Modelli matematici, predittività e progresso scientifico

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Modelli matematici, predittività e progresso scientifico
Modelli matematici, predittività e progresso scientifico
Renato MIGLIORATO
Modelli matematici, predittività e progresso scientifico:
un caso storico esemplare
Renato Migliorato1
Sunto: Si pone il problema di una corretta comunicazione di massa dei risultati scientifici come problema centrale dell’educazione scientifica di base. Si analizza il divario di significati nella traslazione
dal linguaggio scientifico a quello comune e i fraintendimenti connessi al concetto di progresso scientifico. Il caso storico della geometria euclidea e della critica al quinto postulato, prospettato qui secondo
un profilo interpretativo assolutamente nuovo, costituisce un esempio chiarificatore.
Abstract: The problem is plased of a correct mass communication of scientific results as central
problem of the basic scientific education. So we analyze the changes of means in the translation from
the scientific language to the common one and the misunderstandings connected to the concept of
scientific progress. The historical case of the the criticisme on the fifth postulate of Euclid, shown
following an absolutely new interpretation profile, constitutes an explanatory example.
Parole Chiave: Didattica della Matematica; Didattica delle scienze esatte; Progresso scientifico; Epistemologia della scienza.
1. Introduzione
Qualche tempo fa mi è capitato di ascoltare casualmente alla televisione, forse in un TG regionale
della Sicilia, una notizia che ho poi riletto, a distanza di alcuni mesi su un quotidiano locale. Si trattava
di una ricerca effettuata da due ricercatori del C.N.R. sull’attività sismica che interessa la faglia dello
Stretto di Messina. Sulla base delle notizie storiche documentali riguardanti i terremoti più distruttivi
del passato, la ricerca giungeva alla conclusione che terremoti di un’intensità paragonabile a quella
che distrusse la città nel 1908 dovrebbero avere, nello Stretto di Messina, una periodicità più che
millenaria, con un margine d’incertezza di qualche secolo.
Sulla ricerca in sé non avrei nulla da dire, anche perché non ne conosco i particolari, né rientra nelle
mie specifiche competenze; ancor meno penso di metterne in discussione la validità scientifica. Emblematica è invece la conclusione cui giungevano i commentatori della notizia, sia in sede televisiva,
1
Dipartimento di Matematica, Università di Messina – Contr. Papardo, 98166 Messina.
Email [email protected] ; homepage: http://ww2.unime.it/alefzero .
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sia sul quotidiano locale. In entrambi i casi il risultato della ricerca veniva usata come argomento ultimo e definitivo in relazione alla sicurezza del progettato ponte sullo stretto: dopo il verdetto della
“Scienza” cos’altro andavano cercando ancora i dubbiosi?
Dico subito che non è la complessa (e controversa) questione del ponte sullo stretto che mi interessa
affrontare in questa sede, ma una certa visione assolutamente semplicistica della scienza e dei suoi
problemi. Visione che di sicuro è prevalente presso il pubblico dei profani più o meno colti, ma che
spesso è presente, in qualche misura, anche negli addetti ai lavori. Ed infatti l’alta specializzazione
dello scienziato non è sufficiente di per sé a consentirgli sempre di collocare in una corretta visione
generale i risultati, pur ottimi, delle sue stesse ricerche.
L’esempio sopra riportato non è che uno dei tanti casi che potrebbero essere citati e che ricorrono
quasi quotidianamente nel dibattito sulle applicazioni della scienza soprattutto nei campi cosiddetti di
frontiera. Mi riferisco in particolare alle questioni ambientali e di modificazione del clima, alle questioni
legate alla genetica ed alla fecondazione assistita, alla diffusione su scala planetaria di organismi geneticamente modificati, ecc…
Se da un lato, infatti, esiste tutt’ora una fascia di conservatori ad oltranza, aprioristicamente diffidenti
verso ogni innovazione, dall’altra vi è una ben più consistente ed agguerrita schiera di “credenti” nell’
“inarrestabile forza del progresso scientifico”, in forme da sfiorare talora il misticismo. Da quest’ultima
parte troviamo anche scienziati di chiara fama, il cui orientamento, tuttavia, potrebbe essere influenzato dalla facilità di ottenere ingenti finanziamenti in quei settori che possono attrarre l’interesse di potenti gruppi economici.
Poiché i motivi costantemente addotti in questi casi sono quelli che fanno appello all’imperativo categorico di non ostacolare il progresso scientifico, qualificando ogni opinione diversa come oscurantismo
antiscientifico, si pone il problema di capire fino in fondo qual’è nella nostra società e nella nostra cultura il concetto di progresso scientifico e qual'è il criterio di scientificità che lo sostiene. Si tratta ancora
di capire se tale concetto corrisponde all’effettivo processo di crescita della conoscenza scientifica e
delle sue ricadute tecnologiche. E’ un problema, a mio avviso, che non può essere eluso quando si
riflette e quando si decide sul merito dei processi educativi in generale e della formazione scientifica in
particolare. E’ un tema che ritengo si debba porre a fondamento della didattica di qualunque scienza,
e in primo luogo della matematica e delle scienze esatte.
Una prima questione che va chiarita preliminarmente e che qui diamo per scontata è la necessaria distinzione tra ricerca teorica e ricerca applicata. Una distinzione che non va assolutamente intesa come una separazione categorica ed in via di principio tra due attività gerarchicamente ordinate; ritengo
anzi che questi due aspetti della ricerca siano strettamente complementari e mutuamente necessari
l’uno all’altro. L’esigenza di una precisa distinzione si pone invece quando si considera la dimensione
sociale della scienza, e cioè il rapporto tra la libertà dello scienziato, le esigenze complessive della
società e i diritti di ogni singolo cittadino. In altri termini si pongono le seguenti domande: Perché il cittadino deve sostenere le spese della ricerca anche quando questa non è immediatamente utile? Chi
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deve giudicare la validità della ricerca? Fino a che punto si può spingere la libertà di ricerca? Può la
società nel suo complesso assumere decisioni sugli indirizzi scientifici fino a limitare la libertà decisionale del ricercatore?
Non è difficile fare appello alla storia della scienza per capire come la fecondità di una scelta
d’indirizzo piuttosto che un’altra, nell’ambito della ricerca teorica, è sempre una scommessa i cui esiti
non sono generalmente prevedibili, né in relazione alle ricadute applicative, né per i mutamenti che
possono essere indotti nella visione generale del mondo. Ciò basta a giustificare il fatto che nelle moderne democrazie la ricerca teorica, almeno in linea di principio, viene posta al riparo da ogni ingerenza esterna, garantendone la libertà anche con finanziamenti gestiti dalle stesse comunità scientificodisciplinari. Diverso è il discorso per le applicazioni tecnologiche e per quelle attività di ricerca che più
o meno direttamente possono produrre effetti significativi sull’uomo, sulla sua vita sociale e sul suo
ambiente naturale: qui è evidente il diritto della società di valutare e decidere in maniera consapevole.
Ma questo diritto è profondamente limitato dalla carenza o dalle distorsioni della cultura scientifica di
massa.
2. Scienza e predittività: modelli matematici.
Perché nel mondo moderno la scienza gode di un indiscusso prestigio presso tutti gli strati sociali,
compresi quelli che hanno un più limitato grado di istruzione?
