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REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO La Corte di Appello di Salerno Sezione Civile – riunita in Camera di Consiglio nelle persone dei sigg. Magistrati: Dr Marina Ferrante Presidente Dr Francesco Flora Consigliere Rel Dr R. D’Apice Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 1499/2004 Rg. avente ad oggetto : risarcimento danni; vertente TRA D B. B. e R. M. in proprio e quali genitori esercenti la potestà sul minore A. G. D.B. rapp.i e dif.i avv.i Antonio Rizzo e Mario Conte APPELLANTI E P. dott. G. rapp. e dif. avv. Valerio Torre APPELLATO-APPELLANTE IN VIA INCIDENTALE Le parti concludevano come in atti alla udienza in data 13-1-2011 e la causa veniva riservata per la decisione con il termine massimo per le comparse conclusionali e per le repliche. 1 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con citazione notificata in data 30-9-1996 D.B.B. e R. M. in proprio e quali genitori esercenti la potestà sul minore A. G. premesso che il ginecologo dr G. P., operante presso il centro “ prevenzione donna” di Eboli di cui era titolare, dopo avere accertato nell’agosto del 1994 che la attrice era in stato di gravidanza, aveva visitato la donna in data 9-9-1994 ed in data 12-10-1994; che contestualmente aveva sottoposto essa attrice a due esami ecografici senza operare alcun esito diagnostico negativo; che, solo in data 24-11-1994, quindi, alla 27,6° settimana di gravidanza, la sostituta del dr P., dr.a G., praticando una nuova ecografia, riscontrava la esistenza di gravi malformazioni che affliggevano il feto ossia gastroschisi e piede malformato e torto a destra ; che, tale diagnosi veniva successivamente confermata presso l’Ospedale di Eboli e presso la Clinica Ginecologica ed Ostetrica della II facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Napoli ove la R. partoriva in data 12-1-1995; che, il neonato, a causa delle predette gravissime malformazioni, veniva immediatamente sottoposto a vari interventi chirurgici onde fare rientrare in addome le viscere con la creazione di un silos in silicone e veniva dimesso solo in data 23-5-1995 con diagnosi finale di “ gastroschisi; agenesia peronale e raggi laterali piede dx”; che, successivamente si erano rese necessarie molteplici visite specialistiche, anche all’estero, ed il minore, che allo stato presentava una eterometria ingravescente degli arti inferiori per ridotto accrescimento della 2 gamba destra, era in attesa di ricevere altri interventi chirurgici atti ad amputare la gamba ovvero a correggere la malformazione, anche, con interventi di allungamento; che, dunque, risultava evidente l’errore professionale commesso dallo specialista che aveva svolto e letto i predetti esami ecografici in modo superficiale e lacunoso sì da non avere operato la corretta diagnosi. Ciò posto, gli attori, rilevato che dette malformazioni risultavano diagnosticabili già tra la nona e la quattordicesima settimana, anche, nella anzidetta qualità, convenivano in giudizio il ginecologo dr G. P. onde sentirlo condannare: - al risarcimento di tutti i danni conseguenti dalla mancata diagnosi delle gravi malformazioni fetali delle quali era risultato portatore il loro figlio A. G., con conseguente impossibilità di accedere all’interruzione volontaria terapeutica della gravidanza risultando pacifico che ; - per il riconoscimento del danno da procreazione stante la legittima aspettativa dei genitori alla nascita del concepito come individuo sano, inteso, quale, “ ingiusto danno derivante da inesatta valutazione del quadro clinico, precedente al parto, da cui sia conseguita una totale o irreversibile compromissione dell’integrità psico-fisica” del nato; ; - per il riconoscimento dei danni alla salute e biologici di essi genitori, quantificabili nella misura del 5% ciascuno, in quanto affetti da nevrosi reattiva quale diretta conseguenza della omessa diagnosi delle predetta malformazioni; 3 - per il riconoscimento del danno biologico permanente patito direttamente dal figlio G. quantificato, a mezzo allegata perizia medico-legale di parte, nella misura del 75%, danno direttamente incidente, anche, sulla alla futura capacità lavorativa del minore, oltre che per i danni da inabilità temporanea per almeno 900 giorni, cui dovevano aggiungersi gli ulteriori danni conseguenti alle successive terapie chirurgiche e riabilitative; - per il riconoscimento del danno emergente costituito dalle spese mediche già sostenute e per quelle a venire; - per il riconoscimento del danno morale, stante la rilevanza, anche sul piano penale, della condotta addebitata al professionista. Per la quantificazione dei danni, alla cui concreta liquidazione non era stato possibile accedere nonostante fosse stata inoltrata richiesta alla Assitalia Assicurazioni, quale compagnia assicuratrice per i rischi professionali del convenuto, gli attori accedevano alla predetta perizia di parte, sì da instare per il riconoscimento della complessiva somma di L. 1.500.000.000 ovvero di quella maggiore o minore risultante all’esito della richiesta CTU, oltre interessi e rivalutazione, con vittoria di spese. Si costituiva P. G. il quale, nel contestare ogni avverso dedotto, eccepiva, oltre che il difetto di legittimazione attiva delle controparti, in relazione alla ulteriore qualità dispiegata di genitori del minore G., la infondatezza della domanda atteso che: - la gastroschisi di cui risultava affetto A. G. D.B., che costituisce una anomalia genetica o dello sviluppo fetale di tipo evolutivo tutt’altro che frequente, comportante una graduale fuoriuscita delle anse 4 intestinali, non era certamente presente all’atto delle due predette ecografie sì da doversi escludere ogni possibile profilo di colpa anche lieve di esso convenuto ; - la esistenza delle predette patologie e delle conseguenti ripercussioni sulla vita di relazione degli attori, oltre che dello stesso minore, in quanto congenite, non potevano imputarsi alla omessa diagnosi, vieppiù in considerazione della circostanza che la attrice non aveva giammai manifestato, neanche con il libello introduttivo, la intenzione di ricorrere all’aborto, sì da doversi escludere ogni possibile nesso eziologico tra la condotta ascrittagli ed i lamentati danni ; - che, si dubitava fortemente che nel caso di specie ricorressero le condizioni di cui all’art 6 della legge 194/1978; - che, le avverse pretese risarcitorie erano state enormemente dilatate ed apoditticamente allegate. Ciò posto, il convenuto concludeva per l’integrale rigetto della domanda con vittoria di spese. In corso di causa veniva assunta CTU medico-collegiale al cui esito, il Tribunale di Salerno, con sentenza n. 2967 in data 27-3/5-11-2003, rilevato che il convenuto aveva colposamente omesso di diagnosticare, all’esito delle due menzionate ecografie, per negligenza ed imperizia, le gravi malformazioni che già affliggevano il feto, già visibili alla 24° settimana di gestazione, sì da violare gli obblighi contrattuali assunti oltre che ledere il legittimo diritto della R. di esercitare il diritto all’aborto, condannava P. G. al conseguente risarcimento del danno: 5 per € 2.065,84 in favore di ciascuno