ARBERY The Elegance.qxd

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ARBERY The Elegance.qxd
Jean-Claude Izzo
Marinai perduti
Traduzione dal francese
di Franca Doriguzzi
Dello stesso Autore presso le nostre edizioni:
Casino totale
Chourmo
Solea
Il sole dei morenti
Vivere stanca
Aglio, menta e basilico
Opera tradotta con il contributo
del Service culturel/BCLA
de l’Ambassade de France en Italie
Titolo originale: Les marins perdus
© Copyright 1997 by Flammarion
© Copyright 2001 by Edizioni e/o
Via Camozzi, 1 – 00195 Roma
[email protected]
www.edizionieo.it
Prima edizione Tascabili e/o giugno 2004
Quarta ristampa Tascabili e/o aprile 2008
Grafica di Sergio Vezzali
Realizzazione di Emanuele Ragnisco
per Mekkanografici Associati
ISBN 978-88-7641-598-2
A Laurence
L’eterno vagabondo non ha diritto al ritorno
Michel Saunier
Capitolo primo
Un mattino grigio, fischiettando Besame mucho
Marsiglia quel mattino aveva colori da mare del
Nord. Diamantis trangugiò in fretta un Nescafé nella
sala comune deserta. Poi scese sul ponte fischiettando Besame mucho, il motivo che più spesso gli tornava in mente. Anche l’unico che sapesse fischiare. Tirò
fuori una Camel da un pacchetto stropicciato, l’accese e si appoggiò al parapetto. A Diamantis quel tempo non spiaceva. Non quel giorno lì, per lo meno. Si
era svegliato con un umore già impiastrato di grigio.
Lasciò vagare lo sguardo sul mare, verso il largo,
come per allontanare il momento in cui, come tutti
gli altri marinai dell’Aldébaran, avrebbe dovuto prendere una decisione. Decidere non era il suo forte. Da
venticinque anni ormai si lasciava portare dalla vita.
Da un cargo all’altro. Da un porto all’altro.
Il cielo minacciava tempesta e, in lontananza, le
isole del Frioul non erano che una macchia scura. A
stento si distingueva l’orizzonte. Proprio un giorno
senza futuro, pensò Diamantis. Non osava dirsi che
quel giorno era come tutti gli altri. Cinque mesi. Già
cinque mesi che i marinai dell’Aldébaran erano lì. Attraccati, relegati laggiù, in fondo ai sei chilometri
della diga del Largo. Lontani da tutto. Senza niente
da fare. E senza un soldo. Ad aspettare l’ipotetico acquirente di quel fottuto cargo.
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L’Aldébaran era arrivato a Marsiglia il 22 gennaio.
Da La Spezia. Per caricare duemila tonnellate di farina dirette in Mauritania. Fin qui tutto bene. Tre ore
dopo il tribunale aveva bloccato la nave a garanzia dei
debiti contratti dall’armatore. Kostandinos Takis, cipriota. Da allora più nessuno aveva avuto sue notizie.
«Un bel figlio di puttana» aveva detto Abdul Aziz, il
capitano dell’Aldébaran. Poi, con un gesto di disgusto,
aveva passato il decreto del tribunale a Diamantis, il
secondo.
Durante le prime settimane avevano creduto che la
faccenda si sarebbe risolta in fretta. La speranza non
è certo quel che manca ai marinai. Anzi, è quel che li
fa vivere. Chi si è imbarcato almeno una volta nella
vita lo sa benissimo. Come per far finta di niente, Abdul Aziz, Diamantis e i sette uomini dell’equipaggio si
comportarono, giorno dopo giorno, come se avessero
dovuto salpare l’indomani. Manutenzione delle macchine, pulizia del ponte, verifica degli impianti elettrici, ispezione del posto di pilotaggio.
La vita a bordo doveva continuare. Era essenziale.
