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N° 1 - GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776 • ANNO XLIX - CONTIENE I.P. E I.R. - Una copia € 6,00 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1 comma 1 Roma
ISRAELE
ITALIA
STATI UNITI
IL NUOVO
MISTER SICUREZZA
GIORNO DELLA MEMORIA:
PER NON SMINUIRNE IL SENSO
DONALD TRUMP
FA PAURA
‫בס’’ד‬
SHALOM‫שלום‬
EBRAISMO INFORMAZIONE CULTURA
La Sinagoga e la Chiesa
Un impegno comune contro chi odia,
discrimina ed uccide
17 gennaio 2016: visita di Papa Bergoglio al Tempio Maggiore
V
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EDITORIALE
P
er la terza volta un pontefice si
reca nella Sinagoga Maggiore di
Roma per incontrare e dialogare
con la comunità ebraica.
Un evento che pur nella sua ripezione e sarà interessante scoprire le differenze
e le eventuali analogie con le precedenti
visite - conserva un carattere di
eccezionalità e di grande impatto
emotivo. Lo è certamente per l’interesse
che l’incontro suscita per il mondo
giornalistico, per la qualificata
rappresentanza del mondo ebraico
internazionale, per il carattere tutto
speciale che lega la storia del
cristianesimo alle sue riscoperte radici
ebraiche e quindi alla volontà di
proseguire in un cammino di dialogo
e comprensione che cancelli il ricordo
di antiche e più recenti persecuzioni
antisemite.
Sarà quindi da cogliere e capire su quali
temi si fermerà il discorso di papa
Francesco, quale sarà il messaggio
che egli affiderà.
Della prima storica visita di papa
Giovanni Paolo II con rav Toaff il 13
aprile 1986 (e che consentì di dare avvio
ad un dialogo tra le due fedi che mai
prima era stato possibile) rimane
impressa nella memoria collettiva il
monito che lanciò (usando le parole del
decreto Nostra Aetate) che “la Chiesa,
‘deplora gli odi, le persecuzioni e tutte
le manifestazioni dell’antisemitismo
dirette contro gli ebrei ogni tempo
da chiunque’; ripeto: ‘da chiunque’”.
Aggiungendo poi parole che segnarono
come in una istantanea quell’incontro:
"La religione ebraica non ci è
'estrinseca', ma in un certo qual modo,
è 'intrinseca' alla nostra religione.
Abbiamo quindi verso di essa dei
rapporti che non abbiamo con
nessun'altra religione. Siete i nostri
fratelli prediletti e, in un certo modo, si
potrebbe dire i nostri fratelli maggiori”.
Ventiquattro anni dopo, Papa Benedetto
XVI incontrando rav Di Segni il
17 gennaio 2010 ribadì “l'impegno di
percorrere un cammino irrevocabile di
dialogo, di fraternità e di amicizia”.
E indicò le numerose “implicazioni che
derivano dalla comune eredità tratta
dalla Legge e dai Profeti”, fra cui
“un rinnovato rispetto per
l'interpretazione ebraica dell'Antico
Testamento; la centralità del Decalogo
come comune messaggio etico di valore
perenne per Israele, la Chiesa, i non
credenti e l'intera umanità; l'impegno
per preparare o realizzare il Regno
dell'Altissimo nella "cura del creato"
affidato da Dio all'uomo perché lo coltivi
e lo custodisca responsabilmente”.
Papa Ratzinger non mancò di ricordare
le sofferenze del popolo ebraico:
“Il dramma singolare e sconvolgente
della Shoah rappresenta, in qualche
modo, il vertice di un cammino di odio
che nasce quando l’uomo dimentica
il suo Creatore e mette se stesso
al centro dell’universo”.
Sono trascorsi solo sei anni da
quell’ultima visita ed il mondo è
profondamente cambiato sotto la
minaccia del fanatismo islamico che ha
colpito con la violenza del terrorismo le
città europee e i luoghi di aggregazione
come teatri e pub. Si è scesi nelle
strade, si sono occupate le piazze per
testimoniare che il fanatismo islamico
non vincerà, non stravolgerà la nostra
vita, non disintegrererà i valori
su cui si fondano le democrazie.
Ma nessuno si indigna, nessuno
protesta per la persecuzione dei cristiani
nelle terre islamiche, non solo sotto
il controllo dell’Isis, che ha raggiunto
numeri da vero genocidio, in una
sistematica persecuzione contro
le persone e contro i luoghi di culto.
Lo stesso silenzio, la stessa indifferenza
si manifesta quando il terrorismo
islamico colpisce gli ebrei, in Israele
come in Europa, e attacca i musei, le
sinagoghe, le scuole e i negozi ebraici.
Perché l'Europa si indigna quando
si muore in un pub di Parigi, mentre
è insensibile quando si viene
quotidianamente trucidati in un bar
di Tel Aviv? Eppure l'ideologia assassina
è la stessa, l'odio per l'altro è lo stesso,
lo spregio per la vita umana è la stessa.
Sbagliano perciò coloro che cercano di
distinguere le ragioni di chi impugna un
coltello o una mannaia, di chi imbraccia
un mitra, di chi tenta di farsi esplodere:
sono assassini verso i quali non
vi possono essere distinguo né
compromessi né comprensione.
Contro questi fanatici della morte e
della violenza, ebraismo e cristianesimo
possono camminare uno affianco
all’altro in nome del valore della vita
e del bene più prezioso che è la pace.
Anche di questo sarebbe bello sentir
parlare nell’incontro in Sinagoga.
SHALOM‫שלום‬
COPERTINA
LA SINAGOGA E LA CHIESA:
UN IMPEGNO COMUNE
CONTRO CHI ODIA,
DISCRIMINA ED UCCIDE
4
INTERVENTI DI
RICCARDO DI SEGNI
RUTH DUREGHELLO
RUBEN DELLA ROCCA
MAURIZIO MOLINARI
CLAUDIO CERASA
DONATO GROSSER
RICCARDO CALIMANI
PIERO DI NEPI
ISRAELE
‘Colono’. Quando una parola
si trasforma in disprezzo
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PIERPAOLO PINHAS PUNTURELLO
Yossi Cohen è il nuovo
Mister sicurezza
MARIO DEL MONTE
Israele: paese delle start-up
ma anche della povertà
ARIEL DAVID
MONDO
Iran e Arabia Saudita:
voglia di egemonia
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DANIELE TOSCANO
LA CASA BIANCA RISCHIA
DI DIVENTARE NERA
ALESSANDRA FARKAS
"Il Califfo e l’Ayatollah"
una guida per capire
ANGELO PEZZANA
La misericordia
al tempo di Internet
CLELIA PIPERNO
FOCUS
Giorno della Memoria:
per non sminuirne il senso
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UGO VOLLI
Il labirinto del silenzio:
un film sulla vergogna
e la giustizia
MARCO SPAGNOLI
La foto della copertina è di Stefano Meloni
GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776
Una domenica
eccezionalmente normale
3
COPERTINA
Un incontro nel segno della continuità
Non per parlare di teologia ma per un impegno comune
contro l’odio e la violenza
I
GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776
l Tempio Maggiore, cuore della
Comunità ebraica di Roma, accoglie la terza visita di un papa. A venti anni dal primo
evento epocale di Giovanni Paolo II,
e 6 anni dopo la visita di Benedetto
XVI, nella stessa giornata del 17
Gennaio, un terzo papa si appresta
a visitare la nostra Comunità. Papa
Francesco entrerà benvenuto nel
luogo che fu edificato a segno della
libertà ottenuta dopo secoli di restrizioni e di umiliazioni, nella casa di
preghiera in cui gli ebrei romani
hanno celebrato i momenti più importanti della loro vita privata e collettiva, nel luogo visitato da re, presidenti, ministri, offeso dai nazisti e
insanguinato dal terrorismo palestinese. Incontrerà una Comunità accogliente capace di apprezzare il
senso di questo gesto.
Credo che siano due i segnali principali da mettere in evidenza in questo incontro. Il primo è quello della
continuità. Il terzo papa a visitare la
nostra Sinagoga conferma la validità
e l'intenzione del gesto del primo
papa che voleva significare la rottura con un passato di disprezzo nei
confronti dell'ebraismo. Il Concilio
Vaticano nel 1965 aveva segnato un nuovo corso nei rapporti
cristiano ebraici; alla dichiarazione Nostra Aetate erano seguite
elaborazioni dottrinali, documenti, iniziative varie di conoscenza; l'intuizione di Giovanni Paolo II fu quella di tradurre in gesti
concreti e messaggi essenziali e comprensibili a tutti le difficili
elaborazioni dottrinali. La sua visita alla Sinagoga ebbe questo
4
ruolo e a sua volta aprì la strada per
il riconoscimento dello Stato d'Israele. Il papa successivo, Benedetto, ha
voluto confermare questa linea; ora
la scelta di Francesco stabilisce una
consuetudine. Indietro non si torna
nel percorso di riconciliazione.
Il secondo segnale è dettato dall'urgenza dei tempi. Il Vicino Oriente,
l'Europa e tante altre parti del mondo sono travagliate da guerre e terrorismo. La triste novità dei nostri
giorni è che la violenza si alimenta e
si giustifica con visioni fanatiche
ispirate dalla religione. E di nuovo si
scatenano persecuzioni religiose.
L'impulso distruttivo, in assenza di
ideologie politiche, trova nella religione il sostegno e l'alimento. Al
contrario un incontro di pace tra comunità religiose differenti, come
quello che avviene ora a Roma, è un
segnale molto forte che si oppone
all'invasione delle violenze religiose.
Non accogliamo il papa per discutere di teologia. Ogni sistema è autonomo, la fede non è oggetto di
scambio e di trattativa politica. Accogliamo il papa per ribadire che le
differenze religiose, da mantenere e
rispettare, non devono però essere
giustificazione all'odio e alla violenza, ma ci deve essere invece
amicizia e collaborazione e che le esperienze, i valori, le tradizioni, le grandi idee che ci identificano devono essere messe al
servizio della collettività.
RICCARDO DI SEGNI
RABBINO CAPO DELLA COMUNITÀ EBRAICA DI ROMA
Ebraismo e Cristianesimo: insieme in difesa dei valori
fondamentali della società e contro l'antisemitismo
L
a visita di papa Francesco rappresenta un
evento straordinario, che sposta inequivocabilmente sul binario della normalità il percorso del dialogo ebraico-cristiano. In questo
cammino i gesti pesano più delle parole e danno forza e concretezza alle idee: per questo, il cambio di
passo sulle relazioni ebraico-cristiano dopo la Shoah
e dopo il Concilio Vaticano II, non poteva che partire
da Roma, dalla sua comunità ebraica.
Il terzo Papa nella storia di sempre varcherà quindi
la soglia del Tempio Maggiore di Roma e farà il suo
ingresso nella nostra Sinagoga. Sarà l’occasione per
Papa Francesco di incontrare la Comunità riunita, confrontarsi con
l’ebraismo internazionale e avere di fronte a sé le diverse realtà che
compongono la nostra millenaria Keillah. Saranno presenti rappresentanti di tutte le istituzioni ebraiche romane, nazionali ed internazionali; una grande occasione per far conoscere meglio ciò che la
Comunità ebraica di Roma, i “vicini di oltre Tevere” rappresenta da
oltre 2000 anni nella storia della città e del nostro paese. Un‘opportunità per ribadire il ruolo che noi ebrei romani, tra passato e futuro,
abbiamo nella società.
fermo. Chi istiga all’odio contro gli ebrei, chi uccide
ebrei lo fa per sconfiggere un modello di società fondato sulla convivenza nella tutela delle differenze.
Gli errori del passato non devono essere più ripetuti.
Abbiamo troppe volte assistito al silenzio degli indifferenti nel passato ed oggi ancora per gli attentati
in Europa, in Israele e in Africa, è invece giunto il
momento di ribadire il nostro sdegno e la nostra ferma condanna ma soprattutto la nostra comunanza di
intenti nel portare avanti i nostri valori di libertà di
fronte ai nemici di tutti ed alle loro violenze ripetute
in questi ultimi anni e mesi. La strage di Parigi di
appena due mesi fa e quelle di Charlie Hebdo e di San Bernardino
insieme ai massacri di cristiani quotidiani in Africa, in Asia e in Medio Oriente e agli attentati giornalieri in Israele sono parte di un’aggressione su vasta scala a questi nostri valori, i valori universali del
rispetto reciproco e della sicurezza comune nonché della convivenza
civile tra le diverse confessioni.
Oggi, alla luce delle mutate circostante e delle serie questioni che
l’umanità affronta, si sente la necessità di un impegno comune per
salvaguardare questi valori e i principi fondamentali su cui si è fon-
La nostra è la storia straordinaria di una comunità ebraica determinata a sopravvivere nonostante tutto. Siamo qui da 22 secoli;
nonostante odii, persecuzioni, deportazioni e vili attacchi del terrorismo palestinese che hanno inferto ferite profonde, restando saldi
nel nostro ebraismo, dimostriamo che è possibile essere minoranza
nonostante le avversità e che è possibile farlo in relazione costante,
continua e proficua con le maggioranze che ci circondano.
Nella storia recente ci sono state occasioni che hanno rappresentato
momenti cruciali, segnando l’inizio di un percorso di avvicinamento
e riconoscimento fra l’ebraismo e la Chiesa di Roma. Un percorso
faticoso, iniziato invero da Papa Giovanni XXIII, e culminato con la
promulgazione da parte di Paolo VI della dichiarazione conciliare
“Nostra Aetate” nel 1965 e proseguito con le storiche visite di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
In questi anni ci siamo sforzati di trovare ripetute e serene occasioni
di dialogo cercando faticosamente di superare antichi preconcetti
ed odiosi pregiudizi che avevano caratterizzato per secoli i nostri
rapporti.
Purtroppo, nonostante il nostro impegno, il ritorno prepotente dell’antisemitismo in Europa e nel mondo – sotto la maschera
dell’antisionismo contemporaneo – ci dice che ancora una volta è
giunta l’ora che le nostre società facciano i conti apertamente con
questo male antico. Il contrasto risoluto e non trattabile all’antisemitismo, in tutte le sue forme e declinazioni, deve essere un punto
data la nostra società. Bisogna ripensare assieme al ruolo delle religioni, consapevoli della responsabilità che ci spetta nella realizzazione del bene comune. Un ruolo, quelle delle religioni nella società
civile, oggi più che mai messo in discussione, ma necessario alla
luce degli integralismi e dei fanatismi, nemici della pace, del rispetto
reciproco e della tolleranza.
È una responsabilità la nostra che va oltre il ruolo politico o religioso
che ciascuno di noi riveste e che ci coinvolge tutti, nel momento in
cui ebrei o cristiani vengono offesi, discriminati o peggio aggrediti e
violati solo per il fatto di professare il loro credo o la loro religione, in
qualsiasi parte della terra.
Questi i valori che ci legano ed insieme dobbiamo ribadirli. Imparare
a stare insieme tra diversi nella cornice delle regole e dei principi
condivisi è la sfida di questi anni. E’ un percorso ancora lungo, una
strada tortuosa ed insidiosa da percorrere, ma la nostra Comunità e
l’ebraismo tutto non possono tirarsi indietro dal tentativo di superare anche le barriere più difficili e cercare ancora una volta insieme ai
rappresentanti del mondo cattolico di vincere questa grande sfida.
Sarà un ulteriore punto di partenza, un ennesimo grande avvio, per
un traguardo non certo facile o agile da raggiungere, ma al quale
come sempre, almeno da più di 2000 anni, gli ebrei di Roma, con
estrema tenacia e determinazione non intendono rinunciare.
RUTH DUREGHELLO
PRESIDENTE DELLA COMUNITÀ EBRAICA DI ROMA
GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776
Le due grandi religioni hanno la responsabilità di opporsi
agli integralismi e ai fanatismi, nemici della pace
5
COPERTINA
Al Tempio maggiore per un momento
di pace, confronto e dialogo
Con la speranza che si possa allargare anche
alla partecipazione di quella parte dell’Islam
che condivide gli stessi princìpi e valori
L
GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776
a visita di Papa
Francesco alla
Comunità Ebraica di Roma, segna il naturale susseguirsi di un percorso iniziato da Giovanni Paolo
II nel 1986 e proseguito
da Benedetto XVI nel
2010 con le visite precedenti e rappresenta,
un'altra pietra miliare
nella storia dei rapporti
tra la Chiesa di Roma e
l'Ebraismo. Innegabilmente, questa volta, il
significato "politico" della visita è ancora
più rilevante, vista l'emergenza terrorismo
e le continue minacce rivolte dall'Isis, autoproclamatasi nuovo Califfato, che accomunano tanto le comunità cristiane quanto le comunità ebraiche nel mondo, lo Stato Vaticano e lo Stato di Israele. Minacce
che purtroppo abbiamo visto essere precedute o seguite da terribili stragi come
quelle di Parigi, Tunisi, Bruxelles, Copenaghen, Tolosa e rendono questa visita ancora più delicata sotto il profilo della sicurezza. A tal proposito è doveroso ringraziare
le Forze dell'Ordine italiane ed i nostri Volontari, che hanno collaborato con grande
abnegazione all'organizzazione dell'evento
e che si sono prodigati in un'opera di prevenzione, che mai come questa volta è
stata fondamentale, perché il tutto si svol-
6
gesse per il meglio e perché l'incontro tra Papa
Francesco ed il Rabbino
Capo di Roma Rav Riccardo Di Segni e di conseguenza l'intera comunità ebraica di Roma si
svolgesse in tranquillità.
Si è così concretizzato
l'auspicio dei protagonisti perché si desse vita
ad un momento di pace,
confronto e dialogo, che
possa magari rappresentare il viatico per poter
lanciare l'invito a quella
parte di mondo islamico che condivide gli
stessi principi ma che fa fatica ad emergere per paura e per la sopraffazione di chi
cerca di lasciarlo nell'oscurantismo delle
idee e nel buio dettato dall'odio. Nella speranza e nella ferma convinzione che la visita rappresenterà un altro mattone sul
quale poggerà la costruzione di una casa
sempre più solida e sicura dei rapporti tra
ebraismo e cristianesimo, andando a consolidare un rapporto sempre più costruttivo tra le grandi religioni monoteiste, nel
rispetto delle nostre differenze perché esse siano fonte di arricchimento e crescita
reciproca, diamo il nostro caloroso benvenuto a Papa Francesco.
RUBEN DELLA ROCCA
VICEPRESIDENTE DELLA COMUNITÀ
EBRAICA DI ROMA
Un incontro
che indica
un percorso
Lavorare ai valori
che accomunano ebrei
e cattolici
Caro Direttore,
ogni volta che un Pontefice entra nella Sinagoga di Roma è la Storia a compiere un
passo in avanti. Avvenne il 13 aprile del
1986 quando Elio Toaff e Giacomo Saban
accolsero Karol Wojtyla ponendogli la questione del riconoscimento dello Stato d'Israele, che pochi anni dopo sarebbe stato
siglato. E tornò a ripetersi il 17 gennaio
2010 quando Joseph Ratzinger incontrò
Riccardo di Segni e Riccardo Pacifici definendo i Dieci Comandamenti “la fiaccola
dell'etica, della speranza e del dialogo,
stella polare della fede e della morale del
popolo di Dio, che illumina e guida anche il
cammino dei Cristiani”.
Questo 17 gennaio Riccardo di Segni e
Ruth Dureghello trovano in Francesco Bergoglio un interlocutore sul terreno della
tutela dei diritti delle minoranze e della
lotta al fondamentalismo, capace di aggiungere un tassello di valore al mosaico
dei predecessori.
In un'Europa scossa dall'intolleranza, minacciata dal terrorismo jihadista, messa a
dura prova dai migranti ed alla ricerca di
un nuovo orizzonte di crescita collettiva,
l'incontro nella Sinagoga di Roma indica
un possibile percorso, segnato dai valori
che accomunano ebrei e cattolici, grazie ai
quali il Continente è risollevato ed unito
dopo l'abisso dei totalitarismi del Novecento.
Le radici ebraico-cristiane costituiscono il
pilastro irrinunciabile di un'Europa che vuole cogliere le opportunità del XXI secolo
aprendosi ad altri popoli e fedi ma mettendosi al riparo da sbandamenti morali e rischi per la sicurezza. Ecco perché ogni gesto, sillaba e suono dell'evento che si celebra a Lungotevere Cenci è destinato a rafforzare i valori che consentono al Vecchio
Continente di guardare con fiducia oltre le
difficili sfide che incombono su tutti noi.
MAURIZIO MOLINARI
DIRETTORE DEL QUOTIDIANO LA STAMPA
“La Chiesa avrebbe il dovere di mostrare
vicinanza concreta al popolo di Israele”.
E invece proprio a gennaio il Vaticano sceglie
di riconoscere lo stato palestinese
I
l dramma è tutto in due parole: il silenzio e la routine. Se c’è
una ragione in particolare per cui la visita di Papa Francesco
alla sinagoga Maggiore di Roma ha un significato che potrebbe andare oltre ogni ritualità quella ragione va ricercata nella
condizione in cui oggi si trovano, soprattutto in Medio oriente, gli
uomini e le donne di fede ebraica e gli uomini e le donne di fede
cattolica. Una condizione che senza voler utilizzare troppi giri di
parole potrebbe essere sintetizzata con un’espressione semplice,
ma affilata come una lama: persecuzione.
Implicitamente o esplicitamente la visita di Papa Francesco alla
Sinagoga, l’incontro simbolico tra
le fedi di due religioni contro le
quali nell’ultimo anno si è scatenata con forza mostruosa la furia
omicida dei terroristi e dei tagliagole dello Stato Islamico – dalla
Siria alla Libia passando per l’Iraq
e per tutti quei territori e quei
paesi che, a due passi da Gerusalemme e Tel Aviv, sognano la
cancellazione dalle mappe geografiche di Israele – avviene dunque in un momento cruciale, e
bene ha fatto su questo tema
Papa Francesco a segnalare nel
contesto medio orientale la presenza oggettiva di una terza
guerra mondiale, con una forza insieme politica e religiosa, come
l’Isis, che teorizza, con buoni risultati, la necessaria distruzione
degli infedeli. In questa cornice di orrore quotidiano l’uccisione di
un ebreo o di un cristiano, condannati a morte per il semplice fatto
di essere un ebreo e un cristiano quasi
non fa più notizia e viene spesso avvolta
in una nebbia di vergogna fatta di
insopportabili silenzi e insostenibile
routine. Per queste ragioni alla fine del
2015 il Foglio ha scelto di dedicare un
numero speciale di quattro pagine al
tema dello sterminio dei cristiani, anche
in considerazione del fatto che da diversi anni, secondo alcune ricerche accurate dell’International Society for Human
Rights, l’ottanta per cento di tutti gli
attacchi di discriminazione religiosa
aveva come bersaglio proprio i cristiani
e che, dal 2012 a oggi, come sostenuto
da David Cameron, “la cristianità è
diventata la religione più perseguitata
nel mondo”, ed è significativa la vicinanza vera e non formale della comunità ebraica rispetto al tema della persecuzione dei cristiani. “La
Comunità ebraica – ha detto Riccardo Di Segni, Rabbino capo della
Comunità ebraica di Roma, in un intervento sul Foglio pubblicato a
novembre – non può rimanere indifferente davanti alle persecuzioni religiose che colpiscono oggi i cristiani in molte parti del mondo.
La storia ebraica è segnata sistematicamente da sofferenze e per-
secuzioni; sappiamo
cosa significa soffrire
perché si è portatori di
una differenza religiosa; l’idea che ai nostri
giorni qualcuno debba
soffrire di limitazioni di
libertà di culto, maltrattamenti, espulsioni, massacri per la sua
differenza di credo è
ripugnante.
Non
avremmo pensato, e ne siamo stupiti, che nel Ventunesimo secolo
dovessimo apprendere di persecuzioni a danno di cristiani”.
Alla luce di queste parole, chiare e nette, bisogna chiedersi se la
visita di Papa Francesco alla sinagoga Maggiore di Roma sia stata
preceduta da un qualche gesto o da un qualche atto simbolico
finalizzato a far sentire forte la vicinanza della Chiesa cattolica
alla comunità ebraica e soprattutto a Israele. E’ successo oppure
no? La risposta a questa domanda è purtroppo negativa. Nessuna
vera attenzione alla vergogna della marchiatura dei prodotti israeliani voluta dalla comunità
europea. Nessuna vera prova
di amicizia e di vicinanza da
parte della Chiesa a un paese,
come Israele, sotto assedio, e
diversi mesi diventato nuovamente teatro di una nuova Intifada. Se è vero che il terrorismo
che avvicina il suo coltello a un
ebreo colpevole di essere ebreo
è lo stesso terrorismo che avvicina le sue cinture esplosive a
un occidentale colpevole di
essere occidentale, una chiesa
desiderosa di denunciare ogni
nuova forma di genocidio
avrebbe forse il dovere di
mostrare vicinanza concreta al popolo di Israele. Sarebbe utile se
la visita di Papa Francesco alla sinagoga maggiore di Roma serva
anche a sanare questa ferita. Una ferita che non può che essersi
aperta ancora di più alla luce della, chiamiamola così, sfortunata
tempistica, vogliamo dire inopportuna?, con cui il Vaticano ha scelto di
riconoscere, a gennaio, uno stato come
quello palestinese non riconosciuto,
per le ragioni che tutti sapete, da Israele. Lo ha fatto oggi, negli stessi giorni
in cui dalla Palestina arrivano sempre
più terroristi pronti a soffocare con il
coltello la libertà di Israele.
Lo Stato ebraico, purtroppo, nel passato è stato abbandonato dal Vaticano in alcuni momenti tragici. Dopo
l’Olocausto, dopo la Guerra dei sei
giorni, dopo la guerra dello Yom Kippur, dopo la Guerra del Golfo, dopo
due Intifade dei terroristi, dopo la
guerra in Libano nel 2006 e dopo la
guerra contro Hamas nel 2009. Papa
Francesco non è certo Pio XII ma la
visita in Sinagoga sarà un passaggio importante per capire se la
vicinanza tra le due religioni sarà, da parte della chiesa, un
modo, non di routine, per rompere un silenzio semplicemente
assordante.
CLAUDIO CERASA
DIRETTORE DEL QUOTIDIANO IL FOGLIO
GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776
A Roma, ma guardando
al Medio Oriente
7
COPERTINA
Il dialogo inter-religioso nella Halakhà
L
Le opinioni dei maggiori decisori della nostra epoca
GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776
a dichiarazione Nostra Aetate del 1965 segnò, tra le varie
cose, anche l’invito al dialogo tra ebrei e cristiani. Prima
di entrare nell’argomento di quale sia la posizione della
Halakhà sul dialogo inter-religioso tra ebrei e cristiani è
bene premettere che Halakhà significa “la via da seguire” secondo la Torà. E dal momento che è un termine astratto è importante
chiarire chi siano le autorità che stabiliscono la Halakhà.
I rabbini con l’autorità per emettere decisioni halakhiche su argomenti di alta importanza e gravità sono pochi specialmente nella
nostra generazione rimasta orfana a seguito della distruzione delle comunità ebraiche in Europa centrale ed orientale dove viveva
il fior fiore del grandi Maestri di Torà. Nella maggior parte dell’Europa occidentale l’assimilazione che seguì l’emancipazione con
l’arrivo di Napoleone all’inizio dell’Ottocento aveva già decimato il
mondo dei Maestri di Torà e in Italia all’inizio della Grande Guerra
non vi erano più autorità halakhiche di valore mondiale. Ve ne erano però ancora nel mondo sefardita in Eretz Israel, in Irak, in Siria
e in Marocco e in Europa orientale in centri metropolitani come
Varsavia, Lublino e Lodz in Polonia e soprattutto a Vilna, chiamata
la “Gerusalemme della Lituania”.
Tra i sopravvissuti della distruzione delle comunità ebraiche in
Europa alcuni Maestri e decisori halakhici trovarono rifugio in
America. Tra questi vi furono R. Joseph Dov Soloveitchik, che nel
1940 fu nominato Rosh Yeshivà alla Yeshivat Yitzchak Elchanan
di New York, R. Moshè Feinstein che riuscì emigrare dall’Unione
Sovietica con la famiglia negli anni Trenta, R. Aharon Kotler, che
approdato in America nel 1940 si affrettò a fondare il Bet Midrash
Gavoha a Lakewood nel New Jersey, che diventò la più grande
yeshivà nel mondo occidentale, e anche molti rebbe chassidici, tra
i quali il rebbe di Satmer, di Bobov, di Lubavitch.
In Eretz Israel, si trovavano i rabbini dell’Yishuv Hayashan (del
vecchio insediamento) discendenti di lituani e chassidìm arrivati
a Gerusalemme e a Safed nell’Ottocento, oltre a un buon numero
di chakhamìm (saggi) sefarditi dall’Irak e dalla Siria. Tra i più autorevoli vi furono rav Avraham Yitzchak Kook, rav Ezra Attiya, rav
Yitzchak Herzog, rav Avraham Yeshayahu Karelitz, rav Yitzchak
Zeev Soloveitchik, rav Zvi Pesach Frank, il rebbe di Gur e rav Yechiel Tukechinsky solo per menzionare alcuni tra i più noti. Tra
coloro che ebbero un ruolo primario come decisori halachici negli
ultimi cinquant’anni vi furono rav Yitzchak Nissim, rav Ovadya Yosef, rav Isser Yehuda Unterman, rav Shlomo Zalman Auerbach, rav
Yosef Shalom Elyashiv e rav Shmuel Wosner.
