una “passione balcanica”

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una “passione balcanica”
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Ambiente Territorio - Storia del rilevamento del territorio
Erminio M. Ferrucci
Storia del rilevamento del territorio - Ambiente Territorio
La biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna ha
inaugurato, alcuni anni or sono, una singolare
e interessante mostra sulla figura di Antonio
Baldacci (Bologna 1867-1950), viaggiatore, geografo e botanico che per oltre cinquant’anni
svolse un’intensa attività nei territori balcanici
affacciati sull’Adriatico (e non solo). La mostra
è stata un’occasione per riscoprire la figura
dello studioso e per presentare al pubblico i
risultati del lavoro di inventariazione scientifica
del suo ricco archivio.
È
Una “passione balcanica”:
colonialismo, etnografia
e rilievo del territorio
agli inizi del XX secolo
Moschea a Tirana, Albania
stata una vita più che intensa quella del bolognese
Antonio Baldacci, caratterizzata da un’attività poliedrica, ricca di interessi, viaggi, incontri, studi, lotte, imprese
pionieristiche: un’esistenza animata da una vera e propria
passione per il mondo balcanico affacciante sull’Adriatico,
all’epoca del tutto sconosciuto anche se molto vicino.
Oggi è stato possibile inoltrarsi in questo mondo affascinante, grazie all’impegno dell’archivista Maria Grazia Bollini e
della responsabile presso la Biblioteca comunale dell’Archiginnasio della sezione dei manoscritti e dei rari, Anna
Manfron.
Esaudendo una sua disposizione testamentaria, l’archivio
personale di Antonio Baldacci, è stato donato all’Archiginnasio nel 2001 con i libri appartenuti allo studioso (un nucleo
composto da circa 4.000 tra volumi, periodici e opuscoli,
attualmente catalogati e disponibili nell’ambito del Servizio
bibliotecario nazionale). I documenti che compongono l’archivio personale di Baldacci testimoniano fedelmente tutti i
contatti avuti e le attività svolte dal 1885 al 1950.
La sezione più vasta è costituita dalla corrispondenza:
38.900 lettere ricevute, una piccola parte di lettere inviate
(copie), 2.799 cartoline. Segue una sezione costituita da
6.092 biglietti da visita di personaggi che Baldacci aveva
conosciuto e con cui aveva stretto significativi rapporti. Non
potevano mancare le carte geografiche, 379, che riguardano il Montenegro, l’Albania, parte della Grecia, l’Italia e le
colonie italiane della Somalia e dell’Eritrea.
Molte sono carte dell’Istituto geografico militare dell’impero austro-ungarico montate su tela per essere piegate e
trasportate in viaggio. Su alcune sono visibili dei tracciati
realizzati con matite colorate fatti dallo stesso Baldacci per
indicare gli itinerari seguiti durante le sue esplorazioni, altre
furono modificate grazie anche alle sue indicazioni ed alle
verifiche condotte sul campo.
Un’interessante sezione è costituita dalla raccolta di materiale fotografico: 1.566 fotografie, dalla fine del XIX secolo al
1950. Gran parte sono state scattate dallo stesso Baldacci
nel corso dei suoi viaggi in Montenegro e in Albania, (tra il
1900 e il 1902), e nel sud Italia (nel 1906), altre sono state
acquistate sul posto. Il materiale raccolto testimonia l’interesse etnografico e antropologico delle ricerche effettuate.
36 di queste fotografie sono state attribuite a uno dei più
importanti studi fotografici dei Balcani, fondato dall’italiano
Pietro Marubi in Scutari (Albania).
Il fondo Baldacci rappresenta, quindi, non solo l’insieme
di importanti studi di botanica, geografia, antropologia,
economia, ma anche di storia inerente ai territori che videro
in quegli anni lo sfaldarsi dell’impero ottomano, la nascita di
nuove realtà territoriali, il diffondersi degli interessi economi-
ci e coloniali italiani. Ricordiamo che alla mostra organizzata
dall’Archiginnasio si aggiunge la pubblicazione dell’inventario di questo corposo archivio: Una passione balcanica
tra affari, botanica e politica coloniale. Il fondo Antonio
Baldacci nella Biblioteca dell’Archiginnasio (1884-1950) a
cura di Maria Grazia Bollini.
Le esplorazioni scientifiche
Il primo viaggio fu tentato da Baldacci nel 1885, a diciassette
anni, percorrendo a piedi il lungo tratto da Zara fino al confine
montenegrino, senza tuttavia riuscire a raggiungere la capitale Cettigne per mancanza di mezzi economici; nel 1886,
ritentando l’impresa, conobbe durante il viaggio di andata
padre Cesare Tondini De’ Quarenghi, diplomatico inviato dal
Vaticano; questi lo presentò al principe Nicola del Montenegro, che iniziò ad aiutare Antonio con piccole sovvenzioni per
le sue prime escursioni. Fu in tale occasione che Baldacci,
allora diciannovenne, conobbe la tredicenne principessa
Elena, figlia di Nicola e futura regina d’Italia.
Le spedizioni del 1889, 1890 e 1891 furono dedicate principalmente alle ricerche in Montenegro. Baldacci poté visitare
per la prima volta nel 1892 l’Albania, che a quel tempo faceva
ancora parte dell’impero ottomano e che divenne il campo
principale delle sue ricerche negli anni successivi; nel 1893
e nel 1899 visitò Creta, interessata fra il 1896 e il 1898 dalle
operazioni militari della guerra greco-turca, conclusasi con la
concessione di un’ampia autonomia all’isola da parte dell’impero ottomano. Nel corso di tali viaggi lo studioso affrontò
situazioni rischiose e pericoli di vario genere, dovuti non solo
alla natura impervia e in gran parte ancora selvaggia e sconosciuta di quei territori, ma anche agli scontri tra tribù rivali
nelle aree di confine tra Montenegro e Albania, oltre all’ostilità
delle autorità ottomane verso gli stranieri che tentavano di
percorrere i territori albanesi.