E Abdul Aziz dimostrò ai suoi uomini di essere un
bravo capitano, in alto mare come in quella galera
della vita a terra. Intorno all’Aldébaran, e senza dubbio grazie alle sue capacità, si organizzò presto una
rete di solidarietà. I Restaurants du cœur1 procurarono cibo e bevande. I pompieri li rifornirono d’acqua
potabile. I servizi amministrativi del porto s’incaricarono della biancheria e della rimozione dei rifiuti.
E, gran sollievo, fin dal terzo mese la Missione dei
marittimi inviò del denaro alle famiglie in difficoltà.
«Siamo stati fortunati a essere bloccati qua» aveva
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Associazione caritativa che distribuisce pasti gratuiti, fondata da Coluche, noto comico francese di origine italiana.
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detto Abdul. «Da un’altra parte avremmo potuto crepare. Sai, Diamantis, mi piace proprio questa città».
Anche a Diamantis piaceva quella città. L’aveva
amata fin dalla prima volta che vi era sbarcato. Aveva
appena vent’anni allora. Era mozzo a bordo dell’Ecuador, un vecchio cargo arrugginito che non si avventurava mai al largo di Gibilterra. Quel giorno se lo
ricordava benissimo. L’Ecuador aveva doppiato l’arcipelago del Riou. Poi, superate le isole del Frioul, l’insenatura gli si era spalancata di fronte. Quasi una linea netta di luce rosata che separava l’azzurro del
cielo dall’azzurro del mare. Ne era rimasto come abbagliato. Marsiglia, aveva pensato allora, è una donna che si offre a chi arriva dal mare. L’aveva perfino
annotato sul giornale di bordo. Senza sapere che stava citando il mito fondatore della città: la leggenda di
Gyptis, principessa ligure che si diede a Protis, marinaio focese, la notte in cui questi entrò nel porto. Da
allora Diamantis aveva perso il conto degli scali.
Ma adesso era tutto diverso. Erano a Marsiglia come dei marinai perduti. Diamantis l’aveva capito alla
fine del primo mese. Quando gli avevano chiesto di lasciare il molo D e di stivare al posto d’ormeggio 111,
in fondo al molo Wilson, sulla diga del Largo. La vita
dei porti brulicava di storie come la loro. Il Partner, a
Rouen, aspettava da tre anni. Nessuno sapeva più a
chi appartenesse quella nave: venduta, rivenduta, ceduta di nuovo senza mai muoversi. Più vicino, a Portde-Bouc, l’Africa, un’altra nave da carico, era all’attracco da diciotto mesi. L’Alcyon e il Fort-Desaix, un
cargo ro-ro e un tramp, a Sète. Almeno così avevano
raccontato a Diamantis. E anche ad Abdul Aziz.
Tutto questo, quando si erano imbarcati sull’Aldébaran, i due uomini non lo ignoravano. Erano sempre
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più numerosi i mercantili che vivevano simili disavventure nei porti. Unica eccezione i portacontainer e
le petroliere appartenenti a compagnie internazionali e non ad armatori che si giocavano il carico come
si gioca alla roulette. Ma di questo Abdul Aziz e Diamantis non parlavano mai. Per scaramanzia. L’Aldébaran avrebbe ripreso il mare. Con Aziz al comando.
Questa era la verità. A cinquantacinque anni, Abdul
Aziz non poteva immaginare di abbandonare quella
nave. Ne aveva preso il comando a La Spezia e l’avrebbe riportata al legittimo proprietario. Chiunque
fosse. Ovunque fosse. L’aveva ripetuto due sere prima
davanti all’equipaggio al completo.
Nella sala comune, con una voce che era riuscito
a svuotare di ogni emozione, aveva letto il decreto ingiuntivo del tribunale che gli avevano trasmesso nel
pomeriggio.
«L’Aldébaran è oggetto di pignoramento per i debiti di una società che i creditori sostengono sia legata
all’armatore. Mentre la società da cui dipende l’Aldébaran è del tutto separata, di diritto, dalla società debitrice...».
