lamberti - svolgono un ruolo fondamentale nelle aree di marginalità che normalmente creano preoccupazioni ai cittadini”. Fra i modelli più famosi in questo campo vi è quello francese. “A Parigi ci sono situazioni molto diverse – spiega Lamberti –. Le zone turistiche sono ben controllate, le banlieue si differenziano fra di loro, alcune più o meno abbandonate. Ma vi sono iniziative a favore dei soggetti più deboli, alloggi popolari, lavori socialmente utili e si privilegia l’intervento sociale rispetto a quello repressivo”. Tuttavia, negli ultimi anni, sono stati molti gli episodi di criminalità nelle periferie parigine. Nel 2007, dopo la morte di due ragazzi a seguito di uno scontro con un'auto della polizia nel quartiere di Villers-le Bel, esplode la rivolta in strada con giovani che mettono a ferro e fuoco la città. Rivolta che segue quella più imponente del 2005, quando le som- FRANCIA “ ” Si privilegia l’intervento sociale invece di quello repressivo, vita dura nelle banlieue mosse si diffondono in gran parte della capitale e del paese, con il governo costretto a dichiarare lo stato di emergenza. Il metodo che viene invece considerato un modello per il futuro è quello utilizzato in Nord Europa. “Lì lo Stato si fa carico delle situazioni di emarginazione con strutture adeguate – sottolinea Lamberti – e un senzatetto ha la possibilità di avere un alloggio e un sussidio economico. In cambio gli si chiede di non stare per strada a dare fastidio”. Gli aiuti economici sono utilizzati anche nel Regno Unito. “In Inghilterra l’indennità di disoccupazione elimina molti problemi – spiega Lamberti – e c’è un welfare che tende a coprire bisogni di salute, sociali, di reinserimento e di formazione. Laddove c’è un’elevata disoccupazione giovanile si interviene con la formazione professionale e i lavori socialmente utili”. In ogni caso l’approccio “social” non mette al riparo da esplosioni di violenza. Dal 6 al 10 agosto 2011 i quartieri periferici di Londra sono stati oggetto di saccheggi, sciacallaggi e rivolte. I disordini iniziano nel quartiere di Tottenham, per poi espandersi senza controllo a Chelsea, Brixton e Oxford Circus, una delle maggiori attrattive turistiche della città. La causa delle sommosse è la morte di un 29enne, Mark Duggan, ucciso in una sparatoria con la polizia. Per Lamberti l'approccio della tolleranza zero è sbagliato, perché “si traduce in un DANIMARCA “ ” Salario minimo garantito per tutti e alloggi popolari per scoraggiare la delinquenza elevato livello di carcerazione e serve solo rassicurare l’opinione pubblica”. La ricetta del professore na- LAB Iulm PRIMO PIANO Pagina 15 Il “metodo Giuliani”: strade libere da graffitari, ambulanti e lavavetri Tolleranza Zero per ripulire la città Il mito americano fra successi e bluff Marcello Longo endicanti, ubriachi, venditori ambulanti. Farli sparire dalla città per garantire una maggiore sicurezza o, almeno, per assicurare ai cittadini la sensazione di una città meno pericolosa. È l’idea di fondo della “Tolleranza Zero”, cavallo di battaglia dell’ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani, e ripresa dal successore Michael Bloomberg. Un modello che ha conquistato altre città in Europa e nel mondo, con ammiratori anche in Italia, ma che deve fare i conti con limiti, critiche e anche alcune ombre. Tutto comincia nel 1994, quando Giuliani è eletto sindaco. Il compito di applicare il modello della Tolleranza Zero viene affidato al capo della polizia William Bratton, che chiede e ottiene uno sforzo straordinario: il 40% del budget in più e il reclutamento di 12 mila nuovi agenti. Così la Tolleranza Zero, che è prima di tutto il contrasto alla percezione dell’insicurezza, porta la polizia agli angoli delle strade, una presenza costante finalizzata a rassicurare i cittadini e reprimere i comportamenti devianti. I “nemici” della sicurezza urbana vengono identificati nei venditori ambulanti, nei trasgressori sopresi a scavalcare i tornelli della metro, si annidano fra lavavetri, graffitari, accattoni e prostitute. C’è una giustificazione ideologica per questo approccio e risiede nella “Teoria della finestra rotta”, elaborata negli anni Ottanta dagli studiosi George Kelling e James Wilson e incoronata da un ampio successo anche fuori dagli Usa. Secondo questa teoria, «se una finestra di un edificio dismesso viene rotta da qualcuno, e non si provvede a ripararla urgentemente, presto anche tutte le finestre saranno rotte, a un certo punto qualcuno entrerà abusivamente nell’edificio, qualche tempo dopo l’intero palazzo diventerà teatro di comportamenti vandalici». Il degrado urbano - sostengono gli autori - induce nella comunità un senso di abbandono, di assenza dell’autorità, destinato a stimolare comportamenti devianti. Il degrado riduce l’attenzione della comunità verso le forme di devianza e produce il consolidamento delle culture criminali. Sulla base di queste considerazioni si è provato a giustificare una politica repressiva orientata a ripulire l’immagine della città. I dati lo hanno sempre detto con chiarezza: New York è una città più sicura rispetto a ven- M Due “bobbies” a Londra poletano consiste nel coinvolgere tutte le realtà sociali del territorio per migliorarne la vivibilità, mentre le pubbliche amministrazioni dovrebbe INGHILTERRA “ ” Casa e lavori socialmente utili per il reinserimento e l’integrazione nella società creare più “zone verdi” per evitare che i luoghi meno frequentati diventino un ricettacolo di criminalità. Una scena del telefilm americano “The Chips” zione: il mutamento nella composizione demografica della città, un calo nei consumi di droga, nuove norme sul possesso di armi. I successi della Tolleranza Zero, celebrati più volte, numeri alla mano, da Giuliani e dal suo successore, sono stati messi pesantemente in discussione da un’inchiesta pubblicata nel 2008 sul New York Times. Un centinaio di funzionari del NYPD (New York Police Department) hanno rivelato pressioni per forzare la raccolta dei dati, organizzata attraverso il sistema informatico CompStat che prevede una scala di reati ordinati per t’anni fa. Meno omicidi, meno furti e rapine. Ma con altrettanta chiarezza - corredata da ricerche e dati - molti studiosi, anche di orientamento conservatore, hanno più volte messo in discussione i successi celebrati da Giuliani e Bloomerg, soprattutto in campagna elettorale. Si scopre, così, che il calo del tasso di criminalità era già cominciato prima dell’avvento della Tolleranza Zero, su scala diffusa, ed è sceso ancora anche laddove il “metodo Giuliani” non è stato applicato. Nel caso di New York, va aggiunto che sono entrati in funzione altri fattori a determinare un miglioramento della situa- LA CLASSIFICA gravità. Per distorcere le statistiche, gli agenti erano istruiti a convincere le vittime di alcuni reati a non sporgere denuncia, a “pilotare” le deposizioni per declassare il reato a categorie meno gravi oppure, nei casi di furto, a registrare un valore della merce inferiore a quello reale. Il modello newyorkese avrebbe anche contribuito a “brutalizzare” l’atteggiamento della polizia. Il primo allarme viene dato nel 1996 da Amnesty International. In un rapporto sugli abusi commessi dagli agenti newyorkesi, l’organizzazione evidenzia alcuni fenomeni: incrementi nel numero di richieste di risarcimento per danni causati da perquisizioni violente, di denunce per abusi e comportamenti brutali subiti in gran parti da neri e latinoamericani, del numero di civili uccisi durante operazioni di polizia. Questa è la Tolleranza Zero. Un modello “imperfetto” ma di grande fascino, un mito per gli sceriffi di tutto il mondo, scalfito dagli scandali e dagli eccessi. Un metodo applicato per “ripulire” le strade dal “disturbo estetico” dei soggetti marginali, degli anelli più deboli della società. In nome della legge e del quieto vivere, almeno apparente. In America Latina il record di omicidi nel 2011 Città violente, la prima in Honduras 21° New Orleans USA 1° San Pedro Sula HONDURAS 57 omicidi tasso di omicidi ogni 100.000 abitanti 6° Caracas VENEZUELA 98 omicidi 158 omicidi na media di 95 omicidi al mese, più di tre al giorno, un tasso di 158 morti ogni 100 mila abitanti. Sono i numeri record di una città dell’Honduras, San Pedro Sula, che si è guadagnata il titolo di città più violenta al mondo nel 2011. Lo stabilisce una classifica stilata dal Consiglio per la sicurezza e la giustizia del Messico, raccogliendo i dati sul numero degli omicidi commessi nelle città del mondo l’anno scorso. San Pedro de Sula è una città di 700 mila abitanti, la seconda per importanza e considerata il cuore economico del paese centramericano. Il suo dato si inserisce in un contesto preoccupante, in numeri parlano chiaro: delle 50 città più pericolose 40 si trovano America Latina, nessuna in Europa. U 4Mosul 4° IRAQ 37 omicidi 34° Città del Capo SUDAFRICA 46 omicidi DATI 2011 Sul “podio”, al secondo posto, c’è Juarez, città messicana al confine con gli Usa, sempre in cima alle classifiche degli anni precedenti. Scorrendo la graduatoria fino al 21esimo posto, troviamo la prima città statunitense, New Orleans, con 199 omicidi su quasi 350 mila abitanti. Con New Orleans, altre tre città americane: Detroit (30°), Saint Luis (43°) e Baltimore (48°). Al 34esimo posto la prima città non americana, Cape Town, in Sudafrica, 46 omicidi ogni 100 mila abitanti. A seguirla, altre tre connazionali: Porth Elizabeth (41°), Durban (49°) e Johannesburg (50°). L’unico posto in classifica per il Medio Oriente lo “conquista” Mosul, la città irachena con 636 omicidi su un milione e 800 mila abitanti. (ML) Pagina 16 PRIMO PIANO LAB Iulm Chi ha paura del controllore? Tra esigenze di legalità e multe che si perdono nel nulla, indagine sull’evasione nel sistema Atm. Una torta da 40 milioni di euro all’anno Roberto Procaccini dati raccontano che a Milano la media dei viaggiatori che non pagano il biglietto sui trasporti pubblici si attesta tra il 5 e l’8%. Tanto? Poco? Sicuramente troppo per Atm, l’azienda locale di trasporti, che secondo le stime di Palazzo Marino ci perde qualcosa come 40 milioni di euro all’anno. Ma pur sempre in media con le grandi città europee e nord-americane (vedi i valori di Londra, Parigi e New York, tutti compresi tra l’8 e il 9%). Cos’ altro raccontano i dati? Parlano di una città i cui costumi stanno cambiando: sempre più persone si attengono alle regole, sempre più persone si fidelizzano al servizio pubblico (come testimoniato dal boom di abbonamenti mensili e annuali), sempre più persone, in questa stagione di ritrovata attenzione per la legalità, non vedono di buon occhio le furberie piccole e grandi. Indicativo, in tal senso, il clima con il quale è stata accolta lo scorso febbraio la notizia dell’introduzione di squadre di controllori in borghese, sguinzagliati da Atm per sanzionare quei comportamenti (come attraversare il varco disabili o obliterare biglietti già usati) che il portoghese, in presenza di divise, non replicherebbe. E poi? Poi c’è che l’evasione del pagamento del ticket segue dinamiche che esulano dalla portata di un’azienda locale trasporti e riflettono questioni nazionali. Cioè? Nel mare magnum di chi si becca una multa (375mila nel 2010, 295mila nel 2011) una piccola quota – pari al 10-12% – è costituita da chi ha un titolo di viaggio non corretto (esempio classico: bi- I glietto urbano su tratta con capolinea extraurbano), mentre nell’88% dei casi è rappresentata di persone prive di ticket. Bene, il problema per Atm non è tanto comminare la multa, quanto farsela pagare. Mediamente l’azienda riesce a incassare solo il 30% delle contravvenzioni, parte conciliata sul posto, parte perseguendo i portoghesi nel lungo periodo. Ma ciò non evita che molti si possano permettere di non pagare mai. Perché? Qui torniamo alle questioni nazionali. La maggior parte dei contravventori sono stranieri (l’89% del totale secondo le stime del 2009, le ultime disponibili) che o forniscono false identità (nell’88% dei casi) o si rendono irreperibili (nel restante 12% dei casi). Tra il 2009 e il 2010 su 190mila persone multate che avevano dichiarato di essere residenti a Milano, solo il 20% diceva il vero, mentre l’80% non risultava all’anagrafe del comune meneghino. Il punto, NEL MONDO: allora, è che la debolezza di Atm dipende dalle politiche sui flussi migratori. La questione si innesta su un altro problema, relativo ai poteri dei controllori: mentre in alcuni paesi gli ispettori hanno la potestà di trattenere in stato di fermo se non di arresto i contravventori fino al loro riconoscimento, in Italia non possono fare altro che spiccare verbali. Atm ha però pronte le prime contromisure, alcune già concordate con la giunta Pisapia, altre ancora da definire. Innanzitutto continueranno gli investimenti sull’informatizzazione dei controlli, in corso dal 2007. “Atm Lab”, la direzione dedicata dell’azienda, ha dotato i 152 controllori di palmari collegati ad un server centrale capace di immagazzinare ed elaborare in tempo reale i dati rilevati. Londra, 50£ contro i furbi Parigi, 620 gli ispettori New York, c’è l’arresto All’ombra del Big Ben sono 285 gli ispettori. Dotati di palmari, comminano multe pari a 50 sterline (scontate del 50% per chi paga subito). Il tasso di evasione è dell’8%: nel 32% dei casi si tratta di persone prive di biglietto, nell’88% con ticket non corretto Nella capitale francese sono 620 i controllori, con il potere di trattenere in stato di fermo i trasgressori. Il tasso di evasione è dell’8,9%: il 13% delle multe è per chi ha il biglietto sbagliato, l’87% a chi non lo ha proprio. La sanzione è di 40 euro, 22 se si concilia subito Nella Grande Mela la multa vale 160 dollari e non prevede sconto. I controllori, per di più, hanno la facoltà di arrestare i portoghesi. Quelli che non pagano rappresentano l’8,6% dei viaggiatori: il 64% non ha il ticket idoneo, il 36% ne è sprovvisto Questi portatili diverranno a breve in grado di leggere la carta regionale dei servizi e il nuovo tesserino magnetico del permesso di soggiorno, così da verificare sul posto la veridicità dei documenti presentati dai contravventori. Infine saranno anche dotati di Pos (ovvero centralina per il pagamento con bancomat, carta di credito o prepagata), in modo da facilitare la vita a chi volesse conciliare subito. Altra determinazione dell’azienda è quella di incidere sulle abitudini stesse dei milanesi. Dal momento che i trasporti di superficie conoscono i tassi più alti di evasione (prossimi al 12%), l’ipotesi al vaglio (ora in fase sperimentale sulla linea 31 Cinisello – piazzale Lagosta) è quella di imporre un nuovo modo di fruizione di autobus e tram: ingresso obbligato da una sola porta, tornello “leggero” collegato a una mini-sirena in caso di biglietto errato o forzature, porte dedicate alla sola discesa dei passeggeri. Per quanto riguarda le linee metropolitane, l’idea invece è quella di sistemare tornelli all’uscita dove obliterare una seconda volta il ticket a fine viaggio. LAB Iulm PRIMO PIANO IL CASO/1: Pagina 17 Dagli Indignados a “nun te pago” un te pago!”