Negli Stati Uniti i primi a mostrare entusiasmo per la dichiarazione
conciliare e per l’invito al dialogo furono i rabbis dei movimenti Reform e Conservative. Negli ambienti degli ebrei fedeli alla Torà, tre
tra i più grandi leader del mondo della Torà della nostra epoca, rav
Joseph Dov Soloveichik (1903-1993), rav Moshè Feinstein (18951986) e rav Menachem Mendel Schneerson, rebbe di Lubavitch
(1902-1994), presero posizioni chiaramente contrarie al dialogo.
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La presa di posizione di rav Soloveitchik
Il primo a prendere una posizione pubblica sull’argomento fu Rav
Yosef Dov Soloveitchik, Rav di Boston e Rosh Yeshivà della Yeshivat Yitzchak Elchanan di New York e l’autorità nel campo della Halakhà del Rabbinical Council of America, la maggiore associazione
di rabbini ortodossi negli Stati Uniti. In una sua lezione (pubblicata in Mesoras Harav) Rav Soloveitchik sottolineò le differenze tra
ebrei e gentili che rendevano impossibile un linguaggio comune
su argomenti religiosi con queste parole:
L’ebreo moderno è integrato nella società delle genti, nell’economia, nella politica, nella cultura e nella vita sociale. Vivendo tra i gentili condividiamo l’esperienza storica universale e
i problemi dell’umanità sono
anche nostri. La fame nel
mondo, le malattie, le guerre, le oppressioni, il materialismo, il permissivismo, l’inquinamento dell’ambiente
sono problemi che la storia
ha posto non solo di fronte
alla comunità delle genti ma
anche alla nostra “comunità
del patto”. E l’ebreo come
membro dell’umanità ha il
dovere di contribuire al bene
generale della società. Qual
è quindi la nostra posizione
rispetto alla civiltà moderna, rispetto alle scienze, alla
cultura occidentale, rispetto
ai paesi nei quali viviamo? La risposta è inclusa nelle parole
“Sono uno straniero e un abitante con voi” [Bereshìt-Genesi,
23:4]. L’ebreo afferma: “Sono certamente un residente, sono
uno di voi; mi occupo di affari come fate voi; parlo la vostra lingua; partecipo completamente alle vostre istituzioni socio-economiche. Tuttavia nello stesso tempo sono uno sconosciuto e per certi aspetti uno straniero, perché appartengo a un
mondo particolare che a voi è completamente estraneo. È un
mondo nel quale io vivo insieme con il Creatore. È un mondo
popolato da caratteri a voi ignoti, con una tradizione che non
capite, con valori spirituali che ai vostri occhi appaiono poco
pratici... È un mondo pieno di altari e di sacrifici, un mondo di
Torà, di benevolenza, di santità e di purità. Voi vivete in modo
differente, pregate in modo differente. La vostra concezione di
carità è diversa dalla nostra; i vostri giorni di riposo sono diversi dai nostri e cosi via. In queste cose sono un straniero nel
vostro mondo e voi siete degli stranieri nel mio. La sepoltura
ebraica è uno degli elementi rispetto ai quali siamo estranei
e stranieri l’uno con l’altro. Quando un ebreo muore viene sepolto in modo diverso. Un ebreo richiede un suo cimitero, una
tomba ebraica”.
Rav Soloveitchik parlò dell’impossibilità di un linguaggio comune
su argomenti religiosi in un saggio fondamentale con argomentazioni di carattere filosofico intitolato “Confrontation” pubblicato
nel 1964. In questo saggio egli scrisse in modo esplicito che non
era possibile alcun dialogo con altre religioni e che discussioni o
incontri su argomenti religiosi erano vietati:
Alla luce di questa analisi sarebbe ragionevole affermare che
in ogni confronto [tra la comunità ebraica e la cultura della maggioranza] dobbiamo insistere che vengano rispettate
quattro condizioni di base al fine di poter proteggere la nostra
individualità e libertà di azione. [Una di queste è che]... il linguaggio con il quale si esprime la molteplice esperienza religiosa non si presta a standardizzazione o universalizzazione.
La parola di fede riflette l’intimo, personale e paradossalmente
inesprimibile desiderio dell’individuo ... verso il suo Creatore.
Riflette il carattere e la singolarità dell’atto di fede di una particolare comunità che è totalmente incomprensibile alle persone
di un’altra comunità di fede. Pertanto è importante che il linguaggio religioso o teologico non venga usato come mezzo di
comunicazione tra due comunità di fede i cui modi di esprimersi sono unici come lo sono le rispettive esperienze religiose. Il
confronto deve avvenire non a livello teologico ma su questioni
La decisione halakhica di rav Moshè Feinstein
Nel 1967, il Dr. Bernard Lander, fondatore del Touro College, fu invitato a un convegno accademico con preti cattolici e ministri protestanti. Rivoltosi a Rav Moshè
Feinstein, quest’ultimo gli disse
che era proibito andare a incontri
del genere con religiosi cristiani.
Nel suo responso (pubblicato in
Iggherot Moshe), Rav Feinstein
scrisse che anche se il discorso
che il Dr. Lander avrebbe dovuto
fare era di argomento puramente
accademico la sua partecipazione
era proibita.
Argomenti simili furono espressi
nel 2004 da rav Hershel Reichman, Rosh Yeshivà alla Yeshivat
Yitzchak Elchanan e discepolo
di Rav Soloveitchik, che scrisse
che Rav Soloveitchik permise solo contatti concernenti questioni
umane e sociali e in particolare l’antisemitismo e proibì ogni attività religiosa in comune. Altri decisori halakhici che proibirono
ogni attività religiosa in comune furono l’autorevole rav Shmuel
Halevi Wosner di Benè Beràq, e rav David Feinstein, figlio di rav
Moshè Feinstein e tra i più rispettati decisori halakhici in America.
L’opinione del Rebbe di Lubavitch
L’opinione del Rebbe di Lubavitch relativa al dialogo inter-religioso venne resa pubblica tramite una lettera intitolata “Du-siach
ben dati shelili me-iqarò” (“Il dialogo tra religioni è fondamentalmente negativo”) nella quale rispose a una persona che gli aveva
chiesto quale doveva essere la posizione ebraica nei confronti di
questo nuovo fenomeno che “riceveva supporto in vari ambienti
ebraici e non ebraici”.
Il Rebbe rispose che era sorpreso che lo scrivente avesse dei dubbi
sull’argomento, scrivendo che:
Chiunque abbia delle minime conoscenze della storia del nostro popolo, sa con quale riluttanza gli ebrei in tutti i periodi
ingaggiarono discussioni religiose con dei non ebrei. I motivi
erano validi, oltre al motivo fondamentale che l’ebraismo non
aspira ad attirare i gentili e d’altra parte gli ebrei non sono
disposti ad esporsi allo zelo dei missionari di altre religioni.
ll Rebbe aggiunse che:
Riguardo a questo argomento ogni generazione ha i suoi problemi particolari. Per esempio uno dei sintomi particolari dei
nostri tempi per cui la conduzione di cosiddetti “dialoghi” si
trasforma in un fenomeno oltremodo negativo è la confusione
e lo smarrimento così comuni e in particolare tra le giovani ge-
nerazioni. Uno dei sintomi dai quali si riconosce questo smarrimento è il declino dei valori; in certi casi sono stati oltrepassati
tutti i limiti ben definiti che esistevano nel passato in diversi
settori della vita di ogni giorno. Dall’abbassamento o anche
dalla eliminazione totale della separazione [mechitzà] nella sinagoga si è slittato velocemente verso l’eliminazione di tutti i
limiti di etica, morale e anche della normale buona creanza. In
diverse aree questo ha portato a un perversione totale dei valori al punto di far ricordare il lamento del profeta (Isaia, 5:20):
Ahimè a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che
cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano
l’amaro in dolce e il dolce in amaro”.
E riguardo alla questione del dialogo il Rebbe osservò:
Uno dei risultati della situazione sopra descritta è la percezione difettosa esistente presso vari gruppi nei confronti del movimento cosiddetto “inter-religioso”. Il concetto di “fratellanza
tra i popoli” è fondamentalmente positivo fino a quando è limitato al contesto del commercio, alle istituzioni filantropiche e
ad altri argomenti civili ed economici della società... Tuttavia
la pretesa da parte dei credenti di una religione di spiegare la
loro fede e le loro usanze religiose a persone di altre religioni
e di esporsi a spiegazioni del genere indica una comprensione
errata del concetto di “fratellanza”. Purtroppo queste attività
inter-religiose hanno causato nel caso migliore un aumento
della confusione e nel caso peggiore sono stati uno strumento
nelle mani di missionari zelanti di quelle religioni che vedono
come “missione” la diffusione della loro fede tra persone di
altre religioni. L’aumento rapido nel numero di matrimoni misti
ha molte cause. Tuttavia non c’è dubbio che uno dei fattori
importanti è il movimento “inter-religioso” o “dialogo” (per
usare un eufemismo) nel cui contesto i sacerdoti di una religione vengono invitati a predicare dai pulpiti di altre religioni.
Non è difficile rendersi conto dell’effetto distruttivo di questo
fenomeno nei confronti di quei giovani, e anche nei confronti
dei loro genitori, il cui orientamento e la fedeltà alla loro fede
rasentano il minimo assoluto e si avvicinano allo zero...
Il Rebbe concluse affermando che “è giunto il momento di concentrare i nostri sforzi nel rafforzamento della fede tra le persone
del nostro popolo e invece di discussioni inter-religiose di porre
l’accento sul dialogo con la nostra gioventù smarrita e, con nostra
vergogna e dolore, anche con gli adulti”. In sostanza il messaggio
del Rebbe era che con la situazione tragica per via dell’assimilazione, gli incontri, gli abbracci, le preghiere comuni con dei preti,
a parte le gravissime trasgressioni halakhiche, sono segnali che
tra noi e loro non c’è molta differenza e che gli effetti di tali azioni
sono distruttivi.
***
Se è vero che la dichiarazione Nostra Aetate e le successive dichiarazioni della Chiesa Cattolica sono certamente gradite perché
dimostrano che la Chiesa Cattolica è sincera nel cercare di riparare il male che ha fatto al popolo d’Israele nel corso dei secoli, è pur
vero che, come disse rav Soloveitchik, noi ebrei non abbiamo nessun dovere di reciprocare. Il nostro dovere è quello di continuare
ad avere rispetto di tutti i non ebrei e in particolare nei confronti di
coloro che cercano di vivere anche solo in parte sulla base dell’etica universale promulgata oltre tremila anni fa al Monte Sinai. Non
abbiamo nulla in contrario che i cristiani continuino a suonare le
loro campane e non desideriamo fare proselitismo presso di loro.
Per parte nostra aspetteremo, come abbiamo fatto per tanti secoli,
l’arrivo del Messia, annunciato dal suono dello Shofar, il ritorno
di tutta la Diaspora in Eretz Israel e la ricostruzione del Santuario
di Gerusalemme dove suoneremo nuovamente le nostre trombe.
DONATO GROSSER
CURATORE DELLA RIVISTA DI STUDI EBRAICI SEGULAT ISRAEL
GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776
ordinarie di tipo sociale e umanitario. In questo modo tutti noi
parliamo il linguaggio universale dell’uomo moderno”.
9
COPERTINA
Le difficoltà del dialogo inter-religioso
"Non sono necessari punti di incontro teologici, ma occorre manifestare la disponibilità
ad accettare che ognuno la pensi a suo modo. Non dobbiamo armonizzarci,
dobbiamo rispettarci nella differenza anche radicale delle nostre opinioni"
Q
ueste poche righe sono scritte senza alcuna pretesa di
completezza. Nel mese di dicembre da parte ebraica e
da parte cristiana cattolica sono stati emanati documenti di grande interesse i cui contenuti non vanno
Dio? Non si tratta di un eccesso di presunzione da parte dei rabbini che si definiscono ortodossi? Quasi a dire che gli altri lo sono
meno o si tratta, in realtà, solo di una convenzione linguistica?
Ancora: “Ora che la Chiesa Cattolica ha riconosciuto l’eterno
patto tra Dio e Israele, noi ebrei possiamo riconoscere la validità
costruttiva esistente del cristianesimo come nostro alleato nella
redenzione del mondo senza alcuna paura che questo sia usato
con propositi missionari”.
Con tutto il rispetto verso questi autorevoli rabbini mi pare che
queste frasi siano poco rabbiniche e troppo il frutto di una diplomazia passiva, poco creativa; in ogni caso suscitano notevoli
perplessità.
Il documento emanato il 10 dicembre dalla Commissione Pontificia per i rapporti religiosi con l’ebraismo dal titolo “Perché i doni
e la chiamata di Dio sono irrevocabili (Rm 11, 29)” è molto più
corposo: ben diciassette pagine ricche e dense che partono dalla
Nostra Aetate, promulgata da cinquanta anni e che ha gettato le
basi di un rinnovato rapporto tra ebrei e cristiani cattolici, e che
commentano anche i documenti più recenti emanati nel corso
degli anni. Questo testo, in cui non stupisce affatto il prevalere di
una impostazione profondamente teologica, è molto interessante,
frutto di uno studio attento e accurato.
In quest’ultimo documento, datato dieci dicembre 2015 e firmato
dal presidente della Commissione, cardinale Kurt Koch, occorre
subito sottolineare che uno dei punti che ha suscitato la maggiore
attenzione è quello relativo alla rinuncia ai tentativi di conversione degli ebrei. La rinuncia a qualsiasi forma di pressione psicologica culturale o coattiva è certamente molto gradita e condivisibile. Meno condivisibile è l’affermazione che cristianesimo ed
ebraismo moderno siano frutto di una scissione del nucleo originario in due parti distinte.
A mio modo di vedere (e non solo mio, per fortuna) il Verus Israel
è il giudaismo, prima e dopo la venuta dell’ebreo Gesù. Quanto al
cristianesimo si tratta di una “setta ebraica” che ha avuto straor-
sottaciuti.
Il Center for Jewish-Christian Understandig and Cooperation
(CJCUC) ha reso noto un documento, datato 3 dicembre 2015, firmato da numerosi autorevoli rabbini di molti paesi del mondo dal
titolo 'To Do Will of Our Father in Heaven: Toward a Partnership
between Jews and Christians' con l’intento di mettere in evidenza
il punto di vista dei rabbini ortodossi sulla Cristianità. Si tratta di
un documento articolato in sette punti, ognuno dei quali richiederebbe riflessioni attente e un’analisi linguistica e testuale molto
profonda.
Quello che colpisce, al di là delle affermazioni “ovvie apologetiche
e sentimentali” (questo era il vecchio motto in uso molti anni fa
all’interno della FGEI la Federazione Giovanile Ebraica Italiana), è
il tono teologico e cardinalizio messo in mostra da questi celebri
rabbini, quasi che a parlare con la Chiesa e, in particolare, con
quella cattolica si debba per forza accettarne la visione del
mondo, non tanto nei contenuti quanto in quel tentativo di mettere tutto sotto il controllo di una qualche gerarchia. Un esempio? La
frase: “Cerchiamo di compiere la volontà di Nostro Padre in cielo
accettando la mano offerta dai nostri fratelli e sorelle cristiani”.
Ancora: dire che “la Shoah è finita 70 anni fa e che è stata un
distorto apogeo di non rispetto, oppressione e rifiuto degli ebrei”
è una frase che suona stonata e semplificatrice. Ancora: i rabbini
mostrano di apprezzare l’affermazione della Chiesa che Israele sia
unico nella storia sacra utile alla redenzione del genere umano.
Ancora: è pur vero che si citano Yeuhda Halevi e Maimonide e che
si riconosce che il cristianesimo non è né un accidente né un errore, ma l’esito della volontà divina e un dono ai popoli.
Hanno diritto gli ebrei e, in particolare, i rabbini ortodossi di fare
simili affermazioni apodittiche e addirittura parlare in nome di
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plificazione, corregga in parte, errori secolari da parte cristiana, anche se va detto
che, nel corso dei secoli, il rapporto non fu
un conflitto ad armi pari, come si vorrebbe
far pensare: qualcuno dava le botte e qualcun altro le prendeva, anche in senso teologico, si intende.
Quanto al mandato di evangelizzazione
della Chiesa in relazione all’ebraismo si può
leggere: “È facile capire che la cosiddetta”
missione rivolta agli ebrei “è una questione
molto spinosa e sensibile per gli ebrei, poiché ai loro occhi riguarda l’esistenza stessa del popolo ebraico. Anche per i cristiani è un
tema delicato poiché considerano il ruolo salvifico universale di
Gesù Cristo e la conseguente missione universale della Chiesa”.
Anche in questo caso nel dialogare, invece di far emergere questioni di principio che ognuno può tenere per sé, non sarebbe
stato meglio fare autocritica su quella oscura vicenda dei bambini ebrei che, nascosti durante gli anni della seconda guerra
mondiale, sono stati convertiti al cristianesimo e di cui nulla si è
saputo?
Qui non si tratta di salvare le anime in cielo, ma piuttosto con
franchezza di gettare le basi per un mondo migliore in terra e un
mondo non può che essere migliore ad una condizione necessaria,
non sufficiente, ma preliminare: ognuno la pensi come vuole. Non
sono necessari punti di incontro teologici, ma occorre manifestare
la disponibilità ad accettare che ognuno la pensi a suo modo. Non
dobbiamo armonizzarci, dobbiamo rispettarci nella differenza
anche radicale delle nostre opinioni. Non solo tra cristiani ed
ebrei, ma anche tra ebrei ed ebrei, naturalmente.
Per concludere è importante restare ebrei, nonostante gli ebrei. È
importante distruggere gli idoli, siano essi di creta o di qualsiasi
altro genere e materiale. Anche le schematizzazioni rigide del
pensiero possono essere idoli. Per questo è necessario nutrire
ogni giorno un pensiero nomade.
RICCARDO CALIMANI
STORICO E SCRITTORE
I doni per Papa Francesco
vo, che si alimenta con olio proprio, splende su Roma, a ricordare
che gli ebrei sono qui, come duemila anni fa, simbolo di luce e di
libertà, popolo libero e felice". (Georges de Canino).
Questo il significato racchiuso dall’opera di Georges de Canino,
che il Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma Riccardo Di
Segni ha donato a Papa Francesco in occasione della visita alla
Sinagoga di Roma.
Un’occasione storica celebrata dunque anche
nel segno dell’arte, a cui si è aggiunto un secondo dono di manifattura dello storico argentiere
fiorentino Pampaloni, realizzato dall'artista e
designer israeliano David Palterer. "Gavia, il calice ideato appositamente per questa circostanza, si presenta come un bicchiere a stelo. L'effettivo innalzamento della coppa, non è 'a colonna'
ma è un involucro. Il fusto è trattato martellinato, una lavorazione che esalta la qualità e l'espressività materica dell'argento sia visivamente che al tatto. La base del calice si rastrema e la
stabilità viene riguadagnata mediante un contrappeso in piombo, introdotto all'interno dello
stelo, in basso. Il piombo risulta così celato alla
vista, come la maggior parte delle fondazioni e,
oltre alla "fondamentale" funzione di sostenere,
di servire da base, ha un ruolo che nell’ebraismo
è centrale - il ricordo - e nel nostro caso evocare
il Moed di Piombo, una celebrazione legata alla comunità romana
e a questa stagione dell'anno, 2 di Tevet, che mantiene viva la
memoria di eventi che risalgono al 1793". (David Palterer).
"I
Significati e simbologia
di due piccole opere d’arte
l candelabro ebraico a sette braccia è
simbolo dell'ebraismo sin dall'epoca
della permanenza quarantennale nel
deserto, nel periodo della creazione del
Mishkan (Tabernacolo). Nel Ventesimo secolo,
con la fondazione dello Stato di Israele (1948), è
diventato l'emblema dell'identità politica nazionale ebraica. All'arco di Tito una riproduzione
straordinaria della Menorah è ripresa nel bassorilievo romano, tragico ricordo della distruzione del
secondo Tempio di Gerusalemme, nell'anno 70
dell'Era volgare. Per anni nel mio lavoro artistico
ho ricreato questo simbolo di luce, come una rappresentazione attuale del popolo di Israele,
nell’affermazione della sua fede nell’unico D-o e
nella sua Legge. In occasione dell’accoglienza di
Papa Francesco nel Tempio Maggiore di Roma
(17 gennaio 2016), la mia Menorah, dipinta su
tela, sarà il dono della Comunità Ebraica di Roma.
E' un albero di ulivo antico con i sette rami e le braccia rivolte
verso l'alto, le cui radici profonde millenarie rispecchiano la parte
superiore, è un albero austero, bruciato tante volte, ferito, ma vi-
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dinario successo e il tentativo di affermarsi
come Verus Israel nel corso dei secoli è
stato spesso una atto frutto di prepotenza e
un tentativo di appropriazione indebita.
Oggi il mondo ebraico, dopo secoli di diaspora, è diventato una galassia di ebraismi
di tipo diverso che devono convivere in
armonia pur vivacizzato da una certa anarchica espressione di libertà e di indipendenza di pensiero. Questo mondo, per lo
più, è contrario ad ogni autoritarismo, ad
autorità di tipo papale o surrogate tali, anche se rabbiniche.
La grande lezione della diaspora può essere riassunta in poche
parole. Ogni ebreo pensa con la propria testa. Naturalmente, lo
riconosco: non tutti hanno un buon cervello. Certo è, tuttavia, che
l’indipendenza di pensiero è una ricchezza del mondo ebraico a
cui non bisogna assolutamente rinunciare, anche se posso ammetterlo il dibattito stanca qualche volta, ma è essenziale.
Esiste un problema di fondo nella gestione del dialogo ebraicocristiano cattolico. Il mondo cattolico è strutturato gerarchicamente, quello ebraico non lo è affatto. Quello che emerge è dunque un
dialogo asimmetrico certamente fecondo, ma, potremmo dire,
molto atipico. “Un importante obiettivo del dialogo ebraico cristiano - si può leggere nel testo - consiste indubbiamente nell’impegno a favore della giustizia, della pace della salvaguardia del
creato e della riconciliazione in tutto il mondo”. Come non essere
completamente d’accordo?
“È possibile - si legge nel documento pontificio - che nel passato
diverse religioni, sulla base di una rivendicazione di verità intesa
in maniera ristretta e di una intolleranza ad essa conseguente
abbiamo contribuito a fomentare conflitti e scontri”. Questa francamente è una frase un poco.... timida.
Come cancellare secoli e secoli di antigiudaismo? Come dimenticare almeno cinque secoli di Inquisizione?
Sia chiaro, il dialogo, quello vero, non può che essere sincero allo
scopo di evitare retropensieri. Fa comunque piacere che questo
testo di grande importanza, pur con qualche forse inevitabile sem-
11
COPERTINA
Tra cronaca e storia, la terza volta
Papa Francesco e il rabbino capo Di Segni scrivono una pagina nuova,
trasformando in consuetudine ciò che appariva evento eccezionale
GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776
Q
12
uando aprì le porte del Tempio maggiore di Roma alla
prima visita di un pontefice romano, il rabbino capo
Elio Toaff z.l. fu certamente ben consapevole di scrivere una pagina indimenticabile e fondamentale nella
storia della città. E non soltanto della città, ovviamente. Era il 13
aprile del 1986, 4 nissan 5746. Tra gli ebrei romani “de Roma”,
discendenti di quelli che per secoli avevano certo già incontrato
da vicino gli uomini della Cattedra di Pietro, ma con i cancelli del
ghetto ad aspettarli ogni sera, quella giornata trovò un significato davvero speciale.
E fortemente l’avevano voluta tanto il rabbino livornese di nascita
- che proprio qui a Roma avrebbe incontrato Giovanni Paolo II
memoria storica più vera, nella nostra tradizione, è quella che
sicuramente si volge verso ciò che è trascorso e ne trae ammaestramento, ma sempre con la volontà di infondere buone speranze nel futuro. Molta acqua è passata sotto i ponti di Roma da
quando con la dichiarazione Nostra aetate, peraltro indirizzata
anche alle altre denominazioni cristiane “separate” e a tutti i
non cristiani, la Chiesa apriva la via del dialogo con il popolo
ebraico e con quanti ne interpretano e rappresentano in modi
differenti, comunque unitari, le tradizioni, gli interessi, la volontà collettiva.
Al di là delle sottigliezze teologiche del confronto, che il papa
teologo ed ora emerito Benedetto XVI conosce bene per averle
nella formalità di un rito ancora tutto da inventare - quanto il papa
polacco che in gioventù aveva visto gli orrori della guerra nazista
e lo sterminio della più grande collettività ebraica d’Europa. Date
e numeri spesso non sono casuali: Karol Jozef Woityla infatti era
stato eletto Papa della Chiesa Cattolica, il 264°, dopo appena due
giorni di conclave, il pomeriggio del 16 ottobre 1978. E dunque
proprio nell’anniversario della prima deportazione degli ebrei di
Roma: una ricorrenza che trent’anni or sono non coinvolgeva
come adesso la città intera.
Rav Riccardo Di Segni compie un gesto di significato alto e forte
incontrando papa Francesco. E’ infatti la terza volta di un sommo
pontefice. Ciò che nelle visite precedenti appariva evento eccezionale si trasforma dunque in amichevole consuetudine.
Questa è la vera novità, la notizia vera che non ha bisogno di risonanza mediatica. Risonanza che certamente avrà, poiché il papa
argentino è in fondo un papa molto italiano, che conosce l’italiano
come lingua di casa, a differenza di Wojtyla e di Ratzinger. Un
oriundo insomma, come si diceva dei grandissimi calciatori - e ci
sia consentita la metafora, papa Bergoglio ama il calcio - che dal
Sudamerica arrivarono in Italia già negli anni Cinquanta del secolo passato per giocare partite decisive in campionato e nella
Nazionale.
Francesco, che vuole essere un pontefice davvero vicino alla
gente, certo non ignora la condizione di disagio economico nella
quale vivono molti ebrei romani, e l’assistenza che ricevono dai
correligionari.
Altro che banchieri e lobby finanziaria: piccolo commercio, venditori ambulanti messi in difficoltà dai provvedimenti straordinari degli ultimi mesi, disoccupazione, mestieri improvvisati. La
sperimentate di persona, e al di là delle questioni politiche, che
il papa trascinatore Giovanni Paolo II risolse una volta per tutte
nel 1993 con il riconoscimento diplomatico dello Stato di Israele,
le condizioni di persecuzione che purtroppo i cristiani oggi conoscono in molte parti del mondo favoriscono la sintonia delle
sensibilità. Benedetto XVI fu ospite della nostra comunità il 17
gennaio del 2010.
Francesco, che intende essere il papa di tutti, rende energicamente istituzionale de facto la Giornata dell’Ebraismo celebrata
dalla Conferenza Episcopale Italiana appunto il 17 gennaio di
ogni anno, a partire dal 1990. Per gli ebrei romani un papa positivamente energico è nella tradizione migliore: proprio il terribile Sisto V (sì, quello del “marchegiano all’uscio”) volle alleggerire in qualche modo la Bolla di Paolo IV che istituiva il ghetto di
Roma. Francesco è il primo della Societas Jesu, un padre gesuita
che arriva alla Cattedra di Pietro. La mitezza personale certo non
esclude la determinazione più robusta, e ne ha dato prova.
Quanto alla teologia, i messaggi possono essere espliciti e significativi, ma espressi senza enfasi.
E così, lo scorso 18 dicembre all’apertura giubilare della Porta
della Carità presso il rinnovato ostello della Caritas diocesana in
Via Marsala, la liturgia è stata aperta da uno degli ospiti che ha
letto un passo del profeta Geremia al Capitolo 23, 8: “L’Eterno è
vivente, egli che ha tratto fuori e ricondotto la progenie della
casa d’Israele dal paese del settentrione, e da tutti i paesi dove
Io li avevo cacciati. Ed essi dimoreranno nel loro paese.” Leggendo le cronache quotidiane dal vicino oriente, la citazione ha
offerto, a chi avesse orecchio, ragioni energiche per meditare.
PIERO DI NEPI
Yovel una parola ma due diversi modi di celebrarlo
I
Un anno ‘speciale’ ma con approcci diversi per gli ebrei e per i cristiani
l Giubileo è un istituto religioso
comune alle religioni ebraica e
cristiana sebbene questo con il
tempo abbia assunto un significato diverso per le rispettive fedi.
