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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
La Corte di Appello di Salerno Sezione Civile – riunita in Camera di
Consiglio nelle persone dei sigg. Magistrati:
Dr Marina Ferrante
Presidente
Dr Francesco Flora
Consigliere Rel
Dr R. D’Apice
Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile iscritta al n. 1499/2004 Rg. avente ad oggetto :
risarcimento danni;
vertente
TRA
D B. B. e R. M. in proprio e quali genitori esercenti la potestà sul minore A.
G. D.B. rapp.i e dif.i avv.i Antonio Rizzo e Mario Conte
APPELLANTI
E
P. dott. G. rapp. e dif. avv. Valerio Torre
APPELLATO-APPELLANTE IN VIA INCIDENTALE
Le parti concludevano come in atti alla udienza in data 13-1-2011 e la
causa veniva riservata per la decisione con il termine massimo per le
comparse conclusionali e per le repliche.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione notificata in data 30-9-1996 D.B.B. e R. M. in proprio e quali
genitori esercenti la potestà sul minore A. G. premesso che il ginecologo
dr G. P., operante presso il centro “ prevenzione donna” di Eboli di cui era
titolare, dopo avere accertato nell’agosto del 1994 che la attrice era in
stato di gravidanza, aveva visitato la donna in data 9-9-1994 ed in data
12-10-1994;
che contestualmente aveva sottoposto essa attrice a due esami ecografici
senza operare alcun esito diagnostico negativo;
che, solo in data 24-11-1994, quindi, alla 27,6° settimana di gravidanza, la
sostituta del dr P., dr.a G., praticando una nuova ecografia, riscontrava la
esistenza di gravi malformazioni che affliggevano il feto ossia gastroschisi
e piede malformato e torto a destra ;
che, tale diagnosi veniva successivamente confermata presso l’Ospedale
di Eboli e presso la Clinica Ginecologica ed Ostetrica della II facoltà di
Medicina e Chirurgia dell’Università di Napoli ove la R. partoriva in data
12-1-1995;
che, il neonato, a causa delle predette gravissime malformazioni, veniva
immediatamente sottoposto a vari interventi chirurgici onde fare rientrare
in addome le viscere con la creazione di un silos in silicone e veniva
dimesso solo in data 23-5-1995 con diagnosi finale di “ gastroschisi;
agenesia peronale e raggi laterali piede dx”;
che, successivamente si erano rese
necessarie
molteplici visite
specialistiche, anche all’estero, ed il minore, che allo stato presentava una
eterometria ingravescente degli arti inferiori per ridotto accrescimento della
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gamba destra, era in attesa di ricevere altri interventi chirurgici atti ad
amputare la gamba ovvero a correggere la malformazione, anche, con
interventi di allungamento;
che, dunque, risultava evidente l’errore professionale commesso dallo
specialista che aveva svolto e letto i predetti esami ecografici in modo
superficiale e lacunoso sì da non avere operato la corretta diagnosi.
Ciò posto, gli attori, rilevato che dette malformazioni risultavano
diagnosticabili già tra la nona e la quattordicesima settimana, anche, nella
anzidetta qualità, convenivano in giudizio il ginecologo dr G. P. onde
sentirlo condannare:
-
al risarcimento di tutti i danni conseguenti dalla mancata diagnosi
delle gravi malformazioni fetali delle quali era risultato portatore il
loro figlio A. G., con conseguente impossibilità di accedere
all’interruzione volontaria terapeutica della gravidanza risultando
pacifico che ;
-
per il riconoscimento del danno da procreazione stante la legittima
aspettativa dei genitori alla nascita del concepito come individuo
sano, inteso, quale, “ ingiusto danno derivante da inesatta
valutazione del quadro clinico, precedente al parto, da cui sia
conseguita una totale o irreversibile compromissione dell’integrità
psico-fisica” del nato; ;
-
per il riconoscimento dei danni alla salute e biologici di essi genitori,
quantificabili nella misura del 5% ciascuno, in quanto affetti da
nevrosi reattiva quale diretta conseguenza della omessa diagnosi
delle predetta malformazioni;
3
-
per il riconoscimento del danno biologico permanente patito
direttamente dal figlio G. quantificato, a mezzo allegata perizia
medico-legale di parte, nella misura del 75%, danno direttamente
incidente, anche, sulla alla futura capacità lavorativa del minore,
oltre che per i danni da inabilità temporanea per almeno 900 giorni,
cui dovevano aggiungersi gli ulteriori danni conseguenti alle
successive terapie chirurgiche e riabilitative;
-
per il riconoscimento del danno emergente costituito dalle spese
mediche già sostenute e per quelle a venire;
-
per il riconoscimento del danno morale, stante la rilevanza, anche
sul piano penale, della condotta addebitata al professionista.
Per la quantificazione dei danni, alla cui concreta liquidazione non era
stato possibile accedere nonostante fosse stata inoltrata richiesta alla
Assitalia Assicurazioni, quale compagnia assicuratrice per i rischi
professionali del convenuto, gli attori accedevano alla predetta perizia di
parte, sì da instare per il riconoscimento della complessiva somma di L.
1.500.000.000 ovvero di quella maggiore o minore risultante all’esito della
richiesta CTU, oltre interessi e rivalutazione, con vittoria di spese.
Si costituiva P. G. il quale, nel contestare ogni avverso dedotto, eccepiva,
oltre che il difetto di legittimazione attiva delle controparti, in relazione alla
ulteriore qualità dispiegata di genitori del minore G., la infondatezza della
domanda atteso che:
-
la gastroschisi di cui risultava affetto A. G. D.B., che costituisce una
anomalia genetica o dello sviluppo fetale di tipo evolutivo tutt’altro
che frequente, comportante una graduale fuoriuscita delle anse
4
intestinali, non era certamente presente all’atto delle due predette
ecografie sì da doversi escludere ogni possibile profilo di colpa
anche lieve di esso convenuto ;
-
la
esistenza
delle
predette
patologie
e
delle
conseguenti
ripercussioni sulla vita di relazione degli attori, oltre che dello stesso
minore, in quanto congenite, non potevano imputarsi alla omessa
diagnosi, vieppiù in considerazione della circostanza che la attrice
non aveva giammai manifestato, neanche con il libello introduttivo,
la intenzione di ricorrere all’aborto, sì da doversi escludere ogni
possibile nesso eziologico tra la condotta ascrittagli ed i lamentati
danni ;
-
che, si dubitava fortemente che nel caso di specie ricorressero le
condizioni di cui all’art 6 della legge 194/1978;
-
che, le avverse pretese risarcitorie erano state enormemente
dilatate ed apoditticamente allegate.
Ciò posto, il convenuto concludeva per l’integrale rigetto della domanda
con vittoria di spese.