dei genitori, a titolo di danno permanente biologico ed alla vita di relazione, quantificato nella misura del 2%, a fronte della menzionata sindrome psichica di cui risultavano permanentemente portatori ; per € 1.032,92 a titolo di danno morale – pari alla metà del danno biologico – integrando la descritta condotta riscontrata a carico del convenuto il reato di lesioni colpose; Il Tribunale disconosceva, invece, fondamento alla ulteriore pretesa risarcitoria a fronte del “ grave quadro patologico di cui è portatore il figlio minore” atteso che “ le patologie in questione vanno ricondotte a fattori genetici o ambientali della vita intrauterina e che le stesse non sono emendabili in via endo-uterina” sì da concludere che “ in relazione al danno biologico del minore, non è configurabile il nesso di causalità con la omessa diagnosi”. Disconosceva, altresì, il risarcimento del danno “ da invalidità permanente, non avendo i CC.TT.UU. evidenziato un’attuale incidenza delle lesioni subite sulla capacità lavorativa specifica dei soggetti” nonché l’ulteriore voce risarcitoria “ a titolo di danno emergente, per gli esborsi relativi a cure mediche e farmaci affrontati dagli attori nell’interesse del figlio minore, attesa la rilevata mancanza di nesso causale con la condotta colposa del medico convenuto”. Le spese, inerenti, anche, la menzionata CTU, seguivano la soccombenza e venivano, quindi, imputate al P.. 6 Avverso questa decisione, con citazione notificata in data 17-12-2004, D.B.B. e R. M., nelle stesse qualità già spese con il libello introduttivo, interponevano gravame allegando i seguenti motivi. Con il primo rilevavano la violazione degli artt. 1176, 2043, 2059, 32 e 2 della Costituzione non avendo il primo Giudice, che pure aveva accertato l’evidente inadempimento contrattuale consumato dal convenuto, condannato il P., anche, per le menomazioni fisiche riportate dal proprio figlio non diagnosticate nel corso dello sviluppo fetale. Menomazioni quantificate dal ctp nella misura del 75% cui dovevano aggiungersi gli ulteriori danni per 900 giorni di inabilità temporanea, oltre che per il danno morale. Con il secondo motivo, rilevavano la contraddittorietà e la insufficiente motivazione in cui incorso il primo Giudice, integrante violazione degli artt. 1218 cc, 1223, 125, 1226. 1227 e 2056 cc, in relazione agli artt. 155 e 116 cpc, nella parte in cui, pur avendo accertato i gravi profili di colpa professionale del P., che di fatto avevano impedito alla R. di praticare l’aborto terapeutico ai sensi degli artt. 6 e 7 della legge 19471978, non aveva statuito sul punto specifico né aveva riconosciuto loro gli ulteriori pregiudizi patrimoniali conseguenti alle continue cure, assistenza e spese mediche – in parte documentate con la produzione delle relative ricevute fiscali - di cui necessitava il minore con conseguenti ripercussioni, anche, sul proprio reddito oltre che sul proprio tempo libero, con conseguente ridotta vita di relazione. Contestavano, anche, la sottovalutazione del diretto danno biologico patito da essi appellanti, quantificato nella misura 7 del 2% in luogo di quella più equa non inferiore al 5% ( punti a, b e c del secondo motivo) nonché del conseguente danno morale. Con il terzo motivo rilevavano la ulteriore violazione dell’art 91 cpc nella parte in cui il primo Giudice aveva omesso di imputare definitivamente al convenuto, anche, le documentate spese di CTP, nella misura di € 7.774,90. Consulenza di parte resasi necessaria non solo per verificare la proponibilità dell’azione quanto, anche, per la particolarità del caso che necessitava di specializzazioni di ausilio. Gli appellanti concludevano, quindi, per la parziale riforma della gravata decisione, nel senso sopra indicato, con integrale vittoria per le spese. Con comparsa di costituzione e risposta in data 11-2-2005 provvedeva alla propria costituzione P. G. il quale oltre che evidenziare e ribadire che le malformazioni del minore erano imputabili a fattori genetici e non al proprio preteso inadempimento, sì da doversi escludere il diritto del minore ad essere risarcito, a mezzo appello incidentale, contestava – motivo primo -, almeno quanto alla gastroschisi, qualsiasi profilo di colpa professionale atteso che, proprio dall’elaborato tecnico assunto in corso di causa, era emerso che questa patologia poteva essere diagnosticata solo in epoca successiva alla 24° settimana di gestazione. Contestava, altresì, - motivo secondo - che la R. fosse portatrice del cd diritto ad abortire, non avendo compiutamente comprovato la sussistenza delle prime due condizioni di cui al menzionato art 6 della legge 194, ovverosia a) che la gravidanza o il parto avessero comportato un grave pericolo per la vita della donna e b) che fossero stati accertati processi 8 patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro determinativi di un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. All’esito della istruttoria risultava, invece, comprovata la possibilità di vita autonoma del feto, con riferimento all’epoca del preteso inadempimento, ricompreso tra la 19° e la 24° settimana di gestazione, sì da risultare integrata la terza ed ulteriore condizione negativa di cui allo stesso art 6 della legge 194 ostativa al preteso diritto all’aborto, L’appellante incidentale contestava, infine, - motivo terzo - la sussistenza della riscontrata sindrome diagnosticata a carico della R., che, in ogni caso, non era né grave né aberrante. La parte concludeva, quindi, per la rigetto del gravame e per la integrale riforma della prima decisione, all’uopo dispiegando appello incidentale anche relativamente alle spese. La Corte, dopo la rimessione del processo sul ruolo collegiale, onde assumere l’adempimento meglio specificato in atti, si riservava per la decisione all’esito della udienza in data 13-1-2011. MOTIVI DELLA DECISIONE Per dovere di completezza oltre che di compiuta logica espositiva, alla specifica trattazione dei motivi di gravame, anche incidentale, frapposti dalle parti, risulta opportuno anteporre i dati di riferimento di alla legge 194/78 – cd legge sull’aborto -, almeno per la parte che in questa sede interessano. 9 Ai sensi dell’art 4 della legge 194, è consentito accedere alla interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni, allorquando la donna accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito. Qualora, invece, siano decorsi più di novanta giorni dall'inizio della gravidanza, così come è avvenuto nel caso di specie, l’art 6 della legge 194/78 consente l’interruzione volontaria della gravidanza, solo quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna ovvero quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. Inoltre, ai sensi del successivo art 7 “quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui alla lettera a) dell’art. 6 e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto”. Dunque, la esatta collocazione temporale dell’evento-gravidanza costituisce saliente momento cognitivo, se non altro perché discriminante della specifica normativa di riferimento testè evidenziata,. Sennonché, proprio la legge in commento, nel disciplinare i casi di interruzione volontaria della gravidanza, non prescrive come accertare quando lo stato di gravidanza è iniziato. 