Mentre nel caso della cristianità il
Giubileo ha preso la forma di un
evento legato al perdono dei peccati, nella tradizione ebraica lo Yovel,
nome derivante dal corno di ariete
suonato per segnalare l'inizio del
cinquantesimo anno in coincidenza
con il digiuno del Kippur, mantiene
una rilevanza di tipo sociale ed economico. Per rintracciare l'importanza di questo istituto nelle principali
fonti dell'ebraismo e per meglio
comprendere cosa significhi per gli
ebrei l'anno santo appena aperto da
Papa Francesco accorre in nostro
aiuto Rav Ariel Di Porto, rabbino
capo della Comunità di Torino. Proprio Rav Di Porto ci indica come il
Giubileo ebraico si rivolga essenzialmente ad aspetti materiali della vita
quotidiana, divenuti fondamentali
quando con la Diaspora gli ebrei
sono costretti ad adeguarsi alle
strutture economiche delle società
in cui si stabiliscono senza perdere
la loro identità religiosa. Con lo
Yovel infatti viene sancita la remissione dei debiti e la liberazione degli
schiavi, due aspetti che sembrano indicare una prevalenza delle
fonti religiose su quelle istituzionali nel campo della giustizia
sociale. Si tratta di un atto di grazia automatizzato secondo cicli
regolari e sottratto all'arbitrio degli esseri umani che garantisce la
sopravvivenza al bisognoso ma allo stesso tempo preserva la pro-
prietà del ricco escludendo le categorie diverse dagli schiavi e dal
denaro prestato dalla redistribuzione. In altre fonti però al Giubileo
viene attribuita una rilevanza più
spirituale: segnalando l'inizio di un
nuovo ciclo lo Yovel assume anche la
forma di riflessione sulla caducità
della vita terrena spingendo quindi
l'uomo da un lato a celebrare la sua
esistenza, dall'altro a cercare il perdono, la teshuvà.
In realtà l'istituto del Giubileo nella
tradizione ebraica è strettamente
collegato a quello dell'Anno Sabbatico che impone lo Shabbat della terra
vietandone lo sfruttamento per tutta
la sua durata. Lo Yovel infatti terminerebbe il ciclo di 7 Anni Sabbatici
rimandando idealmente all'atto della
Creazione e al conseguente riposo
divino. Curiosamente il numero cinquanta è menzionato frequentemente nella Bibbia e ricorre spesso in
situazioni cariche di significati speciali. Nonostante il Giubileo abbia
cessato di esistere nella pratica non
viene meno la sua funzione di guerra alla povertà insita nell'idea di
conferire al meno abbiente i mezzi
per uscire dallo stato di indigenza.
Grazie anche alla possibilità di organizzarsi liberamente in base ai vari
luoghi e alle diverse realtà storiche le direttive bibliche possono
considerarsi ancora attuali e concretizzabili in qualunque sistema
economico purché non venga perso di vista il fondamentale valore
della fratellanza.
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dal 2 al 9 Marzo 2016. Per informazioni 06.7001906-909
Alberto Tancredi 347.3802507
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ISRAELE
‘Colono’. Quando una parola
si trasforma in disprezzo
uori e dentro dei confini di Israele
non esiste parola più violentata,
abusata, emarginata e strumentalizzata della parola "colono". Per un
certo mondo fuori da Israele è colono lo
sradicatore di olivi, il violento occupante
delle terre altrui, colui che calpesta i diritti
di un luogo non suo e di una legittima popolazione "già" presente prima di lui. Per un
certo mondo interno ad Israele è colono
colui che vivendo a 20 o 30 minuti da Gerusalemme in terre chiamate storicamente di
Giudea e Samaria, mina la pace, fa in modo
l'antisemitismo, da lui definito Giudeofobia,
sia per il dialogo e la conoscenza della cultura ebraica nel mondo. Entro in casa sua
per motivi legati ad un progetto per il liceo
ebraico di Madrid e scopro di essere in casa
di un colono. Uno dei 'cattivi'. Un 'cattivo'
laureato alle Università di Buenos Aires e
Gerusalemme, con dottorati in Filosofia a
New York, alla Sorbonne, a San Marcos in
Perù e Uppsala in Svezia. Un 'cattivo' che mi
racconta dei suoi amici arabi, del lavoro di
sostegno economico durante la seconda
intifada e della normalità di vivere ad Efrat
voglio "sentire" il polso di una situazione che
non ho conosciuto negli anni dello studio.
Vado da Ziva, insegnante in un prestigioso
liceo religioso di Gerusalemme che abita fra
Tekoa e Noqdim. Parliamo di politica, del
suo voto che tende a destra e del fatto che
parla perfettamente arabo perché non si
può vivere senza comunicare con i propri
vicini. Parliamo di ebraismo e femminismo
religioso illuminando scelte di osservanza
di mitzvot al femminile, come la lettura
della meghillà o la tefillà femminile per
Rosh Chodesh, elementi rivoluzionari che le
femministe della spiaggia di Frishman a Tel
Aviv non saprebbero né comprendere, né
sostenere. Crolla con Ziva, in un secondo,
l'immagine della colona che armata di mitra
sforna challot e cholent, mentre prende la
mira contro il vicino villaggio arabo ed al
suo posto raccolgo l'immagine di una insegnante, di una femminista osservante, di
una madre preoccupata per la sicurezza
che il mondo confonda i buoni con i cattivi
e fa in modo che il mondo non accetti la
legittimità di Israele. Per il mondo fuori da
Israele il colono, in quanto occupante, può
essere ammazzato ed in alcuni tragici casi
deve essere ammazzato, senza distinzione
di età, sesso, pensiero ed opinioni. Per il
mondo interno ad Israele i coloni non sono
distinguibili se non per genere ed età, perché per il resto hanno tutti la stessa opinione, le stesse idee politiche, gli stessi ritmi
religiosi. In questo modo la parola colono
assume i colori che negli anni del 1930
assunse la parola ebreo o giudeo in Europa.
E prima ancora durante gli anni delle rinascite dei nazionalismi europei della fine del
1800, prima ancora negli anni del Medio
Evo Europeo. Colono è il colpevole di ogni
colpa mediorientale, di ogni ostacolo alla
pace, di ogni instabilità mondiale.
Ma chi è davvero il colono? Chi sono coloro
che vivono ad Efrat, Newè Daniel, Tekoa,
Dolev, Kochav Yaakov, Bruchin? Chi sono
coloro che decidono di vivere in Giudea e
Samaria e perché decidono di vivere in luoghi così profondamente e storicamente
ebraici eppure così controversi e mal giudicati dal mondo e dalle spiagge di Tel Aviv?
Incontro ad Efrat il professor Gustavo Perednik israeliano di origine argentina, classe
1956, uomo con un curriculum accademico
notevole e con un impegno reale sia contro
in quanto uomo ebreo che crede nella
sovranità ebraica in terra ebraica, dove
sovranità significa accettazione del ruolo di
Israele come nazione che si impegna al
riconoscimento del diritto di tutti e contemporaneamente del proprio come nazione
ebraica. Un 'cattivo' che non fa proclami di
pace, ma la costruisce con la penna, con il
pensiero e con i passi che portano da casa
sua a Gerusalemme, poi a Tel Aviv e poi al
mondo intero.
Incontro a Noqdim, vicino Tekoa, appena
sotto i resti del mausoleo dell'Herodion del
10 prima della nostra era, Yair un amico che
possiede una fattoria/ristorante/caseificio.
Mangio con lui i fantastici formaggi di
capra e guardando queste colline che trasudano storia ebraica mi racconta di lui, delle
sue idee politiche, del suo essere osservante, ma non completamente shomer shabbat
(ma come un colono mezzo laico?!). Sono
confuso. Il colono deve essere incolto in
materie non ebraiche ed ho in mente le
conversazione su Giovanni Battista Vico
con Perednik e deve essere ossessivamente
religioso e Yair non è neanche shomer
shabbat. Ho bisogno di vino, fortunatamente Yair produce anche quello.
Decido di non disturbare i miei amici della
Yeshivat Hamivtar di fronte la collina di
Efrat e di non incontrare il mio rabbino,
Shlomo Riskin haCohen shlita, perché
propria e dei suoi figli non meno di quella
dei figli dei suoi vicini arabi.
Mentre guardingo guido verso Newe Daniel
vedo, in questi giorni, ciò che ai "miei
tempi" quando studiavo in questi luoghi
non c'era: i piloni di cemento a difesa delle
fermate del bus, i soldati aumentati in
quantità significativa, i posti di blocco. Intifada's mood.
Parlo al telefono con rav Rosen del Machon
Tzomet di Alon Shvut, un istituto dove si
incontrano ingegneria e tecnologia e dove
sono state trovate le soluzioni halachiche
più simpatiche, come il timer per le luci di
Shabbat, ma anche i mezzi di locomozione
elettrici per disabili. Mi chiede il rav: "E a
me non mi intervisti? Io sono un telavivino
che 20 anni fa si è trasferito qui!". "No rav,
non la intervisto" rispondo, "lei è troppo
popolare, non aggiunge nulla di inedito!".
In realtà sto per incontrare i membri della
famiglia Shapiro di New York, che hanno
fatto alyà da tre anni, due dei quali vissuti
a Gerusalemme nel quartiere di Nachlaot e
che oggi hanno scelto di vivere a Newe
Daniel, ma che tra sei mesi, si trasferiranno
a Tekoa, finiti i lavori di ristrutturazione
della loro casa. "Abbiamo fatto alyà per
vivere in un mondo ebraico più consono alle
esigenze spirituali della nostra famiglia e
può sembrare assurdo a te, europeo, che
queste esigenze non potessero essere sod-
Per gli antisionisti e i nemici di Israele sono tutti estremisti
coloro che vivono al di là della teorica linea verde. Ma non è
così. Incontrandoli si scoprono tante storie e opinioni diverse
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Yossi Cohen è il nuovo
Mister sicurezza
È stato nominato capo del Mossad,
il servizio di spionaggio di Israele
Y
ossi Cohen, ex consigliere della
Sicurezza Nazionale, sarà il dodicesimo Direttore del Mossad, l'agenzia di intelligence dello Stato
d'Israele. Cohen, 54 anni, rimpiazzerà
Tamir Pardo che ricopriva la carica dal
Gennaio 2011. Il nuovo Direttore è entrato
nel Mossad nel 1982 specializzandosi nella
gestione del personale operativo all'estero
con la Divisione Tzomet e arrivando ad
essere insignito del prestigioso Israel
Security Prize, riconosciuto a quelle personalità che hanno contribuito a migliorare la
sicurezza nazionale o a mantenere la superiorità in campo militare, tecnologico e
operativo.
Originario di Gerusalemme, Cohen vive a
Modìn, una città poco distante da Tel Aviv,
con la moglie e i suoi quattro figli. Viene
descritto come una persona molto religiosa, saggia e professionale. Alcuni media
israeliani riportano un presunto soprannome affibbiatogli dai colleghi del Mossad, "il
modello" per via del suo aspetto sempre
elegante. La sua precedente posizione
come consigliere della Sicurezza Nazionale
ha influito notevolmente nella scelta:
durante questo periodo di tempo Cohen ha
operato come un vero e proprio emissario
del Primo Ministro Netanyahu sia nei paesi
occidentali sia in molti Stati che non hanno
relazioni diplomatiche con Israele. Proprio
quest'ultimo elemento è stato decisivo agli
occhi di Netanyahu che nella conferenza
stampa dell'annuncio ha ricordato come il
Mossad non solo deve raccogliere informazioni di intelligence e preparare operazioni
speciali, è anche incaricato di mantenere
rapporti con quei paesi arabi che non
comunicano pubblicamente con Israele.
Cohen parla un arabo molto fluente ed è
considerato la mente dietro gli ultimi piccoli passi di avvicinamento di alcuni Stati
sunniti come l'Arabia Saudita, pronti a
mettere momentaneamente da parte l'astio per Israele per fermare l'avanzata
dell'Iran nell'arena mediorientale.
Rispetto al suo predecessore Pardo, Cohen
dovrà affrontare nuove e diverse minacce
alla sicurezza nazionale israeliana. La
prima e più importante è quella posta da
un Iran riammesso nella comunità internazionale dopo il patto sul programma nucleare e ora in grado di fornire a Hezbollah un
numero maggiore di armamenti grazie alla
rimozione delle sanzioni. L'accordo sul
nucleare iraniano non cesserà di essere un
aspetto importante della politica estera
israeliana e al Mossad verrà affidato il
compito di vigilare sul rispetto delle clausole da parte della Repubblica Islamica.
L'altro grande problema per il Mossad sarà
gestire l'allerta terrorismo scatenata dallo
Stato Islamico: sebbene gli attentati si
siano per il momento concentrati nelle
grandi città europee si teme che a farne le
spese possano essere le comunità ebraiche locali. Prevenire questo tipo di attacchi
non è semplice perché i "lupi solitari", non
servendosi di una struttura centralizzata,
non forniscono segnali ad altri soggetti o
organizzazioni sotto sorveglianza. Cohen
ha superato la concorrenza di Ram Ben
Barak, Direttore del Ministero dell'Intelligence e degli Affari Strategici, e del misterioso Mr.N, l'attuale vice direttore del Mossad dal nome top secret per motivi di
sicurezza e di cui si sa solamente che è il
miglior esperto israeliano nell'uso della
tecnologia moderna nel campo dello spionaggio. Al contrario del Direttore del Mossad, la cui identità è stata resa pubblica
nel 1990, il numero due continua a vivere
nell'anonimato. Vista la storia dell'agenzia
e il suo modus operandi non è da escludere
che il vice Direttore custodisca segreti
maggiori rispetto al suo superiore.
MARIO DEL MONTE
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disfatte a New York". In effetti sono incredulo, ma loro aggiungono: "E' una questione di valori. Non volevamo che i nostri figli
crescessero nella realtà formale di un certo
ebraismo americano, nel culto di alcuni
obiettivi sociali che non sono ebraici. Dopo
aver vissuto a Gerusalemme, per motivi
economici e per avere una casa adatta a
contenere sei persone abbiamo scelto di
trasferirci nel Gush, prima qui a Newe
Daniel e poi andremo a Tekoa dove la
comunità anglo è numerosa, giovane, stimolante". Chiedo agli Shapiro come sentono il loro passaggio da ebrei americani
impegnati nel sociale, con una profonda
cultura democratica e "di sinistra" ad abitanti del Gush, ipotetica roccaforte di una
destra politica ed occupante. Nathan mi
sorride, fra l'hippie e l'incredulo. "Molti di
coloro che rappresentavano i valori di un
certo mondo ebraico progressista americano si sono trasferiti nel Gush e nessuno
sembra volerlo raccontare. Oggi ad Efrat, a
Tekoa, a Bruchin trovi famiglie americane
che sono i figli di chi ha marciato ovunque
in America per affermare diritti e per protestare contro guerre, disuguaglianze sociali,
discriminazioni e fascismi di ogni sorta.
Esiste una nuova generazione di nuovi
immigrati che scelgono di vivere nel Gush
per amore, oserei dire quasi fisico, verso
Eretz Israel ma che portano nel loro bagaglio tutti i valori di incontro e dialogo delle
loro origini ed è da questo incontro tra Sionismo ed Dialogo che forse nascerà un vero
postsionismo di ricostruzione. Noi andiamo
a vivere a Tekoa per vivere a pieno valori
ebraici, per respirare una certa identità
ebraica nel quotidiano, per costruire, per
essere osservanti, ma non per essere un
baluardo di niente e nessuno tranne la
nostra identità ebraica".
Ero partito per scrivere un pezzo di analisi
di un certo mondo israeliano ed ebraico al
di là di questa teorica linea verde che divide il mondo in buoni e cattivi, ma torno a
casa senza linee e senza certezze. Nel Gush
ho incontrato rabbini che lavorano per la
pace con i vicini arabi, organizzazioni che si
occupano di dialogo con il mondo cristiano
come il Center for Jewish-Christian Understanding & Cooperation, persone che lavorano in centri di incontro fra laici e religiosi,
ebrei con barba e peot che condannano
senza condizioni l'estremismo ebraico e
quello musulmano con uguale forza.
Se quindi l'incomprensione del mondo e la
scarsa conoscenza dei "territori" ha il sapore
di una ignoranza e di una scelta politica
parziale e limitata, coloro che dalle dune
delle spiagge di Tel Aviv boicottano il vino
di Yair o condannano Ziva ed il terrazzo con
vista su Herodion, non esprimono una consapevole scelta politica, ma un noioso cliché di un mondo radical chic che avremmo
fatto meglio a lasciare in Diaspora.
PIERPAOLO P. PUNTURELLO
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ISRAELE
Israele: paese delle start-up
ma anche della povertà
Più del 20 per cento della popolazione
israeliana vive in difficoltà economiche
C
GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776
he si ami o si odi Israele, c'è un punto su cui è difficile
trovarsi in disaccordo: lo Stato ebraico è un gigante
dell'alta tecnologia, della ricerca e dell'innovazione motori di un'economia modello, prospera e sana. Giusto? Non proprio.
In molti saranno sorpresi nello scoprire che Israele è anzitutto
una nazione povera; forse la più povera tra i paesi occidentali. Lo
ricorda un rapporto pubblicato a dicembre dal “Mossad leBituach
Leumi”, l’Istituto nazionale per la sicurezza sociale, l’Ente che in
Israele garantisce l’assistenza pensionistica a sanitaria.
Secondo il rapporto, nel 2014, circa 1,7 milioni di persone, il 22
per cento della popolazione, viveva sotto la soglia di povertà. Di
questi, poco meno di 800mila erano minorenni, quasi un terzo dei
bambini di tutto il paese. E dopo un calo registrato negli ultimi
anni, le cifre mostrano un aumento rispetto all'anno precedente.
Se nel 2013 le famiglie povere erano il 18,6 per cento, nel 2014
erano il 18,8 per cento. Stessa sorte per la percentuale di bambini
poveri, salita da 30,8 a 31.
Tra i 34 paesi membri dell'Organizzazione per la cooperazione e
lo sviluppo economico (OCSE), solo il Messico ha un indice di
povertà più alto, fanno notare gli esperti del "Bituach Leumi".
L'ente si basa sui criteri OCSE per fissare la soglia di povertà, che
in Israele scatta per gli individui che guadagnano meno di 726
euro al mese e per le coppie il cui reddito è inferiore a 1.162 Euro.
In crescita è anche il divario tra ricchi e poveri. Il coefficiente di
Gini, utilizzato per misurare la diseguaglianza nella distribuzione
della ricchezza, è salito del 2 per cento nel 2014, e supera del 17
per cento la media OCSE.
Il miracolo dell'hi-tech israeliano, che ha guadagnato al paese nomignoli quali "Silicon Wadi" o "Start-up Nation", è in realtà un fenomeno che ha interessato solo una piccola parte della forza lavoro,
un’élite altamente qualificata che ha beneficiato degli investimenti stranieri e della scommessa (comunque vincente) sull'innovazione e la creatività delle piccole imprese israeliane. Gli indicatori
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macroeconomici sono trascinati da questo stesso fenomeno, ma
lontano dai grattacieli di Tel Aviv, il resto del paese vive in un’economia basata su manodopera poco qualificata, scarsa partecipazione alla forza lavoro, tasse alte e salari bassi. I più colpiti sono
gli arabi israeliani e gli ebrei ultraortodossi. In questi settori, il
basso livello d'istruzione e, nel caso degli ultraortodossi, la scarsa
partecipazione maschile alla forza lavoro, fa si che la piaga della
povertà tocchi più del 50 per cento delle famiglie.
Ma le cifre del rapporto nascondono un'ulteriore sorpresa. Grazie
al progressivo smantellamento dello stato sociale e alla crescita
del costo della vita, cui non ha fatto seguito un aumento del salario medio, anche chi ha un lavoro fisso spesso può ritrovarsi in
difficoltà. Tra le famiglie in cui solo un coniuge ha un lavoro, il
25,4 per cento rimane sotto la soglia di povertà. Anche quando a
lavorare sono entrambi i coniugi, nel 5,6 percento dei casi la famiglia non riesce a superare il fatidico reddito di 1.162 Euro.
Difficile ignorare le responsabilità dei governi di centro-destra
che guidano il paese da più di un decennio, e soprattutto del
premier Netanyahu. Poco o nulla è stato fatto per aumentare la
partecipazione sociale e il livello d'istruzione di arabi israeliani e
ultraortodossi, mentre molto è stato fatto per ridurre la spesa
sociale e privatizzare l'economia, ormai controllata da una man-
nel mondo occidentale.
Al di là della sostanza del contratto, ciò che ha colpito molti
osservatori israeliani è il modo in
cui si è arrivati alla sua approvazione. Netanyahu non ha solo
ignorato le quotidiane manifestazioni di protesta contro l'accordo, ma ha anche costretto alle
dimissioni il Commissario antitrust, che aveva bocciato l'intesa. Il premier ha poi premuto sul
suo ministro dell'Economia, il leader del partito ultraortodosso
Shas, Aryeh Deri, perché si avvalesse della facoltà, prevista dalla
legge ma mai utilizzata (e di
dubbia applicabilità in questo
caso), di annullare la decisione
dell'antitrust per ragioni di sicurezza nazionale. Di fronte al rifiuto e alle successive dimissioni di
Deri, suo stretto alleato di governo, Netanyahu non ha battuto
ciglio. Il premier ha assunto il
dicastero dell'economia, bypassando personalmente l'obiezione
dell'antitrust e approvando l'accordo.
Sorge il sospetto che fu frutto di
una tragica premonizione la copertina di Time magazine che,
nel 2012, soprannominò Netanyahu "King Bibi". Il premier,
che per ora continuerà a mantenere la poltrona dell'economia, è
infatti anche ministro degli Esteri, ministro delle Comunicazioni e ministro per la Cooperazione
regionale. Così, mentre i suoi "sudditi" scivolano sempre di più
verso la povertà, l'Israele di "King Bibi" somiglia sempre di più a
una monarchia assoluta.
ARIEL DAVID
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ciata di oligarchi che, in un clima
di scarsa concorrenza, possono
facilmente tenere alti i prezzi e
bassi gli stipendi.
Infine, sull’economia gravano le
ingenti spese militari, per circa il
6 per cento del PIL, e i miliardi
investiti nello sviluppo degli insediamenti in Cisgiordania, un
vero "buco nero" nel bilancio dello Stato, visto che nessuno è mai
riuscito a quantificare con precisione il sostegno concesso dal
governo alle colonie. Questa situazione ha lentamente eroso le
fila della classe media ed è fonte
di quella frustrazione che nel
2011 portò centinaia di migliaia
d'israeliani a scendere in piazza
per mesi nella cosiddetta "protesta delle tende".
Oggi, a quattro anni da quella
protesta, poco o nulla sembra
essere cambiato. Lo dimostrano
non solo le cifre dell'ultimo rapporto sulla povertà, ma anche la
spregiudicatezza con cui Netanyahu ha recentemente concluso uno degli accordi più importanti per il futuro economico
del paese.
Pochi giorni dopo la pubblicazione del rapporto, Netanyahu ha
siglato un accordo che concede
alla società texana Noble Energy
e al suo partner locale, il Gruppo
Delek del miliardario Yitzhak
Tshuva, lo sfruttamento esclusivo dei giacimenti marittimi di gas
naturale scoperti negli ultimi anni al largo delle coste israeliane.
Di fatto, visto che Israele non ha altre importanti fonti di energia,
la concessione crea un monopolio sul mercato energetico, con un
prevedibile effetto sui prezzi di gas e elettricità, già fra i più alti
17
MONDO
Iran e Arabia Saudita:
voglia di egemonia
Ragioni economiche ma anche religiose
contrappongono i persiani agli arabi.
E non è solo uno scontro tra sciiti e sunniti
F
attori economici, religiosi e geopolitici. C’è tutto questo
nel conflitto tra Arabia Saudita e Iran, divenuto l’argomento preminente dello scenario mediorientale.
Anzitutto, vi è un elemento storico-identitario: i persiani
continuano a vedere gli arabi come gli invasori che nel VII secolo
hanno imposto con l’uso della forza la cultura arabo-islamica all’antica civiltà persiana. Vi è poi l’aspetto geopolitico, visto che
entrambi i Paesi aspirano a un’egemonia regionale: l’accordo sul
nucleare apre nuovi scenari per l’Iran; Riad, invece, vive momenti
di difficoltà al suo interno, con l’avvicendamento al trono nel gennaio 2015 e la nuova politica intrapresa da re Salman, che ha emarginato i principi fedeli al defunto re Abdullah. Si aggiunge poi la
questione economica: i nuovi minimi del prezzo del petrolio hanno
costretto il regno saudita a indebitarsi con l’estero per evitare un
impatto sociale del taglio della spesa pubblica, la quale dopo la
Primavera araba si era gonfiata a dismisura; sarà comunque ridotta nei prossimi mesi e probabilmente affiancata anche da una
svalutazione del rial. L’Iran, inoltre, con la fine delle sanzioni, non
rinuncerà alle sue esportazioni di petrolio, provocando così un
ulteriore ribasso dei prezzi.
In questo sovrapporsi di concause, l’elemento preponderante è
però quello religioso-ideologico. Alla profonda distinzione identitaria tra persiani e arabi, si aggiunge infatti anche l’antagonismo
religioso e la relativa leadership nel mondo islamico. Questa
spaccatura avvenne al momento della morte di Maometto nel
632: per i sunniti (da Sunna, la tradizione del Corano), successore
del Profeta era il suo compagno Abu Bakr, mentre gli sciiti riconoscevano come guida il genero e cugino di Maometto, Alì (da qui
anche la denominazione di Shiat Alì, partito di Alì). Una divisione
che fu sancita nel 680 con la battaglia di Karbala, vinta dai sunniti. Per questi ultimi, i primi sovrani, i «califfi», avevano solo il
dovere di garantire l’ideale unità della comunità, mentre gli imam
sciiti hanno sempre avuto una funzione sia politica che religiosa.
All’interno di queste due correnti, vi è poi un ampio spettro di
dottrine, opinioni e scuole di pensiero. Più dell’85% del miliardo
e mezzo di musulmani del mondo sono sunniti. In Iraq, Bahrein e
soprattutto in Iran c’è una maggioranza sciita. La famiglia reale
saudita, invece, ha adottato il wahabismo, una forma radicale e
austera di islam sunnita: nato a metà del’700, sostiene il ritorno
alla purezza della fede predicata da Maometto, individuando in
Corano e Sunna le uniche fonti di ispirazione per i fedeli. Riad
controlla però i luoghi sacri per tutto l’Islam, a Medina e La
Mecca, dove ogni buon musulmano dovrebbe svolgere il pellegrinaggio almeno una volta nella vita; un motivo di prestigio e di
entrate per l’Arabia Saudita, ma anche fonte di tensioni, come
quando nel settembre scorso in occasione dell’Hajj, il pellegrinaggio annuale, oltre 700 persone sono morte e ancor più sono quelle rimaste ferite nella calca: le autorità iraniane hanno considerato la strage un crimine del governo di Riad, accusando i sauditi di
aver bloccato una strada percorsa dai pellegrini per permettere il
passaggio di un convoglio reale.
Le tensioni tra i due paesi non sono dunque una novità, ma sono
ataviche e lo scontro è rimasto più o meno latente in questi anni.
Già recentemente, infatti, Iran e Arabia Saudita hanno iniziato a
combattersi “per procura” altrove: in Siria, con Teheran che
appoggia Assad, sciita alawita; in Yemen, dove da marzo 2015 è in
corso una campagna militare saudita contro i ribelli sciiti Houthi
alleati dell’Iran; in Iraq, ma anche in altri focolai (Libano, Bahrein).
Nella stessa Arabia Saudita c’è almeno un 5% di popolazione sciita: a fronte delle nuove sfide, un capro espiatorio interno molto
appetibile per compattare attorno alla famiglia regnante il resto
della popolazione.
Questo intreccio di elementi resta difficile da sciogliere, mentre le
altre crisi locali non si arrestano e altri attori sono destinati a entrare in gioco, anche a livello globale.
DANIELE TOSCANO
Nella foto in alto: manifestanti iraniani bruciano bandiere degli Stati
Uniti e israeliane davanti all'ambasciata saudita a Teheran
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GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776
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Le idee politiche e xenofobe di Donald Trump, candidato
repubblicano alle presidenziali, sono più estremiste
di quelle del Front National di Marine Le Pen
N
EW YORK – In una delle corse
presidenziali più affollate per il
partito repubblicano (17 candidati ufficiali, 14 tuttora in gara)
il controverso tycoon newyorchese Donald Trump resta saldamente in testa col
41% dei consensi nell’ultimo sondaggio
su scala nazionale.
Smentendo le previsioni delle più autorevoli Cassandre, Trump continua la sua
inarrestabile scalata alla vigilia delle primarie che a partire dal prossimo 1 febbraio e fino al 7 giugno dovranno nominare il
candidato repubblicano che con tutta probabilità sfiderà la democratica Hillary
Clinton alle elezioni presidenziali del
prossimo 8 novembre.
Persino Nate Silver, l’infallibile genio statistico (ebreo) che nel 2012 indovinò il risultato delle elezioni in tutti e 50 gli stati
americani, scrive già che il miliardario
americano xenofobo e razzista “potrebbe
ottenere l’agognata nomination” (l’estate
scorsa Silver era convinto del contrario).
Oltre a spostare l’agenda del partito repubblicano verso posizioni considerate
più estremiste persino di quelle del Front
National di Marine Le Pen, Trump è riuscito ad offendere un po’ tutti: donne,
neri, ispanici, ebrei, musulmani, portatori
di handicap.