I viaggi vennero inizialmente finanziati dalle raccolte di esemplari botanici essiccati che Baldacci vendeva a istituti scientifici italiani e stranieri, e in seguito da contributi economici elargiti dalla Società geografica italiana; il viaggio del 1902 nella
regione al confine tra Albania e Montenegro costituì la prima
missione scientifica italiana nel Montenegro e fu promosso e
finanziato dal Ministero della pubblica istruzione.
Nel corso delle sue esplorazioni scientifiche Baldacci raccolse oltre centomila esemplari di piante, alcuni di specie allora
sconosciute, come il Verbascum Baldaccii Degen, la Wulfenia Baldaccii e la Forsythia europaea Degen et Baldaccii,
che portano oggi il suo nome.
La documentazione conservata nel fondo archivistico è costituita dall’insieme delle carte prodotte, ricevute e utilizzate da
Baldacci nel corso di un’attività protrattasi per sessantacinque
anni, dal 1885 al 1950, anno della morte. Come già ricordato,
il nucleo più consistente è rappresentato dalla corrispondenza
(oltre 38.900 lettere ricevute, 2.799 cartoline e altra corrispondenza, anche a carattere familiare); sono inoltre presenti
carte e documenti personali (diplomi, passaporti, ricordi
vari), minute e bozze di stampa per pubblicazioni, raccolte di
materiali particolari (6.092 biglietti da visita, fotografie, giornali
e periodici, carte geografiche) acquisite e conservate come
materiali di lavoro, a fini di studio e di documentazione.
Il fondo è di notevole interesse non solo per la sua consistenza quantitativa, ma anche per la sostanziale continuità
ed integrità della corrispondenza ricevuta, e più in generale
per la ricchezza e la varietà della documentazione presente.
Il particolare ambito di attività di Baldacci, e cioè gli studi sui
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Ambiente Territorio - Storia del rilevamento del territorio
Erminio M. Ferrucci
Storia del rilevamento del territorio - Ambiente Territorio
La biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna ha
inaugurato, alcuni anni or sono, una singolare
e interessante mostra sulla figura di Antonio
Baldacci (Bologna 1867-1950), viaggiatore, geografo e botanico che per oltre cinquant’anni
svolse un’intensa attività nei territori balcanici
affacciati sull’Adriatico (e non solo). La mostra
è stata un’occasione per riscoprire la figura
dello studioso e per presentare al pubblico i
risultati del lavoro di inventariazione scientifica
del suo ricco archivio.
È
Una “passione balcanica”:
colonialismo, etnografia
e rilievo del territorio
agli inizi del XX secolo
Moschea a Tirana, Albania
stata una vita più che intensa quella del bolognese
Antonio Baldacci, caratterizzata da un’attività poliedrica, ricca di interessi, viaggi, incontri, studi, lotte, imprese
pionieristiche: un’esistenza animata da una vera e propria
passione per il mondo balcanico affacciante sull’Adriatico,
all’epoca del tutto sconosciuto anche se molto vicino.
Oggi è stato possibile inoltrarsi in questo mondo affascinante, grazie all’impegno dell’archivista Maria Grazia Bollini e
della responsabile presso la Biblioteca comunale dell’Archiginnasio della sezione dei manoscritti e dei rari, Anna
Manfron.
Esaudendo una sua disposizione testamentaria, l’archivio
personale di Antonio Baldacci, è stato donato all’Archiginnasio nel 2001 con i libri appartenuti allo studioso (un nucleo
composto da circa 4.000 tra volumi, periodici e opuscoli,
attualmente catalogati e disponibili nell’ambito del Servizio
bibliotecario nazionale). I documenti che compongono l’archivio personale di Baldacci testimoniano fedelmente tutti i
contatti avuti e le attività svolte dal 1885 al 1950.
La sezione più vasta è costituita dalla corrispondenza:
38.900 lettere ricevute, una piccola parte di lettere inviate
(copie), 2.799 cartoline. Segue una sezione costituita da
6.092 biglietti da visita di personaggi che Baldacci aveva
conosciuto e con cui aveva stretto significativi rapporti. Non
potevano mancare le carte geografiche, 379, che riguardano il Montenegro, l’Albania, parte della Grecia, l’Italia e le
colonie italiane della Somalia e dell’Eritrea.
Molte sono carte dell’Istituto geografico militare dell’impero austro-ungarico montate su tela per essere piegate e
trasportate in viaggio. Su alcune sono visibili dei tracciati
realizzati con matite colorate fatti dallo stesso Baldacci per
indicare gli itinerari seguiti durante le sue esplorazioni, altre
furono modificate grazie anche alle sue indicazioni ed alle
verifiche condotte sul campo.
Un’interessante sezione è costituita dalla raccolta di materiale fotografico: 1.566 fotografie, dalla fine del XIX secolo al
1950. Gran parte sono state scattate dallo stesso Baldacci
nel corso dei suoi viaggi in Montenegro e in Albania, (tra il
1900 e il 1902), e nel sud Italia (nel 1906), altre sono state
acquistate sul posto. Il materiale raccolto testimonia l’interesse etnografico e antropologico delle ricerche effettuate.
36 di queste fotografie sono state attribuite a uno dei più
importanti studi fotografici dei Balcani, fondato dall’italiano
Pietro Marubi in Scutari (Albania).
Il fondo Baldacci rappresenta, quindi, non solo l’insieme
di importanti studi di botanica, geografia, antropologia,
economia, ma anche di storia inerente ai territori che videro
in quegli anni lo sfaldarsi dell’impero ottomano, la nascita di
nuove realtà territoriali, il diffondersi degli interessi economi-
ci e coloniali italiani. Ricordiamo che alla mostra organizzata
dall’Archiginnasio si aggiunge la pubblicazione dell’inventario di questo corposo archivio: Una passione balcanica
tra affari, botanica e politica coloniale. Il fondo Antonio
Baldacci nella Biblioteca dell’Archiginnasio (1884-1950) a
cura di Maria Grazia Bollini.