10 Risulta, quindi, evidente che, allorché la gestante si rivolge alla struttura di riferimento per la gestione della propria gravidanza, così come è avvenuto nel caso in esame, necessariamente il dato di riferimento per calcolare questo evento è la dichiarazione resa dalla stessa parte sul primo giorno dell'ultima mestruazione essendo questo elemento, per quanto empirico, l’unico dato certo di immediata individuazione. In tale senso, la Corte ritiene di non aderire al diverso criterio della cd. epoca concezionale biologica, coincidente con la data di fecondazione dell'ovulo, che costituisce, in vero, un dato soggettivamente molto variabile, non certamente individuabile dalla gestante ne' di immediata accertabilità, come invece richiede il procedimento disciplinato dagli artt. 4 e 5 della suddetta legge la cui finalità è quella di permettere l'interruzione della gravidanza non oltre un tempo massimo del suo inizio. Ciò posto, deve, in primo luogo, essere evidenziato, in punto di fatto, che, all’esito della disposta CTU, risulta appurato che all’epoca in cui vennero praticate le prime due predette ecografie, era già rispettivamente in corso la diciannovesima e la ventiquattresima settimana di gravidanza della gestante R. M. – e non la 17° e 21,5° come indicato in citazione - avendo questa presentato l’ultima mestruazione in data 13-5-1994 . Ventiquattresima settima di gravidanza che, dunque, risultava ormai prossima al termine ultimo entro cui potere praticare la interruzione terapeutica della gravidanza che, com’è noto, coincide con la 25,5° settimana corrispondente a 180 giorni. Nel caso in esame, quindi, la fattispecie normativa di riferimento, anche per ciò che riguarda i connessi profili di colpa professionale contestati al 11 P., per omessa diagnosi, in uno alla conseguente violazione del dovere di corretta e completa informazione da rendere alla paziente, è effettivamente costituita, per come già rilevato in sentenza, dagli artt 6 e 7 della legge 194/78. Altro dato che deve ritenersi, ormai accertato, se non altro perché non esplicitamente gravato dal P., è quello inerente la colpa professionale di questi, per imperizia e negligenza, così come rilevata con la gravata decisione, per la omessa diagnosi della malformazione del piede destro del minore A. G. D.B. Malformazione che risulta costituita da “ arto con ectromelia longitudinale, ipoplastico, con piede torto” la cui diagnosi, dunque, risultava incontestabilmente operabile già prima delle predette due ecografie. Più complessa risulta la questione afferente la tempistica inerente la ulteriore omessa diagnosi della altrettanto grave malformazione riscontrata sullo stesso minore di “ gastroschisi” - i cui effetti invalidanti risultano compiutamente illustrati nella relazione scritta di CTU - che risulta, invece, oggetto di specifica doglianza con il primo motivo di gravame rassegnato dall’appellante incidentale. Risulta all’uopo necessario richiamare non solo le risultanze cui è pervenuto il collegio tecnico del cui ausilio il primo Giudice ha inteso avvalersi nonché la stessa relazione tecnica di parte prodotta dai principali appellanti, quanto, anche, anteporre alcuni riferimenti afferenti la disciplina della responsabilità medica. Orbene, quanto a questo ultimo aspetto, premesso che la Corte di Cassazione già con la sentenza n. 589 del 22 gennaio 1999 ha elaborato 12 e fatta propria la categoria dottrinale dei c.d. rapporti contrattuali di fatto in base alla quale il medico operante nella struttura assume una responsabilità contrattuale da “contatto sociale” resa a protezione dei terzi, risulta evidente che la responsabilità da intervento medico trova titolo nell’inadempimento delle obbligazioni assunte ai sensi dell’art. 1218 c.c. e ss, (v. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 577; Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 22/12/1999, n. 589). Di tal che, nel mentre il danneggiato è tenuto a provare il contratto – che nello specifico non è in contestazione - e ad allegare la difformità della prestazione ricevuta rispetto al modello normalmente realizzato da una condotta improntata alla dovuta diligenza, al debitore, presunta la colpa, incombe l’onere di provare che il relativo fatto impeditivi, ovverosia che l’inesattezza della prestazione è dipesa da causa a lui non imputabile (v. Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488; Cass., Sez. Un., 30/10/2001, n. 13533). Ovvio che, trattandosi di obbligazione professionale, in base al combinato disposto di cui all’art. 1176 c.c., comma 2, e art. 2236 c.c., va osservata e pretesa la diligenza ordinaria del buon professionista (v. Cass., 31/5/2006, n. 12995), vale a dire la diligenza qualificata quale modello di condotta che si estrinseca nell’adeguato sforzo tecnico, con impiego delle energie e dei mezzi normalmente ed obiettivamente necessari od utili, in relazione alla natura dell’attività esercitata, volto all’adempimento della prestazione dovuta ed al soddisfacimento dell’interesse creditorio, nonchè ad evitare possibili eventi dannosi (v. Cass., 13/4/2007, n. 8826). 13 Il criterio della normalità, altrimenti significativo, va allora valutato con riferimento alla diligenza media richiesta, avuto riguardo alla specifica natura e alle peculiarità dell’attività esercitata, e la condotta del medico specialista, com’è l’appellato, va esaminata avendosi riguardo alla peculiare specializzazione e alla necessità di adeguarla alla natura e al livello di pericolosità della prestazione, implicante scrupolosa attenzione e adeguata preparazione professionale (cfr. Cass., 13/1/2005, n. 583), essendogli richiesta la diligenza particolarmente qualificata dalla perizia e dall’impiego di strumenti tecnici adeguati allo standard professionale della sua categoria. Ai diversi gradi di specializzazione corrispondono in realtà diversi gradi di perizia, dovendo distinguersi tra una diligenza professionale generica e una diligenza professionale variamente qualificata (v. Cass., 13/4/2007, n. 8826). Dunque, la limitazione della responsabilità professionale del medico ai casi di dolo o colpa grave ex art. 2236 c.c., si applica nelle sole ipotesi che presentano problemi tecnici di particolare difficoltà, in ogni caso attenendo esclusivamente all’imperizia, e non anche all’imprudenza e alla negligenza (v. Cass., 19/4/2006, n. 9085;Cass., 14448/2004; Cass. n. 5945/2000). Ma in ogni caso, all’art. 2236 c.c., non va assegnata rilevanza alcuna ai fini della ripartizione dell’onere probatorio, giacchè la distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà non può valere come criterio di distribuzione dell’onere della prova, bensì solamente ai fini della valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa 14 riferibile al sanitario di tal che incombe al medico dare la prova della particolare difficoltà della prestazione (v. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 577; Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488). In buona sostanza, chi assume un’obbligazione nella qualità di specialista, o una obbligazione che presuppone una tale qualità, è tenuto, com’era per il P., alla perizia che è normale della sua categoria dovendo l’art. 2236 c.c., essere inteso come contemplante una regola di valutazione della condotta diligente del debitore, (v. Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488). Ergo, in ogni caso di “insuccesso” dell’intervento, rispetto alle legittime aspettative convenzionali, ovverosia allorquando esiste uno scostamento da una legge di regolarità causale fondata sull’esperienza, incombe al medico dare la prova della particolare difficoltà della prestazione (v. Cass, 28/5/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488), senza alcuna distinzione – sotto il profilo della ripartizione degli oneri probatori – tra interventi “facili” e “difficili, e che l’insuccesso dipende da fatto ad esso non imputabile, in quanto non ascrivibile alla condotta mantenuta in conformità alla diligenza dovuta, avuto riguardo alle specifiche circostanze del caso concreto ( arg. anche da Cassazione n. 24791/2008). Ciò posto, nello specifico, premesso che all’appellante non risulta contestato o addebitabile di non avere fatto uso degli strumenti materiali normalmente adeguati, ossia l’uso degli strumenti comunemente impiegati nel tipo di attività professionale in cui rientra la prestazione dovuta, ma quello di non averne tratto le logiche, prevedibili e pretendibili 15 conseguenze, non solo non risulta che l’appellato sia sia particolarmente periziato nell’allegazione della prova di propria competenza testè evidenziata, quanto, anche, che proprio dall’elaborato tecnico assunto nel corso del primo grado di giudizio, alle cui conclusioni il primo Giudice si è riportato, è dato desumere che, anche, la ulteriore diagnosi di gastroschisi, poteva essere operata già prima della 24° settimana di gestazione, sia pure in via “predittiva”, ovverosia dalla constatazione della soluzione di continuità della parte addominale del feto a livello peri o para ombelicale. Tali dati risultano, tra l’altro confermati nella relazione tecnica di parte appellante nella parte in cui, nel richiamare la più accreditata letteratura medica del settore, si è evidenziato che “ la gastroschisi si sviluppa tra la quinta e la sesta settimana di vita embrionale” e che “ la visualizzazione ecografia dell’addome e degli arti alla ricerca di eventuali malformazioni fetali deve e può essere praticata entro e non oltre la ventesima settimana …………. la gastroschisi, infatti, può essere evidenziata ecograficamante con notevole precocità e sicurezza poiché la parete addominale è ben visualizzabile a partire dalla XIII-XVI settimana le scansioni longitudinali e trasversali sul tronco fetale permettono anche in epoca precoce di porre diagnosi di laparoschisi”. Da tutto quanto esposto risulta evidente che il motivo di gravame incidentale in esame, tra l’altro argomentato sulla sola diversa rilettura delle medesime emergenze tecniche poste a fondamento della prima decisione, tra l’altro senza alcuna revisione o spunto critico, si dimostra, già sotto questo ultimo aspetto, infondato sì da doversi concludere per la 16 responsabilità del P., anche, in ordine alla omessa diagnosi della malformazione in questione. In ogni caso, è noto che in ipotesi di contestazione dei risultati della CTU cui il giudicante risulta che abbia aderito, è necessario che siano allegati pertinenti rilievi critici non risultando affatto sufficiente la mera rilettura delle medesime conclusioni ( arg. Cass. Sez. L, Sentenza n. 334 del 16/01/1998). Sotto tale ultimo aspetto, il motivo in esame risulta, anche, solo genericamente articolato. Ciò posto, relativamente al primo motivo del principale gravame, sostanzialmente afferente la legittimazione propria del minore malformato a vedersi risarcire da tutti danni conseguenti alla mancata informazione alla genitrice delle evidenziate malformazioni, deve rilevarsi quanto segue. La pacifica e condivisibile giurisprudenza, espressa anche da Cass. sez 3 sent. n. 16123 del 22 giugno/14 luglio 2006 e prima ancora da Cass. Sez. 3, sent. n. 14488 del 29/07/2004 evidenzia che dal combinato disposto di cui agli artt. 4 e 6 della legge n. 194 del 1978, è dato evincere, per come sopra già accennato, anche se a diversi effetti, che: a) l'interruzione volontaria della gravidanza è finalizzata solo ad evitare un pericolo per la salute della gestante, serio ( entro i primi 90 giorni di gravidanza ) o grave ( successivamente a tale termine ); b) trattasi di un diritto il cui esercizio compete esclusivamente alla madre; c) le eventuali malformazioni o anomalie del feto rilevano esclusivamente nella misura in cui possano cagionare un danno alla salute della gestante, e non già in sè e per sè considerate ( con riferimento cioè al nascituro ). 17 Indi, allo stato della normativa è dato ritenere che sia accordata tutela al concepito ed all'evoluzione della gravidanza esclusivamente verso la nascita nei limiti di seguito indicati. Ovverosia : nella sua positiva accezione privatistica da responsabilità contrattuale o extracontrattuale o da "contatto sociale", che garantisce il nascituro unicamente dalle lesioni o malattie procurategli con comportamento omissivo o commissivo colposo o doloso; nella sua accezione pubblicistica, invece, il vigente dato normativo consente di ritenere che devono essere predisposti tutti gli istituti normativi e tutte le strutture di tutela cura e assistenza della maternità idonei a garantire al concepito di nascere sano. Indi, i principi che emergono dalla legge 22.5.1978 n. 194 sono i seguenti: a) l'interruzione volontaria della gravidanza è finalizzata solo ad evitare un pericolo per la salute della gestante, serio (entro i primi 90 giorni di gravidanza) o grave ( successivamente); b) trattasi di un diritto il cui esercizio compete esclusivamente alla stessa; c) le eventuali malformazioni o anomalie del feto, rilevano solo nei termini in cui possano cagionare il danno alla salute della gestante e non in sè considerate, con riferimento al nascituro. Deve, quindi, escludersi non solo la configurabilità e l'ammissibilità del c.d. aborto "eugenetico", prescindente dal pericolo derivante dalle malformazioni fetali alla salute della madre, quanto, anche, che l'interruzione della gravidanza, al di fuori delle ipotesi di cui agli artt. 4 e 6 legge n. 194 del 1978 ( accertate nei termini di cui agli artt. 5 ed 8 ), oltre a risultare in ogni caso in contrasto con i principi di solidarietà di cui all'art. 2 18 Cost. e di indisponibilità del proprio corpo ex art. 5 cod. civ., costituisce reato anche a carico della stessa gestante ( art. 19 legge n. 194 del 1978 ), essendo, per converso, il diritto del concepito a nascere, pur se con malformazioni o patologie, ad essere propriamente -anche mediante sanzioni penali - tutelato dall'ordinamento. “ Ne consegue ulteriormente che, verificatasi la nascita, non può dal minore essere fatto valere come proprio danno da inadempimento contrattuale l'essere egli affetto da malformazioni congenite per non essere stata la madre, per difetto d'informazione, messa nella condizione di tutelare il di lei diritto alla salute facendo ricorso all'aborto ovvero di altrimenti avvalersi della