. Può capitare di sentirlo urlare, rivolto al personale Atm, nelle stazioni del metrò da chi ha appena scavalcato i tornelli. Non è la provocazione di un esagitato né una sbruffonata. E’ una rivendicazione.“Nun te pago”, questo lo slogan e il nome di un movimento informale di disobbedienza fiscale che invita a non pagare il biglietto per il trasporto pubblico. Non nella maniera intima del portoghese, ma ostentando la propria condotta. Non vidimare il biglietto è un’infrazione dal valore materiale relativo, ma, nelle intenzioni dei promotori della protesta, dall’ampio portato simbolico. Perché così si vuole così individuare per il cittadino, in una “N L’INTERVISTA Spagna, scene di disobbedienza fiscale stagione di crisi e taglio ai servizi, una nuova modalità di rivendicazione rispetto all’amministra la cosa pubblica. Hanno portato a Milano questa protesta di origine straniera gruppi vicini al comitato No-Expo. Ad oggi la pratica è ancora marginale e affidata all’intraprendenza dei singoli. Nell’area delle stazioni della metro e delle fermate degli autobus vengono lasciati adesivi per sensibilizzare un pubblico più vasto. A far scattare la scintilla l’innalzamento tariffario dei biglietti ordinari (saliti ad 1,50 per le tratte urbane e a 1,90 per quelle extraurbane), ma più in generale c’è la volontà, da parte dei movimenti, di far sentire la propria pressione in vista “delle trasformazioni urbanistiche, e quindi ai sistemi di trasporto pubblico, che si prevedono entro il 2015”. Nato in Grecia nel 2011 quando, contro l’aumento dei pedaggi autostradali, cittadini bloccarono i caselli permettendo alle auto in transito di oltrepassarli gratuitamente, Nun te pago ha poi attecchito nella Spagna dei “recortes”, dove nelle grandi città gli indignados hanno esteso la pratica anche ad autobus e metropolitana. (RP) FABIO MOSCONI, RESPONSABILE SOSTA, PARCHEGGI E RAPPORTO CLIENTI ATM Per combattere i “portoghesi”, puntiamo sugli abbonati A breve multe meno salate e scaglionate in base al tipo di infrazione. Ok dai vertici dell’azienda e da Palazzo Marino l “comandante” dei 152 controllori ci accoglie in Foro Buonaparte nella sede di Atm. Lui è Fabio Mosconi, responsabile sosta, parcheggi e rapporto clienti dell’azienda, nonché deus ex machina delle contravvenzioni sui mezzi di trasporto pubblici di Milano. Si tratta di un ruolo non secondario vista la quantità di multe comminate nel corso degli ultimi anni (295 mila nel 2011) e la difficoltà a farle pagare ad alcune tipologie di clienti, in particolare gli immigrati che forniscono generalità fasulle e non sono più rintracciabili. Quanto pagano di multa attualmente i trasgressori e quanti effettivamente pagano? «Oggi il sistema delle sanzioni è ‘monovalore’, nel senso che la sanzione è di centocinquanta euro ridotti di un terzo se la conciliazione è immediata o il pagamento avviene entro i 60 giorni. Mediamente nel 2010 sono state spiccate più di un migliaio di multe al giorno, nel complesso 375 mila per un importo pari a 5,6 milioni di euro. Di queste, solo il 12% è stata pagata sul momento». E le altre? «Nel resto dei casi solo il 30% dei passeggeri abusivi ha pagato nei termini previsti. Il restante 70% non ha sanato la sua posizione. Gran parte di chi non si mette in regola entro due mesi non lo fa quindi nemmeno in seguito. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che il trasgressore non ha nessuna convenienza a tirare fuori i I soldi subito. Per questo motivo il Consiglio d’Amministrazione di Atm, con l’ok della giunta comunale, ha approvato una nuova struttura delle sanzioni». “ Quando entrerà effettivamente in vigore? «Tra qualche settimana, prima dell’estate». Come funzionerà questo sistema? «Verrà diminuito il valore della sanzione: sarà pari a circa 45 euro (meno della metà ri- spetto a prima) con pagamento immediato, a sessantacinque euro con versamento entro i 60 giorni, a centocinquanta euro dopo. In tal modo vogliamo indurre i viaggiatori ad avere un vantaggio nel pagare immediatamente. Venti euro in tempi di Fabio Mosconi Dell’ispettore si percepisce solo il lato punitivo, ma la sua è una funzione civica IL CASO/2: “ Giorgio Meroni Assago: ingressi gratis dall’uscita di sicurezza ’uscita di sicurezza si trasforma nel varco dei ‘furbetti’. Il luogo del fattaccio è la stazione Assago Forum (linea verde), dove lo scorso febbraio (ma il fenomeno andava avanti da tempo), attraverso la porta d’emergenza, migliaia di passeggeri sbucavano dal piazzale dei bus direttamente sul piano dei binari. Senza pagare il biglietto prendevano la metro, indisturbati. Di tornelli, telecamere e personale nemmeno l’ombra. Atm è corsa ai ripari con il presidio del varco e le conseguenti sanzioni ai trasgressori. “Nel progetto, da parte dei L L’uscita di sicurezza presa di mira dai “furbetti” costruttori, è stato sottovalutato il movimento dei passeggeri. Ma ora le uscite di sicurezza non si possono chiudere” dichiara Fabio Mosconi. La soluzione? “Installeremo tornelli, obbligando i clienti a timbrare. E’ un problema di struttura risolvibile. I colleghi sono già al lavoro. Il nodo è il reperimento delle risorse (si parla di 150-200 mila euro ndr)”. Episodi analoghi a quanto sembra non si sono verificati in altre fermate. “Anche ad Assago Milanofiori c’è un’uscita simile ma porta nel nulla e quindi non attrae l’attenzione e non è sfruttata” conclude Mosconi. Rimane il danno per l’azienda. Da febbraio 2011 sono partite da Assago almeno un milione e mezzo di persone: sono andati persi, pare, centinaia di migliaia di euro. (GM) crisi possono contare molto. Inoltre sarà differente il trattamento in funzione dei tipi di infrazione: un abbonato che dimentica la tessera a casa non deve pagare la stessa cifra del passeggero sprovvisto di biglietto e soprattutto deve essere un cliente ‘privilegiato’. In sostanza sborsare meno denaro». Quanto esattamente? «Ci stiamo ancora ragionando». “Essere abbonati conviene” potrebbe essere quindi il vostro slogan? «Certamente sì. La nostra volontà è proprio di preservarli e creare con loro un rapporto di vicinanza. Le tariffe degli abbonamenti, a fronte dell’aumento dei biglietti singoli avvenuto il settembre scorso, sono rimasti invariati proprio per far crescere il numero complessivo degli abbonati». I dati vi stanno dando ragione? «Abbiamo registrato un 30% in più in media di sottoscrizioni mensili e annuali a gennaio, il che testimonia una forte tendenza alla fidelizzazione al servizio di trasporto pubblico Atm con un conseguente aumento dei ricavi (+25% a gennaio, pari ad un incremento di 4.4 milioni di euro in confronto ad un anno fa). Sono invece in flessione i ‘titoli occasionali’, come i biglietti singoli, diminuiti del 9%, proprio come era nelle intenzioni dell’azienda.Questi numeri, a mio modo di vedere, testimoniano l’apprezzamento per i nuovi sistemi attivati dall’azienda per facilitare agli utenti la sottoscrizione e il rinnovo delle tessere (sito internet, bancomat e parcometri)». Una borsa Pagina 18 ECONOMIA LAB Iulm piccola piccola Piazza Affari vale solo il 20% del Pil italiano, una capitalizzazione tra le più basse in Europa. Perchè? E’ soprattutto un problema di famiglia Valentina Casciaroli iù che una Borsa, una pochette. E’ questo il dato forte che emerge dal Review annuale della Borsa italiana. Piazza Affari scivola al ventesimo posto per capitalizzazione: vale solo 333,3 miliardi di euro, pari al 20,7% del Pil. Una percentuale tra le più basse all’interno dei paesi OCSE e inferiore anche a buona parte dei paesi in via di sviluppo. Perché il sistema produttivo italiano è allergico al mercato