Matteo Di Giulio - Quello Che Brucia Non Ritorna

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Matteo Di Giulio - Quello Che Brucia Non Ritorna
Matteo Di Giulio - Quello Che Brucia Non Ritorna
Scritto da REN
Venerdì 04 Giugno 2010 06:05
Matteo Di Giulio - Quello Che Brucia Non Ritorna
Romanzo hardcore.
"Sono scappato dal paese che amo e che odio, quell'Italia fascista fatta di vecchi testardi
convinti che la paura di cambiare le cose sia una virtu'. Milano , poi, e' una citta' dove il
sangue puzza di cemento; grigio abbandono e ortodossia asociale per un palcoscenico di serie
B. Non e' una metropoli ma una pallida imitazione. Ho visto gran parte dell'
Europa
e so di cosa parlo. L'ho abbandonata a se stessa, alla sua lussuosa decadenza, come una
vecchia squillo una volta da assegno a quattro zeri, che oggi zoppica per fare marchette in
strada in cambio di un assaggio di estasi che non dura mai abbastanza a lungo.
Speravo di non dover mai fare dietrofront.
Pensavo di aver chiuso il passato in un cassetto, a doppia mandata. Purtroppo mi sbagliavo."
Si apre cosi', dopo una degna citazione tratta da "Lo Spirito Continua" degli incomparabili N
egazione
, il primo capitolo di uno dei piu' bei romanzi che io abbia letto negli ultimi tempi e di cui sono
onorata di presentarvi la recensione.
Un titolo che dice tutto: "Quello Che Brucia Non Ritorna". Un tuffo nel passato, e non
soltanto in quello del protagonista, ex
straight edge
convinto, detto
Smalley
, come
Dave Smalley
dei
Dag Nasty
.
In un certo senso, queste 220 pagine rappresentano un cassettone strabordante di
ricordi nostalgici, di sogni mai realizzati e di desideri repressi per chiunque abbia vissuto quegli
anni, anzi mi correggo: per chiunque abbia vissuto. Quest'ultima espressione e' senz'altro piu'
esatta della precedente.
Davide e' scappato, senza voltarsi indietro. Ha interrotto la sua vita, una vita che voleva solo
dimenticare, trasferendosi in
Olanda . E un bel giorno, dopo ben dodici anni, decide di
fare i conti col suo passato, di riaprire una ferita aperta che brucia ancora piu' che mai, tornando
nella sua grigia
Milano , quell'anonima metropoli
vista dai suoi occhi come una madre snaturata e traditrice.
Davide aveva una vita, degli ideali, degli amici. Massimo detto Max, Luca detto Lupo, Andr
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ea
detto
Drew
. Insieme avevano un gruppo
hardcore
. Non servirebbe aggiungere altro per capire che la loro era
Vita
, allo stato puro. Senza freni inibitori. Piena di innocenza giovanile e al contempo di rabbia e
passione. Un vecchio palco di cemento, piu' precisamente quello del
Laboratorio Anarchico
di Milano, la loro vera casa, ha scolpito per sempre nei loro cuori una ferita: da ragazzini li ha
trapassati con una freccia di Cupido. Una volta cresciuti, l'amore si e' trasformato in sofferenza.
Il Laboratorio e' stato chiuso, murato. E con esso, sono stati murati nel cemento anche i ricordi,
le passioni, la gioventu', la militanza, l'odio e l'amore.
Il sudore sulla fronte.
Le mani che violentavano gli strumenti partorendo note hardcore che incendiavano il palco.
Le parole vomitate sul pubblico con la piu' schietta e sincera rabbia giovanile.
La folla delirante.
Lo stage-diving come simbolo di vita e di liberta'. Il pogo incessante.
Adesso prendete tutto questo e osservatelo dall'esterno. La vita, la giovinezza, i sogni, gli
ideali, l'amore. Tutti sentimenti confinati in un centro sociale, fuori dal mondo, un ritrovo per
sottosviluppati, derisi ed emarginati, come canterebbero gli Affluente . E fuori cosa c'e'?
Fuori c'e' il sistema, con la sua interminabile schiera di servi. Una massa informe di individui
senza volto e dalle diverse maschere, sotto le quali covano il medesimo marciume: i nazi , i
vecchi e i giovani borghesi felici di essere intrappolati ed incasellati in realta' decise da qualcun
altro, i politici, ed infine le divise infami pagate dallo stato per punire, a loro modo, i ribelli, i
sovversivi, le minacce per una societa' sterile e per un paese fondamentalmente dittatoriale
spacciato per democratico, intriso di disgustosa ipocrisia. Uomini armati, pagati per infrangere
sogni.
Al fianco di Jan, l'unico amico che si sia fatto ad Amsterdam , anch'egli segnato da
un'infanzia di merda e da una crescita per niente facile,
Davide
parte per l'Italia dopo aver ricevuto una lettera da
Lupo
, il quale lo informa che il
Laboratorio Anarchico
e' stato sgomberato e l'ingresso murato. Torna a
Milano
alla ricerca dei suoi compagni, i fratelli di una vita. Ritrova
Lupo
, invecchiato e con una visione del mondo spenta e disincantata; ritrova
Viviana
, l'ex ragazza di
Max
di cui forse e' sempre stato segretamente innamorato.