Mentre i media americani scomodano
Umberto Eco per dimostrare che il celebre
palazzinaro è “un fascista alla Benito
Mussolini”, il mondo ebraico americano –
storicamente vicino al partito democratico - è corso ai ripari per arginare una valanga populista che gli storici paragonano
a quella scatenata negli anni ‘30 da Huey
Long e Father Charles Coughlin (rispettivamente 40° governatore della Louisiana
e prete cattolico/star radiofonica): i due
demagoghi che durante la Grande Depressione cercarono, invano, di importare
il Fascismo alla Casa Bianca (Long fu assassinato nel ’35).
Quando Trump ha promesso, se eletto, di
sbarrare la porta ai profughi siriani in fuga dai massacri di Isis e Assad, oltre 1000
rabbini americani hanno lanciato un appello sul sito Web della autorevole Hias
(Hebrew Immigrant Aid Society) chiedendo all’America di non cadere nella stessa
trappola che nel 1939 indusse il Paese di
Roosevelt a respingere il transatlantici
MS St. Louis carico di profughi ebrei, molti dei quali perirono nei lager nazisti. “In
qualità di rabbini, prendiamo molto sul
serio il mandato biblico di ospitare lo straniero”, recita il loro documento che chiede ai politici di “rispettare la grande eredità di un paese che accoglie i rifugiati”.
All’indomani della strage di San Bernardino, dove Syed Rizwan Farook e la moglie
Tashfeen Malik hanno provocato la morte
di 14 persone e il ferimento di altre 23 in
un centro per disabili, Trump ha proposto
di vietare l’ingresso negli Stati Uniti a
tutti i musulmani, nonostante le statistiche dell’FBI secondo cui il 94% degli attacchi terroristici in suolo Usa non è di
matrice jihadista.
La proposta, definita anticostituzionale
persino dal falco ultraconservatore Dick
Cheney, ha provocato l’ira di tutte le organizzazioni ebraiche, a destra e sinistra.
“In quanto ebrei troppo spesso perseguitati a causa della nostra fede, non possiamo accettare l’intolleranza religiosa”, ha
puntato il dito il rabbino Jonah Dov Pesner, direttore del Religious Action Center of Reform Judaism. “La discriminazione di un gruppo su basi religiose è sbagliata e contraria alla grande tradizione di
libertà religiose e personali su cui è stato
fondato questo paese”, gli ha fatto eco
Allen Fagin, vice presidente dell’Unione
dei rabbini ortodossi.
L’autorevole quotidiano ebraico Jewish
Forward fa notare come le vittime dell’estrema destra e della criminalità comune
– 300mila nell’ultimo decennio – superino
di gran lunga quelle del terrorismo islamico (una quarantina, in un paese, l’America, dove la comunità islamica è tra le più
integrate al mondo). Ma invece di promuovere il controllo delle armi, come il
presidente Obama e i democratici auspicano ad ogni strage scolastica, Trump
preferisce cavalcare la paura del terrorismo islamico che secondo i sondaggi ha
raggiunto livelli post 11 settembre.
Intanto anche Benjamin Netanyahu – da
sempre vicino al partito repubblicano - si
è scagliato contro Trump dopo che dozzine di politici israeliani hanno condannato
il bando anti-Islam di Trump. “Israele rispetta tutte le religioni e difende rigorosamente i diritti di tutti suoi cittadini”, ha
dichiarato il premier, attento a non offendere gli israeliani di origine araba, circa
un quinto della popolazione. Alcune ore
più tardi Trump ha usato Twitter per annullare la sua visita ufficiale in Israele
prevista per il 28 dicembre: “Mi recherò
nello stato ebraico da presidente”, ha tagliato corto.
Ma a dargli una mano ad insediarsi alla
Casa Bianca non sarà di certo il mondo
ebraico.
Gli ebrei repubblicani si sono schierati in
massa per i suoi rivali Jeb Bush e Marco
Rubio dopo la catastrofica serata organizzata dalla Republican Jewish Coalition
durante la quale Trump si è abbandonato
ai più odiosi stereotipi antisemiti sugli
ebrei clan attaccato ai soldi ed è stato fischiato quando si è rifiutato di caldeggiare Gerusalemme come la capitale indivisibile dello Stato Ebraico.
ALESSANDRA FARKAS
@afarkasny
ASSOCIAZIONE
D.A.N.I.E.L.A
DI CASTRO
AMICI MUSEO EBRAICO DI ROMA
L’“Associazione Daniela Di Castro
Amici del Museo Ebraico di Roma”
è nata per aiutare il Museo Ebraico
di Roma nella tutela, conservazione,
promozione, diffusione e sviluppo
della ricchezza del suo patrimonio.
PER INFORMAZIONI E PER ISCRIZIONI:
www.associazionedanieladicastro.org
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Tel. 334 8265285
GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776
La Casa Bianca rischia
di diventare nera
19
PENSIERO
"Il Califfo e l’Ayatollah"
una guida per capire
Il libro di Fiamma Nirenstein spiega
chiaramente qual è la minaccia
dell'Islam: dominare il mondo
N
GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776
on è facile per il lettore italiano districarsi nel caos
della (dis)informazione sul terrorismo islamico che sta
sconvolgendo il mondo e il Medio Oriente in particolare. Con poche eccezioni, fra i pochi esperti 'veri', rimasti illesi dal virus del politicamente corretto, spicca Fiamma
Nirenstein, il cui ultimo libro "Il Califfo e l'Ayatollah", pubblicato
da Mondadori, è una guida indispensabile innanzi tutto per
conoscere quanto sta accadendo, da cui discende il capire.
A Fiamma non fa difetto il coraggio, nessuno può rimproverarle
quella 'cautela' che invece è la causa dell'incomprensione di
quanto avviene nel mondo arabo-musulmano. Chiamare le cose
con il loro nome è l'unico modo per affrontare il caos che caratterizza da 1.400 anni l'Islam. Di cui la guerra sunniti-sciiti è diventato oggi un aspetto secondario, anche se
viene sempre citata nel tentativo di evitare
temi 'delicati', che obbligherebbero, se affrontati nel nome della verità storica, all'uso di
parole oggi 'proibite', quali Islam, religione,
civiltà, invasione, tutte regolarmente escluse
nella maggior parte delle analisi che impediscono di cogliere nella sua globalità il vero
problema: la volontà dell'Islam di dominare il
mondo. Un progetto che viene taciuto in Occidente, mentre, paradossalmente, viene proclamato apertamente dagli stessi terroristi islamici. Fiamma, senza i paraocchi della sottomissione che si è impossessata dell'Occidente,
sfata tutte le illusioni di coloro che assolvono
l'ideologia islamista, racconta con citazioni
inoppugnabili, come la guerra che ci sta colpendo abbia le radici
nelle stretta parentela tra Islam e società, Islam e stato, quanto
sia un errore mortale unire l'Islam alle altre religioni monoteiste.
Il terrorismo islamico ha le sue radici, anche se con dinamiche
differenti, in Iran come in Turchia, in Arabia Saudita come nello
Stato Islamico. L'obiettivo comune è la dominazione del mondo
20
democratico-occidentale da parte di un Islam unificato in un
unico potere statuale. Per raggiungerlo, devono essere eliminati
fisicamente non solo gli 'infedeli', ma anche quei musulmani che
rifiutano di sottomettersi. Questo spiega l'altissimo numero di
vittime fra le popolazioni islamiche nelle guerre civili.
Fiamma affronta poi tutti gli errori delle potenze occidentali, dalla resa di fronte a un Iran
che possiederà l'arma nucleare entro pochi
anni, alle rivalità fra i paesi islamici in lotta fra
loro per imporsi alla guida egemone del Medio
Oriente. La scomparsa dell'America quale
super potenza democratica, baluardo delle
libertà civili, che sotto l'Amministrazione Obama ha abbandonato il suo ruolo tradizionale
per sostenere, ad esempio, la Fratellanza
Musulmana, è un altro aspetto che il libro di
Fiamma contribuisce a spiegare. Di qui il
declino dell'Occidente e, di fatto, l'abbandono
di Israele. Dopo averlo letto non ci accontenteremo più dei cosiddetti esperti che non la contano giusta,
nascondendosi dietro sigle anonime come Isis, e non aiutano a
capire la mentalità guerriera dell'islam. Per uscire dall'acquiescenza il libro di Fiamma è la guida perfetta.
ANGELO PEZZANA
Nella foto in alto: attentato alla moschea di Sana'a nello Yemen
Amicizie virtuali con scambi
di informazioni personali che possono
essere un pericolo per la nostra sicurezza
U
na premessa: visto che questo numero del giornale
sarà ampiamente dedicato alla visita del Papa in Sinagoga, io non mi cimenterò con questo tema. L’argomento che voglio trattare a mio avviso ha molto a che
vedere con la misericordia, la cui definizione per la Treccani è:
“Sentimento di compassione per l’infelicità altrui, che spinge ad
agire per alleviarla; anche, sentimento di pietà che muove a soccorrere, a perdonare, a desistere da
una punizione”.
In questi giorni mi è capitato, come
credo capiti a molte persone nel
mondo dei social network, di venire
tempestata di richieste di amicizia,
delle più variegate provenienze. In
alcuni giorni sembra che l’intero
drappello delle forze armate americane abbia deciso di eleggermi
novella Marilyn dei poveri pingui
sessantenni, prossimi alla pensione, in cerca di una badante anziana, con cui condividere l’acquisto
dei pannoloni.
Altre volte mi è successa l’invasione delle richieste di arabi, filosemiti, i cui profili avrebbero fatto impallidire le truppe delle SS.
Ma la cosa più singolare accade in questi giorni, uno stormo di
single con figlio unico, rigorosamente maschio, si abbatte nelle
mie richieste di amicizia. Tutti risiedono nel Sud della Francia, in
ridenti città di mare e il più povero pilota un tre alberi dedicato
ad una moglie, quasi sempre defunta o scappata lasciando il
figlio in tenera età. I dettagli sono imbarazzanti, il cappello del
capitano di breve corso, troppo stretto, assenza di riferimenti
temporali, tutte cose che noi bulimici di serie tv in streaming,
afferriamo a prima vista.
Alzi la mano chi non si sente detective in grado di sbrogliare le
matasse più intricate, chi non è caduto a cercare in quelle foto
tracce di vita vagamente reale se non verosimile.
Dunque, il tema è: la misericordia si applica anche a questi milioni di vedovi oppure ci possiamo aspettare che i maghi di Zuckerberg riescano ad applicare il concetto di misericordia al tenacissimo e intricato interscambio dei nostri dati personali? Infatti
questi inviti di massa altro non sono che il frutto ultimo dell’analisi degli algoritmi delle nostre ricerche su Google, per cui provo
compassione per chi pensa di essere al riparo da danni simili,
semplicemente non esistendo su Facebook.
Nessuno è al riparo da niente, da quando la rete è diventata così
pervasiva, ma la cosa inquietante è che spesso non ci rendiamo
conto di come spieghiamo tutti i nostri movimenti semplicemente attivando uno smartphone o aprendo un dispositivo Apple.
La maggior parte di noi è arrivata a minimizzare l’effetto che
questi moltiplicatori di relazioni virtuali producono, catalogandole come collezioni di emozioni. Una donna piacente e non stupida
che dice ad un uomo che lo trova
interessante, lo gratifica e immediatamente parte la molla compulsiva che non porta a valutare dati
che eravamo consueti a rilevare. Lo
stesso vale a sesso variato, senza
alcuna forma di discriminazione.
La foto sarà vera? Quello che si
scrive in una chat su Skype, ha
alcuna connessione con il mondo
dei sentimenti? Non oso pronunciarmi su ciò che accade nel mondo
dei siti dedicati di vario ordine e
grado e non è il mio un intento
demonizzante di alcun tipo.
Ciascuno deve poter fare ciò che
ritiene opportuno, solo che noi
viviamo in tempi particolari e io mi
sento di dover porre il tema in un giornale che si chiama Shalom,
perché i terroristi hanno le loro fila, sanno come tessere una rete
di informazioni ricavabile dai social, Instagram, Facebook, Linkedin, etc. E mentre noi siamo in una chat senza sapere chi c’è
dall’altra parte, sicuramente forniamo informazioni che non
siamo coscienti di dare.
Quindi mi sento di poter chiedere a Mr. Zuckerberg un Giubileo
di Misericordia per i dati di tutti coloro che hanno contribuito a
creare la ricchezza che lui ha annunciato di voler regalare alla
nascita della figlia. Bimba che viene già utilizzata dal padre per
implementare gli algoritmi delle casse di famiglia.
CLELIA PIPERNO
Contatti: Yael Ilmer Giron 349 251 6993 I [email protected] I www.masaitalia.org
Masa Israele è un progetto del governo Israeliano e dell'Agenzia Ebraica ed è reso possibile grazie al generoso contributo del Keren Hayesod
GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776
La misericordia al tempo
di Internet
21
FOCUS
Giorno della Memoria:
per non sminuirne il senso
Il 27 gennaio per ricordare che l’antisemitismo
non è stato un evento solo del passato,
ma segna anche il presente
GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776
C
22
ome ogni anno dal 2000 quando
è stata istituita, il 27 gennaio
ricorre il Giorno della Memoria;
e ogni anno chi ragiona sulla
posizione dell’ebraismo nel mondo
contemporaneo non può fare a meno di
interrogarsi sull’attualità e sul senso di
questa data, che è civile, stabilita da una
legge dello Stato e non fa parte della
tradizione religiosa ebraica. La risposta a
tale questione è variata nel tempo, fra il
momento iniziale in cui sembrava evidente
che il Giorno della Memoria soddisfacesse
da sé la necessità di trasmettere il ricordo
dei sopravvissuti e di fare entrare nella
coscienza nazionale ed europea l’enormità
del genocidio, fino a momenti più recenti
in cui è prevalso il dubbio su un controeffetto da accumulo e da eccesso di
retorica. Ma forse il problema non va posto
in questi termini, la legge nazionale e le
delibere europee esistono, il Giorno della
Memoria è entrata nelle abitudini civili del
nostro paese con centinaia di
manifestazioni, anche dove gli ebrei non
hanno mai vissuto, e poi con interventi sui
giornali, film, trasmissioni televisive. Non
si tratta dunque di discutere sulla sua
utilità, come se fosse ancora da decidere,
ma di lavorare perché essa mantenga il
suo senso e non si snaturi.
Due punti mi sembrano importanti per
questo compito, ed entrambi si oppongono
alla banalizzazione della memoria e
dunque della Shoà. Il primo riguarda la
specificità di questa memoria. Sempre più
spesso negli ultimi anni si è sentito dire
che non bisogna ricordare solo la Shoà, ma
anche gli altri genocidi (da quello degli
armeni ai Tutsi, fino agli indiani
d’America) e più in generale la violenza
umana. Ignoriamo qui la degenerazione
totale di chi vuole volgere il ricordo della
Shoà contro il popolo ebraico, inventando
un “genocidio palestinese” che non c’è
stato, come mostrano chiaramente i fatti
demografici, oltre a quelli storici e politici:
è una provocazione da respingere, anche
se purtroppo molto diffusa: in Svezia e in
Irlanda i comitati organizzatori di giornate
analoghe (per esempio tenute in occasione
della Notte dei cristalli) hanno tentato di
escluderne la comunità ebraica, perché in
qualche modo “complice” del “genocidio”
di Gaza, col risultato di celebrare le stragi
contro gli ebrei in nome di chi vorrebbe
compierne altre analoghe!
Ma anche dove i genocidi vi sono stati e
gli ebrei si sono trovati in prima fila a
denunciarli, come nel caso armeno, vi sono
differenze da fare. Non nel senso della
gravità, perché è chiaro che si tratta
sempre di crimini senza misura, né sul
piano della premeditazione e della
dimensione; questi genocidi vanno
ricordati e denunciati senza tregua, ma
non bisogna confondere le memorie, come
non bisogno confondere i lutti. Soprattutto
bisogna sapere che il genocidio armeno è
responsabilità della Turchia, che ancora
non lo riconosce, mentre la Shoà è una
colpa specifica dell’Europa che ne celebra
la memoria (non certo della sola Germania,
ma anche dei molti “volonterosi carnefici”
lituani e ucraini e francesi e olandesi e
ungheresi... e italiani) e che proprio
l’Europa corre di nuovo il rischio concreto
di rimuovere la sua responsabilità
collettiva verso il popolo ebraico, di
pensare che si sia trattato di cosa altrui,
lontana, in qualche modo “metafisica”.
Contro questo rischio il Giorno della
Memoria dovrebbe essere un antidoto.
Diluire il suo senso a tutta la trama di
violenza che senza dubbio si ritrova
largamente nella storia umana
equivarrebbe a cercare scuse per un furto
che si fosse commesso dicendo “tanto tutti
rubano”.
Per la stessa ragione fondamentale mi
sembra importante un secondo punto.
Il Giorno della Memoria ricorda l’arrivo
delle truppe russe ad Auschwitz e la
liberazione del campo. Come sappiamo
bene le persecuzioni dei deportati non
finirono quel giorno, ma una ricorrenza va
fissata in una data simbolica e questa ha
certamente senso. Vi è però un doppio
rischio di miopia, cioè in primo luogo di
fissarsi solo sulla spaventosa macchina
della morte che i nazisti allestirono intorno
ad Auschwitz, ignorando le decine di altri
campi di sterminio grandi e piccoli diffusi
per l’Europa, compresa la Risiera di Trieste
in territorio italiano, e anche dimenticando
che una parte consistente dello sterminio
avvenne direttamente nei luoghi in cui si
trovavano gli ebrei, per mano della
Wehrmacht e dei suoi Einsatzkommando,
senza passare per la deportazione, come
accadde per esempio a Babi Yar vicino a
Kiev, in cui tedeschi e ucraini
massacrarono quasi 34 mila ebrei tra il 29
e il 30 settembre 1941.
L’altra possibile miopia consiste nel
soffermarsi solamente sulla fase finale
dello sterminio,
ignorando le sue
radici, la costruzione
del consenso che era
necessario per un
genocidio così
enorme e diffuso.
Questo lavoro fu
iniziato dai nazisti
già prima di arrivare
al potere e culminò
nelle leggi di
Norimberga
(15.9.1935) e nella
Notte dei cristalli
(10.11.1938). In Italia
è a partire dal 1938
che il fascismo attivò la sua campagna
razzista, prima ancora di tradurla in leggi.
Ma questi atti non sarebbero stati possibili
senza una larga complicità del mondo
intellettuale, giornalistico, giuridico ma
anche religioso. Nomi celebri come in
Germania quelli di Martin Heidegger e
Carl Schmitt, in Italia quello di tutti gli
accademici e gli intellettuali che aderirono
al Manifesto della razza (fra gli altri
Giorgio Almirante, Giorgio Bocca,
Amintore Fanfani, Agostino Gemelli,
Giovanni Gentile, Luigi Gedda, Giovannino
Guareschi, Mario Missiroli, Romolo Murri,
Giovanni Papini, Ardengo Soffici, Giuseppe
Tucci) portano pesantissime responsabilità
nel preparare il clima che ha portato alla
Il labirinto del silenzio: un film
sulla vergogna e la giustizia
U
Shoà, al di là delle loro diverse posizioni
successive. Allo stesso modo vi è una
responsabilità della Chiesa per la sua
campagna millenaria contro il popolo
ebraico, a partire dai Vangeli e dai Padri
della Chiesa, che si intensificò con le
Crociate e non cessò affatto con l’inizio
della modernità, ma anzi porto ai ghetti
e alle interdizioni legali che a Roma
durarono fino al 1870 e altrove anche di
più. David Kertzner, fra gli altri, ha
documentato coi suoi libri non solo che
la campagna antiebraica della stampa
cattolica (anche la più autorevole, come
“Civiltà cattolica” durò dagli inizi
dell’Ottocento ben oltre la fine dei regimi
nazisfascisti, ma anche che essa ispirò
concretamente l’atteggiamento politico
del Vaticano in episodi chiave di questa
preparazione come l’emanazione
delle leggi razziste da parte
dello Stato Italiano.
Non si tratta naturalmente di usare il
Giorno della Memoria per intestare
processi a nessuno; ma bisogna far
capire che la Shoà non fu il frutto né
della “follia” di un dittatore e neppure di
semplice criminalità; ma fu il frutto più
terribile di una caratteristica (l’odio
antiebraico) che purtroppo fa parte di
quelle su cui si è costruita l’identità
europea. La ritroviamo nella Magna
Charta e nella teologia luterana, negli
scritti di filosofi laici come Voltaire e
Kant come di grandi artisti
(Shakespeare, Wagner e molti altri), nelle
leggi degli stati e nei comportamenti di
comunità intere. E la ritroviamo anche
oggi in azione contro Israele, “l’ebreo
degli stati”, che è diventato l’oggetto di
un odio assolutamente irrazionale e
senza giustificazioni da parte di buona
parte del ceto intellettuale e politico
occidentale, vero capro espiatorio
su cui si scaricano i pretesi peccati
dell’Occidente.
Se il 27 gennaio riuscirà, almeno in
parte, a comunicare queste profonde
radici della Shoà e non si perderà in
generici moralismo sul male diffuso in
tutte le civiltà e in tutti i tempi, allora
non sarà inutile.
UGO VOLLI
scirà in occasione della Giornata
della Memoria, Il labirinto del
silenzio film candidato dalla
Germania a rappresentarla agli
Oscar 2016. Un’opera di cui tutti
sentivamo il bisogno: un film tedesco non
sulla Shoah, ma sulla sua dolorosa
“scoperta” nella Germania civile e postbellica dove tutti volevano dimenticare e
mettere sei milioni di morti ebrei, per non
parlare di zingari, omosessuali e dissidenti
politici sotto il “tappeto della Storia”.
La complessa avventura del procuratore
Johann Radmann diventa, dunque, un
racconto di vergogna e di giustizia, di
determinazione e di rabbia nei confronti di
chi aveva costruito il ‘labirinto di bugie’ in
grado di inghiottire e di far dimenticare il
più grande crimine del Ventesimo Secolo
compiuto contro l’umanità.
Scritto e diretto dallo sconosciuto (nel
nostro paese…) regista ed attore italiano,
molto attivo in Germania, Giulio Ricciarelli,
il film sintetizza in un unico racconto
diverse figure di magistrati e investigatori
tedeschi che tredici anni dopo la fine della
Seconda Guerra Mondiale e la caduta di
Adolf Hitler si scontrarono contro il
sentimento pubblico della popolazione
secondo cui le voci riguardanti la Shoah
erano solo ‘propaganda dei vincitori’.
“Non potevo crederci.” Spiega Ricciarelli:
“Ho fatto questo film, perché mi sembrava
impossibile che all’epoca nessuno o quasi
sapesse cosa fosse un posto chiamato
Auschwitz.”
Il labirinto del silenzio è distribuito nel
nostro paese dalla Good Films guidata da
Ginevra Elkann e Francesco Melzi d’Eril:
ambientato a Francoforte nel 1958, in
piena ricostruzione e boom economico, ha
al suo centro un giovane giudice venuto in
possesso dei documenti che dimostrano la
responsabilità di molti tedeschi nei fatti di
Auschwitz. La ricerca della verità non è
facile e per molti è un problema, ma non
solo per questioni etiche o di vergogna. Il
film è l’esplorazione di un dramma
generazionale, che un critico americano
ha giustamente definito come
“il dissotterramento dell’ascia di guerra”
tra le diverse generazioni tedesche. Anche
il protagonista subirà una crisi personale
vista la potenza e l’orrore della sua
importantissima scoperta cui,
narrativamente, sono collegati anche lo
sfortunato inseguimento di Josef Mengele
in Sud America e l’arresto da parte del
Mossad di Eichmann.
Al di là delle concessioni commerciali al
cinema di genere, il grande merito del film
è avere affrontato direttamente un tema
altrimenti dimenticato dal cinema
popolare ed esplorato soltanto nella
traccia dei grandi autori della
cinematografia tedesca da
Margarethe Von Trotta a Edgar
Reitz. “Questo non è un film solo
sul silenzio o sulla rimozione della
memoria” avverte ancora
Ricciarelli: “E’ la storia di un
tentativo programmato per
nascondere le malefatte del Reich e
proteggere i colpevoli.” Ed è
questo, forse, ciò che rende questa
storia particolarmente interessante ed
importante, perché riflette su una
Germania in rinascita in cui, i gruppi
dirigenti, sono composti da ardenti nazisti
scampati ad ogni forma di giudizio: da
quello dello Stato a quello della Storia.
E’ un film sull’etica e sulla morale
dimenticata di una società che vuole
guardare avanti per rinascere e dove,
oggi, mezzo secolo più tardi è un’altra
pellicola - tratta da “Lui è tornato”
romanzo sul successo dell’Hitler
misteriosamente redivivo nella Germania
del XXI secolo - ad avere fortuna ed
incontrare il pubblico. Interpretato da
Alexander Fehling già visto in Goethe! e
nella serie Homeland, il procuratore
Radmann non è, dunque, solo un uomo
alla ricerca della verità, bensì un tedesco
che se ne infischia della presunta
‘riconciliazione nazionale’ se questa deve
avvenire al prezzo della vergogna e della
complicità con spietati criminali. La sua
determinazione, però, lo costringerà a
confrontarsi anche con se stesso e a
scoprire la terribile verità che coinvolge
direttamente lui e la sua famiglia. Eventi
personali e collettivi che hanno guidato la
Germania ai processi di Francoforte del
1963, quando centinaia di ‘lavoratori’ di
Auschwitz furono processati
per le loro attività.
MARCO SPAGNOLI
GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776
È il racconto della ‘scoperta’ della Shoah,
nella Germania post bellica
23
STORIA
Gli ebrei di Libia
tra memoria e storia
“850 mila profughi ebrei dal mondo arabo
hanno dovuto vivere l’esilio più amaro come
se appartenesse loro soltanto”
N
GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776
ella memoria degli ebrei di Tripoli, il pogrom del ’45, fu
vissuto come un tradimento delle autorità britanniche.
L’intervento dopo tre giorni, quando il peggio era accaduto e la folla pogromista era stata respinta alle porte del
quartiere ebraico della città, non poteva essere un
caso. Ben altra sarebbe stata la reazione delle truppe
britanniche, se a essere colpiti fossero stati i soldati
britannici. I notabili della comunità, angosciati per
quel che stava accadendo, avevano ripetutamente
sollecitato l’intervento in forze delle autorità per por
fine ai massacri. Inoltre i soldati della futura Brigata
ebraica, che in seguito sarebbero sbarcati in Italia,
avevano ricevuto l’ordine di non uscire dalle caserme.
Il pregiudizio antiebraico diffuso tra molti ufficiali e
soldati britannici, unito all’ostilità esplicita dei red
fez, poteva spiegare solo in parte il problema. La
risposta che s’impose per molti dirigenti ebrei, era
che gli inglesi avessero fatto cinicamente ricorso a una politica di
divide et impera. Poiché la Libia aspirava all’indipendenza, il modo
migliore per ritardarla, era dimostrare che il paese non era maturo.
Che a farne le spese fossero gli ebrei, poco importava, tanto più che
agli occhi dei britannici, le rivendicazioni nazionali dell’Yshuv
rischiavano di mettere a repentaglio l’intero loro sistema di dominio
nella regione. Il guaio è che l’argomentazione guardava al problema
con occhi puramente “occidentali”, che aveva come riferimento
una “razionalità politica strumentale”. Pensare che il pogrom fosse
una conseguenza diretta delle macchinazioni britanniche nel Vicino
Oriente e a quanto vi accadeva, impediva in realtà di cogliere la
profondità dell’ostilità che si era accumulata lungo l’arco di due
secoli nella società araba nei confronti delle aspirazioni ebraiche
all’uguaglianza e alla libertà.
Non essendo maturati dall’interno della società che nell’arco di un
secolo aveva visto tre successive dominazioni straniere, di cui due
24
europee, i cambiamenti intervenuti nello statuto degli ebrei rispetto alla maggioranza islamica, erano visti con ostilità crescente, e
considerati come l’esito di un complotto finalizzato ad assoggettare
la società islamica al mondo occidentale. L’idea che gli ebrei fossero
sfuggiti grazie a questi cambiamenti storici alla condizione d’inferiorità giuridica e teologica per loro prevista nell’assetto tradizionale della società islamica, li trasformava, loro malgrado, in un capro
espiatorio ideale per tutti i mali della società. In questa logica perversa l’aspirazione ebraica alla libertà diventava la “colpa” più
grave. L’odio contro la dominazione straniera, si saldava con l’odio
contro gli ebrei e contro la democrazia. In questa luce la fuga in
massa degli ebrei dal mondo arabo appare come l’espressione violenta del rifiuto dell’idea stessa che gli ebrei potessero vivere da
liberi e uguali nelle società che sarebbero nate dalla
fine del dominio coloniale. Non volendo accettare gli
ebrei come uguali, la società araba li espelleva dal
suo interno.