peculiare e tipicizzata forma di scriminante dello stato di necessità (assimilabile, quanto alla sua natura, a quella prevista dall'art. 54 cod. pen. ) prevista dall'art. 4 legge n. 194 del 1978, - e anche dall’art 6 e 7 medesima legge - risultando in tale ipotesi comunque esattamente assolto il dovere di protezione in favore di esso minore, così come configurabile e tutelato alla stregua della vigente disciplina” ( in termini Cass. n. 14488/2004 citata). Indi, al di fuori di questo contesto, non è invece in capo a quest'ultimo configurabile un "diritto a non nascere" o a "non nascere se non sano”. Sullo specifico non si riscontrano mutamenti di indirizzo giurisprudenziale neanche all’esito della ulteriore e molto discussa decisione resa da Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10741 del 11/05/2009 con la quale, in linea con la normativa in materia di procreazione assistita, si è inteso rafforzare l’esplicita affermazione della soggettività dell’embrione, - sia pure limitatamente alla particolare vicenda posta all’attenzione della Corte, di 19 cui infra - attraverso lo svincolo di tale soggettività dalla tradizionale coincidenza con l’istituto della capacità giuridica. Tuttavia, al di là di questo ultimo aspetto, questa decisione della Corte risulta per molti versi sussumibile sotto l’evidenziato consolidato indirizzo giurisprudenziale limitativo delle pretese risarcitorie del minore nato malformato alla sola ipotesi delle lesioni o malattie procurategli con comportamento omissivo o commissivo del medico curante. La vicenda posta all’attenzione della Corte Suprema risultava, infatti, affatto diversa da quella in esame afferendo la mancanza di consenso informato con esclusivo riferimento alla somministrazione a fini terapeutici di medicinali poi rivelatisi dannosi per il concepito e non, anche, con riferimento all’eventuale esercizio del diritto all’interruzione di gravidanza. Situazione questa ultima che, anzi, nel relativo corpo motivazionale risulta espressamente esclusa essendosi dato atto che “ le norme che disciplinano l'interruzione della gravidanza la ammettono – la pretesa risarcitoria - nei soli casi in cui la prosecuzione della stessa o il parto comportino un grave pericolo per la salute o la vita della donna, legittimando pertanto la sola madre ad agire per il risarcimento dei danni” ( estratto dalla sentenza). In buona sostanza, la insussistenza nel vigente ordinamento di un diritto a non nascere se malformati o a nascere sani comporta che, se per omessa o inesatta informazione da parte del medico sulle malformazioni fetali (delle quali il professionista, com’è per la vicenda in esame, non è colpevole), il concepito malformato nasce, egli non può lamentarsi che non sia stata interrotta la gravidanza con riferimento alla sua personale 20 condizione, poiché, come detto, l'ordinamento attuale non vede tale posizione giuridica come meritevole di tutela : anzi prevede il contrario. Sicchè, solo in ipotesi di persona nata con malformazioni dovute alla colposa somministrazione di farmaci dannosi alla madre durante la gestazione, a questa ultima compete – unitamente al padre - la legittimazione a domandare il risarcimento conseguente alle patite lesioni colpose e per il danno alla salute nei confronti del medico che quei farmaci prescrisse o non sconsigliò. Il motivo di appello in esame risulta, quindi, infondato. Non può, tuttavia, non essere rilevato che la decisione della Corte ad ultimo citata, imporrà delle serie riflessioni anche con riferimento allo stesso istituto della capacità giuridica, ove si considerino alcuni spunti estrapolabili da due note decisioni della Corte Costituzionale costituite dalla sentenza n. 27 del 18 febbraio 1975 e, proprio di recente, dalla sentenza n. 151 dell’8 maggio 2009. Invero, con la prima decisione, la Corte delle leggi ha affermato il principio secondo cui “non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi é già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare”. Con la seconda, invece, è stata dichiarata la illegittimità di alcune norme della legge 40/2004 che, pur finalizzate a garantire l’embrione, sono state ritenute lesive degli interessi e del diritto alla salute della madre, così dandosi atto che il concepito, rispetto al quale si è ribadita la carenza della piena capacità giuridica, è comunque un soggetto di diritto, perché titolare di molteplici interessi personali riconosciuti dall'ordinamento sia nazionale 21 che sopranazionale quali il diritto alla vita, alla salute, all'onore, all'identità personale ed a nascere sano. Diritti, questi, rispetto ai quali l'avverarsi della "condicio iuris" della nascita è condizione imprescindibile per la loro azionabilità in giudizio ai fini risarcitori. Per ciò che inerisce, invece, il secondo motivo del gravame principale, sostanzialmente afferente la rimoludazione e ridefinizione dei danni direttamente patiti dai genitori del minore, alla cui trattazione può accedersi unitamente al secondo ed al terzo motivo fondante l’appello incidentale, questi ultimi dispiegati onde disconoscere fondamento al diritto all’aborto allegato dalla R. nonché alla stessa esistenza della patologia diagnosticata a carico di questa, almeno quale diretta conseguenza del mancato accesso all’aborto terapeutico, deve rilevarsi quanto segue. Innanzitutto, non risulta gravata la omologa decisione assunta dal primo Giudice per la parte relativa al riconoscimento del danno biologico in capo al padre del minore D.B.B.. Riconoscimento che, dunque, può considerarsi consolidato in giudicato. Del resto, è noto che gli effetti del contratto stipulato tra una gestante ed una struttura sanitaria ed un medico, avente ad oggetto il corretto decorso della gravidanza, debbono essere individuati avendo riguardo, anche, alla sua funzione sociale connessa alla famiglia di appartenenza del nato. Sicchè il relativo contratto-sociale riverbera per sua natura effetti protettivi a vantaggio, anche, del padre del concepito il quale in caso di inadempimento, è legittimato ad agire per il risarcimento del danno. 22 In sostanza, sottratta alla donna la possibilità di accedere alla interruzione della gravidanza, gli effetti negativi di cotale inadempimento, si inseriscono in relazione, anche, con il padre rispetto al quale la prestazione inesatta o mancata – com’è nel caso in esame – preserva integre le proprie connotazioni di inadempimento. Il padre, infatti, risulta obbligato, al pari della madre e nei confronti del figlio (ex artt. 29 e 30 Cost., artt. 143, 147, 261 e 279 cod. civ.), ad operarsi per “ il bene della famiglia”, anche, a fronte delle nuove e sopravvenute condizioni connesse alla nascita di un figlio malformato, sicchè risultano direttamente risarcibili i danni provocatigli dall'inadempimento del medico dall'obbligo di informare la madre dello stato di salute del feto e di individuare e suggerire tutti gli strumenti diagnostici idonei a tal fine, se a causa di detto inadempimento, funzionale a quello oggetto della prestazione principale del contratto, è stato impedito alla madre l'esercizio del diritto ad interrompere la gravidanza a norma della L. n. 194 del 1978, art. 6, lett. b), (in