La risposta più immediata la si trova guardando l’immenso panorama di applicazioni che hanno radicalmente modificato la vita di tutti. Se però vogliamo approfondire appena un po’ le ragioni che consentono alla scienza moderna, pur così astratta nelle sue formulazioni teoriche, di incidere tanto profondamente nella realtà quotidiana, possiamo scoprire senza troppa difficoltà, che queste ragioni si
chiamano in ultima istanza “capacità predittiva”2. Infatti la capacità di poter prevedere in anticipo il
comportamento di un dispositivo è condizione essenziale per poterlo progettare, come la possibilità di
prevedere gli effetti di un farmaco è una condizione essenziale della pratica medica, ecc..
Per discutere il problema della capacità predittiva di una scienza, ci serviremo del concetto di modello
matematico, anche perché è quello che più si presta alle schematizzazioni concettuali e quindi ad assumere una funzione paradigmatica. Molte delle conclusioni che se ne possono trarre mantengono
però la loro validità anche in quei settori della scienza in cui non vi sia una sistematica e rigorosa matematizzazione.
2
Bisogna dire che una teoria può essere accettata da una comunità scientifica per la sua capacità
esplicativa, anche quando dal punto di vita della predittività non produce ancora risultati di grande
rilievo. Un esempio può essere costituito dalla teoria cosmologica del big bang, o dalle teorie
sull’estinzione dei dinosauri o ancora da varie teorie economiche matematiche. Non sono però
queste a determinare il prestigio di massa della scienza moderna.
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La prima concreta difficoltà che possiamo incontrare su questa via è che sebbene si parli spesso di
modelli matematici, non vi è tuttavia una definizione univoca, e l’espressione può assumere significati
diversi nei diversi contesti nei quali è presa in considerazione. Spesso però si intende un’equazione o
un sistema di equazioni che legano tra loro delle variabili, ognuna delle quali rappresenta quantità che
si suppongono misurabili e che entrano in gioco nell’evoluzione di un fenomeno3. Tali sono ad es.
l’equazione della dinamica f = ma , o l’equazione dei gas perfetti pV = KT , o le equazioni di Maxwel del campo elettromagnetico, ecc...
Possiamo anche pensare un modello matematico come una macchina algoritmica avente delle variabili qi in entrata e delle variabili u j
in uscita in modo che quando le qi assumono valori corrispon-
denti a certe grandezze q i misurati nella realtà, le uj corrispondano invece a certe grandezze u j della realtà da misurarsi in un momento futuro.
q1
q2
q3
Macchina
algoritmitica
u1
u2
Le u j costituiscono quindi una previsione ottenuta in funzione delle qi mediante il modello matematico. Ciò ovviamente non significa che la previsione dovrà necessariamente verificarsi, ma potrà esserci
una maggiore o minore aspettativa da parte degli scienziati sul fatto che effettivamente si verifichi nella realtà. L’aspettativa che si ha al riguardo dipende ovviamente dal modello matematico usato e,
quindi, dalle premesse teoriche e dalle metodologie con cui è stato ottenuto. A questo riguardo possiamo dire che la fiducia degli scienziati è sempre molto alta (fino al limite della “certezza pratica”)
quando si tratta di modelli fondati esclusivamente su leggi fisiche di tipo deterministico, mentre essa
decresce (fino al limite della semplice “ipotesi di lavoro”) quando si tratta di modelli statistici e probabilistici su campioni limitati o molto eterogenei.
Un modello matematico, in ogni caso, rappresenta sempre una schematizzazione semplificativa e idealizzata delle reali situazioni analizzate. In che senso, ad esempio, diciamo che certe variabili corrispondono a grandezze misurabili in entrata o in uscita? Consideriamo ad esempio un caso semplice
come la legge di Ohm ( V = R i ). Dovremmo innanzitutto decidere quali delle tre variabili in gioco
vanno considerate come entranti e quale in uscita. Poi bisogna definire le grandezze corrispondenti
alle variabili e le rispettiva modalità di misurazione. Ma è possibile definire tali grandezze prescindendo dagli strumenti che servono a misurarle? E questi ultimi non sono forse essi stessi fondati sulle teorie elettromagnetiche?
3
Per una più approfondita trattazione V. ad es. ISRAEL1996.
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A ciò si deve aggiungere che alcune teorie scientifiche prescindono, in tutto o in parte, da ogni forma
di predittività, nel senso che abbiamo sopra precisato, avendo esse solo un valore esplicativo. E’ il caso, ad esempio, della maggior parte delle teorie astronomiche, ma anche delle teorie riguardanti
l’evoluzione geologica del nostro pianeta. Quale significato predittivo, ad es., può assumere la determinazione temporale, rispetto al presente, del momento in cui sarebbe avvenuto il big-bang? O la determinazione dell’epoca in cui si sono estinti i dinosauri?
Questa distinzione non è priva di significato rispetto al valore epistemologico di una teoria scientifica,
perché in mancanza di predizioni il cui verificarsi possa essere in qualche modo osservato, rende impossibile l’effettuazione di controlli sperimentali, almeno nel senso in cui il metodo sperimentale è inteso più comunemente.
L’esempio da me scelto in apertura, quello cioè della ricerca sugli eventi sismici nello Stretto di Messina, si presta bene, a mio avviso, ad alcune riflessioni particolarmente significative ai fini
dell’educazione scientifica e conseguentemente dell’immagine pubblica che vengono ad assumere i
risultati della scienza. Lo statuto attuale della sismologia ha infatti delle peculiarità tipiche abbastanza
rilevanti rispetto ad altre scienze. Da un lato l’uso sostanziale di modelli matematici la rende classificabile tra le scienze esatte, ma allo stesso tempo l’esattezza dei modelli descrittivi non garantisce
un’altrettanto elevata attendibilità predittiva4, almeno per quanto riguarda la scansione temporale degli
eventi. Ciò, come abbiamo visto, non impedisce che i risultati di una ricerca vengano utilizzati, nella
pubblicistica, come riferimenti assoluti di fronte ai quali ogni altra ipotesi dovrebbe tacere.
Il problema che poniamo è allora: quando possiamo fidarci di un modello matematico fino al punto di
scommettere che, una volta forniti i dati d'ingresso e calcolati i dati in uscita, questi rappresentino correttamente un fenomeno che poi davvero si verificherà con le modalità previste?
La risposta ovviamente varia a seconda del grado di attendibilità delle ipotesi scientifiche, ma anche
dalla posta in gioco. Nel caso ad es. di una previsione meteorologica che annuncia bel tempo dove ci
sarà invece un po' di pioggia, molto probabilmente l’errore costerà solo qualche raffreddore, mentre
una previsione in campo sismico, se presa troppo sul serio, potrebbe avere, ove non si verificasse,
costi altissimi sia in termini economici che di vite umane.
D'altra parte la meccanica classica con la teoria della gravitazione newtoniana costituisce un modello
ampiamente collaudato che permette oggi di lanciare oggetti nello spazio e farli muovere con grande
precisione. In casi di questo genere possiamo dire che il modello è non solo altamente predittivo, ma
anche altamente affidabile perché consente di formulare previsioni sul cui effettivo verificarsi siamo
propensi a scommettere, in base alle passate esperienze, con un grado di fiducia praticamente
illimitato. I modelli usati in metereologia hanno anch'essi una capacità predittiva ma la loro affidabilità
è considerata da tutti notevolmente più bassa. La sismologia addirittura non sembra avere per il
momento alcuna affidabilità predittiva per quanto riguarda la scansione temporale degli eventi. In
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Per la verità si tratta di un carattere che, in misura diversa, è comune anche ad altre scienze, come
la meteorologia o le teorie matematiche dell’economia.