L’equipaggio l’ascoltò in silenzio. Senza capire
neanche una parola di quel linguaggio da azzeccagarbugli. L’avvocato, designato d’ufficio, lo commentò
parola per parola. Inutile. L’essenziale l’avevano afferrato tutti. Perfino i due birmani. Era chiaro che l’Aldébaran non avrebbe ripreso il mare l’indomani.
«Solo la vendita della nave, e alle migliori condizioni, potrebbe permettere di pagarvi» riprese Abdul
interrompendo l’avvocato in uno dei suoi begli slanci
verbali. «Ecco che cosa vuol dire. Potrebbe capitare
domani o fra sei mesi. O fra un anno, chissà. Non dovete illudervi. A Sète» precisò, «un cargo come il no12
stro, il Fort-Desaix, è stato messo all’asta la settimana
scorsa. Non si è presentato nessun acquirente... Ecco
quel che dovete sapere. Conosco i vostri problemi familiari. Ne ho anch’io. Quindi non chiedo a nessuno
di restare. Mi sono informato: forse ci saranno degli
indennizzi per chi vuole andarsene. Non sarà granché. Pensateci e fatemi sapere domattina che cosa
avete deciso. Io rimango. Il mio posto è qui. Ma questo lo sapete tutti».
Li guardò uno a uno tranne l’avvocato, che fin dall’inizio aveva messo fuori gioco. Per un attimo Diamantis pensò che Abdul avrebbe chiesto se qualcuno
aveva delle domande. Ma no, non lo fece. Aggiunse
soltanto:
«Mi spiace... per tutto questo. Non avrei dovuto lasciarvi sperare. L’ho creduto, che ci rimettessimo in
mare. Ci credo ancora, ma...».
Si alzò. Sembrava sfinito.
«Buonasera, amici miei».
Uscì dalla sala. Lo sguardo perso lontano, le labbra strette. Dritto. Fiero. Come solo può esserlo, a
volte, chi è disperato.
Diamantis lo seguì con lo sguardo. Indovinò che
Abdul Aziz andava a rifugiarsi sulla sua cuccetta. Si
sarebbe consolato con la musica di Duke Ellington.
Aveva il repertorio completo e se lo ascoltava sul walkman. Un regalo di Céphée, sua moglie, per il suo compleanno. Non era più uscito, nemmeno per mangiare.
Quella storia gli rodeva. Abdul Aziz non sopportava le
sconfitte.
Diamantis gettò il mozzicone in acqua. Il mare gli
mancava. Non era mai riuscito a convincersi che sulla terraferma si potesse star bene, nemmeno in un
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porto. Quasi trent’anni di navigazione, e la sua vita restava sul mare. In mare, e soltanto lì, si sentiva libero.
In mare non si sentiva né vivo né morto. Solo altrove.
Un altrove in cui riusciva a trovare qualche buona ragione per essere se stesso. E gli bastava.
Non aveva costruito niente. Non aveva più famiglia né una donna che lo aspettasse. Solo Mikis, suo
figlio. Quest’anno compiva diciott’anni. La metà di
quello che guadagnava lo spendeva per farlo studiare ad Atene. Mikis amava la letteratura e a volte Diamantis sognava che il figlio avrebbe scritto romanzi
popolari che parlavano dei suoi viaggi. Ma in verità
Diamantis aveva un’unica paura: che Mikis s’imbarcasse, anche lui. Nella sua famiglia erano tutti marinai, di padre in figlio.
«Ho corso per tutta la vita dietro a mio padre» raccontò una sera ad Abdul. «Finché è morto. Dopo, non
potevo più fare nient’altro: soltanto stare in mare.
Non ce la facevo più a vivere senza il mare. Solo una
volta ho tentato di gettare l’ancora, di starmene a terra: quando ho sposato Melina. Siamo andati a vivere
ad Agios Nikolaos, a Psara, dove mio padre aveva una
casa. Ma che vuoi fare su un’isola di capre? Abbiamo
fatto un figlio!».