Chiamati ad attingere nel profondo della loro resilienza per non andare a pezzi, 850 mila profughi ebrei dal
mondo arabo hanno dovuto vivere l’esilio più amaro
come se appartenesse loro soltanto. In un impeto di
orgoglio e di vitalità hanno saputo cantare la perdita
di un intero mondo come fosse un grande riscatto. La
vita nelle baracche e nelle tende, come un grande
miracolo. Con la Torah in mano gli ebrei dello Yemen,
dopo avere attraversato a piedi il deserto, salirono
sugli aerei come fossero le aquile cantate dai profeti. Nelle navi che
salpavano da Tripoli, si rinnovava il miracolo dell’esodo. Intonando
la “Cantica del Mare”, si rendeva il futuro meno incerto, e il mare
amico. La vita dura nelle periferie parigine come l’inizio di un nuovo
mondo, sino a quando i figli di coloro che li avevano perseguitati,
non hanno cominciato a rendere loro la vita impossibile nelle periferie in cui avevano creduto di trovare un rifugio, lasciandosi dietro
per sempre i ricordi di un passato doloroso. Uno sforzo di sublimazione unico, figlio di una grande visione del mondo, che ha permesso di sognare e immaginare un futuro diverso e migliore, che è
stato purtroppo reso più difficile per il ritardo con cui la classe
politica israeliana e le leadership della diaspora hanno preso
coscienza di un problema che non era solo umanitario, ma anche
politico e culturale. Una risposta unica contro i luoghi comuni che
avvolgono il dibattito politico sul vicino oriente.
DAVID MEGHNAGI
Una giornata di studi per ricordare la cacciata
degli ebrei dai Paesi arabi. Un dramma
che coinvolse centinaia di migliaia di persone
L
a vicenda dei Mizrahim è stata spesso ignorata, ma costituisce una storia lunga secoli, che si è interrotta quasi
definitivamente nei decenni successivi alla nascita dello Stato di
Israele. Si tratta di coloro che vivevano e
che sono stati cacciati dai Paesi arabi,
dall’Iran e dalla Turchia.
Per ricordare questo esodo, la Knesset, il
Parlamento di Gerusalemme, ha stabilito
nel 30 novembre il giorno ufficiale del
ricordo della fuga di queste comunità.
Anche Roma partecipa regolarmente alle
celebrazioni, quest’anno con un’iniziativa
tenutasi nella biblioteca dell’Università
degli studi Link Campus University.
L’Ambasciatore d’Israele Naor Gilon ha
ricordato il rilievo di questa componente
nell’attuale popolazione israeliana. Il Consigliere UCEI Victor
Magiar ha proposto una ricostruzione storica: in alcuni di questi
Paesi, ha ricordato, la presenza ebraica risaliva addirittura al 400
a.e.v.; la fine dell’Impero Ottomano all’indomani della Prima Guerra
Mondiale e l’inizio della decolonizzazione portarono però all’affermazione delle ideologie del nazionalismo panarabo e dell’islamismo
fondamentalista, avverse al multiculturalismo consolidatosi nei
secoli precedenti.
Lo storico Alberto Melloni ha individuato l’assenza di studi storiografici sugli atteggiamenti delle chiese dei Paesi arabi in quegli
anni: erano piccole entità ma ben radicate sul territorio; non molti
Quei profughi dimenticati
Alla storia dell’esodo degli ebrei
dai Paesi arabi è dedicata una mostra
al Museo Ebraico
M
artedì 1 Dicembre alle 18 è stata inaugurata la mostra “Profughi ebrei dai paesi arabi” presso il Museo
Ebraico di Roma. L’iniziativa, organizzata dall’ambasciata d’Israele in Italia, è mirata
a diffondere la conoscenza di una vicenda a
volte dimenticata dalla storia contemporanea:
l’esodo forzato di circa ottocentocinquanta
mila ebrei degli Stati arabi del Medio Oriente e
del Nord Africa dovuto alle persecuzioni e i pogrom scatenati dalla dichiarazione d’indipendenza dello Stato d’Israele. Grazie ad alcune
grafiche è possibile ripercorrere l’esperienza
degli ebrei nelle terre dell’Islam, una presenza
antecedente all’avvento della religione del Corano, analizzando il loro rapporto con la religione, le iniziative sportive, la cultura tradizionale
e gli incarichi che solitamente ricoprivano nella
vita economica del paese fino ad arrivare alle
discriminazioni e alle espulsioni arrivate dopo
il 1948. Successivamente l’esposizione si sofferma sul successo dell’integrazione di questi
rifugiati in Israele, sul loro status internaziona-
furono i tentativi di cambiare le sorti imposte agli ebrei, con l’unica
eccezione del Libano, ultimo tentativo di costruzione multiculturale. Il giornalista Fabio Nicolucci ha poi rilevato nell’assenza del
tema dei mizrahim nella sinistra europea uno degli elementi che ha
causato una mancanza di analisi specifica dell’identità israeliana.
Ospite d’onore è stato però Haim Saadoun, decano della Open University e membro del Ben Tzvi Institute di Gerusalemme. Questi ha
illustrato il fenomeno attraverso una serie di dati e di storie eloquenti per comprenderne la vastità e la drammaticità: degli oltre
983mila ebrei presenti nel mondo arabo e in Asia Minore nel 1948,
nel 1996 ne restavano meno di 50mila, concentrati soprattutto in
Iran e Turchia, mentre in alcune aree
erano totalmente scomparsi. Le immagini mostrate al pubblico hanno rivelato la
complessa organizzazione attuata dall’Agenzia ebraica per favorire questi spostamenti: non solo grandi navi pronte ad
accogliere i profughi, ma anche un trattamento medico prima della partenza abbinato alla distribuzione di cibo e di altri
generi di prima necessità.
Perché queste migrazioni? Saadoun ha
individuato diverse cause: la nuova
situazione politica, caratterizzata dalla
decolonizzazione, intrecciata agli effetti del conflitto arabo-israeliano sul Terzo Mondo, era sicuramente la ragione principale; ad essa si
univa l’attrazione per la realizzazione del sogno sionista nella
Terra d’Israele e le prospettive di crescita socio-economica che il
nuovo stato offriva. In alcuni casi furono le violente persecuzioni
a costringere gli ebrei ad abbandonare i loro Paesi d’origine,
come il pogrom di Oujda in Marocco nel 1948 o le vessazioni
perpetrate in Libia in diversi periodi.
Oggi i fiorenti quartieri ebraici del passato non esistono più. Restano solo piccole comunità concentrate perlopiù in Marocco, Tunisia,
Turchia, Iran e Yemen.
DANIELE TOSCANO
le e sulla possibilità di ottenere un risarcimento per i danni subiti.
Oltre ad alcune testimonianze dirette di ebrei libici e iracheni, la
mostra si serve di molte immagini e oggetti quotidiani provenienti dalla Libia, paese in cui la comunità ebraica è stata costretta
all’esilio intorno al 1967 e che in larga parte ha trovato rifugio proprio qui in Italia. E’ intervenuta all’inaugurazione Ruth Dureghello, Presidente della Comunità Ebraica di Roma, che ha parlato di
numeri sconcertanti e ha ricordato come la presenza ebraica nelle
sue diverse forme sia una ricchezza per le nazioni, una ricchezza
in questo caso persa per colpa dell’odio e della violenza. Presenti
anche il Rabbino Capo Riccardo Di Segni e l’Ambasciatore Naor
Gilon. Quest’ultimo ha evidenziato come solo
in Israele il Parlamento abbia scelto una data,
il 30 Novembre, per ricordare questa drammatica storia, un aspetto poco conosciuto che
ancora oggi ha ricadute sul conflitto fra israeliani e palestinesi. Inoltre l’Ambasciatore Gilon
ha sottolineato come Israele sia diventato per
queste persone un rifugio naturale e sicuro in
cui ricostruire la loro esistenza e la loro cultura
plurimillenaria cancellata tra il 1948 e 1967.
La mostra rimarrà al Museo Ebraico per altri
due mesi, successivamente girerà per tutta
l’Italia per garantire che la storia dei profughi
ebrei provenienti dai paesi arabi sia diffusa il
più possibile nel nostro paese. Inoltre grazie ad
alcuni supporti digitali le scuole italiane che faranno richiesta potranno ottenere tutto il materiale per mostrarlo ai propri studenti.
MARIO DEL MONTE
GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776
Una lunga storia
improvvisamente interrotta
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LIBRI
Un libro per conoscere
la nuova minaccia globale
Con “Jihad, Guerra all’Occidente”,
Maurizio Molinari ci guida
alla conoscenza del Califfato che vuole
conquistare il mondo occidentale
D
opo il successo editoriale ottenuto lo scorso anno con il
libro “il Califfato del Terrore”, di Maurizio Molinari,
neodirettore del quotidiano “La Stampa” è uscito
“Jihad, Guerra all’Occidente”, editore Rizzoli.
Si tratta di un istant book che racconta come proseguono le violenze e le conquiste territoriali di Daesh nell’ultimo anno, fino ai tragici attentati avvenuti a Parigi a metà novembre. Nelle duecentoquarantatre pagine si mescolano cronaca ed analisi, dati e retroscena che dal quadro geopolitico mediorientale affondano nel
contesto globale internazionale.
Molinari, da consumato ed esperto della materia, essendo stato
corrispondente per più di un decennio da New York e poi da
Ramallah per il giornale torinese, riesce con lucidità e brillantezza
a facilitare la comprensione di quel groviglio di organizzazioni e
Stati che nel gioco delle alleanze arabe sono gli attori di una guerra infinita che preoccupa l’Occidente, da cui non se ne vede una
via di uscita. È una descrizione fluida dei diversi terreni di azione
dei gruppi jhadisti e salafiti, che narra quel che avviene dalle
coste nordafricane fino al cuore dell’Asia araba, e fa capire come
sia stato seppellito il sogno delle Primavere arabe con l’incalzare
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GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776
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impetuoso del Califfato di al Baghdadi teso alla realizzazione del
progetto di far dilagare lo Stato
Islamico in tutti i territori dal Giordano al Mediterraneo. E nemmeno l’Europa è immune a questo
disegno: sia per gli attentati commessi finora e sia per le minacce
quotidiane che non fanno dormire
sonni tranquilli alle diplomazie.
Perché l’Isis per diverse motivazioni prende di mira tre obiettivi precisi per scatenare la guerra
nel Vecchio Continente: la Francia che “è lo Stato europeo più
impegnato nella coalizione anti-Isis”..” e “ ha in Parigi la capitale
della prostituzione e del vizio”; l’Andalusia, destinata “a rappresentare il riscatto storico della umma musulmana dall’umiliazione
subita quando la Reconquista cristiana ebbe la meglio; e Roma
“per travolgere la roccaforte della cristianità”.
Si tratta di uno scenario imprevedibile che ha a che fare, come ha
sottolineato il Ministro degli esteri Italiano Paolo Gentiloni, durante la presentazione del volume “ … con un attore nuovo, che
controlla un territorio molto vasto e dispone di risorse finanziarie
ingenti, pari a circa tre miliardi di dollari, che ha l’obiettivo di
sconvolgere gli equilibri e gli assetti statali. Va compresa l’assoluta complessità di una realtà postsovrana. Quindi non credo che
l’Europa possa affrontare una sfida di queste proporzioni attorcigliandosi in sensi di colpa che rischiano di far perdere le energie
di cui abbiamo bisogno. Ricordando che non dobbiamo continuare
ad avere l’illusione di guerre lampo. Ciò l’abbiamo pagata negli
ultimi decenni con guerre che si sono protratte per anni”.
JONATAN DELLA ROCCA
La lezione che viene dalla lettura
di “Comprendere Eurabia” di Bat Yeor
S
ono questi i tre slogan del “Partito” tramite i quali il
“Grande Fratello” riesce a controllare ogni singolo aspetto
della vita quotidiana degli abitanti di Oceania, una delle
tre superpotenze continentali in costante guerra con l’Estasia o con l’Eurasia, ed alleata di volta in volta con la superpotenza con la quale non è in conflitto. Scenari di certo astratti e
fantastici, quelli dipinti dallo scrittore britannico George Orwell,
ma non privi di una qualche parvenza di realtà.
Ed è con questi presupposti che sfogliamo “Comprendere Eurabia” di Bat Yeor, credendo fermamente di imbatterci in un altro
romanzo fantapolitico nel quale un nemico onnipotente e totalitario cerca in tutti i modi di impossessarsi del mondo.
Purtroppo la speranza ed il preconcetto di astrazione vengono
dissolti al terzo documento ufficiale riportato dall’autrice che avvalora le sue tesi non parole, ma con atti interstatali enunciati in
pubbliche assemblee e convegni.
L’Europa del secondo Dopoguerra, ancora sotto l’egida economica
e politica degli Stati Uniti, cerca in tutti i modi di conseguire un’indipendenza che la porti ad essere un polo finanziario autonomo
oltre che acquistare una caratura internazionale con la quale possa
competere, a livello decisionale, con il paese a stelle e strisce. E’
così che la Francia di De Gaulle nel 1967 diventa la forza trainante
di un processo di cooperazione euro-arabo che culmina con la crisi
petrolifera del 1973, nella quale sia il paese transalpino, sia la
Germania, trovano un’eccellente scusa per basare la loro politica
euro-araba sul pericolo di una scarsità di energia.
Si sa, ogni alleanza porta un compromesso: ma, visto che qui la
potenza petrolifera e l’ascendente morale dei Paesi Arabi fa pendere l’ago della bilancia nettamente a loro favore, più che in un
adattamento, l’Europa entra in un’era di schiavitù inconscia.
Bat Yeor spiega che gli europei sono diventati dhimmi, ossia come
le minoranze etniche e religiose che vivono in paesi di carattere
jihadista, nei quali si può ottenere “un’effimera ed ingannevole
sicurezza mediante i servigi resi all’oppressore mussulmano e
mediante il servilismo e l’adulazione”, tramite l’inoculazione della
paura di atti terroristici che minano le fondamenta della tranquillità della vita occidentale, in un Occidente che ostinatamente consideriamo “non in guerra”, ma nel quale attentati di diversa matrice
risvegliano l’insicurezza e lo sgomento.
La guerra è pace. E’ così che l’essere che ha paura accetta tutto
pur di sopravvivere, anche confutare le basi più solide del pensiero che lo contraddistingue, anche se queste sono frutto di migliaia
di anni di battaglie e rivoluzioni e conquiste. La libertà è schiavitù.
Dal timore nasce l’odio e viceversa, in un circolo vizioso che blocca
il processo di comprensione della gente e delle nazioni, chiudendo
la mente e producendo risposte semplicistiche e superficiali, come
accaduto al popolo tedesco accecato dalla propaganda nazista o
nel comunismo. L’ignoranza è forza.
Ovviamente la paura genera l’odio verso il capro espiatorio: Israele, con la sua ostinazione a non volersi abbassare alle pretese
arabe (la sua sparizione stessa), è il motivo per il quale voi, cittadini europei, non sarete mai al sicuro nelle vostre case; e da qui
l’antisemitismo ed il palestinismo politicamente diffuso come un
vaccino contro l’islamofobia e come copertura per la jihad internazionale che, come sua stessa definizione, dovrà portare alla conversione all’Islam di tutto il mondo, o con la persuasione o con la
forza. “Ma la resistenza israeliana dimostra la lotta, di antica data,
di un popolo votato a combattere per la libertà contro la dhimmitudine, per la dignità dell’uomo contro la schiavitù dell’oppressione e dell’odio”.
YURI DI CASTRO
Un’ipotesi di violenza
Dror A.Mishani
Guanda, p. 299
€18.50
Dror A.Mishani torna a regalarci un
thriller fuori da ogni cliché, asciutto
nella narrazione ma psicologicamente
complesso, spietato nel descrivere
quanto possa rivelarsi umana la violenza tra gli individui, eppure delicato
e comprensivo con i colpevoli. L’ispettore Avraham, rientrato da una vacanza dopo un caso irrisolto, sa che l’indagine che gli si prospetta è la sua occasione di riscatto. Una valigia sospetta lasciata davanti ad un asilo
alla periferia di Tel Aviv. Un attentato, un avvertimento, uno scherzo, la reazione di un genitore risentito? Dopo la scarcerazione del
primo indagato, l’ispettore si ritroverà a scavare nella vita di vittime
e carnefici, la cui distinzione di ruolo sarà svelata solo all’ultima riga. La capacità di Mishani di delineare personaggi dall’apparente
natura anonima, salvo poi scoprirne gli abissi dell’animo, è sorprendente. Un autore da non farsi scappare.
Il parrucchiere di Auschwitz
Eric Paradisi
Longanesi, p.208 € 14,90
1943: Maurizio, figlio di parrucchieri
ebrei, vive nel ghetto in una Roma occupata dai nazisti. Nella bottega dove
lavora conosce e si innamora di Alba,
una ragazza fortemente impegnata
politicamente, membro della Resistenza e dell’organizzazione Bandiera
rossa. Il rastrellamento del 16 ottobre
gli porterà via l’intera famiglia e lui,
solo cinque mesi dopo, sarà deportato
ad Auschwitz mentre Alba verrà arrestata. Maurizio sopravvivrà nel campo
di concentramento grazie alla sua abilità di parrucchiere e al forte
ricordo dell’amata, di cui non saprà più nulla. Parallelamente scorre
la storia dell’amore di Flor, nipote di Maurizio, che, come quella del
nonno, sarà destinata a soccombere sotto i colpi dell’ineluttabilità
di un destino crudele.
La selva dei morti
Ernst Wiechert
Skira, p.128 €14
“Fui chiamato a testimoniare e la mia
voce deve raccontare”. Ci sono tempi
in cui l’animo umano è posto davanti
all’indicibile. Dolore, abiezione, annientamento, che quasi gli occhi non
credono. Alcuni uomini raccolgono il
fardello della testimonianza, affinché
tutti sappiano, perché le vittime non
siano dimenticate. Ernst Wiechert assolse questo dovere divulgando le
sue esperienze di prigioniero politico
internato a Buchenwald nel ‘38. Il
peso della narrazione, drammatica ed intensa, venne attenuato
dal ricorso alla terza persona, tale da rendere meno traumatica la
rievocazione. Il dovere morale, etico, religioso di non tacere per
non vanificare fatalmente ciò che dopo la guerra molti, pur di andare avanti, avrebbero preferito lasciarsi alle spalle. Wiechert ci
insegna che alla consegna del silenzio non si può e non si deve
soggiacere.
A CURA DI JACQUELINE SERMONETA
GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776
La guerra è pace; la libertà
è schiavitù; l’ignoranza è forza
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LIBRI
EDITORIA PER RAGAZZI
Libri per ragionare,
ma soprattutto per divertirsi
C
GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776
he i libri salvino la vita è una cosa
che sappiamo in tanti, adulti e
bambini. Ma che i libri possono
anche fornire indizi e prove per
smascherare un delinquente? Naturalmente con l’aiuto del poliziotto Guglielmo e di
altri che è meglio non dire altrimenti si rivela tutto il mistero! Per sapere come questo
sia possibile bisogna però leggere "Chi ha
incendiato la biblioteca?" di Anna Lavatelli,
(illustrazioni di Cecco Mariniello, edizioni
interlinea, 8 euro) destinato ai bambini delle elementari, o se capita un pomeriggio
noioso senza niente alla tv, anche a quelli
delle scuole medie. "Intorno cade un silenzio di piombo - scrive Lavatelli - Qualcuno
di avvicina con la faccia triste e mormora:
«Condoglianze». Giusto. Condoglianze signora Giovanna (Giovanna è il nome della
bibliotecaria). In via Canigatti, nel quartiere
dei Pesci, nel rione dei Quadrupedi (sempre
detto senza offesa) sanno di che pasta è
fatta la signora Giovanna". Ed infatti sarà
lei, con l’aiuto del signor Guglielmo e di
Alessio che sta a casa con il morbillo a capire, grazie alle tracce offerte dai libri, chi è
stato l’incendiario. D’altro canto lo sanno
tutti che se i ragazzi di quella zona sono un
po’ più svegli il merito è anche della bibliotecaria Giovanna (secondo me anche della
maestra Angela). Sappiate intanto - finché
non avrete letto il libro - che tutta la sezione
romanzi di avventura della biblioteca è
completamente salva!
Per i bambini più piccoli, ma non proprio
28
piccolissimi, e per quelli che
hanno comunque voglia di
ragionare, c’è invece "Liberi
tutti!" di Anna Papini (edizioni uovonero, 13.50 euro) che
ha scritto la storia e disegnato le illustrazioni (bellissime!). In realtà la storia è di
poche parole, anzi pochissime, ma si capisce benissimo.
Per esempio: in una pagina
uno strano tapiro grigio chiaro e grigio scuro sta fermo
sotto l’ombrello rosso a ripararsi dalla pioggia. E il testo
dice solo: "No. La pioggia".
La pagina successiva, lo
stesso tapiro, sempre grigio
chiaro e grigio scuro, e sempre sotto la pioggia, si tuffa
in una pozzanghera insieme
a una rana piccola che più
piccola non si può. E il testo
recita: “Si. Le pozze”. I si e i
no che si alternano nelle pagine insieme ai protagonisti
colorati - una gallina, un coniglio, un orso, un gatto aiutano a riflettere. La neve,
il sole, il buio, per i bambini
possono spesso essere solo
dei no ripetuti rischiando di
diventare occasioni perdute.
Le stesse cose possono infatti trasformarsi in autentiche
avventure solo se gli adulti spesso iperprotettivi - non
fanno sembrare il mondo una
minaccia e un pericolo.
Un noir? Un thriller? Una leggenda nera? Una storia macabra? O un miracolo che restituisce speranza? Tutte queste cose insieme è "Il matrimonio che salvò una città" di
Yale Storm con le illustrazioni di Jenya
Prosmitsky (traduzione dall’inglese di Rosanella Volponi, 15 euro), ultima uscita della
collana Parpar dedicata ai bambini della
storica casa editrice Giuntina di Firenze.
Tutto inizia con un telegramma che il rabbino Yamferd (rabbino Tricheco) invia a Yiske
"che dormiva fino a tardi dopo aver suonato": il rav invita Yiske e la sua orchestrina a
Pinsk per suonare ad un matrimonio, niente
di strano quindi. La sorpresa però giunge
all’arrivo: in città c’è una terribile epidemia
di colera, hanno fatto di tutto ma non c’è
stato niente da fare per fermare il contagio.
L’unica possibilità rimasta è realizzare un
shvartse khasene, un matrimonio nero. "La leggenda spiega il rabbino Tricheco dice che se due orfani si
sposano in un cimitero potrebbe accadere un miracolo". La speranza, aggiunge, è
che "le anime dei loro genitori possano chiedere aiuto
all’Onnipotente". Anche se
sembra un po’ inquietante si
tratta di una autentica leggenda diffusa tra le comunità ebraiche dell’Europa Oirentale. Yiske all’inizio è preoccupato che i suoi colleghi
dell’orchestrina si spaventino di un matrimonio tanto
bizzarro ma soprattutto è
molto sorpreso: il rabbino
non ha ancora trovato lo sposo! E ad Yiske non resta che
andare a cercarlo mentre in
città fervono i preparativi.
Ma è un’impresa tutt’altro
che facile: uno è troppo vanitoso, l’altro troppo avido. La
storia ha, ovviamente, il lieto
fine: Yiske troverà lo sposo
adatto per la bionda Sheyndl-Rivke e il matrimonio surreale - tra lacrime e sorrisi si svolgerà, al cimitero,
secondo tutte le norme
ebraiche. Nelle pagine un
po’ magiche e un po’ infantili la leggenda troverà la sua
conferma: tempo quindici
giorni la città è libera dall’epidemia. La storia, tra le pagine, porta ai bambini l’eco
della grande letteratura dei
fratelli Singer e i disegni, magici e dagli
occhi sgranati, raccontano la magia dell’ebraismo dell’Europa orientale prima della
guerra proprio come i film, il libri, i quadri e
le fotografie ce lo hanno tramandato. Un
mondo scomparso a cui d’altro canto Yale
Storm, l’autore, ha dedicato anni di lavoro:
è infatti regista, scrittore, musicista, ricercatore, compositore statunitense di musica
kletzmer e rom e ha dedicato molti anni allo
studio di quello stesso mondo da cui proviene Jenya Prosmitsk, nata a Minsk e trasferitasi negli Stati Uniti dopo un brillante
percorso di studi proprio in illustrazione per
bambini. Una magia un po’ macabra che
serve a restituire la speranza.
LIA TAGLIACOZZO
L
Libri, tra storia e mito
a libreria Viella è benemerita per le pubblicazioni che
produce e diffonde. Ecco in breve le ultime tre novità.
Sopravvivere al ghetto di Serena Di Nepi racconta un
momento del tutto speciale della storia ebraica degli
ebrei di Roma nel Cinquecento: una ricerca di grande impegno, di
grande rigore che merita di essere conosciuta e diffusa.
L’ombra del kahal di Alessandro Cifariello scava con estrema attenzione
all’interno dell’immaginario antisemita
della Russia dell’Ottocento: un’analisi
tra storia e mito che coinvolge profondamente e suscita turbamento.
Dopo i testimoni a cura di Marta Baiardi e Alberto Cavaglion pone un problema angoscioso e non differibile: chi
racconterà quello che è accaduto domani quando i testimoni saranno scomparsi definitivamente? Un testo rigoroso e
che merita non solo di essere letto, ma
anche meditato.
Costantino Di Sante ha scritto
Auschwitz prima di Auschwitz, edito da Ombre Corte, che prende in esame le ricerche di Massimo Adolfo Vitale sugli ebrei
deportati dall’Italia: una risposta a domande molto importanti.
Bele sì (proprio qui) di M.L. Giribaldi e R.M. Sardi (editore Morcelliana) racconta le vicende degli ebrei di Asti: una lettura emozionante, per chi ha il dono di emozionarsi.
Charlotte. La morte e la fanciulla di Bruno Pedretti edito da
Skira, racconta la tragica storia di Charlotte Salomon giovane
artista ebrea berlinese incinta di quattro mesi e morta ad
Auschwitz. Una lettura delicata.
Charlotte di David Foenikos edito da Mondadori, si ispira
anch’esso alla stessa figura femminile con altrettanta delicatezza.
Lo sport nella persecuzione
e la persecuzione nello sport
'S
port e Shoà' (di Sergio Giuntini, Sedizioni editore) può
lasciare apparentemente perplessi, perché sembra
impossibile collegare una disciplina che è l'emblema
dello star bene e della fisicità e una parola
che è sinonimo di distruzione.
Ci pensa una frase di Primo Levi nella poesia Il
Decatleta a mettere le cose in chiaro: "credetemi, la
maratona non è niente, né il martello, né il peso,
nessuna gara singola può compararsi con la nostra
fatica. Ho vinto, sì; sono più famoso di ieri, ma sono
molto più vecchio e logoro".
Questo interessante saggio propone alcune interessanti riflessioni.
La prima riguarda il fatto che agli inizi del secolo
scorso, soprattutto per via dei movimenti giovanili
sionisti, si registrò una "rinascita fisica" dell'ebraismo. Parallelamente ad analoghi sviluppi in atto
anche nel mondo non ebraico con il movimento scoutistico o con le polisportive che permettevano anche
alle classi popolari di curare finalmente il proprio corpo, la salute
e l’igiene, si crearono squadre, palestre e associazioni sportive
ebraiche. Sia in Europa, che in Palestina, dove il "giudaismo
muscolare" trovò una prima espressione organizzativa a Gerusa-
Anna Frank. La voce della Shoah di
Francine Prose edito da Castelvecchi,
racconta la storia di questa giovane
ragazza diventata un simbolo della
persecuzione antiebraica. Commovente.
Poesie scritte a tredici anni a Bergen
Belsen (1944) di Uri Orlev, a cura di
Sara Ferrari, edito da Giuntina, è un
piccolo tesoro poetico. Da non perdere.
Nei suoi occhi verdi di Arnost Lustig edito da Keller, è un romanzo scritto da un ebreo cecoslovacco sopravvissuto ai campi di
sterminio. Difficile dimenticare Hanka, la protagonista.
Una luce quando è ancora notte di Valentine Goby, edito da
Guanda, narra la storia di una deportata nel campo di Ravensbrueck nel 1944 insieme ad altre quattrocento donne. Tragico.
La storia di Mortimer Griffin di Mordecai Richler edito da Adelphi, è un romanzo spassoso, con pagine di delizioso umorismo; da
non perdere.
Sette anni di felicità di Edgar Keret, edito da Feltrinelli, è un
libro ironico e sensibile dove si parla di questioni terribilmente
serie con un sarcasmo tutto ebraico e israeliano. Da non perdere.
È questa la terra promessa? di Eli Amir, edito da Giuntina, sin
dal titolo mostra un carattere vivace, anticonformista: racconta
storie emblematiche della vita israeliana e apre squarci di conoscenza su situazioni e personaggi singolari. Non a caso dal libro è
stata tratta una serie di trasmissioni televisive.
Trieste di Dasa Drndic, edito da Bompiani è un libro che racconta
in modo documentato le vicende degli ebrei in Italia durante la
persecuzione nazifascista e che lascia senza fiato. Sorprendente.
La nemica di Irene Nemirovsky, edito da Eliot, è un romanzo
intenso che descrive sullo sfondo della Parigi degli anni venti un
conflitto tra madre e figlia. La Nemirovsky è morta ad Auschwitz.
La Nemirovsky viene proposta anche da Castelvecchi che stampa ‘Nascita di una rivoluzione’, un racconto che trae ispirazione
dalla rivoluzione di ottobre delle cui vicende la Nemirovsky, ucraina prima di essere naturalizzata francese, fu testimone oculare.