azionario? Iniziamo dal politologo statunitense Edward Banfield e dal suo tanto citato “familismo amorale”. Il Sistema Italia si basa su aziende di famiglia, grandi, piccole o medie. Buona parte delle esperienze imprenditoriali italiane nascono dal genio di un capofamiglia e si nutrono di quell’energia, quella pas- P IL TREND sione e quell’affiatamento che solo le mura sicure della famiglia possono offrire. Esse crescono poi lungo quella serie di relazioni personali che dalla famiglia arrivano alla parrocchia, alla comunità cittadina. Ecco allora i distretti italiani, croce e delizia del Belpaese. Una miriade di piccole, medie e grandi imprese sospese tra competizione e cooperazione. Tutti si conoscono nel distretto, ci si può fidare. Le banche concedono mutuo e finanziamento a coloro che ne sono degni, mentre il debito aumenta. Milano con la sua Piazza Affari è lontana. Lì non si conosce nessuno. E poi, raccogliere capitali attraverso una quotazione in borsa vuol dire cedere sovranità. Investitori esterni avranno qualcosa da dire sull’operato dell’azienda perché ne saranno in parte proprietari. Meglio dunque au- mentare il debito piuttosto che raccogliere altro capitale e dover dividere decisioni, oneri e onori. Tuttavia, anche le imprese che divengono SPA hanno qualche difficoltà ad abbandonare la vecchia governance. Se nel resto del mondo il management è spesso espressione dell’azionariato diffuso, in Italia gli investitori non hanno alcun potere decisionale poiché le attività dirigenziali sono, salvo eccezioni, legate esclusivamente alla cerchia familiare. Al punto da ridurre le assemblee degli azionisti a vuoti rituali.Vi è poi la questione dell’educazione finanziaria degli italiani, tra le più basse in Europa. La finanza è un mondo che gli italiani non conoscono e di cui non si fidano. A nostra discolpa c’è da dire che casi come Parmalat e Cirio non hanno aiutato gli italiani a fidarsi della finanza. Piazza Affari, su cui campeggia il famoso “dito” di Cattelan Dunque l’Italia ha deciso di fare a meno di Piazza Affari. Potrà andare avanti? In fondo le imprese sembravano aver trovato quel delicato equilibrio che le ha permesso di mantenere la proprietà dei propri asset, indebitarsi, esprimere il proprio genio e esportare intutto il mondo. Ma la crisi economica ha influenzato molto Economia mondiale: è iniziata la corsa al capitale questo scenario: nel 2001 la piazza milanese era ottava al mondo con una capitalizzazione di 593 miliardi, pari al 50% del Pil dell’epoca. Nei quasi dieci anni tra la fine del 2001 e il giugno del 2011, i miliardi sfumati nella borsa italiana sono stati circa 234, con una riduzione della capitalizzazione del 26,4%. Secondo i Il credit crunch colpisce sopratutto le aziende indebitate come quelle italiane Negli scorsi anni si è tanto parlato di corsa all’indebitamento, dunque ora non dovremmo stupirci di essere nel bel mezzo della peggiore crisi da sovra-debito dal 1929. Secondo il McKinsey Institute i prossimi anni passeranno invece alla storia per la corsa al capitale: banche e imprese, per sopravvivere, dovranno rafforzare la propria struttura patrimoniale con abbondanti iniezioni di denaro. Secondo la società di consulenza entro il 2020 le aziende di tutto il mondo avranno bisogno di 37.400 miliardi di dollari di nuovo capitale. Tuttavia, sempre secondo i dati diffusi dalla società americana, nei prossimi anni si investirà meno in borsa. Le azioni sono il capitale dell’azienda quotata: se c’è meno appetito, il loro valore scende e, proporzionalmente, aumenta la necessità di capitale. Gli istituti di credito hanno già aperto la caccia, le imprese non tarderanno a farlo. Dunque, banche e aziende in questa corsa alla ricapitalizzazione si pesteranno i piedi le une con le altre.Svantaggiato sarà soprattutto chi parte da una situazione patrimoniale più fragile: poco capitale e molti debiti, come le aziende italiane. Le imprese della penisola hanno infatti da sempre avuto la tendenza a finanziare le proprie attività con il ricorso al debito piuttosto che con aumenti di capitale, più co- La borsa di Wall Street stosi nel breve termine ma garanti di solidità nel lungo periodo. E i problemi non finiscono qui: la struttura del debito delle aziende italiane rende il nostro sistema particolarmente fragile e poco appetibile in questo momento. Calcola Bnp Paribas che in Italia le aziende si indebitano al 91% attraverso il canale bancario e solo al 9% attraverso il mercato obbligazionario. Questo espone le aziende italiane agli umori delle banche. E ora, ciò, è diventato un problema. Se finora le imprese della penisola avevano beneficiato della loro scarsa affezione per il mondo della finanza, poiché questo le aveva messe al riparo dal continuo sali-scendi del mercato azionario e dai capricci delle agenzie di rating, adesso iniziano i guai. Con la stretta del credito, il famigerato credit crunch, che si fa sempre più tangibile l’Italia non può che partire svantaggiata nella corsa al capitale. Riuscirà la crisi economica a tagliare il cordone ombelicale che persiste tra banche e imprese italiane? Certo è che occorre mettere mano al portafogli e ricapitalizzare. I capitali, però, mancano, e allora bisognerà cercarli altrove. Perché l’importante, al di là del mezzo, è sottoporre le imprese in sofferenza a iniezioni di capitale. Insomma, ricapitalizzi chi può. LAB Iulm ECONOMIA Rapporto capitalizzazione Borsa di Milano- Pil italiano Pagina 19 I CASI E l’Italia fece crack TangoBond,CirioeParmalat:lasfiduciainiziaprimadel2008 e imprese non sono le uniche ad avere scarso appeal per Piazza Affari. Anche un altro soggetto economico, i risparmiatori, sono pervasi da una sfiducia generalizzata. Stavolta la crisi economica non c’entra. E’ successo tutto molto prima del 2008. In soli tre anni tre crack finanziari si sono susseguiti. L Mai così in basso dal 1996. Come si vede dal grafico, Piazza Affari non scende sotto quota 21% da 16 anni. Il record positivo si registra invece nel 2000, quando la Borsa di Milano arriva a capitalizzare una cifra pari al 68,7% del Pil italiano. Rapporto capitalizzazione- Pil di Paesi Ocse ed emergenti TANGO BOND Era il 2001 quando l’Argentina, per arginare la crisi che l’aveva investita, decise che i miliardi di obbligazioni collocati in giro per il mondo dovevano diventare carta straccia. Oltre la beffa, il ricatto: o i risparmiatori prendevano i Tango Bond, con durate lunghissime e interessi bassissimi, o si tenevano i titoli infruttiferi. In ogni caso la perdita del valore dei titoli sfiorava il 70%. Poi dicono che i titoli di Stato sono investimenti sicuri! CIRIO Dal grafico emerge la forte capitalizzazione delle borse dei paesi emergenti, mentre nei paesi OCSE la finanza ricopre un ruolo sempre più marginale. Il Brasile, con il suo 64% sta per raggiungere gli USA, fermi a quota 86,70%. Il Sudafrica si attesta a quota 87,20% superando di gran lunga il 72,80% della Spagna, mentre la Russia degli oligarchi sfiora quota 207%. calcoli di Wall Street Italia la Borsa di Milano ha oggi una capitalizzazione complessiva inferiore a quella di appena due società americane: Apple ed Exxon, che insieme capitalizzano a Wall Street 755 miliardi di dollari, pari a 531 miliardi di euro. Tutti questi dati cosa hanno a che fare con l’economia reale? Molto più di quanto possiamo pensare. Un mercato azionario piccolo in rapporto all’economia del Paese contribuisce in maniera marginale alla crescita della nazione e al rafforzamento delle imprese. Un sistema finanziario sviluppato ed efficiente è un volano necessario