Le esplorazioni scientifiche
Il primo viaggio fu tentato da Baldacci nel 1885, a diciassette
anni, percorrendo a piedi il lungo tratto da Zara fino al confine
montenegrino, senza tuttavia riuscire a raggiungere la capitale Cettigne per mancanza di mezzi economici; nel 1886,
ritentando l’impresa, conobbe durante il viaggio di andata
padre Cesare Tondini De’ Quarenghi, diplomatico inviato dal
Vaticano; questi lo presentò al principe Nicola del Montenegro, che iniziò ad aiutare Antonio con piccole sovvenzioni per
le sue prime escursioni. Fu in tale occasione che Baldacci,
allora diciannovenne, conobbe la tredicenne principessa
Elena, figlia di Nicola e futura regina d’Italia.
Le spedizioni del 1889, 1890 e 1891 furono dedicate principalmente alle ricerche in Montenegro. Baldacci poté visitare
per la prima volta nel 1892 l’Albania, che a quel tempo faceva
ancora parte dell’impero ottomano e che divenne il campo
principale delle sue ricerche negli anni successivi; nel 1893
e nel 1899 visitò Creta, interessata fra il 1896 e il 1898 dalle
operazioni militari della guerra greco-turca, conclusasi con la
concessione di un’ampia autonomia all’isola da parte dell’impero ottomano. Nel corso di tali viaggi lo studioso affrontò
situazioni rischiose e pericoli di vario genere, dovuti non solo
alla natura impervia e in gran parte ancora selvaggia e sconosciuta di quei territori, ma anche agli scontri tra tribù rivali
nelle aree di confine tra Montenegro e Albania, oltre all’ostilità
delle autorità ottomane verso gli stranieri che tentavano di
percorrere i territori albanesi.
I viaggi vennero inizialmente finanziati dalle raccolte di esemplari botanici essiccati che Baldacci vendeva a istituti scientifici italiani e stranieri, e in seguito da contributi economici elargiti dalla Società geografica italiana; il viaggio del 1902 nella
regione al confine tra Albania e Montenegro costituì la prima
missione scientifica italiana nel Montenegro e fu promosso e
finanziato dal Ministero della pubblica istruzione.
Nel corso delle sue esplorazioni scientifiche Baldacci raccolse oltre centomila esemplari di piante, alcuni di specie allora
sconosciute, come il Verbascum Baldaccii Degen, la Wulfenia Baldaccii e la Forsythia europaea Degen et Baldaccii,
che portano oggi il suo nome.
La documentazione conservata nel fondo archivistico è costituita dall’insieme delle carte prodotte, ricevute e utilizzate da
Baldacci nel corso di un’attività protrattasi per sessantacinque
anni, dal 1885 al 1950, anno della morte. Come già ricordato,
il nucleo più consistente è rappresentato dalla corrispondenza
(oltre 38.900 lettere ricevute, 2.799 cartoline e altra corrispondenza, anche a carattere familiare); sono inoltre presenti
carte e documenti personali (diplomi, passaporti, ricordi
vari), minute e bozze di stampa per pubblicazioni, raccolte di
materiali particolari (6.092 biglietti da visita, fotografie, giornali
e periodici, carte geografiche) acquisite e conservate come
materiali di lavoro, a fini di studio e di documentazione.
Il fondo è di notevole interesse non solo per la sua consistenza quantitativa, ma anche per la sostanziale continuità
ed integrità della corrispondenza ricevuta, e più in generale
per la ricchezza e la varietà della documentazione presente.
Il particolare ambito di attività di Baldacci, e cioè gli studi sui
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Ambiente Territorio - Storia del rilevamento del territorio
Sclavonia (terra degli slavi o schiavoni), carta geografica del XVI secolo riportante i confini dei domini della Serenissima,
dell’Impero Austroungarico e dell’Impero Turco (Biblioteca dell’Archiginnasio, Bologna)
Storia del rilevamento del territorio - Ambiente Territorio
Paesi dell’area balcanica – a quell’epoca in gran parte ancora
poco conosciuti – condotti nel campo di svariate discipline
scientifiche concorre ad accentuare l’originalità dell’insieme e
le potenzialità informative del fondo.
Tra il 1905 e il 1908 lo studioso svolse alcuni studi a carattere
etnografico e politico-sociale in Calabria, Molise e Sicilia, su
incarico del Ministero dell’Istruzione pubblica; non posso nascondere lo stupore provato in questa mia ricerca, quando mi
sono imbattuto in luoghi da me assai ben conosciuti, nascosti
tra le foto e le lettere dello studioso bolognese.
La serie Italia raccoglie 195 immagini (160 positivi, 34
negativi su pellicola, una autocromia), di cui 177 relative alla
Calabria e un piccolo gruppo di diciotto foto riguardanti le minoranze slave del Molise, queste ultime raccolte da Baldacci
in relazione allo studio sulle «isole slave del circondario di Larino» commissionatogli nel 1906 dal Ministro della istruzione
pubblica Luigi Rava e riassunte nella pubblicazione apparsa
sulla rivista tedesca «Globus», nell’articolo Die Slawen von
Molise (1908). Le fotografie di ambito calabrese sono suddivise in gruppi in gran parte originali, determinati sulla base del
territorio (ad esempio «Sila» o «Provincia di Catanzaro») o,
con maggiore precisione, della località cui si riferi­scono. I singoli gruppi erano conservati entro buste da lettera recanti l’indicazione manoscritta della località. Tranne alcune eccezioni,
le fotografie scattate da Baldacci sono unite a scatti di altri
autori, in genere fotografi professionisti o persone conosciute
nel corso dei suoi numerosi soggiorni nella regione. È stato
pertanto assai arduo tentare di identificare, di volta in volta,
l’autore delle foto: le attribuzioni indicate sono da intendersi
come ipotesi che potranno eventualmente essere verificate
nel corso di studi più approfonditi. Una parte delle immagini
è provvista di didascalie più o meno dettagliate: sono invece
assenti, tranne che in rarissimi casi, le date. Per alcuni gruppi
di fotografie o singole immagini prive di qualsiasi indicazione
non è stato possibile determinare riferimenti precisi a data e
località.