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quest'ultimo caso, quello cioè di un modello matematico formalmente predittivo, ma di scarsa o incerta
attendibilità sostanziale, è da considerarsi inutile? La risposta è che esso può anche avere una
rilevanza scientifica notevole, sia perché può fornire comunque informazioni significative sul piano
esplicativo, sia perché il successivo confronto tra i dati previsti e quelli reali può fornire utili indicazioni
per nuove ipotesi e per la costruzione di nuovi modelli; e tuttavia, pur essendo scientificamente
rilevante, ben poco può dire, in atto, al cittadino che si interroga sulla sicurezza propria e dei propri
manufatti.
Vi è dunque un divario enorme di linguaggi e di significati tra ciò che il ricercatore può effettivamente dire secondo scienza e ciò che invece viene inteso dall'ascoltatore anche colto ma
non specialista. Possiamo ora chiederci qual’è il meccanismo che sta alla base di una distorta presentazione dei risultati scientifici, se è generalizzabile, se è possibile intervenire nel processo di formazione scolastica per favorire un approccio più critico.
Con questo ho voluto introdurre non un semplice problema, ma quello che io ritengo essere il problema per eccellenza dell'educazione scientifica in generale, e conseguentemente anche un problema della formazione matematica. Non credo di poter dare in questa sede una risposta esauriente a
problemi che certo richiederebbero un discorso più lungo. Il presente contributo non intende perciò affrontare la specificità delle problematiche didattiche, ma semplicemente porre i termini di una questione che nella didattica ha forti ricadute, ed indicare un passaggio storico che ritengo di grande rilievo e
capace di fornire interessanti spunti di riflessione.
3. Il progresso scientifico è irreversibile?
La concezione positivistica della scienza ha prodotto una nozione di progresso come un qualcosa di
continuo, inarrestabile e unidirezionale. Secondo questa concezione, infatti, la conoscenza scientifica
differirebbe da ogni altro tipo di approccio conoscitivo per la sua obiettività e stabilità. Mentre, quindi,
discipline come l’arte, la filosofia o la religione produrrebbero sempre visioni del mondo soggettive e
quindi soggette a dispute, opposizioni di scuole e mutamenti nel tempo, il metodo scientifico (positivo)
garantirebbe l’acquisizione di conoscenze più o meno definitive, capaci quindi di accumularsi nel
tempo, dando luogo a quella crescita continua e illimitata detta progresso.
Naturalmente questa linea generale di pensiero si articola secondo differenziazioni più o meno grandi
e più o meno sofisticate. Possiamo trovare quindi una versione realistica ingenua (prekantiana) che
considera effettiva la conoscenza (ovviamente attraverso il metodo scientifico) della realtà così com’è
per sé stessa, fuori di noi e indipendente da noi. Vi sono versioni più sofisticate, consapevoli che la
conoscenza possibile è pur sempre una conoscenza fenomenica, quale cioè risulta dall’elaborazione
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dei dati sensoriali secondo forme dell’intelletto5. Nella versione neopositivista6, il discorso scientifico
viene sostanzialmente ridotto alla sua dimensione linguistica e logico-formale, mentre la sua corrispondenza con il mondo esterno dovrebbe essere assicurata da una traducibilità di ogni concetto teorico in enunciati osservativi confermati sperimentalmente7. Ciò che accomuna tutte le forme in cui si
manifesta la visione positivista della scienza, è comunque l’assunto che vi sia una metodologia speciale e fondamentalmente oggettiva che contraddistingue il sapere scientifico rispetto ad ogni altra
espressione dell’intelletto umano; una tale metodologia garantirebbe il raggiungimento di un sapere
stabile, anche se perfettibile. Una conoscenza scientifica, se correttamente ottenuta, secondo le regole delle più rigorose metodologie scientifiche, potrebbe essere superata e perfezionata, ma mai capovolta.
Ciò in qualche modo presuppone che: 1) vi sia una “verità oggettiva fuori di noi e indipendente da noi”
(qualunque cosa ciò significhi). 2) la scienza, pur non raggiungendo l’ideale della conoscenza definitiva di tale verità, proceda ad un progressivo avvicinamento alla verità stessa, senza possibilità di ritorni
indietro. La conseguenza sarebbe allora quella di una crescita “cumulativa”: cioè a differenza di ogni
altra forma di conoscenza (filosofica, estetica, religiosa, ecc..) dove ogni nuova o diversa concezione
respinge e sostituisce tutte le concezioni rivali, la scienza perverrebbe a risultati stabili, che si aggiungono cumulativamente l’uno all’altro, senza contraddirsi, accrescendo in modo continuo e irreversibile
il patrimonio conoscitivo dell’umanità.
Ora proprio questi presupposti vengono messi in discussione ove si proceda ad una più attenta analisi
della dinamiche attraverso cui la scienza moderna si è andata sviluppando nel corso della storia. In
questa direzione va per esempio l’analisi dello storico e filosofo della scienza Thomas Khun che, criti-
5
Per Kant sono le forme a priori dell’intelletto (o giudizi sintetici a priori). Dopo Kant esse appaiono
difficilmente eliminabili e si ritrovano in diverso modo e con diverse connotazioni soprattutto nelle
scuole neokantiane. Per es. in Cassirer hanno connotazioni culturali (forme simboliche. V. ad es.,
CASSIRER1968, RAIO 2000). Per Piagét sono strutture mentali che si vanno costituendo durante il
percorso evolutivo individuale, dalla nascita all’adolescenza, pur conservando una sostanziale
invarianza da individuo ad individuo (V. in particolare FLAVELL).
6
L’empirismo logico o neopositivismo, sviluppatosi nel primo novecento attorno al Circolo di Vienna,
vide convergere il pensiero di scienziati e filosofi come Moritz Schlick (fondatore del circolo),
Rudolph Carnap, Otto Neurath , che ne furono gli esponenti più importanti, ed ancora i matematici
Hans Hahn e Friedrich Waismann, lo storico Victor Kraft, il fisico Philipp Frank, i filosofi Herbert
Feigl e Gustav Bergmann, il logico Kurt Gödel, il giurista Hans Kelsen . (A questo proposito v.
CARNAP1997, PASQUINELLI, AA. VV. 1933).
7
In altri termini una teoria scientifica dovrebbe essere costituita da un linguaggio specifico i cui termini
tecnici dovrebbero denotare oggetti ideali (come il punto geometrico, il punto materiale, l’entropia,
ecc…) o essere considerati addirittura come semplici entità linguistiche, legate tra loro da un
insieme di enunciati relazionali (generalmente chiamati assiomi nelle teorie matematiche, leggi se
riferiti alle scienze della natura) scelti in modo che non vi siano contraddizioni. Il fatto poi che
ognuna di queste “entità” (oggetti ideali o linguistici), che non sia di natura strettamente logica,
possa essere tradotta in enunciati osservativi (V. CARNAP.), consentirebbe di costituire una sorta di
corrispondenza tra la teoria e il mondo reale. Qualcosa, in altri termini, che somiglierebbe ad un
isomorfismo, e proprio ciò consentirebbe la verifica sperimentale della teoria.