In corso di causa veniva assunta CTU medico-collegiale al cui esito, il
Tribunale di Salerno, con sentenza n. 2967 in data 27-3/5-11-2003,
rilevato che il convenuto aveva colposamente omesso di diagnosticare,
all’esito delle due menzionate ecografie, per negligenza ed imperizia, le
gravi malformazioni che già affliggevano il feto, già visibili alla 24°
settimana di gestazione, sì da violare gli obblighi contrattuali assunti oltre
che ledere il legittimo diritto della R. di esercitare il diritto all’aborto,
condannava P. G. al conseguente risarcimento del danno:
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per € 2.065,84 in favore di ciascuno dei genitori, a titolo di danno
permanente biologico ed alla vita di relazione, quantificato nella misura del
2%, a fronte della menzionata sindrome psichica di cui risultavano
permanentemente portatori ;
per € 1.032,92 a titolo di danno morale – pari alla metà del danno
biologico – integrando la descritta condotta riscontrata a carico del
convenuto il reato di lesioni colpose;
Il Tribunale disconosceva, invece, fondamento alla ulteriore pretesa
risarcitoria a fronte del “ grave quadro patologico di cui è portatore il figlio
minore” atteso che “ le patologie in questione vanno ricondotte a fattori
genetici o ambientali della vita intrauterina e che le stesse non sono
emendabili in via endo-uterina” sì da concludere che “ in relazione al
danno biologico del minore, non è configurabile il nesso di causalità con la
omessa diagnosi”.
Disconosceva, altresì, il risarcimento del danno “ da invalidità permanente,
non avendo i CC.TT.UU. evidenziato un’attuale incidenza delle lesioni
subite sulla capacità lavorativa specifica dei soggetti” nonché l’ulteriore
voce risarcitoria “ a titolo di danno emergente, per gli esborsi relativi a cure
mediche e farmaci affrontati dagli attori nell’interesse del figlio minore,
attesa la rilevata mancanza di nesso causale con la condotta colposa del
medico convenuto”.
Le spese, inerenti, anche, la menzionata CTU, seguivano la soccombenza
e venivano, quindi, imputate al P..
6
Avverso questa decisione, con citazione notificata in data 17-12-2004,
D.B.B. e R. M., nelle stesse qualità già spese con il libello introduttivo,
interponevano gravame allegando i seguenti motivi.
Con il primo rilevavano la violazione degli artt. 1176, 2043, 2059, 32 e 2
della Costituzione non avendo il primo Giudice, che pure aveva accertato
l’evidente
inadempimento
contrattuale
consumato
dal
convenuto,
condannato il P., anche, per le menomazioni fisiche riportate dal proprio
figlio non diagnosticate nel corso dello sviluppo fetale.
Menomazioni quantificate dal ctp nella misura del 75% cui dovevano
aggiungersi gli ulteriori danni per 900 giorni di inabilità temporanea, oltre
che per il danno morale.
Con il secondo motivo, rilevavano la contraddittorietà e la insufficiente
motivazione in cui incorso il primo Giudice, integrante violazione degli artt.
1218 cc, 1223, 125, 1226. 1227 e 2056 cc, in relazione agli artt. 155 e 116
cpc, nella parte in cui, pur avendo accertato i gravi profili di colpa
professionale del P., che di fatto avevano impedito alla R. di praticare
l’aborto terapeutico ai sensi degli artt. 6 e 7 della legge 19471978, non
aveva statuito sul punto specifico né aveva riconosciuto loro gli ulteriori
pregiudizi patrimoniali conseguenti alle continue cure, assistenza e spese
mediche – in parte documentate con la produzione delle relative ricevute
fiscali - di cui necessitava il minore con conseguenti ripercussioni, anche,
sul proprio reddito oltre che sul proprio tempo libero, con conseguente
ridotta vita di relazione. Contestavano, anche, la sottovalutazione del
diretto danno biologico patito da essi appellanti, quantificato nella misura
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del 2% in luogo di quella più equa non inferiore al 5% ( punti a, b e c del
secondo motivo) nonché del conseguente danno morale.
Con il terzo motivo rilevavano la ulteriore violazione dell’art 91 cpc nella
parte in cui il primo Giudice aveva omesso di imputare definitivamente al
convenuto, anche, le documentate spese di CTP, nella misura di €
7.774,90.
Consulenza di parte resasi necessaria non solo per verificare la
proponibilità dell’azione quanto, anche, per la particolarità del caso che
necessitava di specializzazioni di ausilio.
Gli appellanti concludevano, quindi, per la parziale riforma della gravata
decisione, nel senso sopra indicato, con integrale vittoria per le spese.
Con comparsa di costituzione e risposta in data 11-2-2005 provvedeva
alla propria costituzione P. G. il quale oltre che evidenziare e ribadire che
le malformazioni del minore erano imputabili a fattori genetici e non al
proprio preteso inadempimento, sì da doversi escludere il diritto del minore
ad essere risarcito, a mezzo appello incidentale, contestava – motivo
primo -, almeno quanto alla gastroschisi, qualsiasi profilo di colpa
professionale atteso che, proprio dall’elaborato tecnico assunto in corso di
causa, era emerso che questa patologia poteva essere diagnosticata solo
in epoca successiva alla 24° settimana di gestazione.
Contestava, altresì, - motivo secondo - che la R. fosse portatrice del cd
diritto ad abortire, non avendo compiutamente comprovato la sussistenza
delle prime due condizioni di cui al menzionato art 6 della legge 194,
ovverosia a) che la gravidanza o il parto avessero comportato un grave
pericolo per la vita della donna e b) che fossero stati accertati processi
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patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del
nascituro determinativi di un grave pericolo per la salute fisica o psichica
della donna.
All’esito della istruttoria risultava, invece, comprovata la possibilità di vita
autonoma del feto, con riferimento all’epoca del preteso inadempimento,
ricompreso tra la 19° e la 24° settimana di gestazione, sì da risultare
integrata la terza ed ulteriore condizione negativa di cui allo stesso art 6
della legge 194 ostativa al preteso diritto all’aborto,
L’appellante incidentale contestava, infine, - motivo terzo - la sussistenza
della riscontrata sindrome diagnosticata a carico della R., che, in ogni
caso, non era né grave né aberrante.
La parte concludeva, quindi, per la rigetto del gravame e per la integrale
riforma della prima decisione, all’uopo dispiegando appello incidentale
anche relativamente alle spese.
La Corte, dopo la rimessione del processo sul ruolo collegiale, onde
assumere l’adempimento meglio specificato in atti, si riservava per la
decisione all’esito della udienza in data 13-1-2011.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Per dovere di completezza oltre che di compiuta logica espositiva, alla
specifica trattazione dei motivi di gravame, anche incidentale, frapposti
dalle parti, risulta opportuno anteporre i dati di riferimento di alla legge
194/78 – cd legge sull’aborto -, almeno per la parte che in questa sede
interessano.
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Ai sensi dell’art 4 della legge 194, è consentito accedere alla interruzione
volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni, allorquando la
donna accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il
parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute
fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni
economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il
concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito.
Qualora, invece, siano decorsi più di novanta giorni dall'inizio della
gravidanza, così come è avvenuto nel caso di specie, l’art 6 della legge
194/78 consente l’interruzione volontaria della gravidanza, solo quando la
gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna
ovvero quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a
rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave
pericolo per la salute fisica o psichica della donna.
Inoltre, ai sensi del successivo art 7 “quando sussiste la possibilità di vita
autonoma del feto, l’interruzione della gravidanza può essere praticata
solo nel caso di cui alla lettera a) dell’art. 6 e il medico che esegue
l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del
feto”.
Dunque,
la
esatta
collocazione
temporale
dell’evento-gravidanza
costituisce saliente momento cognitivo, se non altro perché discriminante
della specifica normativa di riferimento testè evidenziata,.