La produzione e la raccolta da parte di Baldacci di fotografie relative al Molise e alla Calabria può essere messa in
relazione a due poli di interesse fonda­mentali: il primo di
carattere politico-economico e sociale mentre il secondo, di
tipo etnografico, è incentrato sul­lo studio delle usanze e dei
costumi popolari.
La documentazione relativa al Molise e alla Calabria costituisce un nucleo di notevole interesse, trattandosi, nel caso delle foto scattate da Baldacci, di im­magini originali ed inedite e,
nel caso invece di quelle dovute ad altri auto­ri, di documenti
iconografici certamente rari o con diffusione assai limitata.
Si segnala che nelle serie Cartoline e Lettere ricevute sono
conservate numerose cartoline illustrate con ritratti fotografici
di donne meridionali in costume tradizionale.
Razumiš na našo? La colonizzazione balcanica
dell’Appennino centro-meridionale
Razumiš na našo? Comprendi il nostro? (Si sottintende:
linguaggio). Questa è, con tutta probabilità, la prima domanda
che Baldacci si senti proferire quando, nell’anno 1906 visitò
Montemitro (Mundimitar), uno dei più piccoli e sperduti Paesi
dell’Appennino molisano. Questa domanda (se mai gli fu
posta), sarebbe stata pertinente: perché chi giunge in quel
paese, non può esserci arrivati per caso; o con quel paese ha
dei legami, oppure si è perso.
Poiché ho vissuto alcuni anni importanti della mia vita in
Rilievo della costa di Scutari, 1915 (Fondo Baldacci,
Biblioteca dell’Archiginnasio, Bologna)
Rilievo della Baia di Valona, 1900 circa (Fondo Baldacci,
Biblioteca dell’Archiginnasio, Bologna)
quel luogo (un po’ per appartenenza e un po’ perchè mi ero
perso) e ricordo quella manciata di case che da Sant’Angelo
saliva al Castello e poi giù fino alla Chiesa Vecchia, disperdendosi in un reticolo di vicoli misteriosi (che promettevano
grandi scoperte, ma che non portavano mai da nessuna
parte), posso testimoniare il forte senso dell’appartenenza
di quella comunità, la profonda consapevolezza della propria
diversità: una diversità che si esprime non solo nella lingua
parlata (il croato), ma in un ‘diverso’ approccio alla vita, in un
modo ‘diverso’ di affrontare la quotidianità; spopolato da una
emigrazione intercontinentale, in caso di ritorno (anche dopo
decenni) la collettività ti riabbraccia, come se non fossi mai
partito.
In realtà, l’emigrazione fa parte del Dna di questi popoli: secondo alcuni studiosi, la popolazione croata giunta in queste
terre inospitali nel XVI secolo, proveniva soprattutto dall’Erzegovina occidentale e dall’odierna Dalmazia ma principalmente, si suppone, dai Paesi dalmati di Imotski, Makarska,
Neretva, (Narenta) e Sinj.
Montemitro, è uno dei tre piccoli centri abitati che, insieme
a S. Felice (Filič) e Acquaviva Collecroce (Kruč), conserva
ancora la lingua slava. In realtà l’esistenza del toponimo è
di epoca assai anteriore alla migrazione slava ed è attestata da numerosi documenti. La più antica testimonianza ci
perviene dalla Chronica monasterii Casinensis (anno 1024)
la quale ci riferisce che «Seguenti etiam anno Benedictus
quidam cum uxore sua Marenda de Castello Monte Metulo
fecit oblationem suam in hoc monasterio de ecclesia Sancti
Iohannis que sita est in finibus eiusdem castri iusta fluvium
Trinium, cum terra modiorum ducenti LXX, ubi ipsa ecclesia
edificata».
In realtà la colonizzazione balcanica dell’Appennino centromeridionale fu ben più ampia di quanto non si creda; lo
testimoniano le tracce scolpite sulla pietra. Ad esempio, sulla
facciata della chiesa parrocchiale di Palata (altro borgo rurale
molisano che non conserva, però, tracce del linguaggio
slavo) ancor oggi si può leggere la scritta: “HOC PRIMUM
DALMATIAE GENTES INOCULARE AC FUNDAMENTIS
EREXERE TEMPLUM ANO MDXXXI”. Tradotto: “GENTE
DELLA DALMAZIA, I PRIMI AD ABITARE QUESTO PAESE,
DALLE FONDAMENTA HA COSTRUITO QUESTO TEMPIO
NELL’ANNO 1531”.
Molte sono le ipotesi avanzate su questo fenomeno migratorio: nell’articolo “Slavenske riječi u Apeninima” (Frankfurter
Allgemeine, n. 212 del 13.11.1969) Johann Georg Reissmüller
ritiene che gli slavi, all’inizio del XVI secolo, siano fuggiti dalla
Dalmazia in seguito all’invasione turca e, attraverso il mare,
si siano stabiliti nel territorio molisano allora non abitato.
Nell’articolo “Woher die südslavischen Colonien in Süditalien”
(Archiv für slavische Philologie, XIV, pagg. 78-82, Berlin 1892)
Josip Aranza sostiene, basandosi sulla lingua dell’antica letteratura croata e sul linguaggio croato-molisano, che i croati
del Molise provengano dai dintorni di Zara. Nel saggio “Rotas
Opera Tenet Arepo Sator” (Roma, 1950) Teodoro Badurina
espone una tesi diversa: studiando le particolarità del linguaggio croato-molisano, giunge alla conclusione che i croati
del Molise siano originari dalla regione stocavo-morlacca
dell’Istria meridionale.
Anche Mate Hraste, insigne linguista, affronta questa
problematica. Nei “Govori jugozapadne Istre” (Zagreb,1964)
a pagina 33 testualmente scrive: “(...) In questa occasione
la popolazione di questa fertile zona dell’entroterra da Zara
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Sclavonia (terra degli slavi o schiavoni), carta geografica del XVI secolo riportante i confini dei domini della Serenissima,
dell’Impero Austroungarico e dell’Impero Turco (Biblioteca dell’Archiginnasio, Bologna)
Storia del rilevamento del territorio - Ambiente Territorio
Paesi dell’area balcanica – a quell’epoca in gran parte ancora
poco conosciuti – condotti nel campo di svariate discipline
scientifiche concorre ad accentuare l’originalità dell’insieme e
le potenzialità informative del fondo.