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cando tutto il pensiero della prima metà del Novecento8, individua una modalità di crescita del sapere
scientifico caratterizzata da una successione di momenti “rivoluzionari” intervallati da periodi di cosiddetta “scienza normale”9. Se durante questi ultimi periodi la scienza cresce per accumulazione, attraverso una pratica di risoluzione di problemi o rompicapi, è nei momenti rivoluzionari, quando un’intera
visione viene messa in discussione e infine sostituita da una nuova, che si attua il progresso. Un progresso non più cumulativo, non più unidirezionale, ma caratterizzato da mutamenti anche radicali del
pensiero, dei linguaggi e perfino di ciò che si deve intendere come problema e come soluzione di un
problema. Ancora più radicale è l'atteggiamento di Paul Feyerabend che rifiuta addirittura qualunque
tipo di “criteriologia” della ricerca scientifica. Lo scienziato, in altri termini, si troverebbe a dover valutare di volta in volta quali modelli e quali tecniche possono essere usate per affrontare i problemi che
concretamente si pongono all'interno di un linguaggio e di una pratica specialistica. Scompare in questo modo ogni possibile criterio oggettivo di demarcazione tra “scienza” e “non scienza”, e l'operare
“scientifico”, perdendo quella rassicurante posizione di privilegio rispetto ad ogni altra visione del
mondo, si trova a dover competere con tutte le altre forme di approccio conoscitivo, quali possono essere l'arte, la filosofia, la religione, la mitologia. Ciò non significa, naturalmente, che non vi siano più
distinzioni tra concezioni diverse, o tra le diverse tecniche, le diverse assunzioni teoriche, ecc..... Significa invece che i diversi modi di affrontare i problemi conoscitivi e interpretativi della realtà, devono
confrontarsi e misurarsi direttamente sul piano del successo che riescono ad ottenere nel fornire risposte più o meno esplicative, nel risolvere problemi, nel consentire previsioni attendibili. Le metodologie che consideriamo oggi scientifiche, nell'ottica di Feyerabend, sono certamente preferibili ad altre,
almeno in linea di principio, ma non perché siano tali secondo un criterio oggettivo di verità, valido
sempre e ovunque, bensì perché producono una grande massa di risultati utili.
Non posiamo ulteriormente soffermarci su questo argomento, ma mi preme sottolineare alcune delle
conseguenze più rilevante di questa revisione critica. Intanto dobbiamo chiarire in modo netto che in
nessun caso viene rifiutata l'idea di progresso che anzi ne risulta in qualche modo rafforzata. Ciò di cui
8
9
Assieme alla concezione positivista, sia nella versione ottocentesca, sia nella versione
dell’Empirismo Logico, viene respinta anche la posizione falsificazionista di Popper e la stessa
teoria dei Programmi di Ricerca di Lakatos. Tanto Popper quanto Lakatos, sono anzi considerati da
Kuhn, ancora immersi, per quanto vi è di più sostanziale, nella concezione positivista. Nella
sostanza, infatti, tutte le concezioni epistemologiche di primo Novecento tendono a due
fondamentali risultati: 1) Individuare un insieme di criteri oggettivi che consenta di distinguere
senza possibilità di equivoci le pratiche scientifiche corrette dalle pseudoscienze e dalle non
scienze (come l’astrologia, la magia o le religioni, ma anche l’arte e secondo alcuni la stessa
psicanalisi). 2) Dimostrare come la corretta applicazione del metodo scientifico, secondo i criteri di
cui al punto 1, comporti un effettivo e progressivo avvicinamento alla “verità”. Tra i matematici che
più coerentemente hanno teorizzato quest’ultimo aspetto del metodo scientifico, vi è sicuramente il
grande Federigo Enriques, secondo cui il progresso scientifico si attuerebbe attraverso un
processo di “errori” e “correzioni”, durante il quale si avrebbero progressivi avvicinamenti ad una
“verità” mai interamente raggiungibile. (V. POMPEO FARACOVI, ENRIQUES 1982).
Per l’opera fondamentale di Kuhn v. KUHN 1969. Per un dibattito che mette a confronto le principali
posizioni epistemologiche post-positivistiche v LAKATOS 1976. Per l’evoluzione successiva di Kuhn
e le risposte alla critica di Feyerabend, v. KUHN 2000.
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l'idea di progresso viene liberata è invece quell'aura dogmatica e fideistica che tendeva ad oggettivarlo
e a farne qualcosa di metafisico, di ineluttabile, di irreversibile e di unidirezionale.
Sottrarre all'idea di progresso quest'aura di oggettività, significa anche accrescere lo spazio della responsabilità dell'individuo e in modo particolare dello scienziato.10
Personalmente ritengo che il prendere alla lettera le posizioni più radicali di Feyerabend possa avere
effetti disarmanti sulla ricerca11, ma ciò non significa che la sua critica sia priva di ragioni profonde e
condivisibili. Credo inoltre che la teoria delle rivoluzioni scientifiche e il concetto di paradigma12 introdotti da Kuhn siano degli strumenti interpretativi di grande potenza, purché usati con piena libertà e
senza cedere alla tentazione di trasformarli in categorie assolute e cristallizzate.
Possiamo ora tornare alla nostra questione di fondo: Qual’è il meccanismo che sta alla base di una
distorta presentazione dei risultati scientifici? È possibile intervenire nel processo di formazione scolastica per favorire un approccio più critico?
Che la seconda domanda sia strettamente legata alla prima, mi sembra abbastanza ovvio. Per ciò che
riguarda quest’ultima, si sarà forse già intuito quanto si vuole qui sostenere. Chi scrive è infatti fermamente convinto che alla base di una malintesa concezione della scienza vi sia proprio un’altrettanto
malintesa concezione del progresso scientifico, legata ancora alla nozione positivistica (e parados-
10
Sul tema della libertà e della responsabilità individuale come contrapposizione e negazione
dell'oggettività V. ad es. FOERSTER.
11
E’ vero che il prestigio di cui gode la scienza è dovuta agli straordinari successi ottenuti, e che ciò
può essere un buon criterio discriminante. Ma questo vale per le scelte già fatte in passato, mentre
lo scienziato, soprattutto nei momenti di crisi, è chiamato a fare delle scelte assolutamente nuove i
cui esiti saranno valutabili soltanto in futuro. Ogni scelta nuova è dunque una scommessa e
probabilmente non è una buona idea quella di affidarsi al caso.
12
Nella sua opera fondamentale (KUHN, 1969), Kuhn usa il termine “paradigma” con una certa
indeterminatezza di significato. Come egli dirà in seguito (v. KUHN, 2000) i due significati
fondamentali a cui si può ricondurre l’uso che inizialmente fa di questo termine si possono così
riassumere: 1) Il complesso di teorie, ipotesi, credenze anche metafisiche, ecc.., in cui la comunità
degli scienziati , specialisti di un determinato settore scientifico, si richiamano in una determinata
fase storica, ai fini della loro attività professionale; 2) L’esempio di uno o più problemi (rompicapo)
risolti con successo e che viene usato come modello paradigmatico per risolvere problemi
analoghi. In seguito egli riserverà il termine solo al secondo significato. In ogni caso la scienza
normale, secondo il Nostro, si svolge all’interno di un paradigma (quando un paradigma è stato
accettato, chi opera al di fuori di esso non è considerato uno scienziato e i suoi risultati sono
dichiarati “non scientifici”). Operare in un paradigma significa risolvere tutti quei rompicapo che si
presentano nell’articolare il paradigma stesso nei casi concreti e nel rapporto con la realtà
(esperimenti). Per es. il paradigma della meccanica Newtoniana fa riferimento, tra l’altro, alla legge
esprimibile mediante l’equazione generale f = ma , ma questa va poi articolata nei vari casi (corpi
continui rigidi, mezzi elastici, presenza di vincoli o di attrito ecc..) e confrontata, mediante
esperimenti, con la realtà. Un paradigma entra in crisi quando comincia ad accumulare una serie di
difficoltà e di insuccessi nella risoluzione di rompicapo giudicati importanti. E’ allora che un
paradigma rivale (o più di uno) può emergere ed aprire un periodo più o meno breve di
contrapposizione tra diversi paradigmi, fino a che uno di essi, per i successi ottenuti, riesce a
conquistare l’intera comunità scientifica. La rivoluzione scientifica è però compiuta solo quando la
comunità degli scienziati, oltre ad essersi convinta, avrà assunto i nuovi concetti e i nuovi linguaggi
come propria forma naturale di pensiero e non potrà più pensare come prima.