Sennonché, proprio la legge in commento, nel disciplinare i casi di
interruzione volontaria della gravidanza, non prescrive come accertare
quando lo stato di gravidanza è iniziato.
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Risulta, quindi, evidente che, allorché la gestante si rivolge alla struttura di
riferimento per la gestione della propria gravidanza, così come è avvenuto
nel caso in esame, necessariamente il dato di riferimento per calcolare
questo evento è la dichiarazione resa dalla stessa parte sul primo giorno
dell'ultima mestruazione essendo questo elemento, per quanto empirico,
l’unico dato certo di immediata individuazione.
In tale senso, la Corte ritiene di non aderire al diverso criterio della cd.
epoca concezionale biologica, coincidente con la data di fecondazione
dell'ovulo, che costituisce, in vero, un dato soggettivamente molto
variabile, non certamente individuabile dalla gestante ne' di immediata
accertabilità, come invece richiede il procedimento disciplinato dagli artt. 4
e 5 della suddetta legge la cui finalità è quella di permettere l'interruzione
della gravidanza non oltre un tempo massimo del suo inizio.
Ciò posto, deve, in primo luogo, essere evidenziato, in punto di fatto, che,
all’esito della disposta CTU, risulta appurato che all’epoca in cui vennero
praticate le prime due predette ecografie, era già rispettivamente in corso
la diciannovesima e la ventiquattresima settimana di gravidanza della
gestante R. M. – e non la 17° e 21,5° come indicato in citazione - avendo
questa presentato l’ultima mestruazione in data 13-5-1994 .
Ventiquattresima settima di gravidanza che, dunque, risultava ormai
prossima al termine ultimo entro cui potere praticare la interruzione
terapeutica della gravidanza che, com’è noto, coincide con la 25,5°
settimana corrispondente a 180 giorni.
Nel caso in esame, quindi, la fattispecie normativa di riferimento, anche
per ciò che riguarda i connessi profili di colpa professionale contestati al
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P., per omessa diagnosi, in uno alla conseguente violazione del dovere di
corretta
e
completa
informazione
da
rendere
alla
paziente,
è
effettivamente costituita, per come già rilevato in sentenza, dagli artt 6 e 7
della legge 194/78.
Altro dato che deve ritenersi, ormai accertato, se non altro perché non
esplicitamente gravato dal P., è quello inerente la colpa professionale di
questi, per imperizia e negligenza, così come rilevata con la gravata
decisione, per la omessa diagnosi della malformazione del piede destro
del minore A. G. D.B.
Malformazione che risulta costituita da “ arto con ectromelia longitudinale,
ipoplastico,
con
piede
torto”
la
cui
diagnosi,
dunque,
risultava
incontestabilmente operabile già prima delle predette due ecografie.
Più complessa risulta la questione afferente la tempistica inerente la
ulteriore omessa diagnosi della altrettanto grave malformazione riscontrata
sullo stesso minore di “ gastroschisi” - i cui effetti invalidanti risultano
compiutamente illustrati nella relazione scritta di CTU - che risulta, invece,
oggetto di specifica doglianza con il primo motivo di gravame rassegnato
dall’appellante incidentale.
Risulta all’uopo necessario richiamare non solo le risultanze cui è
pervenuto il collegio tecnico del cui ausilio il primo Giudice ha inteso
avvalersi nonché la stessa relazione tecnica di parte prodotta dai principali
appellanti, quanto, anche, anteporre alcuni riferimenti afferenti la disciplina
della responsabilità medica.
Orbene, quanto a questo ultimo aspetto, premesso che la Corte di
Cassazione già con la sentenza n. 589 del 22 gennaio 1999 ha elaborato
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e fatta propria la categoria dottrinale dei c.d. rapporti contrattuali di fatto in
base alla quale il medico operante nella struttura assume una
responsabilità contrattuale da “contatto sociale” resa a protezione dei terzi,
risulta evidente che la responsabilità da intervento medico trova titolo
nell’inadempimento delle obbligazioni assunte ai sensi dell’art. 1218 c.c. e
ss, (v. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 577; Cass., 13/4/2007, n. 8826;
Cass., 22/12/1999, n. 589).
Di tal che, nel mentre il danneggiato è tenuto a provare il contratto – che
nello specifico non è in contestazione - e ad allegare la difformità della
prestazione ricevuta rispetto al modello normalmente realizzato da una
condotta improntata alla dovuta diligenza, al debitore, presunta la colpa,
incombe l’onere di provare che il relativo fatto impeditivi, ovverosia che
l’inesattezza della prestazione è dipesa da causa a lui non imputabile (v.
Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004,
n. 11488; Cass., Sez. Un., 30/10/2001, n. 13533).
Ovvio che, trattandosi di obbligazione professionale, in base al combinato
disposto di cui all’art. 1176 c.c., comma 2, e art. 2236 c.c., va osservata e
pretesa la diligenza ordinaria del buon professionista (v. Cass., 31/5/2006,
n. 12995), vale a dire la diligenza qualificata quale modello di condotta che
si estrinseca nell’adeguato sforzo tecnico, con impiego delle energie e dei
mezzi normalmente ed obiettivamente necessari od utili, in relazione alla
natura dell’attività esercitata, volto all’adempimento della prestazione
dovuta ed al soddisfacimento dell’interesse creditorio, nonchè ad evitare
possibili eventi dannosi (v. Cass., 13/4/2007, n. 8826).
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Il criterio della normalità, altrimenti significativo, va allora valutato con
riferimento alla diligenza media richiesta, avuto riguardo alla specifica
natura e alle peculiarità dell’attività esercitata, e la condotta del medico
specialista, com’è l’appellato, va esaminata avendosi riguardo alla
peculiare specializzazione e alla necessità di adeguarla alla natura e al
livello di pericolosità della prestazione, implicante scrupolosa attenzione e
adeguata preparazione professionale (cfr. Cass., 13/1/2005, n. 583),
essendogli richiesta la diligenza particolarmente qualificata dalla perizia e
dall’impiego di strumenti tecnici adeguati allo standard professionale della
sua categoria.
Ai diversi gradi di specializzazione corrispondono in realtà diversi gradi di
perizia, dovendo distinguersi tra una diligenza professionale generica e
una diligenza professionale variamente qualificata (v. Cass., 13/4/2007, n.
8826).
Dunque, la limitazione della responsabilità professionale del medico ai
casi di dolo o colpa grave ex art. 2236 c.c., si applica nelle sole ipotesi che
presentano problemi tecnici di particolare difficoltà, in ogni caso attenendo
esclusivamente all’imperizia, e non anche all’imprudenza e alla negligenza
(v. Cass., 19/4/2006, n. 9085;Cass., 14448/2004; Cass. n. 5945/2000).
Ma in ogni caso, all’art. 2236 c.c., non va assegnata rilevanza alcuna ai
fini della ripartizione dell’onere probatorio, giacchè la distinzione tra
prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di
problemi tecnici di speciale difficoltà non può valere come criterio di
distribuzione dell’onere della prova, bensì solamente ai fini della
valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa
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riferibile al sanitario di tal che incombe al medico dare la prova della
particolare difficoltà della prestazione (v. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n.
577; Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass.,
21/6/2004, n. 11488).