termini Cass. 20320/2005, 10741/2009, S.U. 26972/2008). Ciò posto, per ciò che inerisce la madre – ma sotto certi aspetti anche lo stesso padre, che pure ha interposto specifico gravame sul punto – deve, in primo luogo, essere rilevato che la legge n. 194, all’art. 1 evoca il diritto alla procreazione cosciente e responsabile e che, ai sensi dell’art. 21 della L. 833/78 e dell'art. 39 del codice di deontologia medica del 1989 – ratione temporis applicabile alla vicenda in esame, ma sostanzialmente riproposto nella vigente versione del 1995 –, intesi quali corollari del diritto alla salute, al sanitario è fatto obbligo di fornire al paziente ogni notizia e 23 completa informazione, tenendo conto del suo livello di cultura, di emotività e delle sue capacità di discernimento anche – e forse a maggiore ragione - nel caso di prognosi infausta. Per come sopra già evidenziato, il sanitario è, dunque, contrattualmente tenuto ad informare la donna di tale situazione e della possibilità di svolgere ulteriori indagini prenatali, benché rischiose per la sopravvivenza del feto, onde consentire l'esercizio della facoltà di procedere all'interruzione della gravidanza, preparandosi alla drammatica situazione con un supporto psicologico e materiale più adeguato, a prescindere dalla natura delle patologie, che, nel caso in esame, sono pacificamente risultate congenite ed in ogni caso, non eliminabili o elidibili sia pure parzialmente per via endo uterina. Del resto, il pericolo della presenza di malformazioni va valutato anche con riferimento alla salute fisica e psichica della donna. Il che comporta che la conoscenza di queste affezioni del feto da parte della donna integra elemento normativo e fattuale della prestazione contrattuale da contatto assunta dal medico e che, di converso, in un ottica di controprestazione bilaterale, il medico, richiesto dalla gestante di essere seguita durante tutto il percorso della gestazione, è tenuto a comunicare alla paziente le risultanze della ecografia rivelatrice delle gravi malformazioni del feto, così adempiendo esattamente a detto suo obbligo di informazione (in termini Cass. 10.5.2002, n. 6735; Cass. 1.12.1998 n. 12195; Cass. Pen. sez. 6^, 18.4.1997, n. 3599). Ergo, premesso che nel caso in esame risulta acclarato – ed in parte non contestato, per come sopra rilevato - che l’appellato ha contravvenuto alla 24 specifica violazione dell’obbligo contrattuale da contatto, fonte, anche, di responsabilità extracontrattuale, di praticare il consenso informato sulle gravi malformazioni del feto, emerge evidente che già da questo primo inadempimento, consegue un obbligo risarcitorio a carico del P.. Del resto, l’obbligazione in parola è funzionale alla preliminare diagnosi mirata ad ottenere un consapevole consenso da parte della paziente. Sullo specifico della violazione del dovere di informazione la giurisprudenza di merito e di legittimità è ormai conforme nel ritenere che la mancanza di tale consenso informato costituisca, di per sè e a prescindere da un errore del medico, un illecito e un inadempimento del professionista e sia motivo di risarcimento dei danni in quanto determina la lesione della situazione giuridica del paziente inerente la propria salute e la propria integrità fisica perché eseguito “in violazione tanto dell'art. 32 comma secondo della Costituzione, (a norma del quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge), quanto dell'art. 13 della Costituzione, (che garantisce l'inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica), e dall'art. 33 della legge 23 dicembre 1978 n. 833 (che esclude la possibilità d'accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente, se questo è in grado di prestarlo”. (Cass. Civ. sentenza n. 5444/2006). Per ciò che, invece, rileva il contestato diritto della R. ad accedere alla interruzione della gravidanza – cd diritto all’aborto – deve evidenziarsi che, una volta intervenuto il concepimento, il vigente dato normativo, come sopra evidenziato, ricollega l'interruzione della gravidanza esclusivamente 25 alle ipotesi in cui sussista un pericolo per la salute o per la vita della gestante. Nel bilanciamento, quindi, tra il valore e la tutela della salute della donna e la tutela del concepito, la legge permette alla madre di autodeterminarsi, in presenza delle condizioni richieste e del pericolo per la sua salute, a richiedere l’interruzione della gravidanza. Da ciò consegue che la sola esistenza di malformazioni del feto, che non incidano sulla salute o sulla vita della donna, non permettono alla gestante di praticare l'aborto. Infatti, per come è strutturata la legge n. 194/1978, il c.d. diritto all'aborto da parte della gestante non ha una propria autonomia ma si pone in una fattispecie di tutela del diritto alla salute della gestante. In altri termini il diritto che ha la donna è solo quello di non ereditare un danno (serio o grave, a seconda delle ipotesi temporali) alla sua salute o alla sua vita. Le malformazioni fetali rilevano in questa fattispecie non per far sorgere un diritto all'aborto ma solo per concretizzare il pericolo alla salute o alla vita della gestante e permettere alla stessa di avvalersi dell'esimente costituita dalla necessità di interruzione della gravidanza. Tanto è vero che l'art. 7, ult. c. statuisce, che quando vi è la possibilità di vita autonoma del feto, l'aborto può essere praticato solo nell'ipotesi di cui all'art. 6, lett. a) (pericolo per la vita della donna, non essendo più sufficiente il pericolo per quanto grave alla salute) ed il medico "deve adottare ogni misura per salvaguardare la vita del indipendentemente se esso sia malformato o abbia gravi patologie. 26 feto", In tale senso ed entro questi ristretti limiti, il secondo motivo allegato con il gravame incidentale si dimostra fondato, relativamente alla parte afferente il contestato diritto della gestante ad abortire. Trattasi, tuttavia, di un accoglimento scarsamente significativo nella complessiva ottica della decisione, atteso che, nel caso di specie, risulta indubbio che per i genitori l'inadempimento del medico ha dato origine ad una illegittima sequenza causale, che è passata attraverso la non possibilità di autodeterminazione della donna all'aborto nelle condizioni previste dalla legge ed è culminata con la nascita di un figlio malformato. Onde accertare il buon fondamento delle ulteriori pretese risarcitorie è, dunque, necessario rimodulare la predetta sequenza causale, ponendosi in una ottica ex ante – cioè, al momento in cui si sarebbe dovuta rendere l’informazione – sì da verificare se sulla madre, debitamente informata, si sarebbero potuti innescare quei meccanismi patologici, inerenti la propria vita o salute, anche, psichica, tali da indurla ad accedere alla interruzione della gravidanza. In sostanza, proprio ed in quanto si verte in ipotesi di omessa informazione, ciò che rileva, non è la circostanza se nella donna si sia instaurato un processo patologico capace di evolvere in grave pericolo per la sua salute psichica, ma se la dovuta informazione sulle condizioni del feto avrebbe potuto determinare durante la gravidanza l’insorgere di un tale processo patologico ( già Cass. n. 