«La sera, cullandolo, gli leggevo Omero. Quattro
anni dopo mi sono imbarcato di nuovo. Melina è ritornata ad Atene. Dai suoi. Con Mikis in braccio.
Quando sono tornato, due anni dopo, mi aspettava
per divorziare. Sono rimasto una settimana, poi sono
ripartito e non mi sono più fermato. È la prima volta
da quando Mikis è nato che resto così tanto a terra».
«E che effetto ti fa?».
«Come se non sapessi più chi sono. E a te?» aveva
chiesto Diamantis.
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«Ora, come a te. Non so più di preciso. La mia vita. Céphée, i bambini. Tutto. Non so se la mia vita ha
ancora un senso».
Diamantis era rimasto sorpreso da quella risposta,
così franca e diretta. Così intima, in un certo senso,
da parte di un uomo. In realtà lui voleva soltanto sapere come Abdul fosse diventato marinaio. La prima
volta che ti imbarchi è importante quanto la prima ragazza con cui sei andato a letto. Se non di più. La stessa paura. La stessa vertigine. Tranne che di quell’amore, non appena lasciato il porto, sai che non te ne
libererai mai più. Almeno, Diamantis la pensava così.
I due uomini avevano navigato più volte insieme.
Su altri cargo. Per altri armatori. Il loro rapporto era
sempre lo stesso: Aziz capitano, Diamantis secondo.
Si erano sempre attenuti a quella gerarchia. Con fiducia reciproca. E rispetto. Mai si erano parlati della
loro vita. Di quella vita a terra dove, se si fossero incontrati, avrebbero avuto ben poche cose da raccontarsi. Non ne avevano mai parlato. Nemmeno durante quella lunga traversata, sei anni prima, fino a
Saigon. “Stiamo proprio andando fuori di testa” aveva pensato Diamantis.
Abdul aveva sorriso dello stupore di Diamantis.
«Non ho risposto alla tua domanda, eh?».
«Sì... Ma... pensa un po’, Abdul... dopo così tanto
tempo! Che ci prende? Siamo proprio giù di corda o
che è?».
«È perché stiamo a terra... Da troppo tempo. Ci
cambia tutto. Non abbiamo più il mare di mezzo. E
di colpo scopriamo il vuoto. E la paura di tuffarci».
«Hai paura tu?».
«Paura di finire qui, sì. Di non riprendere il mare,
voglio dire. Di non avere più una nave».
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Abdul si era perso nel silenzio. Avevano camminato tra l’argano e la catena dell’ancora oltrepassando
gli occhi di cubia, fino alla punta estrema della prua.
Abdul si appoggiò al parapetto e guardò le stelle. Poi
indicò il cielo a Diamantis.
«Guarda, quella là è Céphée. Mia moglie. La mia
buona stella1. Ce l’hai una stella tu?».
«Io le ho seguite tutte» scherzò Diamantis. «Ma
nessuna mi ha sorriso».
«Io sono diventato marinaio per caso. Nella mia
famiglia, per tradizione, sono piuttosto dei commercianti. Un giorno Walid, il maggiore – siamo due maschi e tre femmine – è partito da Beirut per andare
ad aprire una filiale a Dakar. Funzionava bene. Mio
padre mi ha mandato ad aiutarlo. Avevo appena
compiuto ventitré anni e mi mettevo in mare per la
prima volta. Sull’Espérance! Un transatlantico che fino alla guerra aveva fatto la Nuova Caledonia. L’Espérance: non so se mi spiego!
«Ho viaggiato sempre sul ponte, o quasi. Tanto era
forte quel che sentivo! Come dirti, un colpo di fulmine. Arrivato a Dakar, pensa un po’, mi rompevo proprio da morire. Appena potevo correvo al porto a
guardare le navi. Quante ne ho viste! E dai e dai sono
diventato amico di Mamoudi, un ragazzo della mia
età. Suo padre lavorava per una compagnia americana, l’European Pacific and Co. Me lo ha presentato.