In buona sostanza, chi assume un’obbligazione nella qualità di specialista,
o una obbligazione che presuppone una tale qualità, è tenuto, com’era per
il P., alla perizia che è normale della sua categoria dovendo l’art. 2236
c.c., essere inteso come contemplante una regola di valutazione della
condotta diligente del debitore, (v. Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass.,
28/5/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488).
Ergo, in ogni caso di “insuccesso” dell’intervento, rispetto alle legittime
aspettative convenzionali, ovverosia allorquando esiste uno scostamento
da una legge di regolarità causale fondata sull’esperienza, incombe al
medico dare la prova della particolare difficoltà della prestazione (v. Cass,
28/5/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488), senza alcuna
distinzione – sotto il profilo della ripartizione degli oneri probatori – tra
interventi “facili” e “difficili, e che l’insuccesso dipende da fatto ad esso non
imputabile, in quanto non ascrivibile alla condotta mantenuta in conformità
alla diligenza dovuta, avuto riguardo alle specifiche circostanze del caso
concreto ( arg. anche da Cassazione n. 24791/2008).
Ciò posto, nello specifico, premesso che all’appellante non risulta
contestato o addebitabile di non avere fatto uso degli strumenti materiali
normalmente adeguati, ossia l’uso degli strumenti comunemente impiegati
nel tipo di attività professionale in cui rientra la prestazione dovuta, ma
quello di non averne tratto le logiche, prevedibili e pretendibili
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conseguenze, non solo non risulta che l’appellato sia sia particolarmente
periziato nell’allegazione della prova di propria competenza testè
evidenziata, quanto, anche, che proprio dall’elaborato tecnico assunto nel
corso del primo grado di giudizio, alle cui conclusioni il primo Giudice si è
riportato, è dato desumere che, anche, la ulteriore diagnosi di gastroschisi,
poteva essere operata già prima della 24° settimana di gestazione, sia
pure in via “predittiva”, ovverosia dalla constatazione della soluzione di
continuità della parte addominale del feto a livello peri o para ombelicale.
Tali dati risultano, tra l’altro confermati nella relazione tecnica di parte
appellante nella parte in cui, nel richiamare la più accreditata letteratura
medica del settore, si è evidenziato che “ la gastroschisi si sviluppa tra la
quinta e la sesta settimana di vita embrionale” e che “ la visualizzazione
ecografia dell’addome e degli arti alla ricerca di eventuali malformazioni
fetali deve e può essere praticata entro e non oltre la ventesima settimana
…………. la gastroschisi, infatti, può essere evidenziata ecograficamante
con notevole precocità e sicurezza poiché la parete addominale è ben
visualizzabile a partire dalla XIII-XVI settimana le scansioni longitudinali e
trasversali sul tronco fetale permettono anche in epoca precoce di porre
diagnosi di laparoschisi”.
Da tutto quanto esposto risulta evidente che il motivo di gravame
incidentale in esame, tra l’altro argomentato sulla sola diversa rilettura
delle medesime emergenze tecniche poste a fondamento della prima
decisione, tra l’altro senza alcuna revisione o spunto critico, si dimostra,
già sotto questo ultimo aspetto, infondato sì da doversi concludere per la
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responsabilità del P., anche, in ordine alla omessa diagnosi della
malformazione in questione.
In ogni caso, è noto che in ipotesi di contestazione dei risultati della CTU
cui il giudicante risulta che abbia aderito, è necessario che siano allegati
pertinenti rilievi critici non risultando affatto sufficiente la mera rilettura
delle medesime conclusioni ( arg. Cass. Sez. L, Sentenza n. 334 del
16/01/1998).
Sotto tale ultimo aspetto, il motivo in esame risulta, anche,
solo
genericamente articolato.
Ciò posto, relativamente al primo motivo del principale gravame,
sostanzialmente afferente la legittimazione propria del minore malformato
a vedersi risarcire da tutti danni conseguenti alla mancata informazione
alla genitrice delle evidenziate malformazioni, deve rilevarsi quanto segue.
La pacifica e condivisibile giurisprudenza, espressa anche da Cass. sez 3
sent. n. 16123 del 22 giugno/14 luglio 2006 e prima ancora da Cass. Sez.
3, sent. n. 14488 del 29/07/2004 evidenzia che dal combinato disposto di
cui agli artt. 4 e 6 della legge n. 194 del 1978, è dato evincere, per come
sopra già accennato, anche se a diversi effetti,
che: a) l'interruzione
volontaria della gravidanza è finalizzata solo ad evitare un pericolo per la
salute della gestante, serio ( entro i primi 90 giorni di gravidanza ) o grave
( successivamente a tale termine ); b) trattasi di un diritto il cui esercizio
compete esclusivamente alla madre; c) le eventuali malformazioni o
anomalie del feto rilevano esclusivamente nella misura in cui possano
cagionare un danno alla salute della gestante, e non già in sè e per sè
considerate ( con riferimento cioè al nascituro ).
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Indi, allo stato della normativa è dato ritenere che sia accordata tutela al
concepito ed all'evoluzione della gravidanza esclusivamente verso la
nascita nei limiti di seguito indicati.
Ovverosia : nella sua positiva accezione privatistica da responsabilità
contrattuale o extracontrattuale o da "contatto sociale", che garantisce il
nascituro
unicamente
dalle
lesioni
o
malattie
procurategli
con
comportamento omissivo o commissivo colposo o doloso;
nella sua accezione pubblicistica, invece, il vigente dato normativo
consente di ritenere che devono essere predisposti tutti gli istituti normativi
e tutte le strutture di tutela cura e assistenza della maternità idonei a
garantire al concepito di nascere sano.
Indi, i principi che emergono dalla legge 22.5.1978 n. 194 sono i seguenti:
a) l'interruzione volontaria della gravidanza è finalizzata solo ad evitare un
pericolo per la salute della gestante, serio (entro i primi 90 giorni di
gravidanza) o grave ( successivamente);
b) trattasi di un diritto il cui esercizio compete esclusivamente alla stessa;
c) le eventuali malformazioni o anomalie del feto, rilevano solo nei termini
in cui possano cagionare il danno alla salute della gestante e non in sè
considerate, con riferimento al nascituro.
Deve, quindi, escludersi non solo la configurabilità e l'ammissibilità del
c.d. aborto "eugenetico", prescindente dal pericolo derivante dalle
malformazioni fetali alla salute della madre, quanto, anche, che
l'interruzione della gravidanza, al di fuori delle ipotesi di cui agli artt. 4 e 6
legge n. 194 del 1978 ( accertate nei termini di cui agli artt. 5 ed 8 ), oltre a
risultare in ogni caso in contrasto con i principi di solidarietà di cui all'art. 2
18
Cost. e di indisponibilità del proprio corpo ex art. 5 cod. civ., costituisce
reato anche a carico della stessa gestante ( art. 19 legge n. 194 del 1978
), essendo, per converso, il diritto del concepito a nascere, pur se con
malformazioni o patologie, ad essere propriamente -anche mediante
sanzioni penali - tutelato dall'ordinamento.