per la crescita di un paese. Solo gli investitori finanziari hanno la liquidità per finanziare progetti di sviluppo ampi e di lungo termine. Negli ultimi venti anni l’Italia non è cresciuta, ha investito poco in ricerca e in formazione del capitale umano, non ha saputo integrare i giovani nel sistema lavorativo. Si può incolpare la classe politica o gli evasori fiscali , ma indubbiamente in tutto ciò un ruolo fondamen- LA STORIA Ilfrancobollodedicato al bicentenariodellaborsaitaliana -1808: viene istituita la “Borsa di Commercio” di Milano, con decreto del vicerè Eugenio Bonaparte. -1932: viene inaugurato Palazzo Mezzanotte, tutt’ora sede della Borsa. -1996: un decreto legislativo prevede l'avvio di una procedura di privatizzazione della Borsa italiana, che porta alla nascita di Borsa Italiana S.p.A. -1997: la Borsa Italiana accorpa e sostituisce tutte le piazze di scambio minori, che svolgevano una funzione regionale, come ad esempio la Borsa Valori di Roma. -2007:la Borsa Italiana si fonde con la Borsa di Londra andando a creare il London Stock Exchange group. tale lo ha svolto l’assenza di un sistema finanziario degno di un paese industrializzato. Quando un paese raggiunge un certo livello di sviluppo, l’ulteriore crescita può avvenire solo puntando su attività che difficilmente possono essere finanziate con debito. Le aziende piccole e poco capitalizzate non effettuano ricerca, non possono permettersi di pagare personale altamente qualificato. Ecco dunque che restano isolate nel microcosmo dei distretti, dove neanche il merito viene premiato a pieno perché è importante assumere persone fidate prim’ancora che qualificate. Poi c’è l’arena globale, quella in cui i pesci piccoli, soprattutto se macinano utili, vengono inghiottiti da quelli grandi. Gucci, Bulgari, Brioni… solo alcuni dei gioielli italiani finiti oltralpe. Se le imprese italiane continueranno a rifugiarsi nelle mura amiche dei distretti e a finanziarsi con le risorse famigliari e il debito bancario, l’Italia non riuscirà mai a fronteggiare le sfide poste della globalizzazione. Il crack della Cirio risale al 2003, ed ha tutta la fisionomia di un disastro annunciato. I finanziamenti bancari passano dal 94% dei debiti verso terzi del 1999 al 28% del 2002, mentre le obbligazioni avanSergio Cragnotti zano dal 6 al 72%. I Bond nel Amministratore Unico Cirio. 2002, in sostanza, hanno sostituito il debito bancario finendo nel portafoglio di circa 35 mila piccoli risparmiatori. Questi Bond erano originariamente stati emessi in Lussemburgo con titoli riservati ad investitori istituzionali (ovvero le stesse banche). Dunque, non avrebbero potuto essere venduti allo sportello attraverso una sollecitazione al pubblico risparmio, ma solo su eventuale esplicita richiesta dei clienti. Tuttavia questi titoli sono passati, per gran parte, dalle banche ai piccoli risparmiatori. Gli istituti di credito hanno fatto ciò perché sapevano che il gruppo Cirio era sull’orlo del fallimento? Sarà il tribunale a stabilirlo. La sentenza di I grado è arrivata il 4 luglio 2011: le banche sono state riconosciute responsabili e Geronzi, ad di Unicredit all’epoca dei fatti, è stato condannato a 4 anni di reclusione. PARMALAT Il caso Parmalat arriva subito dopo quello Cirio, che aveva già profondamente minato la fiducia nei confronti del sistema finanziario e creditizio del nostro paese. Il crack Cirio, c’è però da dire, risultò di proporzioni decisamente più piccole. Parmalat, infatti, era l’ottavo gruppo industriale italiano per fatturato, era presente in 30 di versi paesi e in tutti e cinque i continenti. Nonostante la sua Calisto Tanzi struttura globale, Parmalat tutAd Parmalat tavia è sempre rimasta un gruppo a conduzione familiare. La società contava su tanti piccoli azionisti, mentre mancavano altri rilevanti soci industriali che avrebbero garantito una maggiore dialettica imprenditoriale. La famiglia non è mai voluta scendere sotto il 51%, la struttura di governo dell’azienda ha sempre mantenuto un vertice inaccessibile. E’ il dicembre 2003 quando si scopre che il buco della Parmalat è di 14 miliardi di euro, pari all’1% del Pil italiano. Due miliardi di euro di obbligazioni erano state sottoscritte da piccoli risparmiatori. Il fallimento della Parmalat è costato l’azzeramento degli investimenti dei piccoli azionisti, mentre i risparmiatori che hanno acquistato bond hanno ricevuto solo un parziale risarcimento. Una grande banca americana, la Citigroup, ha caldeggiato l’acquisto di bond ai risparmiatori fino a pochi giorni prima del crack. Incredibile fu anche il ritardo con cui Standard&Poors ha declassato la Parmalat: praticamente quando il dissesto era già ampliamente manifesto. Viene da chiedersi: dov’erano in quegli anni le agenzie di rating? Hanno sbagliato. Potrebbero farlo di nuovo. (vcc) Unioni all’italiana Pagina 20 SOCIETA’ LAB Iulm Sono sempre più i Comuni che ricorrono ai registri delle coppie di fatto. A Milano Pisapia lo ha promesso entro il 2012. Ma a cosa servono senza una legge nazionale? Silvia Egiziano ra il 27 giugno del 1992 quando dieci coppie, nove di uomini e una di donne, celebrarono a Milano, in Piazza della Scala, il primo matrimonio gay simbolico d’Italia. A officiare le nozze davanti a Palazzo Marino, la sede Comune, fu Paolo Hutter, primo consigliere comunale milanese a dichiararsi gay. Più che un vero e proprio matrimonio, i manifestanti chiedevano una legge che ne riconoscesse la parità di diritti e l’uguaglianza rispetto agli altri cittadini, degna di un paese europeo, avanzato e “civile”. A distanza di vent’anni, cosa è cambiato nel nostro paese? In concreto niente, se si esclude il debole tentativo del governo Prodi di introdurre i “Dico” sul modello dei Pacs francesi. Un tema spinoso quello delle coppie di fatto, cancellato dall’agenda dai governi Berlusconi e che neanche l’esecutivo Monti sembra avere intenzione di affrontare, nonostante la recentissima sentenza della Corte di Cassazione che, accogliendo il ricorso di una coppia gay sposata in Olanda, ha riconosciuto alle unioni omosessuali gli stessi diritti delle famiglie fondate sul matrimonio. Se in Italia si continua a discutere sulla nozione di “famiglia”, la tendenza in Europa sembra invece ormai chiara. La maggior parte dei paesi riconosce diritti alle coppie di fatto e ben sette, ai quali a giugno si andrà ad aggiungere la Gran Bretagna, hanno adottato le nozze omosessuali. Una tendenza sancita di anche dal Parlamento di Strasburgo, secondo cui gli stati membri non devono dare “definizioni restrittive di famiglia allo E scopo di negare protezione alle coppie gay e ai loro figli”, dando così il via libera, in linea di principio, al matrimonio omosessuale. Posizione che ha scatenato un acceso dibattito sia a destra che a sinistra. E mentre la politica si divide, i Scola: “Non possono essere i sindaci a decidere sulle coppie di fatto” problemi delle coppie di fatto restano e, in mancanza di una legge nazionale, sono crirca 60 le città italiane che hanno adottato i registri delle “unioni civili”, grazie ai quali anche le LA STORIA coppie non sposate, etero o gay che siano, possono accedere ad alcuni diritti e agevolazioni altrimenti riservati alle coppie sposate. Ultima, in ordine di adozione, è Napoli, dove il sindaco De Magistris lo aveva promesso in campagna elettorale. Anche a Milano Giuliano Pisapia aveva fatto delle unioni civili uno dei punti cardine del suo programma, ma qui le cose appaiono più complicate. Ad aggravare le già note divisioni del centrosinistra, qui a rallentare l’iter del registro, promesso