Tra il 1905 e il 1908 lo studioso svolse alcuni studi a carattere
etnografico e politico-sociale in Calabria, Molise e Sicilia, su
incarico del Ministero dell’Istruzione pubblica; non posso nascondere lo stupore provato in questa mia ricerca, quando mi
sono imbattuto in luoghi da me assai ben conosciuti, nascosti
tra le foto e le lettere dello studioso bolognese.
La serie Italia raccoglie 195 immagini (160 positivi, 34
negativi su pellicola, una autocromia), di cui 177 relative alla
Calabria e un piccolo gruppo di diciotto foto riguardanti le minoranze slave del Molise, queste ultime raccolte da Baldacci
in relazione allo studio sulle «isole slave del circondario di Larino» commissionatogli nel 1906 dal Ministro della istruzione
pubblica Luigi Rava e riassunte nella pubblicazione apparsa
sulla rivista tedesca «Globus», nell’articolo Die Slawen von
Molise (1908). Le fotografie di ambito calabrese sono suddivise in gruppi in gran parte originali, determinati sulla base del
territorio (ad esempio «Sila» o «Provincia di Catanzaro») o,
con maggiore precisione, della località cui si riferi­scono. I singoli gruppi erano conservati entro buste da lettera recanti l’indicazione manoscritta della località. Tranne alcune eccezioni,
le fotografie scattate da Baldacci sono unite a scatti di altri
autori, in genere fotografi professionisti o persone conosciute
nel corso dei suoi numerosi soggiorni nella regione. È stato
pertanto assai arduo tentare di identificare, di volta in volta,
l’autore delle foto: le attribuzioni indicate sono da intendersi
come ipotesi che potranno eventualmente essere verificate
nel corso di studi più approfonditi. Una parte delle immagini
è provvista di didascalie più o meno dettagliate: sono invece
assenti, tranne che in rarissimi casi, le date. Per alcuni gruppi
di fotografie o singole immagini prive di qualsiasi indicazione
non è stato possibile determinare riferimenti precisi a data e
località.
La produzione e la raccolta da parte di Baldacci di fotografie relative al Molise e alla Calabria può essere messa in
relazione a due poli di interesse fonda­mentali: il primo di
carattere politico-economico e sociale mentre il secondo, di
tipo etnografico, è incentrato sul­lo studio delle usanze e dei
costumi popolari.
La documentazione relativa al Molise e alla Calabria costituisce un nucleo di notevole interesse, trattandosi, nel caso delle foto scattate da Baldacci, di im­magini originali ed inedite e,
nel caso invece di quelle dovute ad altri auto­ri, di documenti
iconografici certamente rari o con diffusione assai limitata.
Si segnala che nelle serie Cartoline e Lettere ricevute sono
conservate numerose cartoline illustrate con ritratti fotografici
di donne meridionali in costume tradizionale.
Razumiš na našo? La colonizzazione balcanica
dell’Appennino centro-meridionale
Razumiš na našo? Comprendi il nostro? (Si sottintende:
linguaggio). Questa è, con tutta probabilità, la prima domanda
che Baldacci si senti proferire quando, nell’anno 1906 visitò
Montemitro (Mundimitar), uno dei più piccoli e sperduti Paesi
dell’Appennino molisano. Questa domanda (se mai gli fu
posta), sarebbe stata pertinente: perché chi giunge in quel
paese, non può esserci arrivati per caso; o con quel paese ha
dei legami, oppure si è perso.
Poiché ho vissuto alcuni anni importanti della mia vita in
Rilievo della costa di Scutari, 1915 (Fondo Baldacci,
Biblioteca dell’Archiginnasio, Bologna)
Rilievo della Baia di Valona, 1900 circa (Fondo Baldacci,
Biblioteca dell’Archiginnasio, Bologna)
quel luogo (un po’ per appartenenza e un po’ perchè mi ero
perso) e ricordo quella manciata di case che da Sant’Angelo
saliva al Castello e poi giù fino alla Chiesa Vecchia, disperdendosi in un reticolo di vicoli misteriosi (che promettevano
grandi scoperte, ma che non portavano mai da nessuna
parte), posso testimoniare il forte senso dell’appartenenza
di quella comunità, la profonda consapevolezza della propria
diversità: una diversità che si esprime non solo nella lingua
parlata (il croato), ma in un ‘diverso’ approccio alla vita, in un
modo ‘diverso’ di affrontare la quotidianità; spopolato da una
emigrazione intercontinentale, in caso di ritorno (anche dopo
decenni) la collettività ti riabbraccia, come se non fossi mai
partito.
In realtà, l’emigrazione fa parte del Dna di questi popoli: secondo alcuni studiosi, la popolazione croata giunta in queste
terre inospitali nel XVI secolo, proveniva soprattutto dall’Erzegovina occidentale e dall’odierna Dalmazia ma principalmente, si suppone, dai Paesi dalmati di Imotski, Makarska,
Neretva, (Narenta) e Sinj.
Montemitro, è uno dei tre piccoli centri abitati che, insieme
a S. Felice (Filič) e Acquaviva Collecroce (Kruč), conserva
ancora la lingua slava. In realtà l’esistenza del toponimo è
di epoca assai anteriore alla migrazione slava ed è attestata da numerosi documenti. La più antica testimonianza ci
perviene dalla Chronica monasterii Casinensis (anno 1024)
la quale ci riferisce che «Seguenti etiam anno Benedictus
quidam cum uxore sua Marenda de Castello Monte Metulo
fecit oblationem suam in hoc monasterio de ecclesia Sancti
Iohannis que sita est in finibus eiusdem castri iusta fluvium
Trinium, cum terra modiorum ducenti LXX, ubi ipsa ecclesia
edificata».