RICCARDO CALIMANI
lemme e Jaffa nel 1908. Queste ebbero sia il ruolo di emancipare
gli ebrei facendoli confrontare sportivamente con altre realtà, sia
di preparare fisicamente la giovane generazione per l'alià. L'immagine dell'ebreo malaticcio, dei ghetti, e tutto dedito alle attività
intellettuali, trovava così un’altra prospettiva. La discriminazione
prima, e lo sterminio poi, furono la reazione a questo tentativo di
emancipazione anche fisica dell'ebraismo. E' così interessante
verificare quali furono gli atteggiamenti del mondo
sportivo di fronte alla Shoà, tra l'accondiscendenza al
tripudio nazista delle Olimpiadi di Berlino, ai lodevoli episodi di solidarietà con gli atleti ebrei, neri o di
altre "razze inferiori" a cui si impedì di gareggiare.
Interessante l’episodio del pugile sinti Rukelie Trollmann che in Germania in piena epoca nazista prima
di un incontro si tinse i capelli di biondo e si cosparse di farina per dileggiare la politica della razza
ariana.
Alcuni paragrafi del libro sono poi dedicati agli episodi surreali delle attività sportive all'interno dei
campi di concentramento.
Si possono anche trovare degli spunti per capire
come il CONI, implementando nel 1942 al suo ordinamento le teorie razziali fasciste, parlava di attività
volte al miglioramento della razza.
Il libro racconta in maniera completa e ben informata (ottima la
bibliografia) i successi sportivi di singoli ebrei o di team ebraici
prima della Shoà.
GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776
Pagine su pagine. Di ebrei e di cose ebraiche
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CULTURA
Quell’artista “enigmatica”
Presenze e assenze, pieni e vuoti
da colmare nell'installazione di Maya
Attoun alla Givon Gallery di Tel Aviv
Q
GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776
uesto mese parliamo di un’artista la cui personalità può
essere sintetizzata con l’aggettivo “enigmatica”. Si
tratta di Maya Attoun: nata a Gerusalemme, attualmente vive e lavora a Tel Aviv. Classe 1974, Attoun ha
esposto in numerose gallerie internazionali tra cui la Sprechsaal
gallery di Berlino (2015) e la galleria Marie-Laure Fleisch di Roma
(2012), oltre che in importanti musei nazionali, dal Tel Aviv
Museum of Art (2009) all’Israeli Museum di Gerusalemme (2011).
Nel lavoro di Maya Attoun assume un ruolo centrale la linea. Che
sia nel disegno, nell’incisione o nell’installazione sonora, viene
sempre percepita come la superficie delle cose, capace di mettere
sullo stesso piano caos e ordine, in un gioco di continui salti temporali in cui ambienti e scenari neogotici confluiscono nelle ansie
del mito moderno. In questa sovrastruttura le assenze sono continuamente evocate, diventando presenze appena percettibili, gli
30
spazi vuoti fanno da contraltare ai pieni che adempiono al dovere
di interagire con il pubblico. Si può così riassumere anche l’ultimo
solo show di Attoun alla Givon Gallery di Tel Aviv, visitabile fino a
gennaio, dal titolo Half Full (mezzo pieno).
Per l’occasione l’artista ha letteralmente trasformato lo spazio
della galleria in un duplex, appartamento famigliare su due livelli.
Al piano terra vi sono la cucina e il soggiorno in un arredo minimal,
dove campeggia la scritta al neon “hipertextualisation”, parola
inventata che si riferisce all’influenza dei media e della tecnologia
sulla vita. Su questo piano vi è anche una tenda, lasciando intendere che dietro nasconda un balcone. È curioso il pattern stampato
su di essa in quanto si tratta della planimetria originale della galleria. Una scala di legno ci conduce al secondo piano dell’appartamento, ma prima di arrivare a questo possiamo ammirare lungo il
muro una trentina di piccoli disegni incorniciati. La maggior parte
delle immagini sono state scattate dall’artista attraverso Instagram, altre invece sono testi di libri. In ogni caso, tutti questi presentano un aspetto iperrealista, congelati in un bianco e nero dal
sapore revivalistico. Il secondo piano si struttura in 3 camere e un
bagno. Due ambienti sono completamente vuoti tranne che per un
neon fortemente concettuale in cui è scritto “Ghost” (fantasma).
La G è fulminata quindi quello che si legge è “Host” (ospite). Dunque ancora un rimando alle presenze, solamente evocate, percettibili anche dal rumore che proviene dalle stanze vuote di qualcuno
che legge. Il bagno, infine, è interamente decorato da un finto
piastrellato il cui motivo geometrico è interrotto da uno specchio
circolare che riflette l’immagine conferendogli un aspetto ancor più
psichedelico. Anche questo ambiente è caratterizzato da un suono
che proviene da dietro lo specchio e allude ai rumori di un’altra
stanza. Si tratta di una voce maschile atta a leggere per intero il
libro Frankenstein, romanzo scritto da Mary Shelley nel 1818, a cui
Maya Attoun si ispira ripetutamente.
In questo spazio domestico, seppur ricostruito, centrale è la temporalità rappresentata da un nostalgico passato e un futuro che
incombe, nostro malgrado, mutando quanto è stato, appropriandosi degli spazi, riempiendo i pieni. Il vuoto, si sa, è quanto ci viene
lasciato da un passato a cui non si può rimediare, alla nostalgia,
alle perdite incolmabili. Il vuoto rallenta così il progredire del
tempo, per diventare una eco, in alcuni momenti appena percettibile, in altri presenza quasi tangibile.
Attoun costruisce un vero e proprio set ambientale, un environment direbbero gli addetti ai lavori, dettando le condizioni per
un’esperienza di visualizzazione dove si vede senza guardare in
profondità. Così ci si lascia trasportare dalle parole che diventano
immagini e viceversa, dai suoni che diventano presenze, dal tatto
che inganna l’occhio e la mente. In questo modo l’artista mette in
scena una dimensione illusoria scandita da un tempo che è quello
di fruizione, quello trascorso nella realizzazione dell’opera dalla
fase progettuale al suo compimento, quello interiore che si definisce nella ricerca costante di creare una connessione tra dentro e
fuori. Il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto, dipende dal punto
di vista da cui si guardano le cose. L’artista preferisce il pieno e
questa potremmo definirla una mostra “full” in tutti i sensi.
GIORGIA CALÒ
STORICA E CRITICA D’ARTE
Dan Uzan, un eroe di Israele
e della Danimarca
L
a Danimarca ha ricordato lo scorso dicembre l’eroe israeliano Dan Uzan z.l., che nel febbraio dello scorso anno
ha fermato un terrorista islamico. Con il sacrificio della
sua vita ha salvato le persone che celebravano il bat
mitzvah di Hannah Ben Tov nella sinagoga di Copenaghen.
I lettori del giornale Berlingske Tidende, uno dei più importanti
in Danimarca, insieme con una giuria, hanno eletto Dan Uzan
l’uomo dell’anno, con grande scarto rispetto agli altri nove candidati. Alla cerimonia ha partecipato anche Lars Løkke Rasmussen, il primo ministro danese che ha consegnato il premio al
padre di Dan, Sergio Mordechai Uzan.
YAARIT RAHAMIM
Celebri i suoi travestimenti e le sue indagini.
Dopo la liberazione, riuscì a recuperare
i documenti della prigione nazista di via Tasso
e a consegnarli alla Comunità ebraica
L
a storia professionale e internazionale, la vita personale e
avventurosa di Giuseppe Dosi fanno di lui per genialità
creativa e inventiva una personalità tra le più interessanti
della storia della polizia europea, un poliziotto che ha sviluppato percorsi scientifici investigativi, con esempi e metodi di
modernità sgomberi da pregiudizi, al di là di metodi repressivi e
antiquati. Un uomo e un poliziotto accompagnato da qualità psicologiche e umane. Creò e inventò con doti culturali eccezionali una
nuova visione della polizia, proiettata tra ricerca scientifica e il
confronto dei diversi strumenti e linguaggi acquisiti nel bagaglio
professionale. Fondatore della polizia italiana dell’Interpol nel dopoguerra, nel complesso periodo della ricostruzione, fu molto stimato all’estero soprattutto dalla polizia americana.
Era nato a Roma il 18 Dicembre 1891; fu allievo di Salvatore Ottolenghi, fondatore della Scuola di Polizia Scientifica nel 1910. Le
lezioni di medicina legale di Ottolenghi alla Sapienza segneranno
la sua formazione e carriera prodigiosa. Grazie al suo amore per il
palcoscenico utilizzerà metodi di travestimento nelle indagini che
dovrà affrontare, memore dell’esperienza teatrale. Parlava l’inglese perfettamente, il francese, il tedesco. Esperto in casi complicati finirà per definire il suo lavoro “fregolismo detectivistico”. Diventerà perfino Regio Console e, nell’inchiesta sull’ex imperatore
d’Austria Carlo d’Asburgo, sarà al servizio della polizia italiana e
austriaca. Il caso che lo renderà noto, sarà la storia di un innocente: Gino Girolimoni, accusato di alcuni delitti sessuali contro
bambine nel quartiere Prati di Roma. Sarà un cruccio e tormento
per lui, ma il fascismo esigeva e necessitava di un capro espiatorio. Il vero assassino pedofilo si scoprirà essere il pastore anglicano Ralph Lyonel Brydges.
Dosi pagherà caro le sue verità. Il regime non lo tollerava più.
Arrestato Dosi, verrà internato per 17 mesi nel manicomio criminale di S. Maria della Pietà. Nel gennaio 1941, uscirà da questa
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dolorosa esperienza segnato fortemente. Il 4 giugno 1944, alla
Liberazione di Roma, si recherà
in via Tasso, comando di sicurezza delle SS e prigione in mano a Kappler, a Priebke e ai loro
camerati. La folla dei romani
assaltata e saccheggiata la prigione nazista disperderà i materiali degli uffici dei nazisti. I tedeschi nei giorni precedenti all’arrivo degli Alleati avevano bruciato e asportato montagne di documenti. Dosi si renderà conto
del valore storico di quei documenti, tracce e prove dei misfatti e
dei crimini commessi e salverà la documentazione risparmiata dal
saccheggio con l’aiuto di un giovane tedesco di origine svizzera.
Fece giungere una parte della documentazione degli ebrei perseguitati, trucidati alle Fosse Ardeatine (24 Marzo 1944), e dei deportati, alla Comunità Ebraica di Roma. I documenti verranno destinati successivamente all’Archivio storico.
Molte di queste storie sono state raccolte nel secondo quaderno
pubblicato dall’Ufficio Storico della Polizia di Stato (2014), a cura di
Raffaele Camposano con i contributi di esperti, studiosi e testimonianze. Segnalo le pregevoli e intelligenti pagine di Maria Letizia
Dosi che vanno oltre il semplice racconto familiare, senza inceppare
nel sentimentalismo e l’autoreferenzialità. Un testo di qualità e
freschezza del ricordo, di dignità italiana, verso un Giusto, al servizio più della giustizia e della verità, che della polizia corrotta di regime. Un altro poliziotto, come quel Giovanni Palatucci imbarazzante, scomodo, ribelle e fuori da qualsiasi schema di potere, tutti e
due protesi verso una verità perennemente pericolosa.
Il lavoro di Alessia A. Glielmi sull’archivio di Dosi offre una panoramica completa di un’eredità valorosa ed un impegno storico. La ricostruzione di Natale Fusaro aiuta i lettori ad affrontare una lettura
coinvolgente del personaggio. Molti meriti vanno a Ornella Di
Tondo senza il cui contributo questo primo quaderno dedicato a
Giuseppe Dosi, non avrebbe raggiunto i risultati storico-scientifici
di cui oggi disponiamo. Con un ritardo a dir poco scandaloso Giuseppe Dosi ha iniziato la sua nuova vita e la sua entrata ufficiale
nella storia della polizia europea. Egli viveva nella memoria di pochi
che non avevano dimenticato il nome e l’opera di verità e giustizia.
Il volume è stato presentato alla Scuola Superiore di Polizia nell’aula Vincenzo Parisi, mercoledì 18 novembre 2015.
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GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776
Dosi, il poliziotto-attore
che inventò l’Interpol
31
ROMA EBRAICA
La dura ricetta per sopravvivere:
riduzione delle spese ed aumento delle entrate
Lo spiega ai lettori di Shalom,
l’Assessore al Bilancio della CER Roberto Coen
R
GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776
oberto Coen è il nuovo Assessore al Bilancio della Comunità Ebraica di Roma. Lo abbiamo incontrato chiedendo
di spiegare quale è la situazione economica e finanziaria
della Comunità
32
Quali sono le condizioni delle ‘casse comunitarie’?
Al nostro insediamento, l’esposizione bancaria, ovvero debiti
verso le banche, ammontava ad € 6.500.000 circa.
Come si chiuderà il bilancio consuntivo del 2015?
Malissimo, il disavanzo fra entrate ed uscite e quindi la perdita
dell’anno 2015, sarà di circa € 1.150.000.
Come si è giunti a questo risultato tanto
negativo?
Il disavanzo è stato determinato dal fatto che:
senza alcun impegno scritto da parte dell’Ospedale Israelitico, è stata prevista l’entrata
di € 950.00, a fronte di spese per ordinaria
amministrazione; tale importo non ci verrà
versato a causa dello scandalo che ha colpito
l'Ospedale. A questo mancata entrata va poi
aggiunta la perdita strutturale delle attività
della CER.
Fino ad alcuni anni fa i bilanci erano sostanzialmente in pareggio. Da cosa nasce secondo te questo indebitamento?
Cominciamo dagli aspetti positivi, le entrate
sono aumentate di circa due milioni: uno proveniente dall'affitto della ex Scuola Polacco e
quasi uno proveniente dall'Ospedale Israelitico; se la prima, però,
era un'entrata sicura perché vi era un sottostante contratto di
locazione, la seconda non poteva essere sicura, perché dipendente dalla volontà di un altro Ente, e perché non c'era un impegno
scritto da parte dell'Ospedale; nonostante questo, le spese ordinarie sono aumentate notevolmente tenendo conto di una entrata
non certa. Si è poi, purtroppo, verificato quanto alcuni di noi
temevano e cioè che l'Ospedale non potesse versarci il contributo,
ma ormai le spese sono state sostenute.
Quali settori hanno visto aumentare le spese?
Credo che l’aumento maggiore sia stato nel settore del Culto. Nel
2007 le spese ammontavano ad € 707.000 e nel 2009 erano salite
ad € 1.336.000, nel 2011 ad € 1.590.000 e poi sono rimaste sostanzialmente le stesse. Anche le spese per la kasheruth sono notevolmente cresciute perché l’aumento del consumo della carne
impone la necessità di avere due shochetim ed uno viene tutte le
settimane da Israele.
Cosa si pensa di fare per evitare la perdita anche nel 2016?
A mio avviso si dovrebbero razionalizzare le spese, in modo da
poter garantire, auspicabilmente, gli stessi servizi ma con costi
più bassi. L'extrema ratio dovrebbe essere la riduzione dei servizi
che offriamo ai nostri iscritti, e ciò per evitare di aumentare le
entrate e cioè tributi e rette scolastiche. D'altronde non abbiamo
alternativa, se diminuiscono le entrate non possiamo che ridurre
le spese di pari importo. D'altronde, dobbiamo prendere atto che
gli iscritti alle nostre scuole sono diminuiti negli ultimi anni di
oltre 200 ragazzi - anche per effetto delle alyoth - e noi dovremmo
proporzionalmente ridurre il personale docente e non, del nostro
istituto ed in futuro si riverbererà anche sulle nostre entrate da
tributi; 2) larghi settori della nostra Comunità, commercianti (am-
bulanti e non), imprenditori, professionisti sono stati colpiti dalla
crisi economica degli ultimi anni ed hanno subito una riduzione
delle proprie entrate.
Si potrebbero ridurre o tagliare i servizi offerti dalla Comunità?
È difficile fare esempi perché qualsiasi taglio di spesa è doloroso
perché significa ridurre i servizi o diminuirne la loro qualità.
Penso, però, che tutti i comparti debbano essere coinvolti, senza
pregiudizio ideologico ma con il solo intento di far quadrare i
conti, seppure tenendo conto che siamo una Comunità e non
un'azienda. Devo riconoscere che oggi non ridurrei le spese che
sosteniamo per la sicurezza dei nostri ragazzi.
Alcuni pensano che per ridurre le spese, si
potrebbe o abolire il mensile Shalom o trasformarlo in un giornale solo on-line. Cosa
ne pensa?
Sono contrario a tale iniziativa. Shalom, da
quasi 50 anni, arriva nelle case dei nostri
iscritti ogni mese ed è un appuntamento a cui
molti sono affezionati, magari iniziano a sfogliarlo verso destra a cominciare dall'ultima
pagina, e leggono prima le lettere del Direttore, poi le pagine in cui si elencano le nascite
ed i matrimoni. Per molti, e penso alle persone anziane o a chi non è attrezzato telematicamente, significherebbe non essere più raggiunti e perderebbero l'unico punto di contatto con la CER a parte la cartella delle tasse…
Quello che farei, però, è introdurre un prezzo
simbolico di un euro al mese per riceverlo. Spesso le cose gratuite non vengono apprezzate come dovrebbero.
C'è un settore in cui Lei aumenterebbe le spese?
Personalmente penso che per i giovani over 18 si faccia ancora
poco. Penso che bisognerebbe investire di più per dare loro maggiori occasioni di incontro, ma per poterlo fare bisognerà attendere che i conti siano nuovamente in ordine.
Per aumentare le entrate come pensa di intervenire?
Le uniche entrate che noi possiamo modificare, con sostanziali
risultati, sono i tributi e le rette scolastiche. Il gettito dei tributi
negli ultimi sette anni è diminuito ogni anno. È vero che abbiamo
avuto la crisi economica più profonda dal dopoguerra ma è anche
vero che qualcosa di più si sarebbe potuto fare. Probabilmente
sarà necessario riformare l'intero settore ed applicare regole più
chiare, magari stabilendo un contributo fisso minimo uguale per
tutti, per poter usufruire dei servizi comunitari. Le rette scolastiche, invece, sono rimaste sostanzialmente le stesse e coprono solo
un terzo del costo per ogni studente. Le rette scolastiche delle
scuole Ebraiche di Milano sono il triplo delle nostre, ma la nostra
priorità in questo momento deve essere quello di ridurre le spese.
È ottimista? Sarà possibile arrivare al pareggio del bilancio?
Si, sono convinto che si possa raggiungere. Stiamo passando un
periodo difficile sia per quanto accaduto al nostro Ospedale sia
per le tensioni internazionali ma credo che nostra Comunità
abbia al proprio interno le risorse per farcela. È una Comunità
sana, vivace, che riesce a fornire tutti i servizi di cui una Comunità Ebraica deve dotarsi; occorre, però, la volontà politica ed uno
sforzo comune da parte di tutti i nostri iscritti per avere conti in
ordine e non lasciare ai nostri nipoti debiti da pagare.
G.K.
Notizie dal Consiglio
Il progetto di rilancio dell'Ospedale Israelitico
e la costituzione del Comitato d’onore per le
celebrazioni dei 50 anni degli ebrei libici a Roma
Alberto Sed, eroe della nuova Italia
D
all’ottobre dello scorso anno, Alberto Sed è divenuto un
Eroe della nuova Italia, ricevendo dal Presidente della
Repubblica Sergio Mattarella l’onorificenza di Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.
Alberto Sed è un sopravvissuto della Shoah. Testimone dei campi,
per anni non riuscì a parlare della sua esperienza. Cercava invano
di seppellire i ricordi delle atrocità subite. Una prima rivincita è
quindi avvenuta con la creazione di una famiglia, fondata sui valori di amore e affetto che a lungo erano mancati nella sua vita.
La sua vita cambia radicalmente quando incontra il Colonello dei
Carabinieri, Roberto Riccardi. Rifiuta più volte la proposta di Riccardi di mettere per iscritto i suoi ricordi. Il Colonello - com'è solito
chiamarlo Sed - però, è ancor più tenace. Non demorde e, con
pazienza, ascolta le lacrime e i ricordi dolorosi del sopravvissuto.
Da quell’incontro sono passati otto anni. In questo periodo, Alberto Sed ha allestito una stanza intera di onorificenze ricevute da alti
esponenti o da umili studenti.
Durante questi anni infatti Sed ha proseguito con forza il suo progetto educativo, cercando di raggiungere quanti più ascoltatori
per poter esporre i suoi ricordi. E’ stato invitato in tutto il territorio
italiano da scuole, carceri, centri culturali, conventi; informando
sulle atrocità di Auschwitz e creandosi al tempo stesso amici di
lunga durata grazie alla sua personalità serena e giocosa.
Questo è il modo in cui Alberto Sed combatte per sradicare l’ignoranza di chi sa poco e nulla della Shoah. E’ un percorso difficle e
lungo, ma non si è mai arreso e nonostante l'età ha continuato a
girare per le scuole.
Ora Alberto è un Eroe, premiato per il suo lavoro di divulgazione tra
i giovani, ma Alberto Sed non dimentica che tutto ha avuto inizio
dal lavoro svolto dal Colonnello Roberto Riccardi. Senza la sua stesura del libro, nulla di tutto questo sarebbe potuto accadere.
MICOL SONNINO
Festa per i 90 anni di Zi’ Pucchio
P
er festeggiare i 90 anni di zio Pucchio (Alberto Mieli) e la
sua recente laurea honoris causa in storia, i suoi amici e
parenti si sono riuniti al Circolo i ragazzi del ’48, per una
piccola messibah. Zio Pucchio è stato festeggiato con un
giorno di ritardo, visto che il 22 dicembre, giorno del suo compleanno, ricorreva il digiuno del 10 di Tevet.
Tante le persone che insieme ai familiari sono venute per fare gli
auguri a zio Pucchio: il presidente Ruth Dureghello, Riccardo Pacifici e Baffone che hanno promosso questa iniziativa e tante altre
persone accorse per condividere questo momento di festa.
GIORGIA CALÓ
GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776
N
ell’ultimo Consiglio della Comunità del 2015, svoltosi lo
scorso 14 dicembre, è intervenuto il nuovo Commissario straordinario dell’Ospedale Israelitico, Alfonso
Celotto, che ha lanciato un segnale di speranza ma
anche una certa preoccupazione per il ritorno alla normale attività. “Sono convinto che riapriremo – ha spiegato – ma permane un
quadro di incertezza che dipende da una serie di procedure e di
iter della burocrazia”.
Ed infatti alla vigilia di Natale – ultimo giorno utile per evitare la
chiusura - l’Ospedale ha ottenuto le prime autorizzazioni da parte
della Regione cosa che ha così consentito la riapertura della sede
all’Isola Tiberina, cui seguiranno le riaperture di via Veronese e
di via Fulda. Un ospedale - ha ricordato Celotto - che prima del
blocco incassava 150 mila euro al giorno ed effettuava 3.000 visite
giornaliere.
“La luce in fondo al tunnel l’abbiamo raggiunta - ha spiegato Celotto - e finalmente si può pensare
a quelli che saranno il rilancio e
la ristrutturazione dell’ospedale. La fase più difficile viene ora.
Dobbiamo metterlo in condizioni di vivere. È difficile, ma ce la
faremo”. Fra queste difficoltà la
necessità di completare la nomina del secondo commissario, di
nomina prefettizia: si tratta di
Massimo Russo, designato dal
prefetto Gabrielli il 2 dicembre
scorso. Massimo Russo è però un
magistrato e per entrare nel suo
nuovo ruolo ha bisogno del nulla
osta del Consiglio Superiore della
Magistratura. Il nulla osta ancora
non è arrivato.
In Consiglio è seguita poi una
relazione del capo rabbino rav Di
Segni che ha sottolineato la partecipazione con grande entusiasmo dei vertici della Comunità
all’accensione della Hanukkià organizzata dal movimento Chabad
in piazza Barberini, “per dare un senso di unità e serenità”. Rav
Di Segni ha poi brevemente illustrato l’importante documento del
Vaticano sui rapporti della Chiesa con l’ebraismo, “un documento
complesso che va studiato”.
Il Consiglio ha poi provveduto alla ratifica dei nuovi revisori dell’Ospedale Israelitico nelle persone di Roberto Di Veroli, Ugo Besso e
Riccardo Bauer. Come membro supplente è stato indicato Cesare
Gattegna, mentre il secondo membro verrà nominato successivamente. Il Consiglio ha poi nominato il consigliere dello Sportello
antiusura, Fabrizio Della Riccia e ha nominato i nuovi consiglieri
della Casa di Riposo: Settimio Pavoncello detto Sergio e Livio Tagliacozzo, in sostituzione dei dimissionari Vito Kahlun e Marco Raccah.
Infine, per dare avvio alla programmazione delle attività legate
alla celebrazione per i 50 anni della presenza degli ebrei di Libia
a Roma che si svolgeranno nel 2017, si è provveduto a costituire
un Comitato d’onore formato dal presidente Ruth Dureghello e dai
consiglieri Giorgia Calò, Claudia Fellus, Roger Hannuna e inoltre
da David Zard, Sion Burbea, Mayer Nahaman, Avner Flavio Hannuna, Shalom Tesciuba, Rav Joseph Arbib, Mario Toscano, Jack
Luzon, David Mantin, Elio Raccah e Huani Mimun.
G. K.
33
ROMA
LIBRIEBRAICA
Una festa contro la paura
L’accensione pubblica della channukià
perché il terrorismo non ci deve condizionare
C
entinaia di persone sono giunte a Piazza Barberini a
Roma domenica 6 dicembre per la prima sera di Chanukkà. L’accensione pubblica organizzata dai Chabad
Lubavitch è stata l’occasione per dimostrare che né il
clima di tensione che si è venuto a creare dopo gli attentati di
Parigi, né l’imponente spiegamento di forze dell’ordine alla vigilia
del Giubileo hanno frenato la voglia di vivere della gente. Non la
si vuole dare vinta ai terroristi: questo è stato quanto hanno affermato i presenti. Ebrei e non, molti romani ma anche francesi,
americani e israeliani: una folla eterogenea è stata quella giunta
a celebrare un appuntamento che si ripete ormai dal 1987 e che si
realizza contemporaneamente in molte città del mondo. Quest’anno la novità è stata rappresentata dalla Cambogia: si è così allargato il panorama a cui l’organizzazione dei Lubavitch può indirizzare il messaggio di Chanukkà, una campagna iniziata negli anni
’70 con il Rabbino Menachem Schneersohn.
“Che queste fiammelle
possano tornare a brillare”
Un significato in più per l'accensione
della channukià nell’Ospedale
Israelitico
S
Numerose le autorità presenti: il Rabbino Capo Riccardo Di Segni,
l’Ambasciatore d’Israele Naor Gilon, il Commissario del Comune
Francesco Paolo Tronca, la Consigliera Regionale Maria Teresa
Petrangolini; il Presidente della Comunità Ruth Dureghello nel
suo discorso ha voluto sottolineare l’importanza dell’iniziativa in
un momento particolarmente delicato, affermando che in questa
serata sono riusciti a prevalere i valori di civiltà e democrazia. Un
pensiero lo ha poi dedicato alle vittime di Parigi e a Nathan Graff,
l’ebreo 40enne accoltellato a Milano.
A presentare la serata e a condurre l’accensione della prima candela della chanucchià, ovviamente, Rav Yitzchak Hazan. Dopo i
discorsi di rito, i presenti si sono trattenuti a festeggiare con balli
e canti tipici della festa, mentre degustavano le sufganiot che
venivano distribuite. Una risposta forte alle tensioni delle ultime
settimane: quest’anno il messaggio di Chanukkà e le sue luci
hanno avuto così un significato ancor più profondo del solito.
DANIELE TOSCANO
GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776
Festa di Chanukkà per i giovani
34
S
i è tenuta domenica 6 dicembre al Palazzo della Cultura
l'annuale festa di Chanukkà del Dipartimento Educativo
Ufficio Giovani, con la partecipazione dei movimenti giovanili ebraici Hashomer Hatzair e Bnei Akiva. Forte la
solidarietà e in tanti hanno donato giocattoli, libri, sufganiot o
semplicemente partecipato come volontari. Una piramide di giocattoli accoglieva quindi i bambini nello spazio del cortile della
scuola.
Lo stesso spirito di solidarietà ha caratterizzato la campagna
"Adotta un libro" del DIPEDUC con cui è stato possibile donare
libri ai bambini di diversi talmudei torà romani.
La festa è stata divisa per tematiche: si poteva trovare uno stand
i è svolta anche quest'anno, come di consuetudine, l’accensione pubblica della channukià nell’Ospedale Israelitico,
con il coinvolgimento dei medici, del personale sanitario,
dei pazienti e dei membri della Comunità Ebraica di Roma.
La cerimonia, svoltasi nella sede dell'Isola tiberina, il quarto giorno
di Channukkà, è stata quest'anno fortemente simbolica, "portatrice di luce e di speranza" - come l'ha definita il commissario straordinario Alfonso Celotto - "i cui significati assumono un valore
ancora più profondo in queste ore in cui" - come ha annunciato
- "siamo in procinto di riaccendere anche i servizi di questo antico
Ospedale Israelitico che sin dal 1600 presta la sua opera a Roma."