Dieci giorni dopo m’imbarcavo per Botany Bay, il
porto di Sidney. Sul Columbia Star».
Avevano continuato a parlare fino a notte fonda seduti a un tavolo fuori da Roger e Nénette, un ristorantino minuscolo vicino al Vieux Port dove facevano
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Riferimento alla costellazione di Cefeo.
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delle ottime pizze, ma soprattutto delle lasagnette
con una salsa di pomodoro e brousse, una specie di ricotta, servite con uccelletti cucinati nello stesso sugo.
Squisite. Poi erano partiti in bicicletta fino al bacino
di carenaggio. Da lì, avevano preso l’autobus per il
centro. Le bici erano un dono del sindacato dei
dockers. Cinque biciclette. Ne rimaneva solo una. Le
altre gliele avevano fregate tutte alla fermata dell’autobus!
«Mamoudi» continuò Abdul, «quando ci siamo conosciuti, sua moglie aveva appena partorito. Una figlia. Abbiamo festeggiato insieme. Era la primogenita. Beh, non mi crederai Diamantis, ma quella
bambina è Céphée!».
Diamantis non diceva niente. Ascoltava. Grazie al
vino, un rosé di Bandol – Domaine de Cagueloup, aveva precisato il padrone mostrando la bottiglia –, era
riuscito a vincere il disagio di dover penetrare nell’intimità di Abdul. Ormai l’aveva capito: i loro rapporti
non sarebbero stati mai più come prima. Confidarsi
così – e anche Diamantis era pronto a farlo – voleva
dire ammettere che ormai erano davvero dei marinai
perduti.
«Una mattina, diciott’anni dopo, ho fatto scalo a
Dakar. Navigavo sull’Éridan, la prima nave che mi fu
affidata. Arrivo all’improvviso da Mamoudi. Eravamo
sempre rimasti in contatto. Io mi facevo vivo regolarmente. Una cartolina. Da un posto, da un altro... Era
il minimo che potessi fare per lui. E chi mi apre?».
«Lei, la figlia».
«Cazzo, Diamantis, mi ha steso. Quella bambina
che avevo tenuto in braccio era diventata una dea. Di
una bellezza! Donne ne ho viste, ne ho conosciute...
come te, di sicuro. Ma lei...».
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Diamantis si sorprese a pensare, d’un tratto, a Melina. L’aveva amata, sì. Ma per convenzione. O per dispetto. Il che è praticamente la stessa cosa. Suo padre
era appena morto e lui si era detto, o per lo meno aveva cercato di convincersi, che la sua ricerca era finita. Che poteva smettere. Fermarsi. Quel padre che gli
era mancato così tanto quand’era bambino, quel padre che non aveva mai smesso di rincorrere di porto
in porto sperando di restare con lui almeno una notte, un giorno, una settimana, quell’uomo era tornato
a morire tra le sue braccia. A Psara. Melina era venuta al funerale con i genitori. Vecchi amici dei suoi.
Melina la conosceva fin da bambino. Quella sera avevano fatto l’amore. La sera del funerale. “No, Diamantis” pensò, “ma che cazzo dici? Melina era bella.
Era tua. E tu l’hai amata davvero”.
«A che pensi, Diamantis?» domandò Abdul.
«A Melina. Era bella. Anche lei».
Abdul scoppiò a ridere.
«Chiaro, le donne che amiamo sono per forza belle. Se no mica ci andremmo a letto insieme! Più belle di Céphée ce n’è a migliaia, lo so benissimo. Ne ho
viste in tutti i porti del mondo... Ma lei... Quello che
aveva negli occhi era solo per me. È così l’amore. E io
l’ho capito quando mi ha aperto la porta quel giorno.
Chissà, magari si ricordava di come la tenevo in braccio appena nata. Delle mie mani sul suo culetto...».