Drew
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e' morto per overdose. L'unica cosa da fare adesso, anche se coscienti che il proprio passato e'
bruciato e non ritornera' mai piu', e' andare a cercare
Max
. Il suo piu' caro amico, scoprire cosa gli e' successo e, se necessario, avere giustizia per le loro
vite stroncate.
"Quello Che Brucia Non Ritorna" e' ben scritto, ricco di nomi di gruppi hardcore storici,
americani e non, e soprattutto di attacchi, alcuni velati ed altri no, alla realta' italiana. Centra in
pieno l'obiettivo, il messaggio e' chiaro ed esplicito. Piu' sincero di cosi' si muore. Un romanzo,
questo, in cui ci si puo' identificare perfettamente. Un ragazzo innocente, di quelli che dicono "
ti amo
" alla ragazza con cui fanno per la prima volta sesso, di quelli che piangono ad un concerto, di
quelli che la vita ha indurito e trasformato in individui aridi di sentimenti, all'occorrenza violenti e
pieni di paure: paura nel vivere, nell'affrontare i propri fantasmi, nel provare nuove emozioni.
Bellissimo e malinconico affresco dai toni grigi sulla societa' contemporanea: forte nell'odio,
commovente nell'amore.
REN
.PER L'ACQUISTO.
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.INTERVISTA ALL'AUTORE MATTEO DI GIULIO.
Parlaci un po' di te... una piccola biografia della tua vita.
Nato e cresciuto a Milano, studi classici, mai laureato in legge, oggi impiegato in una
multinazionale, nel tempo libero mi sono occupato di cinema come critico e di recente sono
riuscito a incanalare nella narrativa il piacere di scrivere. Dopo il primo romanzo, un noir
intitolato La Milano d'acqua e sabbia, e' da poco uscito il mio secondo lavoro, Quello che brucia
non ritorna. Ho collaborato con riviste e festival, amo gli animali, sono vegetariano e spero,
provando a fare qualcosa in prima persona, in un futuro un po' migliore di quello che sembra
prospettarsi.
Il motivo per il quale hai scritto un romanzo sull'hardcore?
Ho scoperto l'hardcore un'estate di fine anni Ottanta, al mare, conoscevo gia' i Sex Pistols e i
Ramones, i Clash, le basi del punk. Il cugino di un amico mi ha prestato una cassetta con un
po' di gruppi italiani, Creepshow, Raw Power, Negazione, One Step Ahead, roba del genere,
molto sconosciuta. E' stata una rivelazione. Ho consumato quella cassetta, ho iniziato a leggere
Blast!, la rivista che facevano a Roma e che parlava solo della musica piu' underground
possibile, e una volta tornato a Milano ho stretto amicizia con quel ragazzo, che mi ha fatto da
Virgilio nel mondo di Zabriskie, dei concerti hardcore, dello straight edge, dell'animalismo. Ho
vissuto quella scena, la seconda ondata dopo i punx a cavallo tra anni Settanta e Ottanta, in
prima persona, e' stata una stagione selvaggia. Ho cominciato a suonare, a organizzare a mia
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volta concerti, avevo una piccola fanzine fotocopiata (prima You're not Alone, poi I Think, so I
Am), e' li' che ho cominciato a scrivere; verso la meta' degli anni Novanta si e' addirittura
trasformata in etichetta e distribuzione discografica (I Think Records). Tutto e' nato come una
scintilla, una combustione spontanea. Un periodo cosi' felice e cosi' complesso che, da
scrittore, mi sembrava inevitabile cercare di trasmettere a tanti anni di distanza, con quel pizzico
di malinconia dovuto al paragone con la piattezza che vedo oggi per le strade di una citta' che
pur avendo lo stesso nome sembra distante anni luce. Cosi', per una sorta di scommessa fatta
con Andrea Scarabelli e Marco Philopat di Agenzia X, che ringraziero' sempre per questa
opportunita', un mio racconto che commemorava il mitico Laboratorio Anarchico in via De
Amicis, un piccolo storico lurido centro sociale in pieno centro, oggi scomparso, si e'
trasformato in un romanzo che e' si' amarcord, ma e' anche un resoconto orale di un periodo
storico e culturale ben preciso.
Come hai vissuto quegli anni?
A mille all'ora. L'hardcore e' velocita', e noi eravamo ragazzi curiosi. Si correva da un concerto
all'altro, si parlava davanti alle vetrine di Zabriskie Point, il negozio di Stiv "Rottame", il guru di
qualunque controcultura musicale a Milano, e non solo. Si scopriva il significato di straight edge,
sull'onda delle canzoni dei Minor Threat, si imparava a vivere in maniera consapevole, pur nel
rispetto di ogni idea. Ecco, credo che tutto stia nella voglia di condivisione, di comunicare, di
fare gruppo. Brotherhood, cantavano tanti gruppi di quel periodo, ed era vero, perché le
collaborazioni erano a 360 gradi, tra gente che la pensava e si comportava in maniera
diversissima. Basti pensare allo "zoo" che affollava il selciato di fronte a Zabriskie: mod, grunge,
punk, metallari, redskin e apolitici, tutti insieme a prendere spunto dalla musica per parlare di
Milano, dell'Italia, delle frustrazioni quotidiane, delle velleita' sopite.