Usato anche dal ministro della salute, Beatrice Lorenzin, il parallelismo con la festa ebraica, che si è augurata che "queste fiammelle
possano tornare a brillare"; e dal Rabbino Capo Riccardo Di Segni:
"c'è sempre una boccetta di olio puro che rappresenta la continuità, il miracolo deve ripetersi qui, lo stiamo aspettando".
Era presente all’evento anche Ruth Dureghello, presidente della
CER, che ha ricordato come “il primo pensiero sia per i pazienti” essendo l’ospedale “un punto di riferimento”, in cui lavorano
“centinaia di persone qualificate”, augurandosi che “possa rinascere in modo ancora migliore”.
Anche l'accensione stessa della Channukkià è stata altamente
significativa: lo Shammash è stato acceso dal commissario straordinario, la prima candela dal Rav Di Segni, la seconda dall'ambasciatore Israeliano a Roma Naor Gilon, la terza dalla Dureghello,
e la quarta "da una dipendente dell'ospedale di religione ebraica",
perché come è stato sottolineato "non tutti i dipendenti sono di
religione ebraica".
SARA HABIB
con attività educative e creative sulla storia, sulle halachot, sulle
tradizioni; educatori giravano sulla piazza cantando e ballando.
Non sono mancati inoltre spazi con giochi e strategie di decisione
nei giochi proposti dal Bene Akiva e dal Hashomer Hatzair. A
rendere l’ambiente ancor più accogliente e gioioso era il dj, capace
di far ballare mamme e papà e far battere le mani piene di colla
dei bambini. La attività più entusiasmante per i piccini è stata il
bingo, che aveva come premio i giocattoli della piramide.
Nello stesso giorno si è tenuta nell’Oratorio di Castro, a Via Balbo,
la tradizionale cena annuale di Hanukkà per le famiglie frequentanti il tempio, con gli interventi del Rabbino Capo di Roma, Riccardo Di Segni e dei rabbanim Gianfranco Di Segni, Alberto Piattelli e Enzo Di Castro.
MICOL SONNINO
Tempio dei giovani,
il tempio della ‘forza’
L
a festa di Chanukkà di questo anno segna un anniversario
importante per il Tempio dei giovani. Trenta anni fa,
durante la festa di Chanukkà, di mozzè shabbath, con una
solenne cerimonia, veniva rimessa in uso la sinagoga della
vecchia casa di riposo ebraica, voluta nel 1937 da Rav David Prato.
Con l’acquisizione dell’immobile di via Fulda negli anni Settanta, il
tempio venne chiuso, perché gli anziani furono trasferiti nella
nuova struttura della Magliana.
Nel 1985 Rav Toaff, di comune accordo con l’allora presidente
dell’Ospedale Israelitico, Santoro Coen, decise di dare nuova vita
alla vecchia sinagoga dedicata a due personaggi molto amati dagli
ebrei romani: Rav David Panzieri, che grazie alla sua opera permise
di svolgere le officiature anche nel 1944, durante l’occupazione
nazista, e Amadio Fatucci, officiante trucidato alle Fosse Ardeatine.
Durante la cerimonia mi resi conto che in realtà la riapertura era
più un espediente per bloccare uno sciagurato progetto di un ricco
signore inglese che voleva far cacciare l’ospedale per creare al suo
posto un fantomatico museo dell’Isola Tiberina e del Tevere. A
quel punto, in modo molto coraggioso e azzardato, dopo uno sguardo d’intesa con alcuni amici, mi feci dare le chiavi e annunciai che
avremmo creato il.....’Tempio dei giovani’, senza sapere in realtà di
cosa si trattasse realmente.
Fu un inizio abbastanza difficile, per certi aspetti anche contrastato, ma che nel corso del tempo ebbe grande successo. Le funzioni
furono sempre molto frequentate e si segnò un modo diverso di
interpretare un bet haqneseth: non solo preghiere, ma anche studio e socializzazione.
Da quella esperienza si sono creati altri due batté haqneseth: il
Beth Shalom nel quartiere Marconi e il Beth Michael a Monteverde,
due templi sempre molto frequentati e molto attivi anche nelle
attività culturali e sociali. In pratica si era cambiata una tendenza,
non più una struttura statica in attesa di frequentatori, ma strutture dinamiche che andavano incontro alle esigenze degli ebrei che
ormai non erano più concentrati nel vecchio quartiere ebraico.
Quel l’impegno iniziale era servito a creare anche una classe dirigente più consapevole di tematiche ebraiche, con un impegno non
solo nello studio, ma anche nella gestione comunitaria.
Oggi, a trent’anni di distanza, noi, che come ci ha definito la presidente Ruth Dureghello, siamo “diversamente giovani”, sentiamo la necessità di creare un nuovo progetto che faccia diventare
nuovamente questa sinagoga un tempio dei giovani. Stiamo provando a creare un nuovo gruppo e il serbatoio naturale non può
che essere la scuola ebraica, dove la gestione delle tefilloth e delle
attività culturali sia totalmente gestita dai giovani della nostra
comunità, che con umiltà vengano a studiare i canti romani, che
mantengano le tradizioni romane, sempre più “contaminate” da
influenze esterne, ma che siano sempre in sintonia con l’halachà.
Dicono i Maestri del Pirqè Avoth: “ ... ‫בן שלושים לכח‬...”, i trent’anni
sono quelli della forza. In questo momento abbiamo veramente
bisogno di una grande forza per affrontare questa sfida, vista la
crisi economica, di valori, identitaria e le difficoltà che alcune
nostre istituzioni stanno vivendo, ma se Rav Panzieri ha sfidato e
avuto la meglio sui nazisti, noi, forti del suo insegnamento, possiamo farcela.
Con questo spirito sabato 12 dicembre abbiamo festeggiato questi
trent’anni allo Sheraton Hotel e colgo l’occasione per ringraziare la
direzione dell’albergo per il trattamento, con una bellissima festa,
con ottimo cibo, musica bellissima e soprattutto tanta gioia.
Un ringraziamento particolare alle belle parole sincere della Presidente della Cer Ruth Dureghello e del Rabbino Capo, Rav Riccardo Di Segni.
SANDRO DI CASTRO
Da Roma la solidarietà
al piccolo Yotam
Tra i tanti aiuti va segnalata l’iniziativa partita da Roma, nata
“dall’idea di un gruppo di amici" che si sono attivati e nel giro di
pochi giorni hanno creato, con il passa-parola, una catena di solidarietà: sono stati raccolti ben 7.000 euro ma soprattutto 250 chili
tra giocattoli, peluche, abiti, disegni, materiale per la didattica,
ecc. (che sono stati inviati grazie alla collaborazione dell'El Al e
che verranno consegnati con la collaborazione di alcuni italkim
che vivono a Gerusalemme).
“Il messaggio che volevamo mandare – ha spiegato uno degli
organizzatori – era di togliere qualcosa ai
nostri figli, per donare qualcosa ad un
altro figlio. Un messaggio che tutti hanno
compreso, i bambini sono venuti accompagnati dai loro genitori”. “Quando poi
abbiamo contattato l’Ospedale Hadassah
per organizzare la consegna del materiale
– spiegano gli organizzatori – all’inizio la
sig.ra Hadar Elboi, responsabile delle
relazioni, non credeva alle sue orecchie
ed è rimasta molto colpita dalla nostra
iniziativa". "Una grande mitzvà, una solidarietà concreta - ha sottolineato il vice
presidente della Cer, Ruben Della Rocca
- che dimostra lo straordinario lavoro svolto dai volontari. Sono
queste iniziative spontanee che costituiscono la ninfa vitale della
nostra Comunità".
Ferito gravemente in un attentato a
Gerusalemme, ha ricevuto una montagna
di doni e regali. Una bella iniziativa nata
da un gruppo di volontari
L
o scorso 14 dicembre un attentatore palestinese si è lanciato con
la sua autovettura contro un
gruppo di persone in attesa alla
fermata di un autobus a Gerusalemme.
La violenza dell'urto dell'auto lanciata a
forte velocità, ha persino sradicato un
idrante ed ha ferito in modo molto serio
11 persone, fra di esse un bambino di
appena 18 mesi, Yotam Shmuel ben Yael.
A causa delle ferite riportate, al piccolo
Yotam è stata necessaria amputare un
gamba, un intervento che lo lascerà fisicamente invalido ma attorno al bambino si è subito attivata una
rete di sostegno e di aiuto per dare solidarietà a lui e alla famiglia,
immigrata recentemente dalla Francia.
GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776
Celebrati i 30 anni di una sinagoga che oggi
cerca un nuovo progetto per avvicinare allo
studio e alla preghiera le nuove generazioni
35
ROMA
LIBRIEBRAICA
Incontro in Campidoglio per imparare
ad insegnare
S
i è tenuto, lo scorso novembre nella sala della protomoteca in Campidoglio, un interessante seminario dal titolo
“L’educazione metropolitana - Alleanze educative per la
crescita della persona e delle relazioni sociali”. L’iniziativa è servita a mantenere vivo e progettuale il pensiero di quanti
operano con e per i giovani, offrendo l’opportunità di diverse
chiavi di lettura e occasioni di suggestione per contaminare sempre più, non solo le future politiche sociali e scolastiche ma
anche le azioni quotidiane degli operatori di ogni ambito.
E’ stato presentato il libro “La mappa e il territorio: ripensare
l’educazione tra strada e scuola”, che riporta una serie di interventi riguardanti direttamente o indirettamente la metodologia
dei Maestri di Strada.
Il binomio interessante, suggerito da Cesare Moreno presidente
dell’Associazione Maestri di Strada, era quello di ripensare ai
piani educativi e ai piani sociali come ad un’unica possibilità di
strada formativa, che non deve essere costruita separata e
distante.
Non si può investire pedagogicamente e politicamente in questa
traiettoria, immaginando due mondi. Il pensiero sociale si intreccia con pensieri diversi, il pensiero del singolo deve essere per
l’altro e quello dell’altro per il singolo; se non conosco me stesso
non potrò capire chi ho davanti e in quest’ottica l’alleanza tra chi
educa, chi vive e si muove nel sociale è strategica.
Il lavoro svolto nel seminario in sottogruppi tematici di scambio
e confronto (cui hanno partecipato la responsabile del Dipartimento Giovani Lidia Calò, insieme Alessandra Calò, Jessica
Piazza, Karen Mieli, e Martina Terracina) ha proposto cinque
parole chiave per ripensare l’educazione tra strada e scuola: 1.
Educazione civile: educazione tra solidarietà umana e resistenza
civile; 2. Periferie: educare le periferie ossia conoscere ed integrare ciò che sta alla periferia della mente, delle città e del
mondo; 3. Pensare: far accadere il pensiero: la riflessività come
comportamento sociale, il gruppo riflessivo come contenitore che
può rendere possibile il pensiero; 4. Pedagogia errante: apprendere dai contesti, apprendere nelle transizioni, apprendere camminando; 5. Alleanze educative: per crescere un uomo è necessaria una città intera: alleanze educative per una educazione
metropolitana.
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Israele e lo Spazio,
un convegno al Pitigliani
36
I
l 3 Dicembre Il Pitigliani ha ospitato
l’incontro “Israele e lo spazio”, in cui è
stato presentato un programma di
ricerca spaziale del Technion e dell’Istituto di ricerca Asher Space, inoltre è stato
firmato un accordo tra l’Università di Roma
La Sapienza e il Technion stesso per l’equiparazione dei dottorati di ricerca.
Il Technion è una delle più prestigiose Università Israeliane: nata nel 1912, la sua
qualità ha raggiunto il culmine con l’arrivo degli scienziati scappati dalla Germania Nazista e, ad oggi, con i suoi 14 mila studenti è considerato uno dei più importanti centri di ricerca del
mondo. Vi si studiava in lingua tedesca, in ebraico dopo la fondazione dello stato d’Israele e oggi tiene molti corsi di studio in
inglese, fattore di grande attrazione per studenti provenienti da
tutto il mondo.
L'importanza di essere
cittadini del mondo
Molteplici le iniziative
della scuola ebraica all’estero
È
ormai sempre più importante, nel mondo di oggi, avere
una mentalità aperta, essere dei viaggiatori, conoscere più
lingue. Sicuramente lo è nella visione delle scuole medie
e superiori ebraiche, dove negli ultimi anni sono stati organizzati per gli allievi sempre più scambi culturali e campo-scuola
all’estero. È attivo da ormai 4 anni il progetto per le terze medie, che
prevede un viaggio d'istruzione di qualche giorno in una diversa
capitale europea (di solito nell’area centro-orientale) per visitare la
città e conoscerne la storia e la comunità ebraica, e soprattutto, un
gemellaggio con la scuola ebraica del luogo, i cui studenti verranno
poi in visita a Roma. Alcune delle città visitate (per ora Istanbul,
Budapest, Praga, Bucarest e Berlino) sono inoltre mete molto poco
turistiche, rendendo quindi il viaggio degli alunni un'esperienza
unica per visitare nuovi posti. "È un progetto sul quale abbiamo
massicciamente investito", dice il preside Rav Benedetto Carucci,
"con questi viaggi gli studenti hanno la possibilità di conoscere coetanei di altri paesi, con una forma di educazione molto diversa.
Tuttavia, essendo una scuola ebraica, il percorso è più semplice,
nonostante tutto, c'è un retroterra comune".
Simili i gemellaggi organizzati per il liceo, dove l'esperienza è però
ancora più intensa. I ragazzi alloggiano infatti presso le case degli
allievi del luogo, e ricambiano poi questi vengono in Italia. Le mete
per ora sono state New York, e San Josè, in Costa Rica. Anche i
campo-scuola “regolari” sono preferibilmente all'estero, gli alunni
del linguistico si recano spesso in località dove si parlano lingue
da loro studiate, mentre ogni anno tutti i ragazzi di secondo liceo
vanno per due settimane in Israele. Viene inoltre supportato l’anno
(o il semestre) di studio all’estero, di solito durante il quarto liceo,
permettendo quindi agli alunni di vivere questa esperienza senza
paura di future ripercussioni sul piano scolastico.
"Fa tutto parte di una filosofia formativa nella quale viene molto
valutata l'apertura" dice Carucci . "A volte la comunità ebraica di
Roma pensa di essere un'entità autoreferenziale, visitando diverse
comunità ebraiche è importante che gli studenti capiscano che l'ebraismo è legato alla tradizione locale, ma ha anche una dimensione
globale".
SARA HABIB
“La visione profetica di Einstein ci ha portato dove siamo oggi, la
battaglia per la sopravvivenza di Israele comincia dall’esperienza
nel campo della tecnologia e dell’innovazione”, ha commentato
l’Ambasciatore di Israele Naor Gilon.
La prestigiosa realtà accademica del Technion rappresenta l’eccellenza Israeliana e
con un accordo di equiparazione dei titoli
permetterà una nuova apertura, nuovi sbocchi per gli studenti Italiani e l’avvio di una
serie di attività e di progetti da condurre
insieme.
In rappresentanza dell’Asher Space Research Institute, è intervenuto il professor Pini
Curfil, che ha presentato un nuovo progetto
di tecnologia spaziale, il progetto SAMSON,
a cui stanno lavorando congiuntamente questo laboratorio di ricerca e il Technion. Tale progetto è mirato alla costruzione e al lancio
di tre nano-satelliti completamente autonomi, capaci però di operare nello spazio come un gruppo coordinato: si tratterebbe della
prima costellazione di nano satelliti mai inviata nello spazio, un
programma ambizioso sia a livello scientifico che geostrategico.
REBECCA MIELI
Foto Micol Funaro
L’educazione metropolitana
Organizzata dal KKL la conferenza
“Georges Loinger racconta Exodus”
“U
n vero uomo” il protagonista dell’incontro del 29
novembre - anche anniversario dell’approvazione all’ONU del piano di ripartizione della Palestina, come ricordato all’evento - all’Hotel Quirinale, Georges Loinger, ebreo alsaziano, di ben 105 anni. “Un uomo
che quando ha capito che erano in pericolo le vite dei bambini,
non ha esitato a scappare da un “comodo” campo di prigionia per
cercare di salvarli. Un uomo che ha camminato accanto a grandi della storia di Israele
per decenni, senza mai dire di no ai progetti
per migliorare il mondo” come lo ha definito
Raffaele Sassun, presidente del KKL Italia,
organizzatore dell'evento.
"Ci sono forze malefiche che vogliono sottomettere il mondo occidentale" ha dichiarato
legandosi all'attualità."Come diceva Einstein: 'Il mondo non sarà distrutto da chi fa
del male, ma da quelli che guardano senza
fare nulla', non è certo questo il caso di Loinger. Secondo il Talmud, in ogni generazione
esistono 36 Zaddikim Nistarim, giusti nascosti. Persone speciali che grazie alle loro azioni giustificano davanti al Signore il diritto di
esistenza del mondo, anche se il mondo è
degenerato a livelli di barbarie totale"la poetica introduzione che gli ha riservato. "Questi
Zaddikim, dopo aver compiuto le loro gesta, ritornano all'anonimato della vita normale, senza che la gente normale si accorga
di loro. Ma chi è attento, ogni tanto, riesce a scoprire un Zaddik
Nistar".
“Il Signor Segre Amar Emanuel, presente all’evento, mi ha invitato prima a Torino, poi qui, perché non voleva uno storico, ma un
testimone”, ha esordito Loinger. Incredibile è infatti la storia che
ha narrato ai presenti.
Portare il cielo in terra
Il Fabrengen in ricordo di Rabbi Shneur
Zalman di Liadi, primo Rebbe di Lubavitch
Y
ud Tet (19) Kislev, è una data molto significativa per il
movimento Chabad Lubavitch, ricorda il rilascio dell'Alter Rebbe - Rabbi Shneur Zalman di Liadi, primo Rebbe di Lubavitch - da una prigione russa, e viene tradizionalmente festeggiata
in tutto il mondo con dei Fabrengen.
Anche a Roma se ne è tenuto uno, al palazzetto degli scout, organizzato da Chabad Lubavitch Roma.
Ma cosa rende questa ricorrenza così speciale?
"Questa data è considerata la 'Rosh Hashanà- Capo
d'anno per la Chassidut' perché la liberazione del
Rebbe rappresentava il segno che H. aveva approvato ciò che questi si prefiggeva di fare tramite la
Chassidut, che fossero studiate le profondità della
Torà, e che lo potessero fare tutti", ha spiegato alla
serata il Dottor Yoav Dattilo.
“La Chassidut non offre un percorso semplice,
la soluzione facile è vana, non ha per noi valore,
Arruolatosi nell'esercito francese, viene fatto prigioniero con
i compagni di reggimento e portato in Germania, "lì eravamo
tranquilli, protetti dall'esercito tedesco, nessuno lì scoprì mai
che fossi ebreo, ero come gli altri. Addirittura, ogni settimana ci
arrivavano dei pacchi di cibo dalle nostre mogli, dicevano che i
tedeschi non sapevano cucinare”, racconta. Ma per amore della
moglie decide di evadere, passando per Strasburgo, e si unisce
alla resistenza ebraica, incorporata a quella francese, iniziando la
sua opera di salvataggio.
“Avevamo ricevuto molti soldi dagli americani per poter pagare
delle famiglie francesi che ospitassero presso di loro dei bambini
ebrei, ma alcuni ragazzi erano religiosi e si rifiutavano di vivere
presso goim. Era un grande problema, dovevamo farli arrivare in
Svizzera. Se il salvataggio è riuscito è stato anche grazie ad un
soldato italiano, sono molto grato all’esercito italiano, che verso
la fine del '42-'43 controllava il confine, e si è
rivoltato, è andato contro Hitler".
Finita la guerra ebbe poi un ruolo importante
nell’affare Exodus, fu lui ad occuparsi delle
modifiche necessarie a riadattare la nave, costruita per trasportare 500 persone in modo
che ne potesse contenere 4500. “Allora ero il
presidente della Compagnia di Navigazione
Israeliana ZIM e ricevetti a Parigi la visita di
due persone che parlavano ebraico. Mi dissero 'Noi sappiamo bene cosa sai fare, devi
aiutarci'..... costruimmo nella nave anche dei
motori speciali per farla andare più veloce".
Gal Shachar di ZIM Italia, ha quindi rivolto
all’ex presidente parole di lode e ringraziamento - “i tuoi successi sono diventati leggendari… Tu eri a capo della compagnia
quando mosse i primi passi in Europa”.
Nel 1959 poi, il gesuita Michel Riquet, amico
di Loinger, deciso a dar vita a un atto simbolico di grande impatto
di riconciliazione fra tedeschi e francesi organizzò il Primo Congresso Eucaristico, e affinché questa simbologia fosse davvero
potente, volle che questo incontro avvenisse su una nave israeliana. Ci pensò ancora Loinger: come Direttore, nominato da Ben
Gurion in persona, organizzò l'itinerario. Ultima tappa Barcellona
dove gli ebrei erano stati cacciati nel 1492.
SARA HABIB
come tutte le cose, materiali e spirituali, non guadagnate con
la fatica. E non dice: ‘Io ti porterò al cielo' anche perché, chi ha
detto che bisogna arrivarci? H. non ci ha messo sulla terra per
scapparne. La Chassidut ci mostra come portare il cielo in terra,
come vivere nella realtà", ha poi sottolineato Rav Shalom Hazan,
facendo chiarezza sulla vera natura della Chassidut. "Nella visione
cosmica delle cose l'uomo ha un potere molto maggiore rispetto
agli angeli, che sono uno strumento, programmati esclusivamente per svolgere il proprio compito.
L'essere umano invece dispone di intelligenza, ha
la possibilità di scegliere."
"Cerchiamo di portare questi pensieri così alti terra-terra", ha esordito Rav Moshe Lazar, da Milano,
ospite d'onore dell'evento, che si è invece concentrato maggiormente sull'aspetto pratico. "Diciamo
sempre che il popolo ebraico è Chaii ve Kayam,
perchè due verbi? Qual è la differenza tra i due?
Uno significa vivere, l’altro esistere. C'è molta differenza tra i due: noi dobbiamo vivere ogni momento al meglio delle nostre capacità, non esistere
aspettando che il tempo passi. L'obiettivo di questa serata è uscire accesi, per poter illuminare il
mondo con la luce della Torà".
SARA HABIB
GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776
Uno Zadik nistar,
un giusto nascosto
37
ROMA EBRAICA
LA PILLOLA DEL MESE DOPO
La rubrica anticonvenzionale da prendere
quando la notizia è in "ritardo"
Giubileo 2015: il risveglio
della porta
D
iscreto afflusso di fedeli per il primo giorno di apertura
della porta santa. Un po’ meno di quelli che ci si aspettava, visto che ne erano stati previsti 193,627 ma ne
sono arrivati invece 10.000. L’arcano sulla discrepanza
dei dati pare sia spiegato dal conteggio dei fedeli da parte della
prefettura, effettuato in lire anziché in euro.
Grandissimo invece il dispiegamento delle forze dell’ordine: polizia, carabinieri, vigili, guardia di finanza, GSSU, NOCS, Cisviaggiareinformati, forestale (vero! Ma non si sa mai, in questo periodo capita spesso di incontrare cinghiali aggirarsi per Borgo),
volontari capitati e involontari malcapitati, tanto è vero che in un
primo momento si è creduto fosse “Il giubileo delle forze armate”.
Aggiunte in un secondo momento anche pattuglie di Stormtroopers, quelle di Star Wars per intenderci, ma faceva parte di un
accordo segreto di collaborazione tra un alto prelato e l’imperatore
del Lato Oscuro in persona.
Presi alla sprovvista dal poco afflusso e totalmente inattivi, gli
addetti alla sicurezza hanno cominciato ad effettuare perquisizioni tra di loro: “Da dove arriva?” “Apra il giubbetto antiproiettile”.
Panico al momento della perquisizione corporale: “È armato, è
armato!”. Una volta arrivati gli artificieri ed effettuati i dovuti
controlli si è constatato che l’unica cosa che era scoppiata era il
fegato dei negozianti, continuamente a braccia conserte.
A proposito dei negozianti, a 10 giorni dall’inizio del giubileo,
tirate le prime conclusioni: stampato subito in grande tiratura il
giornale che rapporta l’anno santo ai problemi da questo causati
al commercio al dettaglio, titolo “Giù bile e giubileo”.
Nel frattempo, viste le brutte, anche il vicariato ha cominciato a
correre ai ripari. Dietro pagamento di penali ha cominciato a disdire i contratti con note aziende, una fra tutte la Telemacom, con la
quale aveva stipulato un accordo di portabilità dei pellegrini.
Ultima, ma non per importanza, l’apertura di un sito internet creato appositamente per cercare di smaltire la merce religiosa ferma
negli scaffali, dal nome “Giubilando”.
Delusi anche i terroristi che, arrivati con tutte le buone intenzioni
e pronti all’azione, non avendo trovato nessuno da terrorizzare
hanno cominciato ad accoltellare ciò che gli capitava a tiro. Ne
hanno purtroppo fatto le spese un povero poncho appeso sul gancio di un negozio, colpito al grido di allah achbar, e un ombrellone
nero chiuso di un ristorante, scambiato per una terrorista con
burqa all'arrivo delle forze dell'ordine. Increscioso poi quello che è
accaduto ad un cameriere (vestito da cameriere…) che, alla domanda: “dove lavora?” ha risposto scocciato: “la’ al bar!!” ed è stato
subito arrestato dai carabinieri.
Alla fine di questo primo mese, dopo l’ennesima lamentela del
tipo “Pe’ la santa porta se sbrigasse a finí sto giubileo”, è stato
preso il primo immediato provvedimento: effettuato subito il cambio del nome, da “Giubileo straordinario della misericordia“ a
“Giubileo della miseria straordinaria”.
ATTILIO BONDÌ
Passata di pomodoro kosher:
un prodotto tutto italiano
market (non kasher).Questa vendita segue di alcuni mesi la cessione, avvenuta alla vigilia dell’attentato all’Hypercacher Vincennes,
dell’omonima catena, passata dalle mani dell’imprenditore delle
carni Emsalem alla famiglia Mimoun. A sparigliare ulteriormente le
carte l’ingresso in campo di un grossista/distributore, che ha aperto
cinque punti vendita al pubblico con l’insegna Family Cash.
MOSE SILVERA
@Uomodelvino
GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776
L
38
e conserve a base di pomodoro sono un prodotto di nicchia
perché l’azienda di cui trattiamo nello specifico, la calabrese Tenuta Agricola Monterosso, è specializzata nell’uso
esclusivo di pomodori datterino e ciliegino, di coltivazione
locale, in alcuni casi bio, quali base per sughi, salse e passate. Questa azienda si sta affermando nel mercato premium con il marchio
commerciale Agromonte, ed abbiamo voluto chiedere al suo direttore commerciale Fabio Turtula cosa abbia spinto l’azienda ad aggiungere la Certificazione Kasher a cura della Orthodox Union:“La scelta
di Agromonte di certificarsi Kosher nasce, da un lato, dalla richiesta
da parte di alcuni clienti francesi che già operano nel mondo Kosher,
dall’altro, dalla consapevolezza che una certificazione come quella
Kosher oggi possa essere, sicuramente, un buon viatico per l’apertura di mercati dove entrare con prodotti convenzionali sarebbe più
difficile. Oltre alla certezza che Kosher vuol dire qualità, vuol dire
controllo rigido dei processi e standard molto alti”.
E’ importante, per evitare di creare confusione nei consumatori,
specificare che non tutti i prodotti a marchio Agromonte già reperibili nei negozi di gastronomia e nella grande distribuzione organizzata sono kasher ma l’azienda ha dato disponibilità per il futuro e
compatibilmente con le esigenze del processo produttivo, in particolar modo l’esaurimento delle etichette già in giacenza, di apporre
sulle nuove produzioni dei propri prodotti certificati il logo OU. Per
il momento i prodotti kosher sono reperibili nel circuito kosher
muniti di uno sticker riportante la Certificazione.
Da segnale alcune novità dal mondo kasher. Molto fermento in Francia, per la decisione di Franck Naouri di vendere la seconda catena
di supermercati Casher nazionale, cedendo la maggior parte delle
superfici al gigante della GDO Casino, che li riconvertirà in city
Allestimenti eventi con buffet dolci e salati
Dolci per shabbath • Kiddushim per i Templi
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Un personaggio
in cerca d’autore
Q
uando Berto aprì l’edicola quella
mattina, nulla lasciava presagire la singolare esperienza che lo
attendeva.
Come ogni giorno dispose la mercanzia
sui banchetti, sciolse i pacchi dei giornali,
preparò le rese delle copie invendute. Poi
dette una spazzata in terra e sistemò i tendalini esterni.
La strada era ancora avvolta dalle brume
dell’alba. Non c’era nessuno in giro e gli
addobbi natalizi lampeggiavano malinconici sulle insegne dei negozi.
In fondo alla strada avevano montato un
albero pieno di luci. L’annuncio festoso di
un Natale sfregiato dalle stragi di Parigi,
pensò Berto.
Faceva freddo e si strinse la sciarpa intorno al collo.
Fu allora che avvertì il torpore. Un malessere vago, un formicolio alle mani, la testa
vuota.