dal sindaco entro il 2012, c’è anche l’imminente visita di Papa Benedetto XVI, che dall’uno al tre giugno sarà a Milano in occasione del Forum mondiale delle famiglie. Il banco di prova per il fu- turo registro è stato l’estensione del fondo anticrisi alle coppie di fatto, anche dello stesso sesso, approvato a gennaio scorso dalla giunta. Il provvedimento, fortemente difeso dall’assessore alle Politiche sociali Pierfrancesco Majorino e prontamente bollato come “anticostituzionale” dall’Avvenire, ha fatto emergere molti mal di pancia non solo nell’opposizione, ma anche all’interno dell’area cattolica del Pd, che ha accusato la giunta di aver scavalcato il consiglio comunale. Tra le prime a prendere le distanze dall’iniziativa, condannando la fuga in avanti della giunta, è stata la consigliera del Pd Marilisa D’Amico, presidente della commissione Affari istituzionali a Palazzo Marino. Niente di strano, se non fosse che la stessa D’Amico, a metà febbraio, con una mossa a sorpresa ha annunciato il deposito in Consiglio della delibera istitutiva del registro delle unioni civili, primo passo per una discussione in aula che, nelle sue Majorino: “Sulla delibera andremo avanti”. Prevista l’approvazione a settembre intenzioni, sarebbe dovuta avvenire in estate, solo dopo l’approvazione del Pgt e del bilancio. Il testo, ispirato al modello di Torino, definisce le unioni civili come “un insieme “Convivivo da 20 anni, ora chiedo diritti” Le aspettative di Marco, omosessuale milanese in attesa che il Comune approvi le unioni civili arà anche solo per il suo valore simbolico, ma quando sarà approvato il registro delle unioni civili io mi ci iscriverò subito”. Non ha dubbi, Marco. “In Italia siamo al grado zero in merito ai diritti civili – aggiunge – quindi non possiamo dare niente per scontato: questo è un primo passo, e in quanto tale è importante. Poi non posso che essere lieto dell’attenzione che il Comune di Milano sta rivolgendo a questa tematica. Dopo venti anni di medioevo, direi”. Marco ha circa 45 anni. La sua non è una storia eccezionale: nato a Brescia, trasferitosi a Milano da ragazzo, lavora presso un’azienda informatica ed è il “deputy director” (vicedirettore, “S diremmo noi) di Parks, associazione no-profit di imprese che tutelano e promuovono al loro interno la diversità sessuale. Il compagno di Marco ha qualche anno in più ed è medico. Convivono da 17 anni e costituiscono una famiglia arcobaleno, dal momento che insieme crescono figli avuti da precedenti relazioni. Proprio perché non eccezionale, la voce di Marco rappresenta un campione interessante di chi, il giorno in cui il comune di Milano approverà – eventualmente – la delibera sulle unioni civili, di questo registro potrà giovarsi. Se gli si fa notare che il registro già esiste in oltre 60 comuni italiani, ma in molti di questi non ha riscosso grande successo, la determinazione di Marco non diminuisce. C’è chi dice che una delle debolezze delle unioni civili è che non preveda un rituale pubblico, ma tutto si risolve in una domanda e in una marca da bollo, lo sapevi? “Che c’entra – risponde – . Non è il matrimonio, non c’è enfasi, non c’è riso da lanciare e non c’è marcia nuziale. Non può neanche essere equiparato a qualcosa di simile a un matrimonio. Ma dobbiamo essere pratici e concreti – puntualizza –: stiamo parlando di uno strumento che riconosce alle coppie, anche omosessuali, diritti e doveri. E i diritti sono la cosa più importante”. C’è chi adombra il sospetto che in alcuni contesti (magari non a Milano, ma in città più piccole sì) al registro delle unioni civili non si è iscritto nessuno perché è difficile fare outing. Forse la società italiana non è pronta? “Sciocchezze – taglia corto Marco – la società civile è prontissima. Anzi, malgrado tutto, è molto più avanti di quanto la classe politica locale e nazionale la voglia rappresentare. Fosse per loro, saremmo fermi agli anni ’50 e nel codice penale avremmo ancora l’attenuante del delitto d’onore”. (RP) LAB Iulm SOCIETA’ L’INTERVISTA Pagina 21 IVAN SCALFAROTTO, VICEPRESIDENTE NAZIONALE PD “In nessun paese un ritardo come il nostro” Parla il dirigente democratico, dai Comuni lo stimolo perché l’Italia introduca i matrimoni gay Q di persone legate da vincoli affettivi coabitanti e aventi dimora abituale nello stesso comune”. Il registro sarà istituito all’anagrafe, che rilascerà ai richiedenti un attestato di famiglia anagrafica “basata su un vincolo affettivo, inteso come reciproca assistenza morale e materiale”. In concreto, l’articolo sul sostegno alle unioni civili prevede la possibilità di accedere alle graduatorie per l’assegnazione delle case popolari e ai contributi per l’affitto o per il mutuo. Particolare attenzione sarà data alle situazioni di svantaggio economico e sociale. Previste agevolazioni anche per la sanità comunale, lo sport e il tempo libero, i servizi Atm, la scuola e l’assistenza sanitaria ai conviventi in caso di malattia. L’iniziativa ha scatenato vero un vespaio di polemiche soprattutto all’interno della maggioranza che sostiene il sindaco Pisapia, da Sel all’area cattolica del Pd. Risultato: provvedimento “congelato” a data da destinarsi. Un'ipotesi, adesso, è che possa essere presentato in estate, in una data simbolica come quella del Gay Pride nazionale, per essere approvato a settembre. Nel frattempo, a frenare il progetto della giunta è arrivato anche il monito dell’arcivescovo Angelo Scola. “Non possono essere i sindaci a decidere sulle coppie di fatto - ha sottolineato Scola in un’intervista a Famiglia Cristiana - operazioni di questo tipo possiedono una preoccupante connotazione ideologica”. “Massimo rispetto per Scola, ma noi andremo avanti” ha invece confermato Majorino. I tempi sono quindi destinati a dilatarsi, ma da più parti, assicurano, il registro si farà. Nella speranza che Milano, oltre che arancione, possa essere sempre più arcobaleno. ualcosa in Europa si muove. Tra qualche mese le coppie omosessuali inglesi potranno sposarsi legalmente, come è già possibile in Spagna e Danimarca. Ma, mentre Londra prepara i confetti arcobaleno, in Italia si discute ancora la definizione di amore. La situazione italiana non è cambiata di tanto negli ultimi 20 anni, anzi il nostro paese è rimasto dov’era, al punto zero. Ce lo spiega Ivan Scalfarotto, vicepresidente nazionale del Partito Democratico e autore del libro di denuncia “In nessun paese”, che racconta cosa succede all’estero mentre da noi i diritti degli omosessuali sono ancora tabù. «La tragedia è che il resto del mondo si è mosso, e moltissimo. Tutti i paesi con i quali ci confrontiamo abitualmente si sono dati delle leggi molto avanzate. Se la mettiamo in questi termini, la stasi italiana è addirittura vergognosa». Perché da noi è ancora così difficile parlare non solo di matrimonio ma anche di unioni civili? «Credo che ci sia una serie il Pd non è così compatto. di cause concorrenti. Sicuramente dobbiamo fare Non crede che questo influii conti con una certa pavidità sca sulle scelte legislative? «Non è una questione di dedella politica italiana che per ragioni di consenso elettorale stra o sinistra. Semplicemente rinuncia a fare ciò che sarebbe ci sono delle volte in cui la pogiusto. E non dobbiamo di- litica tiene la schiena dritta e menticare l’opposizione volte in cui non lo fa. Quando estrema della Chiesa Cattolica venne approvata la riforma del diritto di che ha cofamiglia, struito nel 1975, una trinla classe cea invalidirigente cabile». italiana Eppure ebbe la cain altri pacità di paesi catprendere tolici, delle