In realtà la colonizzazione balcanica dell’Appennino centromeridionale fu ben più ampia di quanto non si creda; lo
testimoniano le tracce scolpite sulla pietra. Ad esempio, sulla
facciata della chiesa parrocchiale di Palata (altro borgo rurale
molisano che non conserva, però, tracce del linguaggio
slavo) ancor oggi si può leggere la scritta: “HOC PRIMUM
DALMATIAE GENTES INOCULARE AC FUNDAMENTIS
EREXERE TEMPLUM ANO MDXXXI”. Tradotto: “GENTE
DELLA DALMAZIA, I PRIMI AD ABITARE QUESTO PAESE,
DALLE FONDAMENTA HA COSTRUITO QUESTO TEMPIO
NELL’ANNO 1531”.
Molte sono le ipotesi avanzate su questo fenomeno migratorio: nell’articolo “Slavenske riječi u Apeninima” (Frankfurter
Allgemeine, n. 212 del 13.11.1969) Johann Georg Reissmüller
ritiene che gli slavi, all’inizio del XVI secolo, siano fuggiti dalla
Dalmazia in seguito all’invasione turca e, attraverso il mare,
si siano stabiliti nel territorio molisano allora non abitato.
Nell’articolo “Woher die südslavischen Colonien in Süditalien”
(Archiv für slavische Philologie, XIV, pagg. 78-82, Berlin 1892)
Josip Aranza sostiene, basandosi sulla lingua dell’antica letteratura croata e sul linguaggio croato-molisano, che i croati
del Molise provengano dai dintorni di Zara. Nel saggio “Rotas
Opera Tenet Arepo Sator” (Roma, 1950) Teodoro Badurina
espone una tesi diversa: studiando le particolarità del linguaggio croato-molisano, giunge alla conclusione che i croati
del Molise siano originari dalla regione stocavo-morlacca
dell’Istria meridionale.
Anche Mate Hraste, insigne linguista, affronta questa
problematica. Nei “Govori jugozapadne Istre” (Zagreb,1964)
a pagina 33 testualmente scrive: “(...) In questa occasione
la popolazione di questa fertile zona dell’entroterra da Zara
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Ambiente Territorio - Storia del rilevamento del territorio
Studi etnografici di Antonio Baldacci: uomini albanesi
che posano nel costume nazionale, Studio fotografico
Marubi in Scutari per A. Baldacci, 1902 (Biblioteca
dell’Archiginnasio, Bologna)
Studi etnografici di Antonio Baldacci: famiglia di coloni slavi
del Molise; studio fotografico Vetta per A. Baldacci, 1906.
(Biblioteca dell’Archiginnasio, Bologna)
a Sebenico è immigrata in diverse direzioni. Una parte si è
stabilita in Istria, un’altra si è fermata stabilmente nelle isole
prospicienti Zara, e un’altra ha trovato riparo nella regione
Molise, suddividendosi in diversi villaggi”.
Poco dopo continua: “L’idea di Badurina che i croati dell’Italia meridionale provengono dalla regione stocavo-morlacca
dell’Istria meridionale non è attendibile, perché è più naturale
pensare che i croati della Dalmazia siano emigrati in Italia
attraverso il mare Adriatico che non attraverso l’Istria, nella
quale si sarebbero dovuti fermare per qualche tempo” (per un
maggior approfondimento di questi argomenti si rimanda al
sito web www.mundimitar.it e agli scritti dei vari autori in esso
riportati).
Ma l’opera più suggestiva e completa sugli slavi dell’Italia meridionale è stata data alle stampe a Vienna nell’anno 1911 per
opera di Milan Rešetar, studioso di fama mondiale, scritta per
la commissione per i Balcani dell’Accademia Viennese, sotto
il titolo di: “Die Serbokroatischen Kolonien Süditaliens”.
Milan Rešetar
�����������������������������������������������������
visitò le colonie proprio a seguito delle segnalazioni e dei materiali inviatigli da Baldacci, dopo la sua
visita del 1906. Agghiacciante è la descrizione che lo studioso
austro-croato riporta di quei luoghi: parlando di San Felice,
l’autore rileva che “la negligenza e la trascuratezza della
popolazione sono particolarmente documentate dallo stato
miserabile in cui si trovano la residenza del feudatario di un
tempo, abitata da una delle migliori famiglie del luogo, e la
vecchia chiesa. Quest’ultima – situata un po’ fuori della località e consacrata al patrono San Felice – offre, soprattutto al
suo interno, un quadro così deplorevole che chiunque venga
da zone meno trascurate è costretto decisamente a credere
che essa non venga più usata come chiesa. Ma ciò non è
vero, perché il giorno di San Felice (il 30 maggio) e tutti i
venerdì del mese di maggio vi si legge ancora la Messa. Questa chiesa è però interessante perché porta sopra il portale
un’iscrizione di quattro righe in caratteri ebraici. Purtroppo,
durante il mio soggiorno potei fare solo una debole fotografia
dell’iscrizione, poiché la ripresa poté essere realizzata solo
sotto la pioggia e da una scala sostenuta da persone ma
altrimenti liberamente sospesa nell’aria. Ciononostante il
consigliere di corte prof. D. H. Müller, a cui rivolgo anche qui
i miei più ossequiosi ringraziamenti, è riuscito a leggere le
seguenti quattro righe della fotografia, di cui però la prima è
molto incerta: ‫כרא אנה משנה יהוה אוטו אךח‬. che egli trascrive
e traduce con ogni riserva come segue: “Brâ anâ mišneh
Jahweh – αυτου αρχος = (sono) il figlio, l’emissario di Geova,
il suo primo (figlio)”. Si tratta dunque dell’interessante fatto di
un’iscrizione cristiana aramaico-ebraico-greca”.