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salmente metafisica) che lo vede come un processo di crescita unidirezionale, cumulativo e irreversibile.
La critica storico-epistemologica che si è sviluppata nella seconda metà del XX secolo, ha messo in
luce l’inconsistenza della concezione cumulativa del progresso scientifico, evidenziandone invece il
carattere discontinuo, punteggiato da revisioni e da eventi più o meno “rivoluzionari”. Meno chiara appare invece la possibilità di veri e propri “eventi regressivi”, tali cioè da determinare il ritorno a paradigmi già superati e dimostratisi meno fecondi. In ciò che segue analizzeremo un caso storico che può
indurci ad una risposta affermativa anche in questo senso.
4. Il Paradigma della scienza ellenistica
Il caso storico a cui voglio fare riferimento è quello ben noto della geometria di Euclide e della critica al
quinto postulato che qui voglio però riproporre sotto un profilo interpretativo assolutamente nuovo.
Come ho sostenuto assieme a G. Gentile in una precedente pubblicazione13, l’opera di Euclide può
essere vista come l’inizio di un mutamento rivoluzionario di paradigma, seguito dopo qualche secolo
(con Posidonio e Gemino) da un mutamento inverso che recupera una concezione più rigidamente aristotelica della scienza.
Che in epoca ellenistica si sia determinata qualche cosa che può essere considerata come una
rivoluzione scientifica non è un fatto nuovo. Già da tempo erano stati osservati molti indizi che
portavano in questa direzione14, ma è soprattutto Lucio Russo15 a trarre esplicitamente le conclusioni
più estreme, presentando la rivoluzione scientifica del terzo secolo A.C. come paragonabile a quella
moderna e sostenendo anzi che quest’ultima si sarebbe verificata come una riscoperta, piuttosto
timida e inizialmente impacciata, di quella antica. Ciò che mi sembra limitare la portata esplicativa
della tesi di Russo è la sua definizione della scienza ancora troppo legata all’empirismo logico, sì che
la distinzione tra “scienza” e “non scienza” si presenta in termini di netta opposizione, perdendo quindi
ogni possibilità di individuare passaggi intermedi, e in particolare quelli a carattere regressivo. Ed in
effetti Russo spiega la fine della “visione scientifica” ellenistica, con la conquista da parte dei romani,
incapaci di intendere l’essenza di quella sofisticatissima forma di pensiero. In tal modo, tuttavia, non
sarebbe possibile parlare in termini propri di “rivoluzione regressiva”, ma di una mutazione violenta
prodotta dall’esterno.
Dopo queste premesse veniamo dunque al caso storico di cui voglio occuparmi. Sosterrò che con
Euclide si determina una rivoluzione scientifica nel senso kuhniano di un cambiamento di paradigma,
e che un ulteriore cambiamento di paradigma di segno pressoché inverso si verifica dopo qualche
13
MIGLIORATO, GENTILE.
Ibid.
15
RUSSO 1997.
14
Convegno Nazionale “L’insegnamento della matematica nel quadro delle riforme” 35
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Renato MIGLIORATO
secolo, manifestandosi in modo chiaro con i tentativi di Posidonio e Gemino (Primo secolo A.C.) di
dimostrare il quinto postulato di Euclide.
Ho scelto l'approccio kuhniano e quindi il concetto di paradigma16, perché mi è sembrato che questo
abbia nell'ambito delle problematiche esaminate un potere esplicativo maggiore, proprio perché sembra potersi applicare non solo a quelle metodologie modernamente considerate scientifiche, ma anche
ad ambiti più generali che comprendono per esempio il concetto aristotelico di scienza dimostrativa.
Ed in effetti, la tesi qui sostenuta può emergere da un attento confronto tra quei caratteri che Aristotele
richiede ad una Scienza dimostrativa e, dall'altro lato, le scienze esatte quali si presentano nel terzo
secolo A.C. a partire da Euclide fino almeno ad Archimede, Apollonio ed oltre. L'esposizione che ne
faremo in questa sede sarà però molto breve e sintetica per cui si rinvia per maggiori dettagli ad una
precedente pubblicazione17, oltre che a ricerche ancora in corso e di prossima pubblicazione. Qui
diamo intanto per scontato il rigetto dell'affermazione di Proclo secondo cui Euclide sarebbe stato un
convinto seguace di Platone. Diamo ancora per scontata la revisione dello stesso corpo euclideo, mettendo in discussione come aggiunte successive almeno le prime sette definizioni del primo libro degli
elementi18, e forse anche di più19. Diamo anche per acquisita la constatazione delle differenze terminologiche riscontrabili in Euclide rispetto a quanto sappiamo della precedente letteratura scientifica.
Tra queste ad es. Già Russo20 osserva come l'uso tecnico della parola
re il punto geometrico al posto della parola
στιγµη
σεµειον
(segno), per indica-
(punta, foratura), si possa interpretare come una
volontà di rottura con le concezioni precedenti. Concordo poi in modo più generale con Lucio Russo
sul fatto che nel terzo secolo A.C., nell'ambito dei regni ellenistici si sia determinata una rivoluzione
scientifica di cui sembra che si perdano le tracce nei secoli successivi.
Vedremo tuttavia come nella mia ricostruzione di quello che chiamerò “paradigma euclideo” vi sia una
sostanziale differenza interpretativa rispetto a quanto fa più in generale Russo per la scienza ellenistica nel suo complesso; differenza che discende fondamentalmente proprio dall’adozione del concetto
di paradigma. In qualunque modo la si consideri però, l’idea di una rivoluzione scientifica che abbia
avuto luogo nel terzo secolo a partire da Euclide, non può non mettere comunque in crisi un vecchio
pregiudizio, fino ad ora radicato, secondo cui la scienza ellenistica si sarebbe mantenuta fondamentalmente entro i limiti dello schema aristotelico. Concordo quindi con Russo nel ribaltare questa concezione e nel mettere invece in evidenza i tratti originali di una concezione rinnovata della ricerca
16
Con riferimento a quanto già detto alla nota 12, è bene precisare che il concetto di paradigma a cui
farò riferimento è inteso più nel senso generico usato da Khun ne “la struttura delle rivoluzioni
scientifiche” che non nel senso più specifico delle successive precisazioni. Questa scelta, che a
qualcuno potrebbe apparire discutibile, nasce anche dalla difficoltà di ricostruire con esattezza i
passaggi di un processo evolutivo della scienza in una fase storica sulla quale si ha ben poco
materiale documentario originale.
17
MIGLIORATO, GENTILE.
18
RUSSO, 1998, pp.195-219.
19
MIGLIORATO, GENTILE.
20
L. RUSSO 1998.
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scientifica, capace non solo di produrre apparati concettuali altamente esplicativi, ma di aggiungere
all’esplicatività anche un grado di predittività abbastanza elevato, tale cioè da consentire il controllo
sperimentale ed un ampio ventaglio di ricadute applicative.
In verità, una più corretta analisi del mutamento di paradigma che conduce alla nuova scienza ellenistica dovrebbe fondarsi non tanto sul confronto tra la concezione aristotelica e l’opera di Euclide, ma
tra questa e le precedenti opere matematiche. Sfortunatamente nulla ci è rimasto dei testi matematici
che precedono l’opera di Euclide, e in mancanza di dati più precisi sembra che le informazioni più significative per il nostro discorso vengono proprio dalle opere di Aristotele21.