Cosa rappresenta per te (metaforicamente s'intende) la fuga di Smalley in Olanda?
La fuga di Smalley in Olanda e' un pretesto narrativo, per sottolineare attraverso gli occhi di un
esule la spaccatura profonda tra l'Italia di ieri e quella di oggi. Dieci anni rendono un posto
completamente diverso da come lo si poteva ricordare. Chi vive nella stessa citta' rischia di non
accorgersene, a volte servono dei segnali per far scattare il campanello d'allarme. Nel mio caso
e' stato un servizio fotografico su un quotidiano, una foto d'epoca di via De Amicis raffrontata
alla stessa strada, ai giorni nostri. Manca qualcosa, mi sono ripetuto: sapevo che il Laboratorio
Anarchico era stato sgomberato da tanti anni ma rivedere quell'assenza cosi', nero su bianco,
sulla carta stampata, mi ha fatto venire il magone. Da li' ho ripercorso i luoghi della mia "infanzia
hardcore" e la conta dei superstiti e' stata un atto di dolore.
Cosa consigli ai giovani italiani, visto che tantissimi ragazzi vanno fuori perche' non
sopportano piu' la situazione sociopolitica ma c'e' qualcuno che stringe i denti e resiste
per l'inevitabile legame alla sua citta' e al suo paese?
Non sono in condizione di dare consigli, ma ammiro chi resta, resiste e combatte per qualcosa
in cui crede. Pero' non posso neanche biasimare chi pensa che altrove si possa seminare un
raccolto migliore. Sono entrambe scelte difficili, personali. Io sono sempre rimasto a Milano, e
dopo un periodo di riflessione credo sia fondamentale cercare di dire la propria con ogni mezzo
necessario. Ma e' anche vero che la realta' moderna, globalizzata, con tanti canali comunicativi
a disposizione, permette di esprimersi in presa diretta anche da lontano. L'importante, secondo
me, e' non sedersi, non accettare l'omologazione imposta dall'alto. Bisogna credere in cio' che
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si fa: senza idee e senza ideali non si va da nessuna parte. E senza l'unione, concetto banale
ma che purtroppo si sta perdendo, c'e' troppa poca forza.
Che rapporto hai con la tua citta', visto che prima di questo romanzo ne hai scritto un
altro che riguarda ugualmente Milano?
Un rapporto di amore e odio. Milano e' una citta' dalle mille facce, raccontarla e' impresa
difficile, perché e' a strati. Oggi la vedo come ciambella, con un buco al centro, dove il vuoto ideologico, politico, sociale - si e' fatto dominante, e con un contorno ricco nelle periferie, dove
c'e' piu' spazio per iniziative non conformi, meno omologate alla massa. Milano e' la citta' dove
purtroppo si stanno corrompendo piu' in fretta la voglia di resistere, dove e' sempre piu' difficile
alzare la voce, fuori dal coro. Ma e' anche una metropoli che offre possibilita' concrete di
realizzare qualcosa: le realta' dei centri sociali, dei circoli Arci, delle manifestazioni di piazza
(vedi il Mayday del primo maggio), dei free press eretici come MilanoX non sono casuali. C'e'
voglia, in questo momento, di uscire nuovamente dagli schemi. Bisogna ritrovare il collettivo per
resistere alle brutture come il precariato, come le censure, per lottare contro il sistema
dittatoriale mal incarnato da istituzioni miopi nel non riuscire mai a comprendere il territorio che
dovrebbero rappresentare. I cittadini non hanno punti di riferimento, occorre che prendano
coscienza dei loro reali bisogni per sfuggire al non-pensiero del consumismo e del
Berlusconismo.
Come mai questo titolo? E' quello che pensi in generale oppure il romanzo e' in qualche
modo autobiografico, nel senso che la tua visione della tua citta' e della giovinezza in
generale e' frutto delle tue esperienze passate?
Il titolo e' un omaggio a un disco che amo, What Fire Burns Never Returns, dei Don Caballero.
Incarnava alla perfezione, secondo me, quel sentimento acre - odio, vendetta, rimpianti, rabbia che ho cercato di trasmettere nel romanzo. Quello che brucia non ritorna mai, ne sono convinto,
ma credo anche che possa essere qualcosa di positivo, perché se la fiamma che fa bruciare gli
ideali e' salda, dalle ceneri potra' nascere qualcosa di nuovo, rafforzato dall'esperienza e,
perché no, anche dalle sconfitte. Gli ideali che bruciano si trasformano, si plasmano, crescono.
Per citare un famoso film: solo chi cade puo' risorgere. E visto che oggi siamo in caduta libera
bisogna rimboccarsi le maniche e stringere denti e pugni.
Ok Matteo, grazie mille per la tua disponibilita' e per averci dato l'opportunita' di
recensire il tuo romanzo!
.RASSEGNA STAMPA.
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