12195/1998). Le ricadute più propriamente dinamiche o probatorie di cotale procedimento logico-ipotetico, sono state condivisibilmente tratteggiate da Cass. Sez. 3, Sentenza n. 2354 del 02/02/2010 in base alla quale “ per 27 ottenere il risarcimento del danno conseguente alla violazione di tale diritto, la donna è tenuta a dimostrare - con riguardo alla sua concreta situazione e secondo la regola causale del "più probabile che non" - che l'accertamento dell'esistenza di rilevanti anomalie o malformazioni del feto avrebbe generato – con valutazione ex ante sulla base di una prognosi postuma - uno stato patologico tale da mettere in pericolo la sua salute fisica o psichica Ovverosia, è necessaria la acquisizione della prova della sussistenza delle condizioni previste dagli artt. 6 e 7 della legge n. 194 del 1978 per ricorrere all'interruzione di gravidanza ( Cass. Sez. 3, Sentenza n. 2793 del 24/03/1999). Al riguardo del criterio di accertamento del “ più che probabile che non” testè indicato, di evidente creazione giurisprudenziale, la Suprema Corte, ha precisato ulteriormente che“ la valutazione del nesso causale in sede civile, pur ispirandosi ai criteri di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., secondo i quali un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché al criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all'interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano - ad una valutazione "ex ante" - del tutto inverosimili, presenta tuttavia notevoli differenze in relazione al regime probatorio applicabile, stante la diversità dei valori in gioco tra responsabilità penale e responsabilità civile. Nel processo civile vige la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non", mentre nel processo penale vige infatti la regola della 28 prova "oltre il ragionevole dubbio" ( in termini ex multis Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10741 del 11/05/2009). Orbene, nello specifico, premesso che la R. non avrebbe, comunque, più potuto accedere all’interruzione della gravidanza alla data della terza ecografia rilevatrice del 24-11-1994, perché corrispondente alla 27,6 settimana di gestazione, e che l’appellato, per come già coerentemente allegato dal primo Giudice, non ha assolto all’onere probatorio su di lui incombente di comprovare le possibilità di vita autonoma del feto almeno all’atto della seconda ecografia - sì da restare sconosciuta la ricorrenza della condizione negativa di accesso all’aborto di cui al sopra menzionato art 7 delle legge 194, con conseguente infondatezza del terzo motivo di appello incidentale -, risulta evidente che, nello specifico, ricorrono tutte le condizioni onde accedere ad una diversa e più significativa liquidazione dei danni. Invero, conformemente alle conclusioni rassegnate dal CTU ed anche dal CTP, è dato desumere che la significativa forma di nevrorsi di cui sono risultati affetti i coniugi, direttamente imputabile all’evento in questione, avrebbe certamente potuto compromettere gravemente l’integrità psichica della gestante, che, dunque, sarebbe stata certamente esposta ad ancora più grave pericolo. Significativa è proprio la circostanza che detta nevorsi era presente, con modalità invalidanti, ancora al momento della stesura della predetta relazione, quindi, a distanza di oltre quattro anni dall’apprendimento delle malformazioni ed a distanza di circa tre anni dalla stessa nascita del figlio, allorquando è lecito ritenere che, dopo un inevitabile stato di prostrazione 29 e rassegnazione, si siano inegenerati antitetici positivi e fattivi processi per la salvaguardia della vita e della salute del piccolo D.B.G., per come è desumibile dalle molteplici, solerti e continue visite specialistiche cui i genitori hanno sottoposto il proprio figlio. Cure, terapie e, probabilmente, anche altri interventi chirurgici a venire che impegneranno ulteriormente ambedue i genitori con il sopraggiungere dell’età evolutiva del minore sì da potersi ritenere che la situazione familiare D.B.-R. risulta effettivamente devastata ove si consideri anche che il minore, che risulta bisognevole di continue cure ed assistenza – i cui effetti complessivamente invalidanti sono stati quantificati dal CTP nella misura del 75 % - è stato da subito sottoposto ai reiterati interventi chirurgici, tra l’altro, fortemente invasivi, che risultano meglio specificati nelle relazioni tecniche agli atti. Risulta, quindi, evidente che è “ più che probabile che non” che se la R. fosse stata opportunamente informata di tutti questi risvolti e conseguenze, avrebbe avuto delle ricadute, quanto meno psicologiche, fortemente invalidanti, e che, in immediata conseguenza della violazione dello stesso dovere di informazione consumato dal P., nel nucleo familiare D.B.-R. si sono ingenerate delle rilevantissime e devastanti condizioni fortemente incidenti tanto sul complesso delle relazioni individuali ed interindividuali dei coniugi, quanto, anche nel diretto rapporto con il figlio, che consentono di ritenere “ più che probabile che non” che se fossero state opportunamente e tempestivamente rappresentate, la gestante avrebbe certamente acceduto all’aborto. 30 Del resto, una condivisibile decisione resa dalla Corte di Cassazione Sez. 3, Sentenza n. 13 del 04/01/2010 e prima ancora da Cass. Sez. 3, Sentenza n. 11488 del 21/06/2004 insegna che “ l'omessa rilevazione, da parte del medico specialista, della presenza di gravi malformazioni nel feto, e la correlativa mancata comunicazione di tale dato alla gestante, deve ritenersi circostanza idonea a porsi in rapporto di causalità con il mancato esercizio, da parte della donna, della facoltà di interrompere la gravidanza, in quanto deve ritenersi rispondente ad un criterio di regolarità causale che la donna, ove adeguatamente e tempestivamente informata della presenza di una malformazione atta ad incidere sulla estrinsecazione della personalità del nascituro, preferisca non portare a termine la gravidanza”. Dunque, anche, queste ulteriori voci risarcitorie devono essere riconosciute. A tanto deve aggiungersi che la maternità in questione ha certamente condizionato l’equilibrio e l’assetto, anche, patrimoniale della intera famiglia D.B. che risulta obiettivamente stravolta, stante l'impossibilità di condurre una vita “ normale”, in perenne stato di stress e di affaticamento con conseguenti ed ulteriori danni materiali, solo in parte coperti dall'assistenza pubblica. Sul punto, la già citata sentenza 2004/14488 insegna che “ nel caso di responsabilità del sanitario per il mancato esercizio del diritto all'interruzione della gravidanza nei casi previsti dalla legge 22 maggio 1978 n. 194, il danno risarcibile è rappresentato non solo da quello dipendente dal pregiudizio alla salute fisio - psichica della donna 31 specificamente tutelata dalla predetta legge, ma anche da quello più genericamente dipendente da ogni pregiudizievole conseguenza patrimoniale dell'inadempimento del sanitario nonché del danno biologico in tutte le sue forme” ( cfr anche Cass. n. 13/2010 cit.) che all’epoca delle omesse informazioni potevano derivare dal contegno colpevolmente omissivo del medico con esclusione