E’ stato già osservato da Heath22 come da un passo di Aristotele23 si può desumere che all’epoca di
quest’ultimo la questione delle parallele non fosse ancora definita. Più recentemente è stato il filosofofo ungherese Imre Toth24 che ha evidenziato e posto in relazione tutta una serie di passi di Aristotele
(Dagli Analitici Primi e Secondi, dalla Metafisica e perfino dalle Etiche) che utilizzano esempi tratti dalla geometria e nei quali vengono prospettate le due ipotesi: o che la somma degli angoli interni di un
triangolo sia uguale a due angoli retti oppure che sia maggiore, con alcune delle conseguenze che
possono derivare da entrambe le ipotesi. Successivamente in Migliorato-Gentile25 si metteva in rilievo
come gli esempi portati da Aristotele indicassero che prima di Euclide non solo non era definita in modo soddisfacente la questione delle parallele, ma non era chiara neppure la distinzione tra i due problemi in cui si può scindere la questione: il problema dell’esistenza di rette parallele e quello
dell’unicità della parallela per un punto ad una retta data. Questa analisi ha permesso di dare finalmente una spiegazione chiara ed esauriente ad una vecchia domanda: perché Euclide non utilizza il
quinto postulato nelle prime ventotto proposizioni? La risposta che a questo punto appare più attendibile è che egli abbia voluto evidenziare la distinzione tra i due problemi, distinzione che fino ad allora
doveva essere sfuggita e che rivelava ora un elemento di elevata e sostanziale originalità nella sua
opera. Infatti la ventisettesima e ventottesima proposizione equivalgono ad una dichiarazione di esistenza di almeno una parallela e sono dimostrate col solo impiego dei primi postulati (tra cui
l’indefinita prolungabilità della retta), mentre la ventinovesima, che fa uso per la prima volta del quinto
postulato equivale ad una dichiarazione di unicità. Viene così a cadere un’ipotesi alquanto farraginosa
e vagamente leggendaria: quella secondo cui Euclide, non soddisfatto del suo quinto postulato ne a21
Ovviamente, si fa qui riferimento alle opere di Aristotele cosiddette esoteriche perché non destinate
alla pubblicazione, dal momento che quelle effettivamente pubblicate dallo stesso filosofo sono
andate quasi interamente perdute. Ciò costituisce un’ulteriore difficoltà perché essendo state le
opere esoteriche pubblicate per la prima volta a cura di Andronico di Rodi solo le I sec. A.C., non
potevano essere state lette da Euclide. Sembra lecito tuttavia supporre che Euclide durante la sua
formazione abbia conosciuto complessivamente il pensiero di Aristotele. Le opere di quest’ultimo,
inoltre, al di là della conoscenza che poteva averne Euclide stesso, sono per noi preziose perché ci
forniscono informazioni su quale potesse essere lo statuto epistemologico della geometria preeuclidea e i termini in cui verosimilmente si poneva la questione delle parallele.
22
HEATH, 1956, V. I, p. 358.
23
Anal. Primi. II, 16, 65a 4-7.
24
TOTH 1997.
25
Op. Cit.
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vrebbe rinviato l’impiego il più possibile; non se ne comprendeva per altro il vantaggio dato che le prime ventotto proposizioni sono scarsamente significative rispetto ai tredici libri dell’intera opera.
Una volta stabilito che l’assetto dato da Euclide alla teoria delle parallele costituisce già in sé una novità rispetto al passato, resta da stabilire di che segno è l’innovazione prodotta.
L’esame complessivo della struttura degli Elementi sembra rispecchiare infatti, in un modo certamente
non banale quella che da Aristotele viene definita come scienza dimostrativa: un sistema di proposizioni concatenate tra loro da procedimenti deduttivi più meno meccanici (sillogistici) che partono da
pochissime proposizioni iniziali poste come premesse. Ancora bisogna dire che tali premesse non sono soltanto i cinque postulati e le nozioni comuni enunciati esplicitamente; a queste premesse bisogna
aggiungere quelle utilizzate implicitamente nelle dimostrazioni senza una preventiva enunciazione.
Anche questo aspetto conferma la corrispondenza strutturale di fondo con la concezione di Aristotele
che appunto aveva chiarito in un passo degli Analitici Secondi come non fosse necessario porre esplicitamente quelle premesse che appaiono talmente ovvie da non poter rischiare di essere contestate.
E’ questa forte corrispondenza, che qui ho solo brevemente tratteggiato, a renderci infine palese anche lo scarto concettuale di fondo. Per Aristotele infatti le premesse non sono soltanto degli enunciati
semplici, e neppure basta che siano riconosciuti come veri; devono essere necessari e non contingenti, primitivi e non ulteriormente dimostrabili, devono essere inoltre “riferimenti universali della totalità di
oggetti a cui si riferiscono”, in quanto intimamente connessi alla natura di tali oggetti.26 Quest’ultima
condizione non può essere in alcun modo eliminata o mitigata nella concezione aristotelica, perché è
la sola che può spiegare e giustificare l’idea di autoevidenza, o se si preferisce, di riconoscibilità a
priori dei principi primi di ogni scienza. Sebbene infatti la teoria aristotelica della conoscenza prevede
un processo di induzione che dalle percezioni di cose individuali risale fino ai principi più generali, il
riconoscimento definitivo della verità e necessità di questi ultimi non può avvenire se non con un atto
di intuizione, e questo è possibile solo in quanto la determinazione stabilita dai principi primi è già presente e connaturata al soggetto.
Il quinto postulato di Euclide non rispecchia queste caratteristiche, perché non appare implicito nel
soggetto, non è autoevidente, può essere dimostrato a partire da altri enunciati equivalenti che però
presentano le stesse caratteristiche negative per la concezione aristotelica. Ogni ulteriore tentativo di
dimostrazione, che pure si presenta non eccessivamente difficile, si concretizza però solo in un circolo
vizioso27. Tutte ragioni sufficienti perché il problema delle parallele, che pure si determina ed ha significato all’interno del paradigma aristotelico, non può in esso trovare una soluzione soddisfacente.
26
27
Per i riferimenti alle opere di Aristotele V. MIGLIORATO, GENTILE.
Tutto ciò è ampiamente dimostrato dai numerosi tentativi fatti nei secoli dopo che il paradigma
Euclideo viene ad essere anch’esso soppiantato. Il problema riceve di nuovo una soluzione soddisfacente solo in conseguenza di un ulteriore cambiamento di paradigma avvenuto all’inizio del XIX
secolo. E’ perciò che considero improprio parlare in questa fasedi “scoperta” delle geometrie non
euclidee; queste come tutti sanno erano note anche a Saccheri, e come Toth ha dimostrato erano
note, in un certo senso, già ad Aristotele (TOTH, Op. cit.). E’ la loro accettazione come geometrie
legittime che ad un certo momento si verifica per via di un mutamento di paradigma.
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La soluzione prospettata da Euclide spezza il circolo vizioso ma produce allo stesso tempo un cambiamento di paradigma e dunque una rivoluzione scientifica in senso kunhiano. In cosa consiste esattamente questo mutamento di paradigma? Sta, a mio avviso, nel fatto che almeno il quinto postulato
non può essere giustificato a priori, ma riceve una validazione a posteriori in quanto da esso è possibile far derivare come conseguenze necessarie tutte le formulazioni che in precedenza erano state proposte e tutti i teoremi di rilievo precedentemente conosciuti. In altri termini il quinto postulato di Euclide
sembra fondare la sua validità non, a priori, su una presunta autoevidenza che non c’è, ma a posteriori perché salva una più antica tradizione condivisa di soluzione di problemi (rompicapi). Possiamo allora dire che la rivoluzione Euclidea consiste nello spostare la validazione di un apparato concettuale da
una pretesa di autoevidenza a priori dei suoi principi, verso forme di validazione a posteriori? Nel caso
delle scienze della natura questo spostamento non è difficile da constatare dopo Euclide, e si manifesta in vari campi nei quali la validazione delle ipotesi viene fatta a posteriori con metodo sperimentale.