posicome la z i o n i Spagna, Ivan Scalfarotto anche scosi è rium o d e . sciti a Oggi non istituzioOggi la politica riusciamo nalizzare non ha più il coraggio a farlo e il matridi innovare e di tenere paghiamo monio un prezzo omosesla schiena dritta m o l t o suale. alto». Non crede Pisapia che questa sia un’anomalia tutta ita- ha dichiarato che entro l’anno Milano si doterà di un liana? «Il condizionamento della registro per le unioni civili. Il Chiesa nel nostro paese è sicu- Pd appoggia questa iniziaramente agevolato da una poli- tiva? «Beh, credo di sì, in fondo tica che è troppo ricettiva, che spesso non riesce ad imporsi». era nel programma di Pisapia Se la Spagna può vantare quando si è presentato alle eleuna coalizione di centro-sini- zioni». Ma il Pd è coeso sull’argostra piuttosto coesa, in Italia “ “ Claudia Osmetti L’ITALIA DEI REGISTRI PADOVA Palazzo Moroni E’ la prima città italiana a istituire l’attestazione di famiglia anagrafica. Approvata con delibera nel dicembre 2006 (giunta Zanonato). Requisito per l’accesso al documento è la dimostrazione della convivenza. Sulle oltre duecento coppie registrate, il 20 per cento è rappresentata da quelle omosessuali. I comuni che hanno adottato lo strumento sono più di 60. Ecco i principali: . ... .. Torino NAPOLI Palazzo San Giacomo E’ l’ultimo grande comune italiano ad essersi dotato di registro delle unioni civili e certificazione di famiglia anagrafica. La giunta De Magistris ha così completato un iter travagliato protrattatosi durante primo e secondo mandato della Iervolino (2001-2011). Per sostenere il provvedimento è nato un comitato di associazioni. BOLOGNA Palazzo D’Accursio Ferrara Firenze Pisa mento? «Il presidente del partito, Rosy Bindi, sta elaborando una linea comune. Io non credo che il Pd prenderà una posizione sul matrimonio, la maggioranza del partito è favorevole piuttosto alla regolamentazione delle unioni civili. Questo non significa, però, che il Pd non abbia preso l’iniziativa sui diritti degli omosessuali. Nel 2006, il governo Prodi provò a introdurre i DICO, una proposta già allora insufficiente, ma comunque un primo passo avanti». Un registro per le unioni civili a Milano. Napoli l’ha appena approvato. Queste iniziative comunali hanno senso senza l’appoggio di una legislazione nazionale? «Queste iniziative hanno efficacia sul piano simbolico, a livello di contenuti è ovvio che non spetta ai comuni legiferare su questo tipo di cose. Il significato di queste proposte è per lo più politico. Due città, due capitali italiane come Milano e Napoli, si sono schierate di recente per l’uguaglianza e la pienezza dei diritti di tutti i cittadini e delle loro famiglie. Effetti pratici purtroppo non ce ne sono, ma sul piano simbolico è un passaggio molto importante». . . Bari Se non crea divisioni all’approvazione, non è detto che il registro non le comporti dopo. E’ il caso di Bologna, dove il registro è stato istituito nel 1999 ma la cui utilità è stata recentemente messa in discussione. Valentina Castaldini, presidente in quota Pdl della commissione affari generali e costituzionali del comune felsineo, ha denunciato che “in dodici anni di esistenza neanche una coppia si è iscritta al registro”. Secondo Gaia Giuliani, ricercatrice presso l’Università di Bologna e esperta di questioni di genere, sono state diverse le debolezze del registro: “Non ha goduto della pubblicità che meritava, non si è creato intorno ad esso un movimento d’opinione laico che lo sostenesse e, soprattutto, non risulta davvero utile”. A cura di Roberto Procaccini Pagina 22 IULM NEWS LAB Iulm Non ci resta che ridere Dal 2 al 4 maggio l’Università Iulm ospiterà la seconda edizione dello “Iulm Creative Happening”. Quest’anno va in cattedra la satira politica. Interverranno Luca e Paolo, Geppi Cucciari e i Soliti Idioti. Un’occasione per riflettere sul futuro dell’irriverenza nell’era della sobrietà Alessandro Bartolini ’è sempre da divertirsi nell’era della crisi e della sobrietà politica? Quali saranno i bersagli della satira adesso che l’intera classe dirigente del Paese sembra aver indossato le vesti della responsabilità? Adesso che “bisogna abbassare i toni”. Adesso che le parole che girano più frequentemente sulla bocca dei tecnici e dei politici sono: crisi, sacrifici e rigore? Che noia! E pensare a quanto ci siamo sganasciati dalle risate in questo decennio. Ci siamo divertiti come matti; a memoria d’uomo repubblicano mai una classe politica aveva divertito così, e anche i comici hanno avuto gioco facile: alcuni hanno fondato le loro brillanti carriere prendendo in giro il circo di nani e ballerine offerto dalla Seconda Repubblica. Proprio ora dovremo annoiarci a morte? Oppure qualche bravo comico riuscirà, in un modo o nell’altro, ad inventarsi qualcosa per strapparci due risate anche ora che c’è poco da scherzare? Insomma, che ne sarà della nostra cara, vecchia, C “ satira politica? È questo lo spunto di riflessione che dal 2 al 4 Maggio sarà al centro della rassegna Iulm Creative Happening, il Festival multimediale delle Università e delle Scuole di Cinema dell’Unione Europea Il modello di satira vincente è quello dei “Soliti Idioti” perché spingono all’estremo i vizi del berlusconismo ma senza parlare di politica ” promosso dall’Università IULM. Ma a differenza della prima edizione, quest’anno, la manifestazione non utilizzerà solamente il cinema come forma espressiva ma tenterà di I volti de “Gli Sgommati”, il programma di satira politica trasmesso da SkyUno coinvolgere ogni ambito creativo: spazio dunque alla musica, alla letteratura e alla fotografia. Quello che non cambierà rispetto all’edizione passata sarà il tema fisso come filo conduttore dei lavori presentati dai partecipanti. Un tema che si adatta ai tempi che corrono. Infatti, se l’anno scorso lo spunto veniva offerto dalla serietà: parola bandita agli onori delle cronache politiche, in un Paese che appariva irresponsabilmente spensierato, quest’anno tocca ad uno dei più antichi generi letterari ma anche una delle più potenti forme di linguaggi invisi al potere. Durante la tre giorni di conferenze e tavole rotonde saranno ospitati veri e proprie istituzioni del tema. Solo per fare alcuni nomi: Geppi Cucciari, Luca e Paolo e i “Soliti Idioti” campioni d’incassi al botteghino, Francesco Mandelli, alias il Nongio e Fabrizio Biggio oltre che ai protagonisti di Zelig; senza dimenticare la satira che si sta muovendo sul web dove i modelli vincenti non mancano, basta pensare al blog di “Sora Cesira” o alle battute taglienti sull’attualità politica create dalla community del blog “Spinoza.it”. Ma oltre alla riflessione sulla satira – spiega il Prof. Gianni Canova, preside della Facoltà di Comunicazione, relazioni pubbliche e pubblicità all’Università Iulm e promotore dell’evento - in questi tre giorni di full immersion in risate, si presenterà anche l’occasione per i partecipanti di cimentarsi nelle vesti di comici.” Oltre ai workshop gratuiti e a numero chiuso di otto ore al giorno con il tema “Scrivere il comico per…”, organizzati da professionisti come Umberto Contarello, sceneggiatore di Nanni Moretti e Paolo Sorrentino, sarà organizzato, insieme alla tv satellitare Comedy Central in onda su Sky, partner della manifestazione, un concorso che vuole essere un momento di placement: “Costruiremo una specie di video box spiega Canova – ed ogni giorno daremo un tema giornalistico e inviteremo chi lo desiderasse a registrare due minuti di Gianni Canova, preside della Facoltà di Comunicazione, Relazioni Pubbliche e Pubblicità IULM LAB