Abdul era un po’ ubriaco. Diamantis perso nei suoi
pensieri. I ricordi gli tornavano a galla, come sulla superficie di uno stagno da troppo tempo imputridito.
L’odore non era dei migliori. Avrebbe voluto vuotarsi
la testa di tutti quei pensieri. Sapeva che dietro Melina si profilava il volto di un’altra donna. Di una ragazzina di diciott’anni che lui aveva amato follemen18
te e aveva lasciato senza nemmeno dirle addio. L’aveva abbandonata.
Era successo vent’anni prima. A Marsiglia. Non
aveva mai cercato di rivederla quando ci faceva scalo. Non aveva mai cercato di sapere che fine avesse
fatto. Nemmeno da quando era bloccato lì. Ma adesso gli mancava terribilmente. Amina. Il suo volto gli
si parò davanti. Troppo tardi ormai per respingerne il
pensiero. Capì allora come avrebbe passato il tempo
che gli rimaneva. A cercarla. Come per rimettere finalmente a posto le lancette della sua vita.
«Ce ne beviamo un’altra?» domandò Abdul indicando la bottiglia vuota.
Diamantis non si fece pregare. Il vino è fatto per
ricordare, non per dimenticare.
Capitolo secondo
Di notte il mondo ci abbandona
Dal portello della sua cabina, Abdul seguì con lo
sguardo Diamantis.
«Dove andrà così presto?» si chiese. Non aveva
preso l’ultima bicicletta che restava all’equipaggio, il
che lo incuriosiva.
Era la prima volta, da quando erano bloccati a Marsiglia, che Abdul s’interrogava a proposito della vita a
terra di Diamantis. Diamantis spesso andava via la
mattina. Ma in bici. E ritornava due o tre ore dopo. A
volte stava via per tutta la giornata. In quel caso se ne
andava a piedi. Come oggi. Lo faceva sempre con il
suo consenso. E senza mai sottrarsi ai compiti che
ognuno doveva svolgere sulla nave. Diamantis, lo do19
veva ammettere, non ricalcitrava mai di fronte al lavoro. Anzi. Un pomeriggio si era addirittura unito all’equipaggio per scrostare la ruggine che stava invadendo la nave. Alla fine della giornata Abdul gli aveva
fatto notare, un po’ seccato, che quello non era il posto giusto per un secondo. Diamantis gli aveva risposto che nemmeno la ruggine era al posto suo su quel
cargo. Abdul aveva sorriso.
«Lo so. La ruggine è solo una scusa perché gli uomini facciano qualcosa, perché non vadano fuori di
testa a forza di non fare niente a bordo. Sono quasi
ai ferri corti. Soprattutto i due birmani con il resto
dell’equipaggio. L’Aldébaran, non so se lo sai, ma
quando l’ho preso era abbandonato da due anni. La
ruggine abbiamo un bel grattarla via, ma non è che
cambi granché».
«Beh, io sono come loro, Abdul. Ho voglia di menare anch’io. Meglio contro della ferraglia. E, sai,
adesso sto meglio. E anche gli uomini. Ci siamo fatti un bel culo, ma almeno assomiglia un po’ di più alla vita di un marinaio».
Quella sera si erano messi a parlare.
Da allora niente era più come prima. Aveva intuito
che quel tipo, così poco loquace, aveva spessore. In un
certo senso l’aveva sempre saputo. Ma ora lo scopriva davvero. Diamantis avrebbe potuto essere suo amico da tanto tempo. Avrebbe potuto confidarsi con lui,
chiedergli consiglio. E magari tante cose sarebbero
andate diversamente. Forse avrebbe potuto continuare a essere il fiero capitano Abdul Aziz, e non il
pietoso comandante di quel barcone di merda. “Le
domande che contano” si disse, “ce le facciamo sempre troppo tardi. Quando abbiamo già sbagliato tutto. Quando non si può più tornare indietro”.
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