Ma nel caso dello stesso Euclide è possibile trovare altri indizi di una sua propensione verso un atteggiamento di questo tipo? Ritengo di poter dare una risposta decisamente affermativa considerando ad
es. il suo breve trattato di ottica. Spogliata da tutta una serie di pregiudizi, anche attraverso il saggio
critico che accompagna una sua recente traduzione italiana28, l’opera si presenta come un vero e proprio “modello matematico” del fenomeno della visione. In modo particolare il primo elemento di
quest’opera che può sorprendere alla prima lettura è il fatto che vi si utilizzi un modello discreto anziché continuo.
Nel postulato 1 infatti si richiede che i “raggi”29 che partono dall’occhio e raggiungono l’oggetto, siano
linee rette e ci sia tra loro una qualche “distanza”, cioè un intervallo finito. Nei successivi postulati si
richiede tra l’altro che siano visibili tutti e soli gli oggetti che intercettano raggi.
Ora è chiaro che questi postulati non possono trovare in sé stessi alcuna giustificazione, nessun appiglio a priori che possa validarne l’assunzione, anzi, se si fa riferimento soprattutto al carattere discreto
del modello, sarebbe molto più facile trovare appigli per giudicarli falsi. Dov’è allora il criterio di validazione? Lo si può trovare leggendo i teoremi che ne derivano. Uno di essi infatti afferma che al crescere della distanza dell’oggetto diminuisce la nitidezza con cui è visto. Quest’asserzione è dimostrata
grazie al carattere discreto del modello (postulato 1) e all’altro postulato che afferma essere visibile
solo ciò che è intercettato da raggi. Ed infatti un oggetto allontanandosi intercetta un numero sempre
minore di raggi per cui cresce la quantità di particolari che non intercetta raggi. Ed ancora vi è un teorema che afferma l’esistenza, per ogni oggetto, di una distanza limite oltre la quale non è più visto.
Anche questo è ovviamente dimostrato come il precedente.
28
29
INCARDONA.
La parola raggio, è stata in vari momenti della storia, interpretata in maniera ingenua con il
significato fisico di “raggio di luce”, per di più uscente dall’occhio; ciò ha contribuito a creare
discredito nei confronti di quest’opera e vari autori si sono cimentati nella “dimostrazione” che la
luce non può uscire dall’occhio. Interpretando il raggio come una pura astrazione geometrica
(come avviene per es. per il raggio del cerchio), non solo svanisce ogni difficoltà, ma appare con
chiarezza il sostanziale carattere di modello matematico che assume la trattazione euclidea.
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Qui non solo la validazione avviene a posteriori sulle conseguenze e non a priori sui postulati, ma è
chiaramente una validazione fondata sull’esperienza fenomenica della visione. Il
ϕαινο ′µενον
(=
ciò che si mostra, che appare), cioè l’apparenza quale viene percepita dai sensi diviene il solo arbitro
della validità dei postulati. Ciò ovviamente non implica una posizione ingenuamente realistica, ma più
verosimilmente una rinuncia a cercare improbabili verità metafisiche e la contemporanea valorizzazione del mondo fenomenico. Questa ipotesi non può ovviamente trovare riscontro in qualche commento
dello stesso autore, proprio perché nessuno dei suoi scritti scientifici contiene commenti. Possiamo
presumere anzi che questa sia una scelta ben precisa per sfuggire agli attacchi e porsi al di fuori (e al
di sopra) delle dispute tra le scuole filosofiche del tempo. D’altra parte lo scetticismo verso la conoscibilità di verità assolute e metafisiche non era estranea alla cultura del terzo secolo, né era estranea la
problematicità del conoscere attraverso i sensi e del carattere simbolico che assume l’oggetto di conoscenza, sempre distinto dall’oggetto reale. Basta guardare a questo proposito l’accesa disputa tra
gli scettici dell’Accademia (Arcesilao, Carneade) e gli stoici (Zenone di Cizio, Cleante, Crisippo)30.
Altrove ho espresso la convinzione che gli scritti di Euclide e degli altri scienziati del terzo secolo abbiano superato il filtro della storia proprio per la loro apparente asetticità, cha ha consentito loro di attraversare indenni un successivo ulteriore mutamento di paradigma. Ed in effetti nulla, o quasi, rimane
degli scritti originali di questo secolo che siano palesemente portatori di una visione del mondo.
Infine a confortare ulteriormente questa tesi, cito rapidamente l’inizio di un’altra opera di Euclide: i faenomena, opera dedicata alla spiegazione dei moti celesti, in quanto fenomeni direttamente osservabili.
Si tratta infatti anche qui di un puro e semplice modello matematico, dove anche la stessa
geocentricità non è neppure messa in discussione proprio perchè inessenziale nella descrizione
geometrica dei moti. Riassumendo dunque la prima pagina di questo trattato ritroviamo una struttura
della forma: “Poiché le stelle sono percepite [come si percepirebbero, secondo le dimostrazioni
dell’ottica, cose che si muovessero….. in un certo modo]31, allora dobbiamo porre che [si muovano …
in quel modo]”32. Nulla dunque è detto sull’essere, ma soltanto sull’apparire. Qui come nell’ottica è
chiaro l’intento di costruire modelli matematici in grado di “salvare i fenomeni” ( σω ′ζειν
τα
ϕαινο ′µενα )33.
Cos’è dunque avvenuto nella sostanza? Aristotele aveva costruito un apparato logico-deduttivo, che
almeno in linea di principio era in grado di garantire la trasmissione di verità dalle premesse a tulle le
30
IOPPOLO.
Tra parentesi quadre ho riassunto, salvandone il senso, un brano ben più complesso che descrive il
moto apparente e quello di un ipotetico e presunto moto reale (su circonferenze) che, secondo i
teoremi dell’Ottica, verrebbe visto proprio in quel modo.
32
HEIBERG, MENGE, Vol. 8: Phaenomena et scripta musica.
33
Secondo l’interpretazione convenzionalista di Pierre Duhem, la scienza non dovrebbe avere alcuna
(chimerica) pretesa di pronunciarsi su ciò che realmente è, ma dovrebbe mettere a punto dei
modelli descrittivi capaci di salvare la corrispondenza tra ciò che il modello consente di prevedere e
i fenomeni così come vengono percepiti. (V. DUHEM, ma anche MIGLIORATO, GENTILE)
31
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conseguenze logiche34. Ciò richiedeva però che un valore di verità venisse assegnato alle premesse.
Per quanti sforzi faccia, Aristotele non dà nessun elemento che possa essere decisivo in questo senso. L’avere posto nella verità a priori delle premesse ogni possibilità di discriminazione tra vero e falso, non consente di modificare a posteriori le convinzioni più radicate sulle cose, sulla loro natura e
conseguentemente sul loro evolversi. In questo modo la scienza si presenta come una costruzione solida e immutabile, dotata del massimo potere esplicativo, ma con potere predittivo pressoché inesistente. Nulla infatti, o quasi, è possibile dedurre che già non sia sostanzialmente noto o ritenuto tale.
Una scienza così fatta non trova per altro applicazioni tecnologiche di sorta.