Parlando di Montemitro il racconto assume toni ancora più
cupi: “è un paesucolo abbandonato da Dio che si innalza
su una ripida collina circa 550 m sopra il fiume Trigno, che
segna qui il confine tra la provincia di Campobasso (Molise)
e la provincia di Chieti (Abruzzi). Benché sia lontano solo
6 km circa in linea d’aria da San Felice Slavo in direzione
ovest, non si può raggiungere Montemitro da quest’ultimo
luogo in meno di quattro ore, perché lungo la miserabile via
si può procedere solo a passo d’uomo, cosicché, siccome
in nessuno dei due luoghi c’è la possibilità di pernottare, la
maggior parte dei visitatori di queste colonie deve rinunciare
a visitare proprio quella tra di loro che ha conservato più
fedelmente il carattere slavo e la lingua slava, avendo anche
il processo di italianizzazione fatto qui naturalmente i minori
progressi a causa dell’isolamento del luogo” (tr. it. Walter Breu
Storia del rilevamento del territorio - Ambiente Territorio
e Monica Gardenghi). E al testo di Rešetar fa riferimento
anche la studiosa Antonietta Marra, oggi professore associato
presso l’Università di Cagliari, con alcune sue riflessioni sul
sistema verbale di questa lingua minoritaria, con un lavoro
che “ si propone di indagare alcuni aspetti della morfologia
verbale di un dialetto croato del tipo stokavo-ikavo parlato in
tre comuni dell’Italia Meridionale (Acquaviva Collecroce, San
Felice e Montemitro, tutti nel Molise). Le ricerche svolte da Milan Rešetar agli inizi del Novecento indicavano questa parte
della morfologia croato-molisana profondamente conservativa
rispetto ad altri dialetti serbo-croati appartenenti allo stesso
gruppo linguistico. L’analisi dei dati raccolti da una indagine
sul campo da me svolta vuole, in prima istanza, accertare
quale sia la struttura attuale del sistema verbale, in maniera
tale da verificare la conservazione delle forme temporali e
modali attestate da Rešetar. Con maggiore dettaglio, inoltre,
si guarderà all’espressione del futuro, che, accanto alla conservazione di forme tradizionali, mostra anche l’emergenza
di una nuova struttura. Il corpus è composto di registrazioni
ottenute nelle tre diverse comunità linguistiche, le quali presentano situazioni sociolinguistiche profondamente diverse,
da informanti appartenenti a diversi gruppi di età. L’intento è
quello di analizzare in modo comparativo i dati raccolti nei tre
comuni, in maniera tale da verificare se e in che maniera le
modificazioni riscontrate all’interno del sistema verbale siano
spiegabili in termini di perdita o meno della vitalità della lingua
di minoranza o di interferenza della lingua dominante”.
Quindi, giunti intorno al XV-XVI secolo “iz d’one bane mora”
(dall’altra parte del mare) per sfuggire all’avanzata ottomana
nei Balcani, gli “schiavoni”,come furono ribattezzati dalle
popolazioni locali, hanno trovato rifugio sull’altra sponda
dell’Adriatico, in terre in gran parte spopolate dopo il terribile
terremoto del 1456 e la successiva epidemia di peste.
A testimoniare la dimensione di queste migrazioni rimangono
i toponimi di molti altri piccoli comuni della zona, come San
Giacomo degli Schiavoni o Schiavi d’Abruzzo, che hanno perso però, col passare dei secoli, la lingua e con questa anche
la consapevolezza della propria identità.
Identità che invece si è conservata, sfidando i secoli e proprio
grazie ad un forte isolamento, nei tre Paesi in cui oggi si parla
ancora l’antico dialetto slavo originario dell’entroterra dalmata.
Nel 1996, con l’accordo bilaterale tra Italia e Croazia sulla
protezione delle minoranze linguistiche, è arrivato finalmente
il riconoscimento ufficiale della minoranza croata, ribadito
un anno dopo da una legge di salvaguardia della regione
Molise; oggi a Montemitro ha sede il Consolato onorario di
Croazia.
E mentre risuona ancora nelle mie orecchie il canto popolare
tramandato nei secoli: Lipa Mara homo u ružice. Neču ke
neču, se strašim do Karloviče!, ai vecchi compagni di strada
– a coloro che hanno avuto il coraggio di partire alla ricerca
di un destino migliore, e a coloro che hanno avuto la forza
di restare, per custodire l’antica tradizione – a tutti costoro io
dedico questa mia (personale) “passione balcanica”.
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Ambiente Territorio - Storia del rilevamento del territorio
Studi etnografici di Antonio Baldacci: uomini albanesi
che posano nel costume nazionale, Studio fotografico
Marubi in Scutari per A. Baldacci, 1902 (Biblioteca
dell’Archiginnasio, Bologna)
Studi etnografici di Antonio Baldacci: famiglia di coloni slavi
del Molise; studio fotografico Vetta per A. Baldacci, 1906.
(Biblioteca dell’Archiginnasio, Bologna)
a Sebenico è immigrata in diverse direzioni. Una parte si è
stabilita in Istria, un’altra si è fermata stabilmente nelle isole
prospicienti Zara, e un’altra ha trovato riparo nella regione
Molise, suddividendosi in diversi villaggi”.
Poco dopo continua: “L’idea di Badurina che i croati dell’Italia meridionale provengono dalla regione stocavo-morlacca
dell’Istria meridionale non è attendibile, perché è più naturale
pensare che i croati della Dalmazia siano emigrati in Italia
attraverso il mare Adriatico che non attraverso l’Istria, nella
quale si sarebbero dovuti fermare per qualche tempo” (per un
maggior approfondimento di questi argomenti si rimanda al
sito web www.mundimitar.it e agli scritti dei vari autori in esso
riportati).
Ma l’opera più suggestiva e completa sugli slavi dell’Italia meridionale è stata data alle stampe a Vienna nell’anno 1911 per
opera di Milan Rešetar, studioso di fama mondiale, scritta per
la commissione per i Balcani dell’Accademia Viennese, sotto
il titolo di: “Die Serbokroatischen Kolonien Süditaliens”.