L’albero in fondo alla strada ora era solo un
barbaglìo di luci.
Si affrettò a rientrare e si lasciò cadere sulla sedia. Era spaventato, inutile negarlo.
Per lui, che di fronte al male non era mai
stato un cuor di leone, ogni sintomo era
l’annuncio sinistro di un decorso fatale.
Si prese la testa fra le mani e respirò forte.
Strinse i pugni. Il tremolio stava passando
e anche la testa ora sembrava meno confusa.
E’ passato, si disse, è passato! E già quella
semplice constatazione lo fece stare meglio.
“Sei ipocondriaco” disse una voce alle sue
spalle. “Ne devo prendere nota.”
Berto si volse di soprassalto, col cuore che
gli batteva all’impazzata.
C’era un uomo nell’angolo più buio dell’edicola. Era sprofondato in poltrona e lo fissava dritto negli occhi.
Non l’ho sentito entrare, pensò Berto mentre realizzava che non c’erano poltrone nella sua edicola.
Si stropicciò gli occhi ma questo non lo liberò della presenza dell’intruso.
“Chi sei?” chiese con un filo di voce.
“Non lo immagini?” ribatté quello senza
scomporsi.
Berto non era più in grado di immaginare
nulla. Solo si chiedeva tremebondo se non
fosse per caso già morto. Magari è cosi che
succede, si disse. Magari questo è venuto
a prelevarmi, pensò, sebbene l’uomo non
avesse le parvenze di un messaggero celeste e per buona sorte nemmeno quelle di
una creatura diabolica.
“Chi sei?” ripeté sconfortato.
L’uomo gli sorrise benevolo.
“Puoi chiamarmi Autore, se vuoi. Oppure
Creatore se ti piace di più...”
“Autore di cosa?” chiese Berto più confuso
che mai.
“Davvero non lo capisci? Davvero non avverti il legame che ci unisce? Io sono il tuo
Autore. Sono io che ti ho creato e ho fatto
di te un personaggio. Tu senza di me non
esisteresti...”
Di fronte a una così bizzarra rivelazione
Berto reagì con una risata.
“Bello scherzo!” disse. “Chi lo ha organizzato?”
L’uomo sulla poltrona rimase impassibile.
“Tua moglie... Pensi spesso a lei dopo la
sua scomparsa?”
Una vena di tristezza attraversò lo sguardo
di Berto.
“Non c’è giorno che non pensi a lei...”
“E come si chiamava...?”
Berto roteò intorno lo sguardo con un’espressione smarrita. Aveva il vuoto nella
mente. Come posso aver dimenticato il suo
nome, si chiedeva disperato, senza sapersi
dare risposta.
“Non lo hai dimenticato, Berto. Non lo
conosci, perché io non le ho mai dato un
nome. Tu sei un personaggio. Lei è solo
un’apparizione evanescente... Una comparsa sullo sfondo delle tue vicende.”
Berto si passò le mani sul viso, si toccò le
braccia.
“Io sono qui in carne e ossa. Soffro, spero,
gioisco come tutti. Non sono diverso dagli
altri. Sono un uomo, non un personaggio.”
Nel dirlo però, avvertiva il dubbio crescergli dentro, come un’escrescenza maligna
capace di divorarlo.
L’Autore lo fissò comprensivo.
“Mi lusinga sai, il tuo smarrimento... Evidentemente ho fatto un buon lavoro. Ti
ho dato un’anima, oltre che una presenza
scenica.”
Berto non sapeva più cosa pensare.
“Cogito ergo sum...” mormorò confuso,
cercando in quel motto filosofico, in quel
latinorum di antica reminiscenza, il bandolo di un ragionamento da contrapporre alle
surreali insinuazioni dell’Autore. “Io non
sono una marionetta nelle tue mani” disse,
cercando di imprimere convinzione nelle
sue parole. “Io penso, ragiono, speculo con
la mia testa, non con la tua!”
“È un gioco di specchi il nostro... Ci con-
frontiamo uno nell’altro. Il problema è che
così facendo rischiamo di confondere i
ruoli. Io ho inalato in te il mio soffio vitale
ma...”
“Giochi a fare Dio, adesso?”
“Tutt’altro!” replicò l’Autore agitando una
mano, come per scacciare un pensiero fastidioso. “Ma lo sai perché sono qui...? Te
la sei chiesta la ragione della mia presenza?”
Berto lo fissava senza espressione. Scrollò
le spalle ma non disse nulla.
“Ti dovevo incontrare per capire chi diavolo sei! Perché se è vero che io ti ho creato, è
anche vero che ho perso il tuo controllo...”
Ora Berto lo fissava, più incredulo che mai.
“Questa è bella! Non solo sono un personaggio, ma all’improvviso mi ritrovo senza
un autore. Non ti sembra di esagerare con
le tue fandonie?”
“Fandonie...” ripeté l’Autore pensoso.
“All’inizio credevo anch’io di aver perso la
ragione. Di riempire fogli insulsi, abbandonandomi a una trance schizoide. Eppure,
quando rileggevo le novelle... Ah...! Mi riconoscevo in quelle trame che non avevo
mai concepito... In quei dialoghi sgorgati al
di fuori del mio controllo...”
“Vuoi dire che...?” inizio Berto, intrigato
suo malgrado da quella sofferta confessione.
“Voglio dire che le tue novelle le scriviamo a quattro mani. Io ti do il là ma sei tu
che componi la sinfonia mentre io mi limito
a compilare lo spartito come un diligente
copista. E allora mi domando: che razza
di scrittore sono io, se devo mendicare le
mie storie da uno dei miei personaggi? E
cosa mai scriverò quando non scriverò più
di te?”
Berto che era rapidamente passato dall’incredulità al compiacimento, ora era preso
da una gelida rabbia.
“Ma guardati! Ti commiseri come un bambino. Cosa dovrei dire allora io? Guarda
come mi hai fatto. Vecchio, malandato,
infelice. Mi hai privato di mia moglie, non
mi hai dato figli... E poi mi hai fatto mezzo
ebreo, fuori della mia comunità, relegato in
una terra di nessuno! Tu non mi fai pena!
Tu mi hai dato la vita solo per farmela a
pezzi, per condannarmi alla solitudine e
alla depressione. Tu non sei il mio autore,
tu sei il mio carnefice...!”
Investito da quel rabbioso protestare, l’Autore si portò le mani al volto, mormorando
con voce implorante: “Berto...! Berto...!”
Quella voce arrivava da lontano.
Berto apri gli occhi e faticò a mettere a fuoco il paramedico chino su di lui.
Era confuso e spaventato ma volse lo
sguardo verso il fondo dell’edicola. La poltrona era scomparsa e con essa l’intruso.
Trasse un profondo respiro e si lasciò misurare la pressione.
MARIO PACIFICI
[email protected]
GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776
Berto l’edicolante
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DOVE E QUANDO
GENNAIO
18
LUNEDI
19
17.00 LE PALME
Prove del coro delle Palme
18.00 Centro di Cultura Ebraica
Golda International Events – Libreria Kiryat Sefer
Libreria Kiryat Sefer, via del Tempio, 2
Presentazione del libro di Fiammetta Martegani
“Life on Mars”
Intervengono con l’autrice: Edoardo Camurri
e Piero Vereni, modera Ariela Piattelli
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18.00 Centro di Cultura Ebraica
Libreria Kiryat Sefer
M A R T E D I Lezione con Yarona Pinhas:
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25
La cacciata dall’Eden e la realtà umana
Lezione a pagamento, posti limitati, prenotazione obbligatoria: 0645596107- [email protected]
-------------------------------------------------------------------------------
17.30 LE PALME
Capodanno degli alberi: Seder di Tu Bishvat
DOMENICA -------------------------------------------------------------------------------
16.00 LE PALME
Visita audiometrica eseguita
dalla Dott.ssa Carola Astrologo
LUNEDI
17.30 Comunità Ebraica di Roma – Fondazione Museo
della Shoah – KKL – Regione Lazio - UCEI
26
Auditorium del Museo MAXXI, Via Guido Reni, 4
Presentazione del libro di Alberto Mieli e Ester Mieli
“Eravamo Ebrei. Questa era la nostra unica colpa”,
Marsilio editore
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FEBBRAIO
04
11
27
Casina dei Vallati - Inaugurazione della mostra:
MERCOLEDI Anne Frank una storia attuale
GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776
La mostra rimarrà aperta fino al 6 marzo 2016
40
17.00 LE PALME
31
Per non dimenticare: cerimonia in memoria della Shoah
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16.30 Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma - Centro di Cultura Ebraica – Dibac - Fondazione
DOMENICA Museo della Shoah – Golda International Events Museo Ebraico di Roma
Casa del Cinema, Largo Marcello Mastroianni, 1
Presentazione del documentario Tracce d’amor
di Marina Piperno e Luigi Faccini. Ingresso gratuito su
prenotazione fino ad esurimento posti. Tel. 06.5897589,
[email protected]
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17.00 Le Palme
I segreti della cucina ebraica
G I O V E D I insegnati dai “Nonni”
NOTES
IL PITIGLIANI
Lunedì 11 gennaio e lunedì 8 febbraio ore 19.45
Studio del Talmud a cura di Rav Benedetto Carucci Viterbi.
Questo nuovo ciclo di incontri avrà come filo conduttore il trattato
di Sotà. Info: Micaela Vitale [email protected]
Domenica 17 gennaio dalle ore 10.00 alle ore 14.00
“Trova la tua nuova postura” attraverso il metodo Feldenkrais
Seminario esperienziale condotto da Irene Habib
Prenotazione obbligatoria Info: [email protected]
Domenica 24 gennaio ore 10.30
Memorie di famiglia: i giovani tramandano le storie dei nonni –
pranzo su prenotazione Info: Micaela Vitale [email protected]
Gruppo Ghimel
Tutti i giovedì dalle 16.30 con Davide Spagnoletto ed Elisabetta
Anticoli Moscati Info: [email protected]
Programmi educativi
Domenica 24 gennaio e domenica 7 febbraio dalle 10.30 alle 15.30
Domeniche di ebraismo: tutto su radici e personaggi della storia
ebraica Info e prenotazioni: Roberta Di Nepi [email protected]
LA TOP TEN DELLA LIBRERIA
KIRYAT SEFER
M A R T E D I Centro Bibliografico Tullia Zevi, Lungotevere Sanzio, 5
16.00 Fondazione Museo della Shoah
La parashà della settimana “Mishpatim”
G I O V E D I spiegata da Rav Roberto Di Veroli
17.45 Collegio Rabbinico Italiano – Rassegna Mensile
di Israel – Centro di Cultura Ebraica
Presentazione del volume della Rassegna Mensile di
Israel: “Rabbini di Roma nel Novecento. Vittorio
Castiglioni, Angelo Sacerdoti, David Prato”, a cura di
David Gianfranco Di Segni e Laura Quercioli Mincer
Intervengono: Stefano Caviglia, Riccardo Di Segni,
Mario Toscano e gli autori del volume
Modera: Micaela Procaccia
Saluti della Presidenza della Comunità Ebraica di Roma
e dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
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17.00 Le Palme
1
L’EBRAISMO NELLA VITA QUOTIDIANA
2
LA CABBALA RIVELATA
3
HEIDEGGER E IL MITO DELLA COSPIRAZIONE EBRAICA
4
SAPERE ED ESSERE NELLA ROMA RAZZISTA
5
JIHAD
6
MARTIN BUBER INTERPRETE DELL’EBRAISMO
7
EBRAISMO E GIURISPRUDENZA
8
ALTROVE, FORSE
9
LA SCACCHIERA DI AUSCHWITZ
10
di E. Gugenheim, ed. Giuntina
di M. Laitman, ed. Feltrinelli
di P. Trawny, ed. Bompiani
di S. H. Antonucci e G. Piperno Beer, ed. Gangemi
di M. Molinari, ed. Rizzoli
di G. Scholem, ed.Giuntina
di P. D’Amico, ed. Rubbettino
di A. Oz, ed. Feltrinelli
di J. Donoghue, ed. Giunti
LA PRINCIPESSA DEL SOLE
di D. Grossmann, ed. Mondadori
SHABAT SHALOM
NASCITE
Eithan Funaro di Simone e Marika Efrati
Rachel, Simcha Pace di Maurizio e Federica Di Segni
Ghila Perugia di David e Ester Etel Mutal
Gaia, Miriam Regard di Daniele Massimo e Giorgia Volterra
BAR/BAT MITZVÀ
Rebecca Armignacca di Carlo e Sonia Di Neris
Parashà: Bò
Venerdì 15 GENNAIO
Nerot Shabath: h. 16:46
Sabato 16 GENNAIO
Mozè Shabath: h. 17:50
-------------------------------------Parashà: Beshallach
Venerdì 22 GENNAIO
Nerot Shabath: h. 16.54
Sabato 23 GENNAIO
Mozè Shabath: h. 17.59
Parashà: Ytrò
Venerdì 29 GENNAIO
Nerot Shabath: h. 17.03
Sabato 30 GENNAIO
Mozè Shabath: h. 18.09
-------------------------------------Parashà: Mishpatim
Venerdì 5 FEBBRAIO
Nerot Shabath: h. 17.12
Sabato 6 FEBBRAIO
Mozè Shabath: h. 18.16
RINGRAZIAMENTI
MATRIMONI
Alberto Pavoncello – Ilana Bahbout
Daniel Sciunnach – Giulia Calderoni
e sempre pe’ questo ce se venga ...
partecipazioni - mishmaroth - birchonim - editoria ebraica
Via Giuseppe Veronese, 22 - Tel. 06.55302798
AUGURI
Mazal tov ad Alberto Pavoncello, insegnante della scuola elementare ebraica e ad Ilana Bahbout, collaboratrice dell’UCEI,
per il loro matrimonio. I migliori auguri anche a rav Scialom
Bahbout, padre della sposa, rabbino capo di Venezia.
Mazal tov a Simone Funaro e Marika Efrati per la nascita di
Eithan. Auguri alla famiglia, in particolare al nonno Ugo Funaro,
custode della scuola ebraica.
Le scuole della Comunità Ebraica di Roma sentitamente ringraziano il sig. Luciano Di Castro che, volendo onorare la memoria
della sorella Ermelinda deportata da Roma il 16/10/1943 ad Auschwitz-Birkenau, ha devoluto una somma in denaro da utilizzare
per permettere a studenti in comprovato stato di bisogno di continuare gli studi presso le nostre scuole; nel pieno segno della continuità di vita che da sempre contraddistingue il popolo ebraico.
Il Presidente della Deputazione Ebraica ed il Consiglio desiderano esprimere i loro più affettuosi auguri e sentiti ringraziamenti a Sandro e Roberta Soliani che in occasione delle loro
Nozze d'Oro hanno generosamente devoluto quanto destinato
ai lori regali al sostegno delle famiglie in grave difficoltà della
nostra Comunità. A Sandro e Roberta un affettuoso Mazal Tov!.
Il Presidente della Deputazione Ebraica Piero Bonfiglioli ed il
Consiglio desiderano ringraziare la Signora Anna Rosa Piperno,
persona generosa e sempre vicina alla esigenze dell’Ente. Lo scorso dicembre David Sessa ha brillantemente superato al
Collegio rabbinico, l’esame per la nomina a Maskil. Auguri dalla
redazione di Shalom.
Il Presidente della Deputazione Ebraica Piero Bonfiglioli ed il
Consiglio desiderano ringraziare i Hatanim 5776 per il generoso
e costante affetto manifestato nei confronti dell’Ente in queste
piacevoli occasioni.
È stata recentemente eletta la segreteria della Consulta, presieduta da Claudio Moscati. Essa è così formata: Giorgia Caló,
Daniel Colasanti, Ruben Dell’Ariccia, Davide Jona Falco, Samuel Ouazana e Angelo Sed.
Leonello, Alberto ed Italia Zarfati ringraziano tutti gli amici che
sono stati vicini nella prematura scomparsa di
Elena Di Segni in Zarfati
Borsa di studio su beni culturali ebraici in Italia
Desidero fare un ringraziamento particolare a tutti i volontari del
GEV, Gruppo Ebraico Volontari, ai colleghi della CER, e a tutti gli
amici che mi sono stati vicini nella scomparsa di mia mamma. So
che Vi ringrazia anche Lei. Siete stati unici.
Italia Zarfati
CI HANNO LASCIATO
Maria Luisa Bondì ved. Moscati 05/06/1926 – 30/11/2015
Anna Di Nepi ved. Cianci 10/03/1931 – 02/12/2015
Alberto Di Porto 21/12/1924 -05/12/2015
Alberto, Abramo Funaro 14/02/1931 – 12/12/2015
Giuseppe Novelli 18/07/1941 – 05/12/2015
Allegra Vivanti ved. Astrologo 01/09/1936 – 06/12/2015
Achille Volterra 12/02/1927 – 29/11/2015
IFI
00153 ROMA - VIA ROMA LIBERA, 12 A
TEL. 06 58.10.000 FAX 06 58.36.38.55
GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776
La Fondazione per i Beni Culturali Ebraici in Italia Onlus (FBCEI)
bandisce un concorso per una borsa di ricerca per la redazione di
un lavoro originale su beni culturali ebraici in Italia.
La Fondazione per i Beni Culturali Ebraici in Italia ha il compito
istituzionale di promuovere la conservazione, il restauro, la valorizzazione del patrimonio storico-artistico ebraico in Italia, ivi
compreso indicativamente ogni bene di interesse culturale, religioso, archeologico, bibliografico ebraico, gli studi e le ricerche in
merito, diffonderne la conoscenza (anche a mezzo di pubblicazioni, convegni, seminari, ecc.) in Italia e all’Estero; nonché di concedere sovvenzioni, borse di studio e ricevere contributi per i fini
anzidetti.
Nell’ambito di tali finalità la Fondazione mette a bando per l’anno
2016 una borsa di ricerca, rivolta a giovani studiosi italiani e stranieri sotto i 35 anni.
Il bando è pubblicato su www.beniculturaliebraici.it
Le candidature possono essere presentate esclusivamente via
mail all’indirizzo [email protected]. Termine per la presentazione dei progetti: 31 marzo 2016.
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LETTERE AL DIRETTORE
voce lettori
La
dei
Insieme per Gerusalemme
La Jerusalem Foundation fondata nel 1966 dal leggendario sindaco
di Gerusalemme, Teddy Kollek, si pone l’obiettivo di rendere Gerusalemme, culla delle tre grandi religioni monoteistiche, una capitale
moderna, tollerante e pluralistica.
Il lavoro della Fondazione va oltre le complessità politiche della
città e tocca tutti i settori della popolazione, ebrei, musulmani e
cristiani, religiosi e laici, ogni gruppo sociale, di ogni età, in tutti i
quartieri, est e ovest della città.
Da cinquant’anni, con oltre 4000 progetti, la Jerusalem Foundation
affronta le sfide di questa città speciale, creando cooperazioni filantropiche, lavorando insieme al Comune di Gerusalemme e collaborando con le principali organizzazioni della città, al fine di migliorare la vita di tutti i cittadini.
Lavora con ogni segmento della popolazione, sostenendo in modo
particolare coloro che vivono economicamente e socialmente ai
margini. Sostiene la cultura, convinta che una cultura urbana dinamica diffonde la tolleranza, il rispetto e l’integrazione. Promuove la
pacifica coesistenza, per mezzo di programmi educativi e attività
comuni rivolte a bambini e ragazzi ebrei, musulmani e cristiani.
GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776
L
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[email protected]
Crea nuove opportunità per i giovani al fine di dare loro speranza
per il futuro.La Jerusalem Foundation collega la comunità internazionale alla città e, insieme agli amici di tutto il mondo, si impegna
al fine di rendere Gerusalemme un centro di ispirazione.
Nel 2015-2016 la Jerusalem Foundation festeggia il suo cinquantenario, con vari eventi in tutto il mondo. Le celebrazioni principali si
svolgeranno a Gerusalemme dal 20 al 22 settembre 2016, con la
partecipazione dei nostri amici e sostenitori di tutti i paesi.
Gerusalemme non è solo il conflitto, ma si svolgono anche molte
attività per avvicinare le persone e favorire la comprensione e la
tolleranza. Noi siamo orgogliosi di promuovere tali iniziative.
Spero di farvi cosa gradita se di tanto in tanto invierò degli aggiornamenti su quanto succede a Gerusalemme. Un saluto da Gerusalemme,
TAMAR MILLO
Direttore Dipartimento Italia The Jerusalem Foundation
Il popolo silenzioso
Esiste una realtà che non fa rumore e che tutti fingono di ignorare.
Un popolo con tradizioni religiose diverse da quelle cattoliche.
Quelle della maggioranza degli italiani, ma con tanta saggezza si
Un nuovo Maskil diplomato
al Collegio rabbinico italiano
o scorso dicembre David Sessa, allievo del Collegio rabbinico italiano, ha superato con successo gli esami per il
conseguimento del diploma di Maskil. In un lungo esame
orale, durato circa tre ore e mezzo, David ha risposto a
domande sulla Torà, sul Tanakh, sulla Halakhà, sulla storia e lingua ebraica, sulla Tefillà e ha concluso con una prova di lettura
pubblica di un brano della Torà con la cantillazione. Negli esami
scritti al candidato era stato assegnato un brano da tradurre in
ebraico e un tema da comporre in ebraico dal titolo “In un mondo
globale si suppone che anche le religioni debbano dialogare fra
loro: come ritieni che dobbiamo comportarci noi ebrei di fronte a
una richiesta sempre più pressante in tal senso?”.
La commissione esaminatrice, composta dal Direttore rav Riccardo Di Segni, dal rappresentate della Consulta rabbinica rav Alberto Somekh, dai rabbini Gad Eldad, Alberto Funaro, Umberto Piperno, Amedeo Spagnoletto e Gianfranco Di Segni, alla fine degli
esami ha conferito a David il titolo di Maskil con queste parole:
“La Commissione, constatata la preparazione del candidato, la
sua condotta ebraica e la qualità del suo lavoro professionale, gli
conferisce il titolo di Maskil”. La cerimonia per la consegna del
diploma si svolgerà presto al Tempio Maggiore di Roma.
David Sessa è nato a Roma, è sposato con Sharon Perugia ed è padre di un maschio e due femmine. Oltre agli studi al Collegio rabbinico si è diplomato all’istituto tecnico per geometri. È da anni dipendente della Comunità ebraica di Roma e si occupa sia del culto
che della kashrut. Per due anni ha anche svolto attività culturali
settimanali presso la Sinagoga di Ostia, che ormai ha un bacino
d’utenza pari a quello di una piccola comunità ebraica italiana.
A David le più calorose congratulazioni e gli auguri per il proseguimento degli studi al Corso superiore del Collegio.
Buon compleanno
Lo scorso 27 dicembre, Rina Terracina ha festeggiato presso la
Casa di Riposo un importantissimo traguardo: i 100 anni.
La signora Rina, insieme al fratello più ‘giovane’ (Alberto, 95 anni),
ha tagliato la torta e spento le 100 candeline festeggiata da amici,
parenti e molti consiglieri della Comunità.
Du’ zeri intensi d’amore…
Se’ svejato er cielo insieme all’occhi tua celeste mare…
Che coloreno du’ zeri intensi pieni de’gioia e de’dolore…
Se’ svejato proprio oggi un secolo d’amore…
De’ forza de’coraggio dentro er core…
Esile d’aspetto… pettinata…
Na’ chioma che d’argento è diventata…
Tu… roccia che hai respinto… di lacrime onde…
Che hai custodito dentro saggezza e cose immonde…
Se’ aperto er cielo a festeggia’un traguardo…
E co’ no squarcio se ‘ntravede quarche sguardo…
So’ le stelle tue che brindeno co’te stasera…
‘Na vita assaporata…
‘Na vita vera…
Insieme alle ricchezze che er Signore D-o t’ha dato…
Spegnerai le candeline prennenno tanto fiato…
Perché tu sei la colonna portante della famija…
E hai dato tarmente tanto che ancora lasci a scia…
SILVANA MOSCATI
Un grazie alla sorveglianza
Voglio ringraziare a nome mio e a nome della “Compagnia del teatro giudaico romanesco”, il presidente della comunità Ruth Dureghello ed il responsabile della sicurezza Gianni Zarfati, per aver
richiesto la presenza delle forze dell’ordine durante le serate della
nostra rappresentazione. Vogliamo inoltre ringraziare di cuore tutti
gli amici che hanno garantito con la loro presenza la sicurezza
durante gli spettacoli.
GIORDANA SERMONETA
Smokéd / affumicato: un gioco di parole. Una sfida nel
segno di uno humor che non vuole offendere nessuno,
ma sorridere di tutto.
Qualche personaggio della carta stampata e dei soliti overdosati talk-show si è messo recentemente a discettare di sciiti e
sunniti, animato dalle tradizionali e nazionalpopolari idee: poche, ma confuse. E così i sauditi, amicissimi fino a ieri, sono stati
trasformati nei cattivoni del momento. A favore, naturalmente
degli hayatollah di Teheran, accortamente riciclati nonostante il
sostegno al micidiale despota di Damasco. Tutti li volevano “desanzionati” al più presto. Poi qualcuno si accorge che il prezzo
del petrolio è in caduta libera, tra effetto serra, Conferenza di Parigi, crisi economica globale. Contrordine, editorialisti. Se arriva
di colpo sul mercato il greggio di Teheran, le grandi compagnie
del petrolio offshore, anche italiane, produrranno probabilmente
in perdita. Come non bastasse, l’amico Obama ha sbloccato anche le vendite verso l’estero del greggio USA. Tranquilli, qui la
benzina continueremo a pagarla cara.
Smokéd
PER LA VOSTRA PUBBLICITÀ
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Cell. 392.9395910
SHALOM‫שלום‬
EBRAISMO INFORMAZIONE CULTURA
Giacomo Kahn Direttore responsabile
Attilio Bondì
Sara Habib
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Giorgia Calò
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Giorgia Calò
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di redazione
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Autorizzazione Tribunale di Roma
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Progetto grafico: Ghidon Fiano
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Visto si stampi 7 gennaio 2016
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Prof. Emanuele Di Porto scrivendo alla Segreteria della Comunità - Lungo­tevere Cenci - Tempio
00186 - Roma • Tel. 06/68400641.
GENNAIO 2016 • SHEVAT 5776
adegua pur non perdendo nulla della sua identità e della straordinaria storia che lo accompagna. Non fanno il presepe, “loro” non
fanno l’albero ma nessuno vedrà mai uno di loro offendersi o protestare. Non si cibano di maiale, ma non hanno mai avuto la pretesa
che scuole e mense cambiassero menù appositamente per non
turbarli. Li vedi in uffici pubblici dove è appeso il crocefisso che
nessuno mai ha pensato di togliere per non offenderli, non è un
popolo che si offende facilmente. Purtroppo è invece un popolo che
si dimentica facilmente. Viene nominato solo quando deve essere
incolpato, strumentalizzato. Eppure…
Ha contribuito alla crescita del paese come ogni italiano. Ha combattuto le guerre dell’italiano. Non ha mai rinunciato, anzi, è fiero
della propria identità italiana. L’Italia non lo ha mai ripagato del suo
impegno e troppe volte gli ha voltato le spalle.
Il popolo ebraico italiano, silente e coraggioso. A cui nessuno ha
mai concesso sgravi, bonus e buoni pasto, solo in virtù del loro
essere stranieri. Le canzoni natalizie non offendono la comunità
israelita italiana, uccide l’indifferenza. Eppure nessuno di loro grida
“Ci siamo anche noi”. Sarebbe giusto che, almeno per una volta
qualcuno non lo ricoprisse di infamie ma ne riconoscesse i meriti.
Felice Hanukkah.
CLAUDIA ZUFFI
43
www.positivoagency.com
LASCIA
UN BUON SEGNO
TESTAMENTI
I progetti di Lasciti e Donazioni danno pieno valore
alle storie personali e collettive degli amici del popolo
ebraico. Un testamento è una concreta possibilità per
aiutare oggi e domani l’azione del Keren Hayesod.
FONDI
Il nostro buon nome dipende dalle nostre buone azioni.
Un fondo a te dedicato o alla persona da te designata,
è la migliore maniera di lasciare una traccia duratura
associandola ad un ambito di azione da te prescelto.
I temi ed i progetti non mancano.
Una vita ricca
di valori lascia
il segno anche
nelle vite degli altri.
Nel presente
e nel futuro.
PROGETTI
Il KH ha tanti progetti in corso, tra gli altri; progetti
per Anziani e sopravvissuti alla Shoah - Sostegno
negli ospedali - Bambini disabili - Sviluppo di energie
alternative - Futuro dei giovani - Sicurezza e soccorso
- Restauro del patrimonio nazionale. Progetti delicati,
dedicati, duraturi nel tempo. Di cui sei l’artefice.
Giliana Ruth Malki - Cell. 335 59 00891
Responsabile della Divisione Testamenti Lasciti
e Fondi del Keren Hayesod Italia vi potrà dare
maggiori informazioni in assoluta riservatezza
Enrica Moscati - Responsabile Roma
Tu con il Keren Hayesod
protagonisti di una storia
millenaria
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Roma, C.so Vittorio Emanuele 173, - Tel. 06.6868564
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