Il paradigma euclideo invece sposta il momento della validazione dalle premesse alle conclusioni. Ciò
consente un raffronto con un’effettiva pratica di risoluzione dei problemi (rompicapi). Ritengo questo
punto fondamentale, perché le ipotesi teoriche contenute in un paradigma non sono mai confrontabili
direttamente con la realtà: il raffronto si presenta sempre in qualche modo mediato da sistemi concettuali che costituiscono uno sfondo spesso nascosto dello stesso paradigma. Così nel caso della geometria il raffronto è con l’intero corpus delle costruzioni prodotte in una lunga tradizione di ricerca geometrica; nel caso dell’astronomia è con la concezione geocentrica già precedentemente radicata,
ecc…
In questo cambiamento la capacità esplicativa è per molti aspetti ridotta drasticamente, nel senso che
nessuna spiegazione è possibile sull’oggetto in sé. Al contrario esplode e si dilata la capacità predittiva e conseguentemente l’utilità pratica e tecnologica della scienza. E’ quest’ultima circostanza che ci
induce ad attribuire senza esitazione una valenza progressiva al cambiamento di paradigma. Ma attenzione! Il giudizio è fondato su categorie assolutamente moderne. La scienza moderna ha infatti acquisito un grande prestigio, anche tra il pubblico meno colto, proprio perché le sue ricadute tecnologiche hanno modificato profondamente gli stili di vita degli esseri umani, innalzandone la vita media, dilazionandone la vecchiaia, producendo un’enorme quantità di oggetti che facilitano la vita e la rendono
più gradevole. Questo successo diventa dunque una validazione a posteriori di un complesso di metodologie che diciamo scientifiche; ed è lecito per noi assegnare un valore positivo a tutto ciò che va in
questa direzione. Poiché la storia è fatta di interpretazioni sulla base di categorie inventate successivamente, mi sembra del tutto lecito usare (a posteriori) la categoria positiva di progresso anche per la
rivoluzione euclidea, indipendentemente dal fatto che gli agenti di tale rivoluzione ne avessero o meno
la consapevolezza piena.
Al contrario è di segno regressivo (sempre secondo la nostra categoria moderna) la rivoluzione che si
svolge qualche secolo dopo e che trova riscontro nei tentativi di Posidonio e del suo seguace Gemino
di dimostrare il quinto postulato di Euclide35.
34
In linea di principio perché in realtà il solo sillogismo euclideo non è sufficiente per produrre le abituali dimostrazioni matematiche.
35
PROCLO DIADOCO.
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Cos’è avvenuto? Posidonio è un filosofo prima che un matematico, un filosofo che si richiama alla
scuola stoica, ma ne modifica profondamente l’indirizzo secondo un nuova linea iniziata già da Panezio di Rodi. La critica più forte che egli rivolge nei confronti di Crisippo e della Stoa antica è diretta
verso il sostanziale monismo di quella scuola, che prevede come animatore dell’universo un solo principio rigidamente deterministico. In questa visione vi è poco spazio per una fondazione metafisica del
concetto di libertà. Ora in un’epoca in cui il mondo greco36 aveva perso la sua autonomia politica e
culturale e attraversava un’epoca d’incertezze sul futuro, costellata di saccheggi, di spoliazioni, di
stragi e distruzioni quale non aveva ancora conosciuto, non è difficile ipotizzare che i problemi più urgentemente sentiti fossero quelli inerenti ai significati della vita umana, al suo destino spirituale non
meno che di quello materiale. E se così è, allora una scienza incurante di pervenire a verità ultime e
finalizzata solo a “salvare i fenomeni”, poteva facilmente essere rifiutata, non compresa, ritenuta negativa. Dunque assieme alla diversità culturale di fondo del mondo romano, che Lucio Russo indica come unica causa del cambiamento di direzione, non deve essere trascurato quel ribaltamento di valori
che può avere investito anche il mondo greco. Una verifica diretta purtroppo si presenta molto difficile
perché proprio di quella che fu l’epoca d’oro della scienza rimane ben poco che possa testimoniare
quale fosse contemporaneamente la visione complessiva del mondo, e gli stessi frammenti di testimonianza sulle scuole filosofiche dell’epoca sono viziate dal pregiudizio degli stessi testimoni.
5. Conclusione
Quale conclusione possiamo trarre da questo esempio storico? Emerge intanto la complessità delle
dinamiche culturali entro cui grandi cambiamenti di paradigma rendono improvvisamente incomprensibile ciò che apparteneva a un paradigma diverso. Emerge anche la mutabilità dei valori che sono alla base dell’uno o dell’altro criterio di validazione. Così oggi possiamo ben dire che il passaggio dal
paradigma aristotelico a quello euclideo fu una rivoluzione progressiva, mentre l’atra rivoluzione descritta fu di segno contrario e dunque regressiva. Nel dire questo bisogna avere però ben presente
che il giudizio è fondato su una scelta di valori e investe quindi la sfera etica: siamo cioè convinti che
la scienza produce grandi miglioramenti nella vita dell’uomo. Ma anche quella di Posidinio, che pure
porta ad una concezione per noi regressiva, era dal suo punto di vista una scelta etica perché diretta a
riflettere sul significato della vita e sui destini spirituali dell’uomo. In ogni caso ciò che entra profondamente in crisi è l’idea ottocentesca dell’oggettività come fondamento della conoscenza scientifica.
Infine una riflessione va fatta sulla scienza moderna in generale, sui modelli matematici di cui si serve
e sui criteri adoperati per discriminare ciò che è scientificamente valido. Ma anche sui linguaggi di
comunicazione che spesso tradiscono i significati esplicativi e quelli predittivi della scienza,
36
Posidonio era certamente di formazione Greca, anche se aveva completato una parte dei propri
studi all’interno o a contatto del mondo romano.
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confondendoli con i linguaggi comuni.
C’è un rischio a mio avviso da segnalare. La scienza, come si è detto ha acquisito un grande prestigio
perché su di essa si è fondato uno sviluppo tecnologico imponente che ha profondamente trasformato
il mondo. Tutto ciò è stato fatto sulla base di grandi apparati teorici che, prima di rivolgersi alle applicazioni, hanno quasi sempre consolidato le proprie fondamenta ed ampiamente collaudato la propria
capacità predittiva. Oggi molti settori d’avanguardia, come la genetica, operano su un terreno che
possiamo dire pionieristico, fondato più sul metodo dei tentativi che non sulla costruzione teorica o sui
modelli matematici. In altri casi si utilizzano modelli matematici fondati su ipotesi molto congetturali e
approssimative o sulla ricerca di presunte regolarità o su campionature statistiche. Nella maggior parte di questi casi la ricerca è ancora ben lontana dal raggiungere alti livelli di attendibilità predittiva, e
ancor meno qualcosa che si possa, ai fini pratici, avvicinarsi alla certezza.
Ovviamente tutti i settori della ricerca, anche i più pionieristici, hanno pari dignità e pari diritti; essi costituiscono le nuove scommesse per il futuro. Sarebbe dunque folle dichiarale anche solo “meno
scientifiche” delle altre. Dev’esserci tuttavia la piena con sapevolezza delle differenze sia per ciò che
concerne la solidità delle basi teoriche, sia per ciò che riguarda la capacità predittiva rispetto alle poste in gioco.
In realtà, considerati anche gli enormi interessi che vi si connettono, non è difficile che il grande prestigio conquistato sul campo dalla scienza venga impropriamente e surrettiziamente utilizzato per ottenere il consenso del grande pubblico su ogni pratica che, in un modo o nell’altro, possa fregiarsi della copertura della parola “scienza”.
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