Milan Rešetar
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visitò le colonie proprio a seguito delle segnalazioni e dei materiali inviatigli da Baldacci, dopo la sua
visita del 1906. Agghiacciante è la descrizione che lo studioso
austro-croato riporta di quei luoghi: parlando di San Felice,
l’autore rileva che “la negligenza e la trascuratezza della
popolazione sono particolarmente documentate dallo stato
miserabile in cui si trovano la residenza del feudatario di un
tempo, abitata da una delle migliori famiglie del luogo, e la
vecchia chiesa. Quest’ultima – situata un po’ fuori della località e consacrata al patrono San Felice – offre, soprattutto al
suo interno, un quadro così deplorevole che chiunque venga
da zone meno trascurate è costretto decisamente a credere
che essa non venga più usata come chiesa. Ma ciò non è
vero, perché il giorno di San Felice (il 30 maggio) e tutti i
venerdì del mese di maggio vi si legge ancora la Messa. Questa chiesa è però interessante perché porta sopra il portale
un’iscrizione di quattro righe in caratteri ebraici. Purtroppo,
durante il mio soggiorno potei fare solo una debole fotografia
dell’iscrizione, poiché la ripresa poté essere realizzata solo
sotto la pioggia e da una scala sostenuta da persone ma
altrimenti liberamente sospesa nell’aria. Ciononostante il
consigliere di corte prof. D. H. Müller, a cui rivolgo anche qui
i miei più ossequiosi ringraziamenti, è riuscito a leggere le
seguenti quattro righe della fotografia, di cui però la prima è
molto incerta: ‫כרא אנה משנה יהוה אוטו אךח‬. che egli trascrive
e traduce con ogni riserva come segue: “Brâ anâ mišneh
Jahweh – αυτου αρχος = (sono) il figlio, l’emissario di Geova,
il suo primo (figlio)”. Si tratta dunque dell’interessante fatto di
un’iscrizione cristiana aramaico-ebraico-greca”.
Parlando di Montemitro il racconto assume toni ancora più
cupi: “è un paesucolo abbandonato da Dio che si innalza
su una ripida collina circa 550 m sopra il fiume Trigno, che
segna qui il confine tra la provincia di Campobasso (Molise)
e la provincia di Chieti (Abruzzi). Benché sia lontano solo
6 km circa in linea d’aria da San Felice Slavo in direzione
ovest, non si può raggiungere Montemitro da quest’ultimo
luogo in meno di quattro ore, perché lungo la miserabile via
si può procedere solo a passo d’uomo, cosicché, siccome
in nessuno dei due luoghi c’è la possibilità di pernottare, la
maggior parte dei visitatori di queste colonie deve rinunciare
a visitare proprio quella tra di loro che ha conservato più
fedelmente il carattere slavo e la lingua slava, avendo anche
il processo di italianizzazione fatto qui naturalmente i minori
progressi a causa dell’isolamento del luogo” (tr. it. Walter Breu
Storia del rilevamento del territorio - Ambiente Territorio
e Monica Gardenghi). E al testo di Rešetar fa riferimento
anche la studiosa Antonietta Marra, oggi professore associato
presso l’Università di Cagliari, con alcune sue riflessioni sul
sistema verbale di questa lingua minoritaria, con un lavoro
che “ si propone di indagare alcuni aspetti della morfologia
verbale di un dialetto croato del tipo stokavo-ikavo parlato in
tre comuni dell’Italia Meridionale (Acquaviva Collecroce, San
Felice e Montemitro, tutti nel Molise). Le ricerche svolte da Milan Rešetar agli inizi del Novecento indicavano questa parte
della morfologia croato-molisana profondamente conservativa
rispetto ad altri dialetti serbo-croati appartenenti allo stesso
gruppo linguistico. L’analisi dei dati raccolti da una indagine
sul campo da me svolta vuole, in prima istanza, accertare
quale sia la struttura attuale del sistema verbale, in maniera
tale da verificare la conservazione delle forme temporali e
modali attestate da Rešetar. Con maggiore dettaglio, inoltre,
si guarderà all’espressione del futuro, che, accanto alla conservazione di forme tradizionali, mostra anche l’emergenza
di una nuova struttura. Il corpus è composto di registrazioni
ottenute nelle tre diverse comunità linguistiche, le quali presentano situazioni sociolinguistiche profondamente diverse,
da informanti appartenenti a diversi gruppi di età. L’intento è
quello di analizzare in modo comparativo i dati raccolti nei tre
comuni, in maniera tale da verificare se e in che maniera le
modificazioni riscontrate all’interno del sistema verbale siano
spiegabili in termini di perdita o meno della vitalità della lingua
di minoranza o di interferenza della lingua dominante”.
Quindi, giunti intorno al XV-XVI secolo “iz d’one bane mora”
(dall’altra parte del mare) per sfuggire all’avanzata ottomana
nei Balcani, gli “schiavoni”,come furono ribattezzati dalle
popolazioni locali, hanno trovato rifugio sull’altra sponda
dell’Adriatico, in terre in gran parte spopolate dopo il terribile
terremoto del 1456 e la successiva epidemia di peste.
A testimoniare la dimensione di queste migrazioni rimangono
i toponimi di molti altri piccoli comuni della zona, come San
Giacomo degli Schiavoni o Schiavi d’Abruzzo, che hanno perso però, col passare dei secoli, la lingua e con questa anche
la consapevolezza della propria identità.
Identità che invece si è conservata, sfidando i secoli e proprio
grazie ad un forte isolamento, nei tre Paesi in cui oggi si parla
ancora l’antico dialetto slavo originario dell’entroterra dalmata.
Nel 1996, con l’accordo bilaterale tra Italia e Croazia sulla
protezione delle minoranze linguistiche, è arrivato finalmente
il riconoscimento ufficiale della minoranza croata, ribadito
un anno dopo da una legge di salvaguardia della regione
Molise; oggi a Montemitro ha sede il Consolato onorario di
Croazia.
E mentre risuona ancora nelle mie orecchie il canto popolare
tramandato nei secoli: Lipa Mara homo u ružice. Neču ke
neču, se strašim do Karloviče!, ai vecchi compagni di strada
– a coloro che hanno avuto il coraggio di partire alla ricerca
di un destino migliore, e a coloro che hanno avuto la forza
di restare, per custodire l’antica tradizione – a tutti costoro io
dedico questa mia (personale) “passione balcanica”.
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