“ Ne consegue ulteriormente che, verificatasi la nascita, non può dal
minore essere fatto valere come proprio danno da inadempimento
contrattuale l'essere egli affetto da malformazioni congenite per non
essere stata la madre, per difetto d'informazione, messa nella condizione
di tutelare il di lei diritto alla salute facendo ricorso all'aborto ovvero di
altrimenti avvalersi della peculiare e tipicizzata forma di scriminante dello
stato di necessità (assimilabile, quanto alla sua natura, a quella prevista
dall'art. 54 cod. pen. ) prevista dall'art. 4 legge n. 194 del 1978, - e anche
dall’art 6 e 7 medesima legge - risultando in tale ipotesi comunque
esattamente assolto il dovere di protezione in favore di esso minore, così
come configurabile e tutelato alla stregua della vigente disciplina” ( in
termini Cass. n. 14488/2004 citata).
Indi, al di fuori di questo contesto, non è invece in capo a quest'ultimo
configurabile un "diritto a non nascere" o a "non nascere se non sano”.
Sullo specifico non si riscontrano mutamenti di indirizzo giurisprudenziale
neanche all’esito della ulteriore e molto discussa decisione resa da Cass.
Sez. 3, Sentenza n. 10741 del 11/05/2009 con la quale, in linea con la
normativa in materia di procreazione assistita, si è inteso rafforzare
l’esplicita affermazione della soggettività dell’embrione, - sia pure
limitatamente alla particolare vicenda posta all’attenzione della Corte, di
19
cui infra - attraverso lo svincolo di tale soggettività dalla tradizionale
coincidenza con l’istituto della capacità giuridica.
Tuttavia, al di là di questo ultimo aspetto, questa decisione della Corte
risulta per molti versi sussumibile sotto l’evidenziato consolidato indirizzo
giurisprudenziale limitativo delle pretese risarcitorie del minore nato
malformato alla sola ipotesi delle lesioni o malattie procurategli con
comportamento omissivo o commissivo del medico curante.
La vicenda posta all’attenzione della Corte Suprema risultava, infatti,
affatto diversa da quella in esame afferendo la mancanza di consenso
informato con esclusivo riferimento alla somministrazione a fini terapeutici
di medicinali poi rivelatisi dannosi per il concepito e non, anche, con
riferimento all’eventuale esercizio del diritto all’interruzione di gravidanza.
Situazione questa ultima che, anzi, nel relativo corpo motivazionale risulta
espressamente esclusa essendosi dato atto che “ le norme che
disciplinano l'interruzione della gravidanza la ammettono – la pretesa
risarcitoria - nei soli casi in cui la prosecuzione della stessa o il parto
comportino un grave pericolo per la salute o la vita della donna,
legittimando pertanto la sola madre ad agire per il risarcimento dei danni” (
estratto dalla sentenza).
In buona sostanza, la insussistenza nel vigente ordinamento di un diritto a
non nascere se malformati o a nascere sani comporta che, se per omessa
o inesatta informazione da parte del medico sulle malformazioni fetali
(delle quali il professionista, com’è per la vicenda in esame, non è
colpevole), il concepito malformato nasce, egli non può lamentarsi che non
sia stata interrotta la gravidanza con riferimento alla sua personale
20
condizione, poiché, come detto, l'ordinamento attuale non vede tale
posizione giuridica come meritevole di tutela : anzi prevede il contrario.
Sicchè, solo in ipotesi di persona nata con malformazioni dovute alla
colposa somministrazione di farmaci dannosi alla madre durante la
gestazione, a questa ultima compete – unitamente al padre - la
legittimazione a domandare il risarcimento conseguente alle patite lesioni
colpose e per il danno alla salute nei confronti del medico che quei farmaci
prescrisse o non sconsigliò.
Il motivo di appello in esame risulta, quindi, infondato.
Non può, tuttavia, non essere rilevato che la decisione della Corte ad
ultimo citata, imporrà delle serie riflessioni anche con riferimento allo
stesso istituto della capacità giuridica, ove si considerino alcuni spunti
estrapolabili da due note decisioni della Corte Costituzionale costituite
dalla sentenza n. 27 del 18 febbraio 1975 e, proprio di recente, dalla
sentenza n. 151 dell’8 maggio 2009.
Invero, con la prima decisione, la Corte delle leggi ha affermato il principio
secondo cui “non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma
anche alla salute proprio di chi é già persona, come la madre, e la
salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare”.
Con la seconda, invece, è stata dichiarata la illegittimità di alcune norme
della legge 40/2004 che, pur finalizzate a garantire l’embrione, sono state
ritenute lesive degli interessi e del diritto alla salute della madre, così
dandosi atto che il concepito, rispetto al quale si è ribadita la carenza della
piena capacità giuridica, è comunque un soggetto di diritto, perché titolare
di molteplici interessi personali riconosciuti dall'ordinamento sia nazionale
21
che sopranazionale quali il diritto alla vita, alla salute, all'onore, all'identità
personale ed a nascere sano. Diritti, questi, rispetto ai quali l'avverarsi
della "condicio iuris" della nascita è condizione imprescindibile per la loro
azionabilità in giudizio ai fini risarcitori.
Per ciò che inerisce, invece, il secondo motivo del gravame principale,
sostanzialmente afferente la rimoludazione e ridefinizione dei danni
direttamente patiti dai genitori del minore, alla cui trattazione può
accedersi unitamente al secondo ed al terzo motivo fondante l’appello
incidentale, questi ultimi dispiegati onde disconoscere fondamento al
diritto all’aborto allegato dalla R. nonché alla stessa esistenza della
patologia diagnosticata
a carico di questa, almeno quale diretta
conseguenza del mancato accesso all’aborto terapeutico, deve rilevarsi
quanto segue.
Innanzitutto, non risulta gravata la omologa decisione assunta dal primo
Giudice per la parte relativa al riconoscimento del danno biologico in capo
al padre del minore D.B.B..
Riconoscimento che, dunque, può considerarsi consolidato in giudicato.
Del resto, è noto che gli effetti del contratto stipulato tra una gestante ed
una struttura sanitaria ed un medico, avente ad oggetto il corretto decorso
della gravidanza, debbono essere individuati avendo riguardo, anche, alla
sua funzione sociale connessa alla famiglia di appartenenza del nato.
Sicchè il relativo contratto-sociale riverbera per sua natura effetti protettivi
a vantaggio, anche, del padre del concepito il quale in caso di
inadempimento, è legittimato ad agire per il risarcimento del danno.
22
In sostanza, sottratta alla donna la possibilità di accedere alla interruzione
della gravidanza, gli effetti negativi di cotale inadempimento, si inseriscono
in relazione, anche, con il padre rispetto al quale la prestazione inesatta o
mancata – com’è nel caso in esame – preserva integre le proprie
connotazioni di inadempimento.
Il padre, infatti, risulta obbligato, al pari della madre e nei confronti del
figlio (ex artt. 29 e 30 Cost., artt. 143, 147, 261 e 279 cod. civ.), ad
operarsi per “ il bene della famiglia”, anche, a fronte delle nuove e
sopravvenute condizioni connesse alla nascita di un figlio malformato,
sicchè
risultano
direttamente
risarcibili
i
danni
provocatigli
dall'inadempimento del medico dall'obbligo di informare la madre dello
stato di salute del feto e di individuare e suggerire tutti gli strumenti
diagnostici idonei a tal fine, se a causa di detto inadempimento, funzionale
a quello oggetto della prestazione principale del contratto, è stato impedito
alla madre l'esercizio del diritto ad interrompere la gravidanza a norma
della L. n. 194 del 1978, art. 6, lett. b), (in termini Cass. 20320/2005,
10741/2009, S.U. 26972/2008).
