Concorso di Natale 2008

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Concorso di Natale 2008
N°12
Concorso di Natale 2008 – Pavia
Racconto di Umberto Muzio
Titolo: IL BAMBINO CHE ARRIVO’ A PAVIA
Fu un inverno, il più freddo e lungo della storia, a portarmi via la realtà come la conoscevo di
fanciullo vissuto in un ambiente protetto e sereno e a donarmi la sagacia di affrontare la vita.
Un boato. Un rumore cupo nella buia notte milanese. Saltai di soprassalto fuori dai miei sogni
e scesi giù dal letto con il cuore che mi batteva forte nel petto. Corsi verso la camera dei miei
genitori quando li vidi nel corridoio che a passo veloce mi venivano incontro: muti, spiazzati,
spauriti. Mio padre ci prese tra le braccia e di corsa ci portò fuori dal palazzo di Viale Corsica
nel quale abitavamo. Non capivo esattamente cosa stesse accadendo in quei secondi concitati
ma la paura mi aveva assalito, quel minuto era durato una vita. No, questo non era un incubo
dal quale scappare nella stanza affianco, il lettone non mi aveva accolto per farmi
addormentare nel caldo abbraccio della vestaglia rosa di mamma. Per la strada gelida
arrotolato in quella stessa vestaglia rosa sentivo le urla strazianti di persone disperate che
rivedevo negli occhi sbarrati di mio padre. E’ l’ultimo ricordo che ho di quella nottata,
assieme al freddo ai piedi e a luci confuse. Non avevo mai visto così da vicino il buio della
notte e mi addormentai stanco e stravolto dagli eventi. Un bambino ha una incredibile
capacità di ripulire nel pensiero il terrore della guerra. Seppi poi che il palazzo di fianco al
nostro era stato bombardato e quindi non era più sicuro abitare in una metropoli.
Rammento una strada lunghissima, sempre uguale e molto diversa dalle vie che ero solito
percorrere con la fantastica macchina di mio padre; non si susseguivano i palazzi imponenti
alti cinque piani e le aiuole disegnate, le coppie eleganti non passeggiavano lungo i viali e sui
marciapiedi che nemmeno c’erano; al loro posto erbacce brinate che sembravano di zucchero
e alberi disposti in modo irregolare lungo le campagne piane e tutte uguali. Il paesaggio in
questa lunga strada era sempre lo stesso. Non lo sapevo ma il mio mondo stava cambiando
per sempre.
Ero già stato là, prima pensavo che quel luogo appartenesse solo al ricordo di un sogno. La
terra era terra e basta, nuda cruda fredda, il cielo era bianco, gonfio di gelo senza luci, intorno
il nulla. Un’anziana curva signora uscì da una porticina di legno avvolta in uno scialle blu e ci
venne incontro con passo incerto. Non era una sconosciuta poiché mia madre lasciò che mi
baciasse in fronte; ci fece entrare in quella vecchia e solitaria casa, certo più vecchia e
malconcia di lei. Dormimmo lì, in un letto di pagliericcio rigido con sotto una strana pentola
che emanava calore. Ero intimorito e solo, in quella stanzetta con il soffitto troppo bianco e
troppo basso, in un luogo sconosciuto e per nulla rassicurante. La mattina dopo un raggio di
luce entrò da un buco della persiana e illuminò il mio viso. Ancora una volta scesi dal letto
senza essere svegliato dal sorriso materno e in una situazione insolita. La pentola non
scaldava più, le scale che portavano al piano di sotto erano umide e nella casa non si sentiva
nessuna voce o rumore. La mia curiosità vinse il senso di abbandono, mi infilai sul pigiama il
mio cappottino blu dal colletto di velluto e mi inoltrai nel luogo sconosciuto. Riconobbi
dall’interno la porticina da cui eravamo entrati la sera precedente e la aprii.
Quale meraviglia si aprì al mio sguardo. Il sole albeggiante illuminava un paesaggio straniero
e così lontano dalle vie fredde e grigie di Milano da lasciarmi abbagliato, stupefatto. Avanzai
sulla soglia attratto da quei colori che la sera prima erano nascosti in una nebbia surreale. Non
mi accorsi nemmeno di avere ai piedi le pantofole. La campagna. Intorno a me un vecchio
cascinale era incorniciato da alberi scheletrici e pianure a riquadri a destra e da un vecchio
cancello arrugginito alla mia sinistra, la curiosità mi indusse ad aprirlo; nonostante fosse
molto pesante riuscii a crearmi un’apertura della dimensione del mio corpo e passai. Strap!
N°12
Un lembo del cappotto rimase impigliato ma non ci pensai. Nella terra umida i miei passi
lasciavano impronte tanto piccole da riempire le orme dei cingoli di un marchingegno
gigantesco, un enorme mostro di ferro che mi guardava prepotentemente, mi aspettavo che da
un momento all’altro aprisse le fauci per mangiarmi. Scappai via riparandomi dentro ad una
casetta di mattoni, buia ma più calda. Non riuscivo a scorgere nulla al suo interno, la luce
entrava da alcuni buchi nel soffitto di legno disegnando righe sui muri ma non bastava.
All’improvviso qualcosa si mosse. Con un balzo impulsivo feci un passo indietro, inciampai e
caddi su qualcosa di morbido. Due occhi miti mi guardarono forse più spaventati di me. Ma
questo non era un altro mostro di ferro. Alzandomi mi accorsi di essere cascato su un cumulo
di fieno, il cibo invernale degli abitanti di quella stalla. Erano una dozzina di mucche bianche
e nere che infreddolite stavano vicine vicine. Fu una scoperta: quegli animali li avevo visti
solo nel mio libro di scuola. Allontanato dall’odore del luogo salutai i miei ospiti e lasciai
lentamente quel luogo. Ormai il mio cappottino era rotto e sporco come non mai. La luce del
giorno era più calda tanto da indurmi a proseguire la mia perlustrazione. Un sentiero si
allungava verso un campo verde del quale non scorgevo la fine, infilai le mani in tasca ed
andai avanti. Pensavo alla libertà di camminare da solo e di andare dove volessi, quel luogo
mi affascinava sempre di più. Ad un certo punto il percorso di terra che stavo seguendo girò
bruscamente, alzai lo sguardo e trovai di fronte a me un fiume gigantesco, non incanalato
nella città come il Naviglio, libero come me. Fu amore a prima vista. Abbandonai il sentiero e
mi sedetti vicino all’acqua a tirare sassi. Intorno a me c’erano uccelli strani sugli alberi, pesci
grandi e piccoli nel fiume, una tranquillità onirica. Il tempo non esisteva più.
Non so quanto tempo passai fuori casa ma non sentii nemmeno le urla disperate di mia madre
che mi cercava. Mi ritrovò mio padre perché mi conosceva bene, arrivò alle mie spalle
portando con se il lembo del cappotto blu che si era strappato sul cancello, sorridendomi mi
mise una mano sulla spalla e senza dirmi nulla mi riportò a casa della nonna. Quella casa che
sarebbe diventata la mia, per sempre, vicina al Ticino. Nella stalla non ci sono più le mucche,
i trattori sono più moderni, Pavia è cresciuta e Milano sempre più prossima ma sono rimasto
qui dove ancora vado a lanciare sassi nell’acqua con i miei nipoti dal cappottino blu.