di tutti quelli che l’adempimento non avrebbe, comunque, evitato, ovverosia le malformazioni in sé. Al di fuori di queste preclusioni causali, è evidente che sono, dunque, risarcibili tutti i danni anzidetti che costituiscono conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento, ai sensi dell’art 1218 cc. Indi, nel caso specifico, quanto al solo danno cd biologico, risulta evidente che le pretese risarcitorie avanzate, anche, dalla madre, rinvengono il proprio fondamento nelle allegate certificazioni mediche, provenienti da strutture pubbliche, comprovanti che la R., presenta “ nevrosi ansiosodepressiva di natura reattiva” ed il marito “ reazione ansioso-depressiva”. Patologie, queste, che gli stessi CC.TT.UU, non solo non hanno potuto escludere – così accedendo ad una metodologia di accertamento di dubbia pertinenza, considerato che sul punto gli era stato conferito specifico incarico, atto ad appurare proprio la eventuale presenza di danni psico-fisici riportati dai genitori – pur avendo evidenziato che la documentazione sanitaria prodottagli non fosse “ affatto cospicua e adeguata”, – ma che hanno definito come “ reazione comprensibile – ovviamente dal trauma della nascita - in soggetti predisposti” pur escludendo che si tratti di una reazione “ duratura ed intensa”. 32 Tuttavia, la circostanza che il CTU non abbia adempiuto se non in parte al complessivo incarico conferitogli, consente alla Corte di accedere all’autorevole incarto costituente la perizia di parte appellante – completamente obliterata in sentenza e rispetto alla quale non risulta che, di converso, siano state sollevate obiezioni o critiche ad opera della controparte – ove, invece, risultano compiutamente analizzati i profili di eziopatogenesi sottesi alla patologia in questione, così quantificati nella misura del 5% invalidante per ciascuno dei genitori. Anche questi danni vanno, quindi, risarciti. Alla famiglia D.B.-R. compete anche il danno morale conseguente alla illegittima condotta del P., obiettivamente integrante le fattispecie di cui all’art 328 cp – relativamente all’omessa informazione - e 390 cp – relativamente ai predetti danni alla psiche degli appellanti conseguenti allo stesso contegno omissivo - direttamente incidente sui valori e diritti costituzionalmente garantiti sopra specificati. Ciò posto, conformemente a Cass. n. 26972/08, che ha indicato i principi innovatori della liquidazione del danno non patrimoniale, inteso quale categoria generale non suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate ( Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10035 del 25/05/2004), tenuto, quindi, conto della gravità dell'illecito e di tutti gli elementi della fattispecie concreta, in modo da rendere il risarcimento adeguato al caso specifico sì da evitare che la liquidazione del danno sia rimessa ad un puro automatismo, ritiene la Corte, considerato, anche, il grave ed ineliminabile carico invalidante del minore, di potere accedere ad una 33 liquidazione equitativa nella misura di € 250.000,00 in favore di R. M. e di € 120.000,00 in favore di D.B.B. Trattasi di danni, ovviamente, liquidati alla attualità di tal che solo dalla pronuncia della presente decisione e fino all’effettivo soddisfo saranno, ulteriormente, dovuti gli interessi compensativi al tasso legale. Si ritiene necessario accedere ad una liquidazione differenziata dei danni tra la madre ed il padre, atteso che il soggetto prioritariamente tutelato dalla legge 194 è la madre-gestante quale diretta portatrice dei diritti propri di natura contrattuale anzidetti in uno a quel sistema di prestazioni accessorie sopra indicate, comunque, finalizzate a preservarne la salute. Quanto, invece, ai danni patrimoniali, - che il primo Giudice ha escluso sull’erroneo presupposto della carenza di nesso di causalità – risulta, di converso, unicamente documentato in atti che la coppia, in conseguenza dei predetti interventi chirurgici subiti dal proprio figlio, ha operato l’esborso di € 7.847,00 in data 18-11-1985 a fronte dell’intervento praticato in Marsiglia per la recinsione e ricostruzione dell’arto sinistro e l’esborso di € 1.382,00 in data 14-1-1996 presso lo stesso centro chirurgico per un nuovo intervento di chirurgia ambulatoriale. Dunque, vanno liquidati anche questi danni, con gli interessi legali dalla domanda fino al soddisfo. Non può, all’evidenza, trovare ulteriore accesso la documentazione integrativa prodotta dagli appellanti solo nella presente fase processuale a ciò ostandovi il divieto di cui all’art 345 cpc. 34 Resta da trattare del terzo motivo di appello afferente la ulteriore richiesta di condanna dell’appellato, anche, alle spese relative alla CTP assunta dagli attori a suffragio della iniziale domanda. Trattasi di motivo fondato ove si consideri non solo che le parti hanno compiutamente documentato il relativo esborso, sì da restare integrata la relativa condizione di ammissibilità della domanda per come di recente deciso da Cass. 2605/2006, quanto, anche, che, nello specifico, si è trattato di elaborato di non trascurabile ausilio, in ogni caso di indubbio supporto per la stessa proponibilità della domanda. Dunque, anche, queste spese vanno poste a carico dell’appellato. Ricorrono i presupposti ex art. 52, secondo comma, d.lgs. n°196/03, in materia di protezione di dati personali, per disporre, in caso di diffusione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, che sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri datti identificativi degli interessati nella presente controversia. P.Q.M. la Corte di Appello di Salerno definitivamente pronunciando sull’appello proposto con citazione notificata in data 17-12-2004 da D.B.B. e R. M. in proprio e quali genitori esercenti la potestà sul minore A. G. D.B. nei confronti di P. G. nonché sull’appello incidentale da questi proposto con la comparsa di costituzione e risposta in data 11-2-2005 avverso la sentenza del Tribunale di Salerno, con sentenza n. 2967 in data 27-3/511-2003, così provvede: 35 - accoglie l’appello principale per quanto di ragione e condanna P. G. al pagamento in favore di R. M. della somma di € 250.000,00 oltre interessi dalla decisione fino al soddisfo ed in favore di D.B.B. della somma di € 120.000,00 oltre interessi dalla decisione fino al soddisfo nonché al pagamento della somma di € 9.229,00 oltre interessi dalla domanda fino al soddisfo ; - accoglie per quanto di ragione l’appello incidentale dispiegato da P. G.; - condanna P. G. al pagamento delle spese processuali del grado liquidate in complessivi € 7.618,34 di cui € 4.800,00 di onorari, € 2.500,00 di diritti ed € 318,34 di spese, oltre rimborso forfettario per spese generali come da tariffa vigente, nonché IVA e Cassa Prev. sull’imponibile da attribuirsi ai difensori antistatari avv.i Antonio Rizzo e Mario Conte; - condanna P. G. a rimborsare in favore di D.B.B. e R. M. le spese della CTP di primo grado nella misura di € 7.774,90. Dispone l’omessa indicazione delle generalità e dei dati identificativi degli interessati. Così deciso in Salerno nella camera di consiglio in data 19 aprile 2011. Il Consigliere Relatore Il Presidente Francesco Flora Marina Ferrante 36