Ciò posto, per ciò che inerisce la madre – ma sotto certi aspetti anche lo
stesso padre, che pure ha interposto specifico gravame sul punto – deve,
in primo luogo, essere rilevato che la legge n. 194, all’art. 1 evoca il diritto
alla procreazione cosciente e responsabile e che, ai sensi dell’art. 21 della
L. 833/78
e dell'art. 39 del codice di deontologia medica del 1989 –
ratione temporis applicabile alla vicenda in esame, ma sostanzialmente
riproposto nella vigente versione del 1995 –, intesi quali corollari del diritto
alla salute, al sanitario è fatto obbligo di fornire al paziente ogni notizia e
23
completa informazione, tenendo conto del suo livello di cultura, di
emotività e delle sue capacità di discernimento anche – e forse a
maggiore ragione - nel caso di prognosi infausta.
Per come sopra già evidenziato, il sanitario è, dunque, contrattualmente
tenuto ad informare la donna di tale situazione e della possibilità di
svolgere ulteriori indagini prenatali, benché rischiose per la sopravvivenza
del
feto,
onde
consentire
l'esercizio
della
facoltà
di
procedere
all'interruzione della gravidanza, preparandosi alla drammatica situazione
con un supporto psicologico e materiale più adeguato, a prescindere dalla
natura delle patologie, che, nel caso in esame, sono pacificamente
risultate congenite ed in ogni caso, non eliminabili o elidibili sia pure
parzialmente per via endo uterina.
Del resto, il pericolo della presenza di malformazioni va valutato anche
con riferimento alla salute fisica e psichica della donna.
Il che comporta che la conoscenza di queste affezioni del feto da parte
della donna integra elemento normativo e fattuale della prestazione
contrattuale da contatto assunta dal medico e che, di converso, in un
ottica di controprestazione bilaterale, il medico, richiesto dalla gestante di
essere seguita durante tutto il percorso della gestazione, è tenuto a
comunicare alla paziente le risultanze della ecografia rivelatrice delle gravi
malformazioni del feto, così adempiendo esattamente a detto suo obbligo
di informazione (in termini Cass. 10.5.2002, n. 6735; Cass. 1.12.1998 n.
12195; Cass. Pen. sez. 6^, 18.4.1997, n. 3599).
Ergo, premesso che nel caso in esame risulta acclarato – ed in parte non
contestato, per come sopra rilevato - che l’appellato ha contravvenuto alla
24
specifica violazione dell’obbligo contrattuale da contatto, fonte, anche, di
responsabilità extracontrattuale, di praticare il consenso informato sulle
gravi malformazioni del feto, emerge evidente che già da questo primo
inadempimento, consegue un obbligo risarcitorio a carico del P..
Del resto, l’obbligazione in parola è funzionale alla preliminare diagnosi
mirata ad ottenere un consapevole consenso da parte della paziente.
Sullo
specifico
della
violazione
del
dovere
di
informazione
la
giurisprudenza di merito e di legittimità è ormai conforme nel ritenere che
la mancanza di tale consenso informato costituisca, di per sè e a
prescindere da un errore del medico, un illecito e un inadempimento del
professionista e sia motivo di risarcimento dei danni in quanto determina la
lesione della situazione giuridica del paziente inerente la propria salute e
la propria integrità fisica perché eseguito “in violazione tanto dell'art. 32
comma secondo della Costituzione, (a norma del quale nessuno può
essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per
disposizione di legge), quanto dell'art. 13 della Costituzione, (che
garantisce l'inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla
libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica), e
dall'art. 33 della legge 23 dicembre 1978 n. 833 (che esclude la possibilità
d'accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente, se
questo è in grado di prestarlo”. (Cass. Civ. sentenza n. 5444/2006).
Per ciò che, invece, rileva il contestato diritto della R. ad accedere alla
interruzione della gravidanza – cd diritto all’aborto – deve evidenziarsi che,
una volta intervenuto il concepimento, il vigente dato normativo, come
sopra evidenziato, ricollega l'interruzione della gravidanza esclusivamente
25
alle ipotesi in cui sussista un pericolo per la salute o per la vita della
gestante.
Nel bilanciamento, quindi, tra il valore e la tutela della salute della donna e
la tutela del concepito, la legge permette alla madre di autodeterminarsi, in
presenza delle condizioni richieste e del pericolo per la sua salute, a
richiedere l’interruzione della gravidanza.
Da ciò consegue che la sola esistenza di malformazioni del feto, che non
incidano sulla salute o sulla vita della donna, non permettono alla gestante
di praticare l'aborto.
Infatti, per come è strutturata la legge n. 194/1978, il c.d. diritto all'aborto
da parte della gestante non ha una propria autonomia ma si pone in una
fattispecie di tutela del diritto alla salute della gestante.
In altri termini il diritto che ha la donna è solo quello di non ereditare un
danno (serio o grave, a seconda delle ipotesi temporali) alla sua salute o
alla sua vita.
Le malformazioni fetali rilevano in questa fattispecie non per far sorgere un
diritto all'aborto ma solo per concretizzare il pericolo alla salute o alla vita
della gestante e permettere alla stessa di avvalersi dell'esimente costituita
dalla necessità di interruzione della gravidanza.
Tanto è vero che l'art. 7, ult. c. statuisce, che quando vi è la possibilità di
vita autonoma del feto, l'aborto può essere praticato solo nell'ipotesi di cui
all'art. 6, lett. a) (pericolo per la vita della donna, non essendo più
sufficiente il pericolo per quanto grave alla salute) ed il medico "deve
adottare
ogni
misura
per
salvaguardare
la
vita
del
indipendentemente se esso sia malformato o abbia gravi patologie.
26
feto",
In tale senso ed entro questi ristretti limiti, il secondo motivo allegato con il
gravame incidentale si dimostra fondato, relativamente alla parte afferente
il contestato diritto della gestante ad abortire.
Trattasi, tuttavia, di un accoglimento scarsamente significativo nella
complessiva ottica della decisione, atteso che, nel caso di specie, risulta
indubbio che per i genitori l'inadempimento del medico ha dato origine ad
una illegittima sequenza causale, che è passata attraverso la non
possibilità di autodeterminazione della donna all'aborto nelle condizioni
previste dalla legge ed è culminata con la nascita di un figlio malformato.
Onde accertare il buon fondamento delle ulteriori pretese risarcitorie è,
dunque, necessario rimodulare la predetta sequenza causale, ponendosi
in una ottica ex ante – cioè, al momento in cui si sarebbe dovuta rendere
l’informazione – sì da verificare se sulla madre, debitamente informata, si
sarebbero potuti innescare quei meccanismi patologici, inerenti la propria
vita o salute, anche, psichica, tali da indurla ad accedere alla interruzione
della gravidanza.
In sostanza, proprio ed in quanto si verte in ipotesi di omessa
informazione, ciò che rileva, non è la circostanza se nella donna si sia
instaurato un processo patologico capace di evolvere in grave pericolo per
la sua salute psichica, ma se la dovuta informazione sulle condizioni del
feto avrebbe potuto determinare durante la gravidanza l’insorgere di un
tale processo patologico ( già Cass. n. 12195/1998).