Iulm IULM NEWS OSSERVATORIO PROFESSIONI Pagina 23 IL NUOVO INDIRIZZO IULM Digital marketing Laureati e imprese Il gap si può colmare? per professionisti 2.0 Silvia Pagliuca C osa fare da grandi: ecco il grande dilemma dei neolaureati italiani. Con un livello di disoccupazione giovanile che tocca cifre da record, trovare lavoro subito dopo la laurea rischia di essere un’impresa sempre più difficile. Riuscire ad individuare i settori di eccellenza e le aree professionali in espansione verso le quali indirizzare i propri laureandi, è la scommessa a cui gli atenei italiani sono chiamati a rispondere. A questo scopo è stata presentata lunedì 16 aprile presso l’Aula Magna dell’Università IULM la prima “Indagine sulla formazione dei neolaureati ed esigenze d’impresa”, realizzata dall’Osservatorio sulle professioni dell’Università IULM. Analizzare il gap tra sistema universitario e necessità d’impresa è il punto centrale di una ricerca che ha visto impegnate circa 200 grandi aziende italiane, con la collaborazione di Fondazione Crui e Centromarca e il patrocinio del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. L’indagine ha messo in evidenza la distanza esistente fra le aspettative delle imprese e le competenze dei nuovi laureati. monologo comico o satirico su quel tema. A fine giornata l’ideatore del monologo più divertente vincerà 1.000 euro, che di questi tempi non sono zuccherini. Non solo, ma i vincitori vedranno il loro video pubblicato oltre che sul sito dell’università Iulm anche su quello di Comedy Central e avranno l’opportunità di partecipare ad un provino per questa tv.” Sarà da questo concorso che spunteranno fuori i nuovi mattatori della satira che deve trovare nuovi spunti da una politica terribilmente noiosa? Speriamo, ma intanto chi, fra gli artisti in circolazione, si adatta meglio a questa fase di passaggio sia per la politica che di conseguenza per la satira? “Secondo me - dice Canova – i “Soliti Idioti” offrono un modello originale: Ruggero e Gianluca (padre e figlio) incarnano tutti i vizi e i difetti del berlusconismo, portandoli grottescamente all’eccesso ma senza mai parlare di politica.” Ma adesso che l’homo berlusconiano sembra che si stia estinguendo, chi e come saprà prendere in giro la realtà? Lo scopriremo solo ridendo. Digitale ed eco-sostenibilità, public speaking e problem solving, sono le aree formative che gli atenei dovranno potenziare. Ad aprire la giornata di lavori sono stati il Magnifico Rettore dell'Università IULM, il Prof. Giovanni Puglisi, e il presidente di Centromarca, Luigi Bordoni. I dati dell'indagine sono stati oggetto di analisi in una tavola rotonda che ha coinvolto numerosi esponenti del mondo accademico e di quello imprenditoriale tra cui Emanuela Stefani (Direttore Fondazione Crui); Alessandro Belleri (Direttore risorse umane CocaCola Hbc Italia); Filippo Romanini (Direttore Barilla LAB for Knowledge Innovation) e Cristina Scialino (Direttore risorse umane L'Oréal Italia). L’Osservatorio pubblicherà un Libro Bianco in cui saranno riunite le proposte per avvicinare i neolaureati ai profili professionali più richiesti. Roberto Procaccini l marketing aziendale ai tempi dei social network e del web 2.0 è cambiato. La formazione di chi nel marketing opera si è adeguata ai nuovi strumenti tecnologici? No, o meglio, non ancora. E’ per rispondere a questa lacuna che l’università Iulm presenta “Digital Marketing Management”, nuovo indirizzo di studio del corso di laurea magistrale in Marketing, Consumi e Comunicazione. Operativo dall’anno accademico 20122013, l’indirizzo si rivolge agli studenti che vogliano costruire le basi per essere conoscitori dei meccanismi digitali della comunicazione nonché professionisti capaci di affiancare alle leve tradizionali del marketing quelle proposte dalla tecnologia. Il piano di studi è stato elaborato in sintonia con imprese partners dell’università quali Barilla, Bnl-Bnp Paribas, L’Oréal, Intel, Microsoft e Vodafone, oltre che realtà internazionali come Wpp e ZenithOptimedia. L’obiettivo è dotare gli studenti di tutte le soft skills indispensabili per confrontarsi col mondo delle aziende. Le aree tematiche del piano di studi, per citarne alcune, sono art I management, leadership e psicologia nelle organizzazioni complesse, comunication strategy e media planning, public speaking, pensare imprenditorialmente, self marketing e problem solving & decision making. Per mantenere quanto più aderente è possibile il percorso di studio alle richieste del mercato lavorativo, l’indirizzo di studio Digital Marketing Management nel corso del biennio prevede le testimonianze delle aziende partner dell’Università. I laureati saranno nelle condizioni di lavora in aziende, enti, agenzie di comunicazione e società di consulenza. Chi volesse maggiori informazioni può consultare il sito www.iulm.it, scrivere a [email protected], chiamare il numero 02891412386. E’ attivo anche il numero verde 800363363. QUANDO LE IMPRESE SCOPRONO I SOCIAL NETWORK Facebook aiuta il business. Oppure no? Livio Lazzari social network possono essere un alleato per il business? E se la risposta è sì, quante aziende li utilizzano con efficacia? A queste domande tenta di rispondere l’annuale ricerca, del Master in social media marketing dello Iulm, guidata dal professor Guido di Fraia. Giunta alla seconda edizione, la ricerca ha l’obbiettivo di capire quanto le imprese italiane riescono a districarsi nel complesso mondo dei social media, diffondendo i loro obbiettivi aziendali tra un I like e un tweet. I risultati ottenuti, sono stati presentati il 15 marzo scorso presso l’aula conferenze dell’università. Considerando sei settori chiave dell’economia italiana: alimentare, bancario, arreda- I mento, hospitality, moda e pubblica amministrazione, si sono scelti 120 casi per settore, suddivisi a loro volta in imprese piccole, medie e grandi. Rispetto all’anno precedente, il 2011 ha visto un aumento delle imprese che adoperano almeno un social network come strumento d’impresa, passando dal 32% registrato nel 2010 al 50% dell’anno appena passato. Soprattutto tre settori hanno incrementato la propria presenza sui social media, in particolare la pubblica amministrazione con un più 27% rispetto al 2010, al secondo posto la moda con un aumento del 25% e infine il settore bancario, già presente sui media nel 2010, ma che ha aumentato la propria presenza con un più 7%. Altro aspetto rilevante della ricerca, è che le piccole e medie imprese sembrano aver colto l’importanza dei social network, aumentando la loro presenza sia su Facebook che sugli altri network a disposizione. L’aumento più rilevante è quello delle piccole imprese che sono passate dal 10 al 43% di attività sui social media. Ma se l’approccio quantitativo fa registrare un balzo in avanti, lo stesso si può dire dell’aspetto qualitativo? Per valutare in modo accurato l’attività di un’azienda sui social network, gli studenti del master, hanno elaborato un indicatore sintetico dell’attività complessiva dell’azienda, prendendo in considerazione tre aspetti fondamentali: il tempo, ovvero da quanto le aziende sono presenti sui canali social. L’attenzione alla gestione di post aziendali e dei relativi aggiornamenti. L’efficacia, ovvero quanto i post riescano ad attirare l’attenzione degli utenti, creando interesse e quindi dibattito. Questo indicatore, ribattezzato “SocialMediAbility”, ha permesso di elaborare un schema in cui all’incremento di attività delle aziende non corrisponde però un aumento dell’efficacia del messaggio veicolato dai social network.