Le
ricadute
più
propriamente
dinamiche
o
probatorie
di
cotale
procedimento logico-ipotetico, sono state condivisibilmente tratteggiate da
Cass. Sez. 3, Sentenza n. 2354 del 02/02/2010 in base alla quale “ per
27
ottenere il risarcimento del danno conseguente alla violazione di tale
diritto, la donna è tenuta a dimostrare - con riguardo alla sua concreta
situazione e secondo la regola causale del "più probabile che non" - che
l'accertamento dell'esistenza di rilevanti anomalie o malformazioni del feto
avrebbe generato – con valutazione ex ante sulla base di una prognosi
postuma - uno stato patologico tale da mettere in pericolo la sua salute
fisica o psichica
Ovverosia, è necessaria la acquisizione della prova della sussistenza delle
condizioni previste dagli artt. 6 e 7 della legge n. 194 del 1978 per
ricorrere all'interruzione di gravidanza ( Cass. Sez. 3, Sentenza n. 2793
del 24/03/1999).
Al riguardo del criterio di accertamento del “ più che probabile che non”
testè indicato, di evidente creazione giurisprudenziale, la Suprema Corte,
ha precisato ulteriormente che“ la valutazione del nesso causale in sede
civile, pur ispirandosi ai criteri di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., secondo i
quali un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si
sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché al criterio della
cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all'interno della serie
causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano - ad una
valutazione "ex ante" - del tutto inverosimili, presenta tuttavia notevoli
differenze in relazione al regime probatorio applicabile, stante la diversità
dei valori in gioco tra responsabilità penale e responsabilità civile. Nel
processo civile vige la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più
probabile che non", mentre nel processo penale vige infatti la regola della
28
prova "oltre il ragionevole dubbio" ( in termini ex multis Cass. Sez. 3,
Sentenza n. 10741 del 11/05/2009).
Orbene, nello specifico, premesso che la R. non avrebbe, comunque, più
potuto accedere all’interruzione della gravidanza
alla data della terza
ecografia rilevatrice del 24-11-1994, perché corrispondente alla 27,6
settimana di gestazione, e che l’appellato, per come già coerentemente
allegato dal primo Giudice, non ha assolto all’onere probatorio su di lui
incombente di comprovare le possibilità di vita autonoma del feto almeno
all’atto della seconda ecografia - sì da restare sconosciuta la ricorrenza
della condizione negativa di accesso all’aborto di cui al sopra menzionato
art 7 delle legge 194, con conseguente infondatezza del terzo motivo di
appello incidentale -, risulta evidente che, nello specifico, ricorrono tutte le
condizioni onde accedere ad una diversa e più significativa liquidazione
dei danni.
Invero, conformemente alle conclusioni rassegnate dal CTU ed anche dal
CTP, è dato desumere che la significativa forma di nevrorsi di cui sono
risultati affetti i coniugi, direttamente imputabile all’evento in questione,
avrebbe certamente potuto compromettere gravemente l’integrità psichica
della gestante, che, dunque, sarebbe stata certamente esposta ad ancora
più grave pericolo.
Significativa è proprio la circostanza che detta nevorsi era presente, con
modalità invalidanti, ancora al momento della stesura della predetta
relazione, quindi, a distanza di oltre quattro anni dall’apprendimento delle
malformazioni ed a distanza di circa tre anni dalla stessa nascita del figlio,
allorquando è lecito ritenere che, dopo un inevitabile stato di prostrazione
29
e rassegnazione, si siano inegenerati antitetici positivi e fattivi processi per
la salvaguardia della vita e della salute del piccolo D.B.G., per come è
desumibile dalle molteplici, solerti e continue visite specialistiche cui i
genitori hanno sottoposto il proprio figlio.
Cure, terapie e, probabilmente, anche altri interventi chirurgici a venire che
impegneranno ulteriormente ambedue i genitori con il sopraggiungere
dell’età evolutiva del minore sì da potersi ritenere che la situazione
familiare D.B.-R. risulta effettivamente devastata ove si consideri anche
che il minore, che risulta bisognevole di continue cure ed assistenza – i cui
effetti complessivamente invalidanti sono stati quantificati dal CTP nella
misura del 75 % - è stato da subito sottoposto ai reiterati interventi
chirurgici, tra l’altro, fortemente invasivi, che risultano meglio specificati
nelle relazioni tecniche agli atti.
Risulta, quindi, evidente che è “ più che probabile che non” che se la R.
fosse
stata
opportunamente
informata
di
tutti
questi
risvolti
e
conseguenze, avrebbe avuto delle ricadute, quanto meno psicologiche,
fortemente invalidanti, e che, in immediata conseguenza della violazione
dello stesso dovere di informazione consumato dal P., nel nucleo familiare
D.B.-R. si sono ingenerate delle rilevantissime e devastanti condizioni
fortemente incidenti tanto sul complesso delle relazioni individuali ed
interindividuali dei coniugi, quanto, anche nel diretto rapporto con il figlio,
che consentono di ritenere “ più che probabile che non” che se fossero
state opportunamente e tempestivamente rappresentate, la gestante
avrebbe certamente acceduto all’aborto.
30
Del resto, una condivisibile decisione resa dalla Corte di Cassazione
Sez. 3, Sentenza n. 13 del 04/01/2010 e prima ancora da Cass. Sez. 3,
Sentenza n. 11488 del 21/06/2004 insegna che “ l'omessa rilevazione, da
parte del medico specialista, della presenza di gravi malformazioni nel
feto, e la correlativa mancata comunicazione di tale dato alla gestante,
deve ritenersi circostanza idonea a porsi in rapporto di causalità con il
mancato esercizio, da parte della donna, della facoltà di interrompere la
gravidanza, in quanto deve ritenersi rispondente ad un criterio di regolarità
causale che la donna, ove adeguatamente e tempestivamente informata
della presenza di una malformazione atta ad incidere sulla estrinsecazione
della personalità del nascituro, preferisca non portare a termine la
gravidanza”.
Dunque,
anche,
queste
ulteriori
voci
risarcitorie
devono
essere
riconosciute.
A tanto deve aggiungersi che la maternità in questione ha certamente
condizionato l’equilibrio e l’assetto, anche, patrimoniale della intera
famiglia D.B. che risulta obiettivamente stravolta, stante l'impossibilità di
condurre una vita “ normale”, in perenne stato di stress e di affaticamento
con conseguenti ed ulteriori danni materiali, solo in parte coperti
dall'assistenza pubblica.
Sul punto, la già citata sentenza 2004/14488 insegna che “ nel caso di
responsabilità
del
sanitario
per
il
mancato
esercizio
del
diritto
all'interruzione della gravidanza nei casi previsti dalla legge 22 maggio
1978 n. 194, il danno risarcibile è rappresentato non solo da quello
dipendente dal pregiudizio alla salute fisio - psichica della donna
31
specificamente tutelata dalla predetta legge, ma anche da quello più
genericamente
dipendente
da
ogni
pregiudizievole
conseguenza
patrimoniale dell'inadempimento del sanitario nonché del danno biologico
in tutte le sue forme” ( cfr anche Cass. n. 13/2010 cit.) che all’epoca delle
omesse informazioni potevano derivare dal contegno colpevolmente
omissivo del medico con esclusione di tutti quelli che l’adempimento non
avrebbe, comunque, evitato, ovverosia le malformazioni in sé.
Al di fuori di queste preclusioni causali, è evidente che sono, dunque,
risarcibili tutti i danni anzidetti che costituiscono conseguenza immediata e
diretta dell’inadempimento, ai sensi dell’art 1218 cc.
Indi, nel caso specifico, quanto al solo danno cd biologico, risulta evidente
che le pretese risarcitorie avanzate, anche, dalla madre, rinvengono il
proprio fondamento nelle allegate certificazioni mediche, provenienti da
strutture pubbliche, comprovanti che la R., presenta “ nevrosi ansiosodepressiva di natura reattiva” ed il marito “ reazione ansioso-depressiva”.
Patologie, queste, che gli stessi CC.TT.UU, non solo non hanno potuto
escludere – così accedendo ad una metodologia di accertamento di
dubbia pertinenza, considerato che sul punto gli era stato conferito
specifico incarico, atto ad appurare proprio la eventuale presenza di danni
psico-fisici riportati dai genitori – pur avendo evidenziato che la
documentazione sanitaria prodottagli non fosse “ affatto cospicua e
adeguata”, – ma che hanno definito come “ reazione comprensibile –
ovviamente dal trauma della nascita - in soggetti predisposti” pur
escludendo che si tratti di una reazione “ duratura ed intensa”.
32
Tuttavia, la circostanza che il CTU non abbia adempiuto se non in parte al
complessivo incarico conferitogli, consente alla Corte di accedere
all’autorevole incarto costituente la perizia di parte appellante –
completamente obliterata in sentenza e rispetto alla quale non risulta che,
di converso, siano state sollevate obiezioni o critiche ad opera della
controparte – ove, invece, risultano compiutamente analizzati i profili di
eziopatogenesi sottesi alla patologia in questione, così quantificati nella
misura del 5% invalidante per ciascuno dei genitori.
Anche questi danni vanno, quindi, risarciti.
Alla famiglia D.B.-R. compete anche il danno morale conseguente alla
illegittima condotta del P., obiettivamente integrante le fattispecie di cui
all’art 328 cp – relativamente all’omessa informazione - e 390 cp –
relativamente ai predetti danni alla psiche degli appellanti conseguenti allo
stesso contegno omissivo - direttamente incidente sui valori e diritti
costituzionalmente garantiti sopra specificati.
Ciò posto, conformemente a Cass. n. 26972/08, che ha indicato i principi
innovatori della liquidazione del danno non patrimoniale, inteso quale
categoria generale non suscettiva di suddivisione in sottocategorie
variamente etichettate ( Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10035 del 25/05/2004),
tenuto, quindi, conto della gravità dell'illecito e di tutti gli elementi della
fattispecie concreta, in modo da rendere il risarcimento adeguato al caso
specifico sì da evitare che la liquidazione del danno sia rimessa ad un
puro automatismo, ritiene la Corte, considerato, anche, il grave ed
ineliminabile carico invalidante del minore, di potere accedere ad una
33
liquidazione equitativa nella misura di € 250.000,00 in favore di R. M. e di
€ 120.000,00 in favore di D.B.B.
Trattasi di danni, ovviamente, liquidati alla attualità di tal che solo dalla
pronuncia della presente decisione e fino all’effettivo soddisfo saranno,
ulteriormente, dovuti gli interessi compensativi al tasso legale.
Si ritiene necessario accedere ad una liquidazione differenziata dei danni
tra la madre ed il padre, atteso che il soggetto prioritariamente tutelato
dalla legge 194 è la madre-gestante quale diretta portatrice dei diritti propri
di natura contrattuale anzidetti in uno a quel sistema di prestazioni
accessorie sopra indicate, comunque, finalizzate a preservarne la salute.
Quanto, invece, ai danni patrimoniali, - che il primo Giudice ha escluso
sull’erroneo presupposto della carenza di nesso di causalità – risulta, di
converso, unicamente documentato in atti che la coppia, in conseguenza
dei predetti interventi chirurgici subiti dal proprio figlio, ha operato
l’esborso di € 7.847,00 in data 18-11-1985 a fronte dell’intervento praticato
in Marsiglia per la recinsione e ricostruzione dell’arto sinistro e l’esborso di
€ 1.382,00 in data 14-1-1996 presso lo stesso centro chirurgico per un
nuovo intervento di chirurgia ambulatoriale.
Dunque, vanno liquidati anche questi danni, con gli interessi legali dalla
domanda fino al soddisfo.
Non può, all’evidenza, trovare ulteriore accesso la documentazione
integrativa prodotta dagli appellanti solo nella presente fase processuale a
ciò ostandovi il divieto di cui all’art 345 cpc.
34
Resta da trattare del terzo motivo di appello afferente la ulteriore richiesta
di condanna dell’appellato, anche, alle spese relative alla CTP assunta
dagli attori a suffragio della iniziale domanda.
Trattasi di motivo fondato ove si consideri non solo che le parti hanno
compiutamente documentato il relativo esborso, sì da restare integrata la
relativa condizione di ammissibilità della domanda per come di recente
deciso da Cass. 2605/2006, quanto, anche, che, nello specifico, si è
trattato di elaborato di non trascurabile ausilio, in ogni caso di indubbio
supporto per la stessa proponibilità della domanda.
Dunque, anche, queste spese vanno poste a carico dell’appellato.
Ricorrono i presupposti ex art. 52, secondo comma, d.lgs. n°196/03, in
materia di protezione di dati personali, per disporre, in caso di diffusione
della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione
giuridica su riviste, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione
elettronica, che sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri datti
identificativi degli interessati nella presente controversia.
P.Q.M.
la Corte di Appello di Salerno definitivamente pronunciando sull’appello
proposto con citazione notificata in data 17-12-2004 da D.B.B. e R. M. in
proprio e quali genitori esercenti la potestà sul minore A. G. D.B. nei
confronti di P. G. nonché sull’appello incidentale da questi proposto con la
comparsa di costituzione e risposta in data 11-2-2005
avverso la
sentenza del Tribunale di Salerno, con sentenza n. 2967 in data 27-3/511-2003, così provvede:
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accoglie l’appello principale per quanto di ragione e condanna P. G.
al pagamento in favore di R. M. della somma di € 250.000,00 oltre
interessi dalla decisione fino al soddisfo ed in favore di D.B.B. della
somma di € 120.000,00 oltre interessi dalla decisione fino al
soddisfo nonché al pagamento della somma di € 9.229,00 oltre
interessi dalla domanda fino al soddisfo ;
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accoglie per quanto di ragione l’appello incidentale dispiegato da P.
G.;
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condanna P. G. al pagamento delle spese processuali del grado
liquidate in complessivi € 7.618,34 di cui € 4.800,00 di onorari, €
2.500,00 di diritti ed € 318,34 di spese, oltre rimborso forfettario per
spese generali come da tariffa vigente, nonché IVA e Cassa Prev.
sull’imponibile da attribuirsi ai difensori antistatari avv.i Antonio
Rizzo e Mario Conte;
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condanna P. G. a rimborsare in favore di D.B.B. e R. M. le spese
della CTP di primo grado nella misura di € 7.774,90.
Dispone l’omessa indicazione delle generalità e dei dati identificativi degli
interessati.
Così deciso in Salerno nella camera di consiglio in data 19 aprile 2011.
Il Consigliere Relatore
Il Presidente
Francesco Flora
Marina Ferrante
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